di Michele Paris

Tra il silenzio quasi assoluto dei principali media in Occidente, qualche giorno fa l’autorevole giornalista investigativo americano Seymour Hersh ha pubblicato una nuova esplosiva rivelazione basata su fonti di intelligence statunitensi che contribuisce ulteriormente a smontare le tesi ufficiali sul conflitto in Siria sostenute dai governi che sponsorizzano l’opposizione al regime di Bashar al-Assad.

Uscita sul sito web della London Review of Books, l’indagine di Hersh si apre con una sorta di seguito di quanto egli stesso aveva già portato all’attenzione del pubblico lo scorso dicembre, mettendo nuovamente in evidenza come l’amministrazione Obama avesse mentito deliberatamente nell’agosto del 2013 in relazione alle presunte prove sull’attacco con armi chimiche condotto nella località di Ghouta, nei pressi di Damasco.

Hersh, in particolare, rivela in questa occasione le incertezze e le divisioni all’interno del governo americano in merito alla possibilità di aggredire militarmente la Siria, giustificando l’operazione bellica proprio con il superamento della cosiddetta “linea rossa” imposta da Obama da parte del regime, accusato senza fondamento di avere fatto ricorso al sarin contro i “ribelli”.

I campioni prelevati a Ghouta dopo l’attacco del 21 agosto erano stati analizzati da un laboratorio delle forze armate britanniche a Porton Down, nel Wiltshire, e i risultati avevano dimostrato che la sostanza utilizzata non corrispondeva a quelle facenti parte dell’arsenale di Assad.

Questa conclusione, spiega Hersh, fu riferita allo Stato Maggiore USA e accentuò ulteriormente i dubbi del Pentagono sull’opportunità di una nuova azione militare in Medio Oriente dalle conseguenze imprevedibili. Le perplessità dei militari vennero così riferite al presidente Obama che, poco dopo, fu costretto ad una clamorosa marcia indietro.

D’altra parte, il Pentagono e l’intelligence a stelle e strisce sapevano da mesi che, al contrario di quanto sostenuto pubblicamente dall’amministrazione Obama, il regime di Damasco non era l’unico attore in Siria a disporre del Sarin. Alcuni gruppi armati dell’opposizione erano infatti riusciti ad ottenere una certa quantità di questa sostanza letale, verosimilmente con l’assistenza di paesi come Arabia Saudita o Turchia, ed erano intenzionati a mettere in atto un’azione spettacolare per poi assegnarne la responsabilità ad Assad e provocare la reazione della comunità internazionale.

Già a partire dalla primavera del 2013 vi erano stati attacchi con armi chimiche in varie località siriane e, secondo Hersh, almeno un episodio registrato nei pressi di Aleppo il 19 marzo era da attribuire ai “ribelli”, come avrebbero poi confermato le indagini sul campo condotte dalle Nazioni Unite. I risultati, tuttavia, “non sono stati resi pubblici, perché nessuno [tra i governi occidentali e i media ufficiali impegnati nell’attività di propaganda a favore dell’opposzione] voleva che si sapesse” la verità.

Basandosi quindi su rapporti di intelligence manipolati, sull’occultamento dei fatti e sull’esempio dell’invasione dell’Iraq un decennio prima, l’amministrazione Obama all’indomani dell’attacco di Ghouta a fine agosto ordinò al Pentagono di preparare un piano di guerra.

I vertici militari presentarono una lista di 35 obiettivi da colpire in Siria ma venne respinta dalla Casa Bianca perché insufficiente, visto che includeva soltanto installazioni militari e nessuna infrastruttura civile. Al contrario delle dichiarazioni pubbliche, nelle quali veniva prospettata un’operazione mirata, quello che il governo USA aveva in previsione era in realtà “un attacco gigantesco” che, su basi totalmente illegali, sarebbe risultato in una nuova criminale strage di civili per abbattere il regime di Assad.

Quando l’operazione sembrava sul punto di scattare, però, la versione sostenuta pubblicamente dalla Casa Bianca era ormai finita nel completo discredito e ciò, assieme alla profonda contrarietà alla guerra dell’opinione pubblica occidentale, contribuì in maniera decisiva a far sospendere i preparativi di guerra.

Ufficialmente, tuttavia, il presidente fu costretto a fornire un’altra spiegazione, così che alla fine venne deciso di chiedere al Congresso l’autorizzazione all’uso della forza. Le divisioni nei due rami del Parlamento americano e, soprattutto, l’ostilità della popolazione a una nuova avventura bellica, fecero opportunamente arenare i progetti di guerra di Obama, il quale avrebbe inoltre trovato soccorso nella proposta russa di negoziare la consegna dell’arsenale chimico di Assad.

