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di Michele Paris
Con una sentenza senza precedenti e che potrebbe avere ripercussioni in altri stati americani, un tribunale federale ha giudicato incostituzionale l’intero processo che sovrintende alle esecuzioni capitali nello stato della California. Il giudice della contea di Orange, nella California meridionale, ha preso la storica decisione in risposta ad una causa intentata da un condannato a morte, puntando il dito contro le gravissime disfunzioni che caratterizzano il sistema giudiziario dello stato affacciato sull’Oceano Pacifico.
Secondo il giudice Cormac Carney, una condanna a morte si traduce in realtà in California in una sentenza che “nessuna giuria o legislatura potrebbe razionalmente imporre”, vale a dire “nell’ergastolo con una remota possibilità di essere giustiziati”. Ciò produce ritardi e un senso di incertezza tra i detenuti nel braccio della morte, “in violazione dell’Ottavo Emendamento [della Costituzione americana]”, il quale proibisce punizioni “crudeli e inusuali”.
A supporto del suo giudizio, il giudice Carney ha citato le “sole” 13 esecuzioni portate a termine in California dal 1978 a oggi a fronte di oltre 900 imputati condannati alla pena capitale. Inoltre, circa il 40% dei 748 attualmente detenuti nei bracci della morte delle prigioni californiane sono stati condannati almeno due decenni fa.
La sentenza emessa mercoledì dal tribunale distrettuale con sede a Santa Ana non si basa quindi sul rifiuto della pena di morte da un punto di vista morale, ma scaturisce dalla presa d’atto dell’impossibilità di eseguire le condanne in maniera efficiente e dalla constatazione del danno psicologico provocato sui condannati da questa situazione.
Come ha spiegato lo stesso giudice, “quando un individuo viene condannato a morte in California, la sentenza contiene una promessa implicita dello stato che la pena sarà effettivamente eseguita”. Tale promessa viene fatta ai cittadini dello stato, i quali pagano per il sistema giudiziario, ai giurati, che valutano “prove di crimini innegabilmente orribili” e prendono parte a “dolorose deliberazioni”, alle vittime e ai loro familiari.
Inoltre, la promessa di morte viene fatta anche “alle centinaia di condannati nel braccio della morte, per affermare che i loro crimini sono così terribili da meritare la privazione della vita”. Ciononostante, continua la sentenza, “per troppo tempo la promessa è stata vuota” e il risultato è “un sistema nel quale fattori arbitrari, piuttosto che legittimi cone la natura del crimine o la data della condanna a morte, determinano se un individuo verrà giustiziato”.
Per queste ragioni, il sistema della pena di morte in California non ha praticamente alcun legame con la pena reale imposta ai condannati ed è dunque “incostituzionale”.La decisione è giunta in risposta alla causa avviata dai legali del detenuto Ernest Dewayne Jones, condannato a morte nel 1995 per lo stupro e l’assassinio nella madre della sua fidanzata nel 1992 mentre era in libertà vigilata. La sentenza capitale ai danni di Jones è stata così annullata anche se la sua sorte e gli effetti del caso su altri stati americani dipendono ora dall’esito dell’appello che verrà probabilmente presentato dal procuratore generale della California.
Nel caso venisse confermato, secondo molti esperti americani il verdetto potrebbe incoraggiare cause legali con buone probabilità di successo quanto meno in quegli stati - come ad esempio la Pennsylvania - che hanno una folta popolazione nei bracci della morte e nessuna o poche condanne eseguite negli ultimi anni.
Lo stesso principio fissato dal giudice Carney si applicherebbe teoricamente anche al sistema penale federale, nel quale non si è assistito a condanne a morte negli ultimi undici anni, mentre solo tre condannati sono stati giustiziati dal 1963.
Secondo l’esperto di casi capitali Douglas Berman, docente di diritto alla Ohio State University, la logica dietro alla sentenza, che garantisce l’annullamento della pena di morte a causa dell’inerzia dei sistemi legali statali, potrebbe però mostrare molte debolezze in appello.
Lo stato della California, ad esempio, potrebbe sostenere che il problema evidenziato dal giudice Carney è superabile con una riorganizzazione del sistema che governa le esecuzioni capitali e, di conseguenza, giustiziando i condannati con maggiore frequenza. Per Berman, tuttavia, una simile soluzione rimane difficile da applicare viste le disfuzioni esistenti.
Alcuni sostenitori della pena di morte hanno fatto notare invece come la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia sempre respinto la tesi dell’incostituzionalità della pena di morte a causa dei ritardi nell’implementazione delle sentenze di condanna. Il giudice Carney, tuttavia, ha evidenziato come i precedenti pareri della Corte Suprema riguardassero casi di singoli detenuti, mentre quello in questione ha fatto scaturire un giudizio sull’intero sistema californiano.
La stessa Corte Suprema potrebbe alla fine prendere in considerazione il caso, soprattutto se la corte d’Appello competente - quella del Nono Circuito con sede a San Francisco - dovesse ratificare la sentenza di primo grado.In California, in ogni caso, la pena di morte era stata confermata da un referendum popolare nel novembre del 2012, quando la “Proposta 34” per abolire le esecuzioni capitali nello stato era stata sconfitta con un margine di appena 4 punti percentuali (52% a 48%). Questo Stato è uno dei 32 nei quali è tuttora in vigore la pena di morte, anche se solo una decina la applicano con una certa regolarità.
In California, poi, dal 2006 vige una moratoria di fatto, dopo che un giudice federale ha bloccato l’esecuzione del condannato Michael Morales in seguito ad una causa presentata in merito alla corretta somministrazione dei farmaci utilizzati nelle iniezioni letali.
Una disputa sull’efficacia e la provenienza di questi farmaci è peraltro in atto da tempo in molti altri stati americani a causa della difficoltà nel reperire i prodotti solitamente usati nelle iniezioni letali dopo lo stop delle forniture deciso dai paesi europei.
Di fronte al moltiplicarsi delle cause legali, le autorità dei vari stati sono spesso ricorse a metodi mai testati in precedenza per mettere a morte i condannati oppurre hanno adottato leggi per tenere segrete le identità dei fornitori dei farmaci letali. Ciò ha portato a più di un’esecuzione finita in maniera disastrosa, con sofferenze atroci per i condannati a morte.
Malgrado ciò, la macchina della morte negli Stati Uniti non si è fermata. Lo stesso giorno della sentenza che ha decretato incostituzionale la pena di morte in California, infatti, lo stato del Missouri ha somministrato l’iniezione letale al condannato John Middleton, la cui esecuzione era stata temporaneamente fermata martedì da un giudice federale alla luce dei forti sospetti sul suo stato di salute mentale.
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di Michele Paris
Per il governo americano e il regime ucraino filo-occidentale esistono pochi dubbi sulle responsabilità dell’abbattimento dell’aereo di linea della Malaysia Airlines MH17 nei cieli del paese dell’Europa orientale in guerra. A lanciare il missile nella giornata di giovedì sarebbero stati cioè i ribelli filo-russi con armamenti ottenuti da Mosca o sottratti a Kiev in grado di raggiungere l’altezza alla quale si trovava il velivolo al momento dell’impatto.
Se i media ufficiali in Occidente hanno subito assecondato quasi interamente la versione di Kiev e Washington, a poche ore dalla tragedia che ha causato la morte di quasi 300 persone gli interrogativi sono più numerosi delle certezze.
I servizi di sicurezza ucraini hanno subito presentato quelle che sarebbero le prove della responsabilità dei ribelli, vale a dire registrazioni audio nelle quali alcuni di questi ultimi discutono dell’abbattimento del velivolo commerciale per errore.
Il punto centrale della questione appare tuttavia la disponibilità dei sistemi missilistici adeguati a raggiungere un aereo che volava a oltre 10 mila metri di altezza. Sia Mosca che Kiev e Washington sembrano essere d’accordo sul fatto che un missile abbia raggiunto il velivolo della Malaysia Airlines grazie ad un sistema di lancio denominato Buk.
Secondo gli ucraini, questo sistema sarebbe stato fornito segretamente dalla Russia ai ribelli, anche se non vi sono prove al riguardo se non un filmato, la cui autenticità non è stata verificata in maniera indipendente, nel quale si vede un sistema di lancio Buk, in fase di trasferimento dalla zona controllata dai separatisti verso il confine russo, dal quale manca un missile, presumibilmente quello usato per l’attentato.