Un ex alto funzionario del Dipartimento della Difesa USA ha rivelato che la Casa Bianca diede una diversa spiegazione al Pentagono per l’improvvisa marcia indietro sulla Siria, poiché se i bombardamenti americani fossero stati lanciati, “l’intero Medio Oriente sarebbe andato in fiamme”.

Le armi

Del tutto inediti sono invece altri due aspetti evidenziati dal lungo articolo di Seymour Hersh, il primo dei quali riguarda l’impegno statunitense per fornire armi ai “ribelli” anti-Assad. L’amministrazione democratica aveva cioè creato fin dall’inizio del 2012 una cosiddetta “rat line”, gestita dalla CIA, per trasferire armi dalla Libia all’opposizione siriana tramite la Turchia.

Al contrario di quanto affermato pubblicamente circa gli scrupoli nell’assistere solo i gruppi più moderati dell’opposizione, questo materiale è spesso finito nelle mani di formazioni integraliste, comprese quelle affiliate ad Al-Qaeda.

Questa operazione segreta era descritta in un allegato classificato del rapporto prodotto dalla commissione del Senato sui Servizi Segreti per fare chiarezza sui fatti che portarono all’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA in Libia, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini americani l’11 settembre del 2012.

Nell’allegato viene descritta l’attività della CIA in una struttura apposita che sorgeva non lontana dal consolato di Bengasi, da dove l’agenzia di intelligence conduceva le operazioni necessarie a rifornire i “ribelli” siriani con le armi appartenute a Gheddafi.

Le forniture erano scaturite da un accordo tra gli Stati Uniti e la Turchia, in base al quale il governo di Ankara, assieme alle monarchie assolute di Arabia Saudita e Qatar, si occupava dei finanziamenti e la CIA, in collaborazione con l’MI6 britannico, della logistica. Per evitare di mettere al corrente il Congresso dell’operazione, come avrebbe dovuto fare secondo la legge americana, la CIA si appellò a un cavillo, facendo passare la missione come un’iniziativa dei britannici a cui gli agenti americani fornivano la loro cooperazione.

Dopo l’assalto al consolato di Bengasi, in ogni caso, Washington terminò il coinvolgimento della CIA nel trasferimento di armi in Siria, anche se i rifornimenti non vennero interrotti. Poco più tardi, così, alcune decine di sistemi missilistici anti-aerei portabili (“manpads”) sarebbero stati identificati tra le dotazioni dei gruppi “ribelli”. A livello ufficiale però, gli Stati Uniti continuano tuttora a mostrarsi contrari, o quanto meno esitanti, a fornire queste armi, vista la concreta possibilità che esse possano finire in mano a formazioni jihadiste ed essere usate per abbattere velivoli commerciali.

La collaborazione tra Washington e Ankara conduce infine alla rivelazione più eclatante dell’indagine di Hersh in relazione al comportamento di un governo turco già profondamente scosso e infastidito dai rovesci patiti dai “ribelli” per mano delle forze del regime di Assad.

Dalla primavera del 2013, così, l’intelligence americana ha iniziato a raccogliere informazioni sulla collaborazione della polizia militare (“Jandarma”) e del servizio segreto turco (MIT) con il Fronte al-Nusra - l’organizzazione integralista sunnita attiva in Siria apertamente riconosciuta da Al-Qaeda - per sviluppare le capacità necessarie ad ottenere armi chimiche.

La Turchia, d’altra parte, ha investito tutto sul successo dell’opposizione anti-Assad in Siria e un eventuale successo del regime getterebbe ancor più nel panico il governo islamista di Ankara. Erdogan, perciò, prese la decisione di provocare un intervento militare americano per ribaltare gli equilibri del conflitto.

I vertici turchi provarono verosilimente a convincere Obama già nella primavera del 2013 che Assad aveva superato la “linea rossa” fissata dallo stesso presidente americano con alcuni attacchi condotti invece dai “ribelli” utilizzando armi chimiche. Washington, però, continuò a mostrare cautela, anche dopo l’incontro tra i due leader alla Casa Bianca nel mese di maggio.