Se però il Cremlino avesse avuto interesse a fornire ai ribelli gli armamenti necessari all’abbattimento di aerei, non è chiaro il motivo per cui avrebbe scelto il sistema Buk, necessario in sostanza per intercettare velivoli civili. Escludendo che i ribelli abbiano alcun interesse – o possano trarre vantaggio - a colpire intenzionalmente aerei civili, le armi già in loro possesso - non in grado di raggiungere le altitudini a cui volano gli aerei commerciali – avevano già consentito l’abbattimento di velivoli militari provenienti da Kiev nelle scorse settimane.Gli stessi ribelli, però, a fine giugno avevano annunciato la conquista di una base militare delle forze governative, grazie alla quale avevano messo le mani su varie armi, tra cui, a loro dire, il sistema di lancio Buk.
In tal caso, apparirebbe plausibile l’ipotesi che il velivolo sia stato abbattuto perché scambiato per un aereo militare delle forze ucraine. Dopo l’abbattimento, tuttavia, i leader ribelli hanno sostenuto di non avere a disposizione nessuna batteria di questo genere, mentre vari esperti hanno fatto notare come l’utilizzo del sistema di lancio Buk richieda un adeguato addestramento.
Se eventuali responsabilità dirette della Russia sembrano doversi scartare a priori, è ragionevole piuttosto prendere in considerazione le capacità e gli interessi del regime ucraino. Non solo le forze armate di Kiev posseggono i sistemi di lancio Buk, ma una di queste batterie anti-aeree era operativa giovedì nell’area dove era avvenuto il disastro, cioè nei pressi della città di Donetsk.
Questa notizia è stata diffusa dal ministero della Difesa di Mosca dopo che i radar russi avrebbero intercettato attività missilistiche nella giornata di giovedì. In seguito all’abbattimento e alle accuse della Russia, il governo ucraino ha smentito categoricamente questa ipotesi.
Secondo altri resoconti giornalistici, poi, il velivolo malese che viaggiava da Amsterdam a Kuala Lumpur era stato affiancato fino a 3 minuti prima della sparizione dai radar da due aerei da guerra ucraini. Come se non bastasse, altri ancora hanno parlato di un possibile insolito cambio di rotta che avrebbe portato il velivolo proprio al di sopra della regione orientale dell’Ucraina dove infuria il conflitto tra le forze governative e i ribelli.
Più in generale, in molti si sono chiesti la ragione per cui la Malaysia Airlines e altre compagnie soprattutto asiatiche continuino a sorvolare lo spazio aereo dell’Ucraina orientale vista la situazione di guerra. Tanto più che, ad esempio, la FAA americana (Federal Aviation Administration) aveva sconsigliato questa rotta fin dall’annessione russa della Crimea nel mese di marzo.Ampio spazio soprattutto sui siti di informazione alternativa ha avuto infine la serie di tweet inviati nei minuti seguiti al disastro da un addetto alla torre di controllo dell’aeroporto di Kiev di nazionalità spagnola, il quale ha sostenuto che l’aereo è stato abbattuto dai militari ucraini. L’ordine sarebbe però partito dal ministero dell’Interno e non da quello della Difesa, lasciando intendere gravi divisioni interne al regime golpista.
Se lo scenario sembra dunque ancora confuso, ciò che appare del tutto evidente è che l’abbattimento dell’aereo malese e la frettolosa assegnazione della responsabilità ai ribelli pur senza prove concrete favoriscono le manovre di Kiev e di Washington in relazione alla crisi Ucraina.
Infatti, la tragedia verrà sfruttata per alzare il livello dello scontro con Mosca, dopo l’annuncio avvenuto questa settimana delle nuove sanzioni americane ed europee nei confronti della Russia, e per giustificare la violenta offensiva in preparazione contro le ultime roccaforti rimaste in mano ai ribelli.
Il presidente Putin, da parte sua, giovedì aveva correttamente accusato il regime di Kiev e i suoi sponsor occidentali per avere creato le condizioni attualmente esistenti in Ucraina orientale che hanno portato all’abbattimento dell’aereo. Venerdì, invece, Putin ha abbassato i toni, in linea con i tentativi di riconciliazione delle ultime settimane, chiedendo un cessate il fuoco non solo per consentire un’indagine sul disastro aereo ma anche per riaprire il dialogo e trovare una soluzione diplomatica alla crisi ucraina.
Per quanto riguarda le indagini sull’abbattimento, si stanno moltiplicando gli appelli per un’inchiesta internazionale indipendente, per la quale la Russia è sembrata dare la propria approvazione. Intanto, l’FBI e l’NTSB americana (National Transportation Safety Board) hanno però già annunciato di essere intenzionati a mandare propri uomini in Ucraina per “assistere” gli investigatori.
I resti del velivolo si trovano in territorio controllato dai ribelli filo-russi e le notizie sul ritrovamento delle due scatole nere del velivolo sono state finora contraddittorie. Se alcuni giornali hanno sostenuto che i ribelli invieranno le scatole nere a Mosca, il governo russo ha fatto sapere di volerle mettere a disposizione dell’indagine internazionale.
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di Mario Lombardo
Le elezioni presidenziali in Afghanistan, tanto celebrate dai governi occidentali, si stanno rapidamente trasformando da strumento per la pacifica transizione del potere a motivo di scontro tra le élite indigene, con il pericolo concreto di un conflitto ancora più grave nel già travagliato paese centro-asiatico sotto occupazione. Le speranze per una soluzione politica dello scontro post-elettorale alimentate dalla recente visita a Kabul del segretario di Stato americano, John Kerry, rischiano di dissolversi in fretta di fronte al riemergere delle divisioni tra i due candidati alla guida del paese che si erano qualificati per il secondo turno di ballottaggio tenuto il 14 giugno scorso.
Kerry era riuscito a convincere l’ex ministro degli Esteri, Abdullah Abdullah, e l’ex ministro delle Finanze, Ashraf Ghani Ahmadzai, ad appoggiare un piano per il riconteggio integrale dei circa 8 milioni di voti espressi al secondo turno delle presidenziali e a creare un governo di unità nazionale una volta proclamato ufficialmente il vincitore.
Nel voto del primo turno ad aprile aveva prevalso Abdullah in maniera piuttosto netta sull’ex membro della Banca Mondiale. In maniera dubbia, quest’ultimo aveva però ribaltato gli equilibri al secondo turno, ottenendo, secondo i dati preliminari della Commissione Elettorale, il 56,4% dei suffragi. Abdullah, già ritiratosi dal ballottaggio con Karzai nel 2009 dopo avere denunciato irregolarità nel voto, era allora andato all’attacco, parlando di “colpo di stato costituzionale” e auto-proclamandosi vincitore.
Sulle improvvise fortune elettorali di Ghani aveva influito, secondo alcuni, l’appoggio ottenuto dal presidente Karzai e, in maniera tacita, dagli Stati Uniti e dall’India, mentre Abdullah appariva più gradito a Iran e Pakistan.
Abdullah aveva poi minacciato di nominare unilateralmente un proprio governo prima di essere persuaso a fare marcia indietro dall’amministrazione Obama. Quello che appariva in buona parte come uno scontro verbale ha avuto invece risvolti inquietanti, come ha messo in luce una rivelazione pubblicata lunedì dal New York Times. In essa viene cioè spiegato come Abdullah e i suoi sostenitori in Afghanistan avessero pianificato un’operazione militare che stava per essere implementata con l’invio di truppe a Kabul per occupare il palazzo presidenziale.
Questo retroscena rende sufficientemente l’idea della precarietà del quadro “democratico” dell’Afghanistan, costantemente sull’orlo del baratro ed elogiato invece dalle forze occupanti dopo un’elezione che sarebbe stata tenuta nel rispetto di standard non distanti da quelli occidentali.In ogni caso, il piano di Abdullah è stato bloccato dal presidente Obama in persona, il quale l’8 luglio avrebbe telefonato al leader tagiko, convincendolo a rinunciare al colpo di stato e ad attendere l’imminente arrivo a Kabul di John Kerry.
La già anticipata proposta dell’ex senatore americano, oltre al riconteggio di tutte le schede, prevede che il nuovo presidente nomini il suo avversario sconfitto - o un'altra persona indicata da quest’ultimo - alla guida del governo, in attesa che la costituzione afgana venga emendata nei prossimi anni per creare la posizione di primo ministro, attualmente non prevista dal sistema presidenziale deciso dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001.
Visto che il riconteggio dovrebbe durare alcune settimane, l’accordo sottoscritto da Ghani e Abdullah include anche il temporaneo prolungamento del mandato di Karzai dopo la scadenza naturale del 2 agosto.
Gli entusiasmi per avere evitato il precipitare della crisi sono però durati poco, visto che in questi giorni sono riemerse le divergenze tra Abdullah e Ghani. Nonostante i due siano stati protagonisti martedì di un faccia a faccia di 90 minuti, ufficialmente per discutere dei contorni del governo di unità nazionale che dovrebbe nascere, il giorno precedente il piano mediato da Kerry era sembrato vacillare pericolosamente.