Il resoconto di una cena tra Obama e Erdogan in occasione della trasferta americana di quest’ultimo fornisce un quadro sufficientemente dettagliato dell’impazienza e del nervosismo del leader turco per le sorti del conflitto in Siria. In quell’occasione, Erdogan era affiancato dal suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, e dal numero uno dell’MIT, Hakan Fidan, primo responsabile dei rapporti con l’opposizione siriana.

La cena era stata dominata dai tentativi quasi disperati del primo ministro turco di dimostrare che la “linea rossa” circa l’uso di armi chimiche in Siria era stata oltrepassata. Secondo quanto riferito successivamente dall’allora consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, Tom Donilon, Erdogan esprimeva in maniera molto accesa le sue tesi, puntando ripetutamente il dito contro il presidente americano.

Obama, da parte sua, impedì più volte al capo dei servizi segreti turchi di prendere la parola, per poi affrontare direttamente quest’ultimo, dicendogli che la sua amministrazione era a conoscenza di “ciò che state facendo con gli integralisti in Siria”. Il governo americano, dunque, non si lasciò convincere dai leader della Turchia, anche se Erdogan non uscì a mani vuote dal vertice di Washington, visto che ottenne il permesso di continuare a intrattenere relazioni commerciali con l’Iran sotto sanzioni, pagando le importazioni provenienti da Teheran in oro.

Il rifiuto americano scosse comunque seriamente il governo di Ankara, visto che “senza il supporto militare degli Stati Uniti ai ribelli, il sogno di Erdogan di instaurare un regime amico in Siria stava svanendo”. Inoltre, come racconta un anonimo ex agente dell’intelligence USA, “se la Siria vince la guerra, [Erdogan] sa che i ribelli gli si rivolteranno contro”, così che si ritroverà con “migliaia di fondamentalisti nel suo giardino”.

In questo scenario si inserisce la descrizione di un briefing segreto preparato dall’intelligence americana per il capo di Stato Maggiore americano, generale Martin Dempsey, e il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, circolato qualche settimana prima dell’attacco del 21 agosto 2013 a Ghouta. Il documento parlava della “forte ansia” del governo Erdogan viste le prospettive di un conflitto in Siria sempre più favorevole al regime.

L’analisi metteva anche in guardia dal fatto che la leadership turca aveva espresso “la necessità di fare qualcosa per provocare una risposta militare degli Stati Uniti”. Così, nell’autunno successivo, quando i servizi segreti USA ebbero tutti i pezzi del mosaico per confermare che il regime di Assad non era responsabile dell’attacco con il sarin, i sospetti si spostarono inevitabilmente sui turchi.

In maniera inequivocabile, la fonte di intelligence di Hersh afferma che intercettazioni e altre informazioni raccolte sui fatti del 21 agosto hanno confermato i sospetti su Ankara, così che gli USA hanno potuto confermare che l’attacco “fu un’azione sotto copertura, pianificata dalla cerchia di Erdogan per convincere Obama che la linea rossa era stata oltrepassata”.

I turchi, prosegue l’ex agente segreto americano, “dovevano provocare un’escalation con un attacco con gas chimici a Damasco o nelle vicinanze quando gli ispettori delle Nazioni Unite erano in territorio siriano”. Infatti, questi ultimi erano giunti nel paese mediorientale il 18 agosto per indagare su precedenti episodi nei quali erano state usate armi chimiche.

Ancora, l’intelligence militare degli Stati Uniti e altre agenzie “confermarono che il sarin era giunto [ai ribelli] grazie alla Turchia”. I servizi segreti e i militari turchi, inoltre, si erano occupati anche “dell’addestramento per produrre il sarin e delle modalità per maneggiarlo”.

A queste conclusioni, gli USA sarebbero giunti principalmente tramite intercettazioni di conversazioni telefoniche dopo il 21 agosto. Se andato a buon fine, il piano di Erdogan avrebbe potuto risolvere i problemi della Turchia in Siria: “una volta usato il gas, Obama avrebbe affermato che la linea rossa era stata superata e gli Stati Uniti avrebbero attaccato la Siria”.

La mancanza di scrupoli del governo turco nel provocare una guerra rovinosa su premesse simili è stata confermata anche dalla recente apparizione su YouTube di un filmato nel quale Erdogan e i suoi uomini discutono di un’operazione creata ad arte sempre per provocare un intervento militare contro la Siria.

In questo caso, allo studio c’era un attacco condotto dalla stessa Turchia contro la tomba in Siria di Suleyman Shah, il nonno del fondatore dell’impero Ottomano, Osman I, il cui controllo era stato assegnato ad Ankara nel 1921 durante il periodo coloniale francese. La provocazione, come descritto nel filmato dal capo dei servizi segreti turchi, prevedeva l’invio di alcuni propri soldati oltre il confine meridionale, i quali avrebbero dovuto lanciare “otto missili” nei pressi della tomba e il pretesto per una guerra sarebbe stato facilmente creato.