Dopo una disputa sul ruolo da assegnare nel riconteggio alla Commissione Elettorale indigena - responsabile dei brogli secondo Abdullah - e agli organismi internazionali, questa settimana un portavoce di Ghani ha dichiarato alla stampa locale che, se l’ex ministro delle Finanze dovesse essere riconosciuto presidente, la nomina a capo del governo andrebbe al politico scelto da lui stesso per la carica di vice-presidente, Ahmed Zia Massoud.
Questa affermazione contraddice dunque l’interpretazione comune del punto dell’accordo relativo al governo di unità nazionale, secondo la quale il capo del governo dovrebbe essere scelto nel campo dello sconfitto, ed era stata in precedenza respinta esplicitamente dal candidato alla vice-presidenza di Abdullah, Haji Mohammad Mohaqiq.
Per l’entourage di Ghani, in denifitiva, l’intesa raggiunta grazie all’intervento del segretario di Stato USA richiede sì la formazione di un governo di unità nazionale ma “non un governo di coalizione” e a dettarne le condizioni deve essere il vincitore delle elezioni.Le divisioni così emerse su questo punto fanno aumentare le perplessità circa la proposta americana, soprattutto in relazione alla natura tutt’altro che chiara del prossimo governo. Inoltre, alla luce della realtà politica dell’Afghanistan, appare difficile credere che chiunque sarà dichiarato vincitore e succederà a Karzai decida di accettare la spartizione del potere dopo che gli sarà riconosciuta una qualche investitura popolare degli elettori.
Lo scontro di queste settimane, d’altra parte, affonda le proprie radici in questioni difficilmente risolvibili dalla diplomazia e dal dialogo. In particolare, le rivalità e la feroce lotta per il potere nel paese sono motivate dal desiderio delle fazioni rivali di accaparrarsi il controllo sul flusso di denaro proveniente dai donatori stranieri. Su questi fondi si basa la sopravvivenza stessa del sistema afgano, poiché oltre un decennio di occupazione non ha portato in nessun modo alla creazione di un significativo sviluppo economico autonomo.
Lo scenario che si prospetta sta provocando infine parecchie apprensioni a Washington, dal momento che l’amministrazione Obama aveva puntato tutto sull’elezione senza intoppi del successore di Karzai, così da avere un interlocutore più affidabile del presidente uscente. Nei mesi scorsi, Karzai si era infatti rifiutato ostinatamente di firmare il trattato bilaterale per la permanenza indefinita di un contigente militare americano nel paese dell’Asia centrale.
Tutti i candidati alla presidenza avevano annunciato in campagna elettorale la loro disponibilità a sottoscrivere il trattato una volta eletti, ma l’aggravamento delle tensioni politiche interne, assieme ad una rinvigorita azione della resistenza talebana, rischia ora di complicare i piani americani per l’occupazione prolungata di uno dei paesi strategicamente più importanti dell’area euro-asiatica.
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di Michele Paris
Una delle più gravi violazioni del principio costituzionale della separazione dei poteri è stata insabbiata senza tanto clamore qualche giorno fa negli Stati Uniti con la decisione del Dipartimento di Giustizia di Washington di non perseguire i vertici della CIA per avere spiato i membri di una commissione del Congresso. Con poco o nessun interesse dei media più importanti, l’amministrazione Obama ha cioè di fatto condonato il comportanto illegale della principale agenzia di intelligence americana, confermando ancora una volta l’esistenza negli USA di un potentissimo apparato della “sicurezza nazionale” ormai quasi del tutto fuori controllo.
Lo scandalo era esploso pubblicamente lo scorso mese di marzo, quando, in un’uscita con pochi precedenti, la presidente della commissione di controllo sui servizi segreti del Senato, la democratica Dianne Feinstein, aveva apertamente attaccato la CIA.
La senatrice della California, pur essendo una delle più accese sostenitrici dei metodi ultra-invasivi inaugurati dal governo dopo l’11 settembre 2001, aveva accusato l’agenzia di Langley di avere violato il principio della separazione dei poteri, così come di avere contravvenuto al dettato del Quarto Emendamento della Costituzione – che proibisce perquisizioni e confische senza il mandato di un giudice – e dell’ordine esecutivo 12333 – firmato dal presidente Reagan nel 1981 – che, tra l’altro, proibisce alla CIA di condurre attività spionistiche e di sorveglianza in territorio americano.
Lo scontro tra la commissione guidata dalla Feinstein e la CIA era legato all’indagine congressuale sul programma di interrogatori con metodi di tortura che la stessa agenzia ha operato tra il 2002 e il 2009 dietro autorizzazione dell’amministrazione Bush.
Sulle “rendition”, le torture e l’apertura di strutture segrete in vari paesi dove la CIA interrogava i sospettati di terrorismo al di fuori di qualsiasi quadro legale, la commissione del Senato per i servizi segreti aveva stilato un rapporto di oltre seimila pagine, tuttora classificato.
Nell’ambito della propria indagine, la commissione aveva avuto accesso a una parte della documentazione della CIA, presso il cui quartier generale i senatori e i membri dei loro staff si erano recati in svariate occasioni.
Nel corso di una di queste visite a Langley, i senatori erano entrati in possesso di un rapporto segreto della stessa CIA, commissionato dall’ex direttore Leon Panetta, nel quale venivano sostanzialmente accettate le durissime critiche nei confronti dell’agenzia espresse nelle conclusioni preliminari del rapporto della commissione del Senato.
Pubblicamente, i vertici della CIA avevano invece respinto seccamente le accuse del Congresso, sostenendo di avere agito secondo la legge.
Per tutta risposta, la CIA aveva messo sotto controllo i computer dei membri degli staff dei senatori, così da scoprire in che modo questi ultimi avevano potuto accedere a documenti che avrebbero dovuto rimanere segreti.
Lo scontro è esploso poi in tutta la sua gravità quando il direttore della CIA, John Brennan, ha minacciato di chiedere al Dipartimento di Giustizia di incriminare i responsabili della violazione dei sistemi informatici dell’agenzia. La CIA, cioè, riteneva di dovere prendere un’iniziativa con inquietanti implicazioni, dal momento che affermava in sostanza di non essere tenuta a rispondere all’organo legislativo designato precisamente al controllo della propria attività, vale a dire la commissione del Senato per i servizi segreti.
La presa di posizione della CIA si traduceva in definitiva nel rifiuto di qualsiasi vincolo o sorveglianza nei propri confronti, trasformando di fatto l’agenzia di intelligence in un organo del tutto indipendente dal potere legislativo. Visto il curriculum della CIA, pieno di operazioni segrete criminali anche in presenza di una nominale sorveglianza del Congresso, le conseguenze di una simile affermazione di indipendenza sono facili da ipotizzare.
In questo scenario, la decisione del Dipartimento di Giustizia di non procedere contro la CIA per mancanza di prove incriminanti appare sconcertante, soprattutto perché costituisce un chiaro precedente in base al quale i servizi segreti si sentiranno legittimati ad agire ancor più in violazione dei principi costituzionali.
Per cercare di addolcire la pillola, in ogni caso, il governo ha poi escluso qualsiasi indagine anche ai danni dei membri della commissione di vigilanza del Senato, come chiedeva invece il direttore della CIA Brennan. In realtà, questa decisione avrebbe dovuto essere presa mesi fa in maniera scontata, visto che la commissione non ha fatto altro che svolgere il proprio ruolo di controllo.
Incredibilmente, comunque, la gran parte dei senatori americani ha accolto con approvazione la decisione del Dipartimento di Giustizia, inclusa la stessa Feinstein, le cui accuse e richieste di incriminazione di quattro mesi fa sono così rimaste totalmente inascoltate.
Nel nascondere la loro prostrazione di fronte alla CIA, la Feinstein e i sui colleghi hanno indicato proprio la mancata azione legale contro la commissione del Senato come motivo di soddisfazione per la risoluzione dello scontro.
Se anche citata con poco interesse dai media d’oltreoceano, questa vicenda teoricamente conclusasi qualche giorno fa appare di estrema rivelanza, poiché mette in luce in maniera clamorosa la sottomissione degli organi legislativi e giudiziari negli Stati Uniti all’apparato di intelligence e della sicurezza nazionale cresciuto mostruosamente nell’ultimo decennio.
Tanto più che la conclusione della diatriba tra la CIA e il Congresso è giunta nel pieno dello scandalo delle spie americane infiltrate nelle agenzie di intelligence e nel ministero della Difesa della Germania nell’ambito di un’operazione condotta ufficialmente all’insaputa anche dello stesso presidente Obama.
A testimonianza del potere accumulato dalla CIA vi è infine proprio la sorte del rapporto della commissione del Senato per i servizi segreti sulle torture, la cui pubblicazione è sollecitata dai senatori soprattutto democratici. Al momento, i documenti sono in fase di studio presso la Casa Bianca. L’amministrazione Obama sostiene infatti che il rapporto contiene riferimenti a questioni che, se rivelate, potrebbero compromettere la “sicurezza nazionale” così che, per questa ragione, si sta consultando proprio con la CIA per decidere quali parti dello studio sui crimini di questa stessa agenzia dovranno essere tenute nascoste al pubblico americano.
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di Michele Paris
Il terzo giorno della nuova offensiva criminale delle forze armate israeliane nella striscia di Gaza si è aperto giovedì con un altro ingiustificabile massacro nel quale hanno perso la vita otto membri di una singola famiglia, di cui cinque bambini, quando la loro abitazione è stata colpita da un bombardamento poco prima dell’alba.
Il bilancio provvisorio e destinato a crescere drammaticamente delle prime fasi dell’operazione denominata con il consueto cinismo “Margine Protettivo” è già di oltre ottanta palestinesi uccisi, quasi tutti civili innocenti, e centinaia di feriti.
Solo poche ore dopo l’inizio dei bombardamenti su Gaza, le stragi di cui il governo di Israele si è reso responsabile sono state innumerevoli, tra cui quella avvenuta nella serata di mercoledì nella località meridionale di Khan Younis, dove un gruppo di amici stava assistendo alla semifinale della coppa del mondo di calcio. Sul gruppo di palestinesi riuniti in un caffè è caduto un missile israeliano che ha fatto almeno otto morti.
Oltre a obiettivi simili, Israele considera legittima anche la distruzione delle abitazioni dei leader di Hamas e Jihad Islamica, nonostante i bombardamenti contro di esse continuino a registrare la morte dei loro famigliari innocenti, in gran parte donne e bambini.
Il sangue dei palestinesi a Gaza contrasta fortemente con la pressoché totale assenza di danni a persone o a edifici in Israele a seguito delle centinaia di razzi che Hamas e altre formazioni islamiste stanno lanciando contro il proprio vicino e che sarebbero la ragione della furia distruttiva sionista.
Se da parte palestinese l’arsenale di armi a disposizione sembrerebbe essere aumentato ed è diventato più sofisticato negli ultimi anni, la capacità di infliggere perdite o danni significativi a Israele rimane estremamente modesta, anche perché Tel Aviv, grazie agli Stati Uniti, può contare da qualche tempo sul sistema missilistico difensivo relativamente efficace “Cupola di Ferro”.
Nella giornata di giovedì, il premier israeliano Netanyahu ha affermato che l’ipotesi di una tregua non è nemmeno in agenda. Il capo del governo è esposto alle pressioni dei falchi all’interno del suo gabinetto di estrema destra per intraprendere un’azione punitiva di terra a Gaza contro Hamas. Un’iniziativa di questo genere sarebbe la prima dal 2009, quando l’operazione “Piombo Fuso” fece in tre settimane qualcosa come 1.400 morti tra i palestinesi. In preparazione di un’invasione, i vertici delle forze armate israeliane hanno annunciato di avere già richamato 20 mila riservisti.
Le minacce indirizzate dai membri del governo di Israele contro Hamas lasciano presagire un’azione ancora più dura nella striscia di Gaza, ma un eventuale intensificarsi delle operazioni militari esporrebbe Netanyahu a rischi non trascurabili. Le condanne internazionali - sia pure di circostanza - sono già arrivate numerose nelle scorse ore e un coinvolgimento ancora maggiore delle proprie forze armate, con un numero di vittime destinato a salire vertiginosamente, finirebbe per isolare ancora di più lo stato ebraico che, oltretutto, potrebbe non trovare facili vie d’uscita vista l’assenza di interlocutori con cui trattare.Ciò è dovuto in gran parte all’atteggiamento del governo egiziano, il quale, a differenza di quanto era quasi sempre accaduto durante le precedenti incursioni israeliane nei territori palestinesi, rimane oggi colpevolmente indifferente ai fatti in corso a Gaza. Il neo-presidente, Abdel Fattah al-Sisi, non appare cioè disposto a mediare un cessate il fuoco, visto che il suo regime vedrebbe con favore l’annientamento di Hamas.
Un portavoce di Sisi, in realtà, ha sostenuto che la diplomazia egiziana è in contatto con le parti in conflitto, ma non con i vertici di Hamas, rendendo qualsiasi tentativo di mediazione del tutto inutile. Come è noto, il regime militare del Cairo nell’ultimo anno ha represso nel sangue l’organizzazione islamista dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è una sorta di versione palestinese.
L’Egitto, inoltre, ha tenuto sigillati i valichi di frontiera con Gaza, impedendo anche i trasferimenti umanitari, fino alla mattinata di giovedì, quando ha deciso di aprire quello di Rafah per consentire l’ingresso nel paese di centinaia di palestinesi feriti nei raid israeliani.
L’assalto israeliano a Gaza, in ogni caso, continua ad avvenire con il sostegno dei principali sponsor occidentali di Tel Aviv, a cominciare dagli Stati Uniti. Da Washington sono giunti appelli meccanici alla moderazione ma anche e soprattutto l’appoggio a una campagna assurdamente definita “difensiva” per interrompere i lanci di razzi da parte palestinese.
L’operazione in corso viene d’altra parte presentata dal governo israeliano come inevitabile per la difesa del paese e le responsabilità assegnate interamente a Hamas. Anzi, le stesse vittime civili sarebbero dovute non alla deliberata criminalità con cui opera Israele, bensì agli stessi gruppi islamisti operanti a Gaza, visto che essi devono pagare le conseguenze della rappresaglia, in realtà diretta però contro la resistenza all’occupazione e all’assedio dei territori palestinesi.
Simili interpretazioni sono assecondate da buona parte della stampa occidentale, nonostante le presunte “provocazioni” di Hamas anche in questo caso non siano altro che la conseguenza delle azioni di Israele. La tensione era infatti tornata a salire da qualche settimana in seguito al rapimento il 12 giugno scorso di tre giovani israeliani da un insediamento illegale in Cisgiordania. Il governo di Netanyahu ne aveva attribuito la responsabilità a Hamas senza presentare peraltro alcuna prova.
La vicenda aveva così permesso a Israele di iniziare in Cisgiordania una campagna militare fatta di arresti, demolizioni di abitazioni e assassini di palestinesi, ufficialmente per individuare i responsabili del rapimento e della conseguente uccisione dei tre ragazzi.
Successivamente, è emerso tuttavia che il governo era venuto a conoscenza quasi subito della morte dei tre teenager israeliani poco dopo il rapimento grazie a una registrazione audio nella quale si sentivano le voci dei giovani, seguite da colpi di arma da fuoco e da alcune frasi dei rapitori.Ciononostante, Netanyahu ha nascosto questa informazione anche agli stessi familiari dei ragazzi rapiti, utilizzando la speranza di un loro ritrovamento come giustificazione per mettere a ferro e fuoco i territori palestinesi occupati. Uno degli obiettivi principali di Israele era quello di dividere l’Autorità Palestinese e Hamas, reduci dalla recente firma di un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale.
Queste operazioni israeliane hanno dunque provocato la prevedibile reazione di Hamas, Jihad Islamica e altre formazioni, le quali hanno iniziato a lanciare razzi contro Israele, fornendo a Netanyahu il desiderato casus belli per scatenare la nuova offensiva attualmente in corso.
Della nuova guerra a Gaza ha parlato anche il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, descrivendo la situazione “preoccupante”. L’ex diplomatico sudcoreano non si è però discostato dalle dichiarazioni dei governi occidentali che continuano a mettere sullo stesso piano i lanci di razzi di Hamas e la campagna di morte israeliana. Ban ha anzi “condannato fermamente” i lanci di razzi da Gaza, mentre si è limitato a invitare Netanyahu alla “massima moderazione”, deprecando il “numero crescente di vittime civili” nella striscia.
Una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza si è tenuta infine giovedì, con i governi di Israele e degli Stati Uniti che hanno manovrato per evitare un’imbarazzante risoluzione di condanna dell’offensiva su Gaza. Dopo che lo stesso segretario generale ha invitato le due parti in guerra ad adoperarsi per una tregua, al Palazzo di Vetro sono circolate voci su una possibile sterile proposta della Giordania, secondo la quale il Consiglio di Sicurezza potrebbe approvare un appello non vincolante per il cessate il fuoco immediato.