L’indagine di Seymour Hersh mette a nudo ancora una volta le vere ragioni del coinvolgimento degli Stati Uniti e dei loro alleati mediorientali in Siria, nonché le manovre segrete che vengono condotte da governi che hanno ben poco interesse per la sorte e le aspirazioni democratiche della popolazione di questo paese.

Stati Uniti e Turchia continuano infatti ad operare senza alcun rispetto per il diritto internazionale e sono pronti ad appoggiare organizzazioni terroristiche per rovesciare un regime che rappresenta un intralcio ai loro interessi strategici in Asia sud-occidentale.

L’ennesima rivelazione del veterano giornalista americano evidenzia anche come i media “mainstream” occidentali siano poco più che organi di propaganda dei rispettivi governi, dal momento che essi sono stati praticamente unanimi nel condannare Bashar al-Assad per gli attacchi con armi chimiche registrati nel 2013 nonostante le perplessità da subito emerse e riportate spesso in maniera convincente dalla stampa alternativa.

Non a caso, d’altra parte, come l’indagine dello scorso dicembre, anche il più recente lavoro di Hersh non solo non è stato pubblicato da nessuno dei principali giornali americani, ma questi ultimi, così come quelli europei, hanno ritenuto in gran parte di ignorare il nuovo atto d’accusa contro la condotta criminale del governo americano e dei suoi più stretti alleati.

di Michele Paris

A guidare il governo ungherese per i prossimi quattro anni saranno come ampiamente previsto ancora una volta il primo ministro in carica, Viktor Orbán, e il suo partito di destra Fidesz, premiati per la seconda volta consecutiva nelle elezioni parlamentari andate in scena domenica. Nonostante la flessione fatta segnare rispetto al voto di quattro anni fa, il partito al potere potrà contare nuovamente su una maggioranza di ferro, risultato di politiche di stampo populista e nazionalista con un’indiscutibile impronta autoritaria.

Il dato più eclatante della consultazione appena conclusa nel paese mitteleuropeo è l’assoluto predominio delle forze di destra ed estrema destra in Parlamento, rappresentate da Fidesz, dai suoi alleati di governo Cristiano-Democratici e dalla formazione neo-fascista Jobbik. Questi tre partiti, se i risultati non ancora definitivi dovessero essere confermati, controlleranno ben 156 seggi sui 199 totali, vale a dire oltre il 78% dell’assemblea legislativa.

Jobbik, in particolare, ha fatto segnare un risultato senza precedenti, accaparrandosi il 20,54% dei consensi espressi, cioè quasi 4 punti percentuali in più del 2010, e 23 seggi. Secondo la Reuters, quella di Jobbik sarebbe la migliore prestazione elettorale nazionale di sempre per un partito di estrema destra in Europa, superiore anche al 20,5% ottenuto lo scorso anno dal Partito della Libertà Austriaco.

Se possibile, l’affermazione di Jobbik sposterà così l’asse politico a Budapest ancora più a destra, come conferma d’altra parte la collaborazione spesso registrata negli ultimi quattro anni tra il partito ultra-nazionalista e anti-semita, guidato dal 35enne Gábor Vona, e la maggioranza di governo.

Fidesz, da parte sua, potrebbe conservare i due terzi dei seggi dell’Assemblea Nazionale che consentirebbero al partito del premier di modificare a piacimento la Costituzione. Già nel precedente mandato, Orbán e il suo partito hanno approvato una nuova discussa carta costituzionale, in virtù della quale, tra l’altro, il Parlamento magiaro è passato da 386 a 199 seggi.

La quota dei voti conquistati domenica da Fidesz, in ogni caso, si è attestata al 44,5%, traducendosi in 133 seggi, appena sufficienti cioè a mantenere l’attuale supermaggioranza. Secondo i media ungheresi, tuttavia, l’esito del voto in cinque distretti elettorali a Budapest e nella città orientale di Miskolc appare ancora incerto e la perdita da parte di Fidesz di anche una sola di queste sfide potrebbe costargli la maggioranza dei due terzi in Parlamento.

Pur mettendo a segno quella che risulta a tutti gli effetti una vittoria schiacciante sui propri rivali, Fidesz ha comunque perso l’8% rispetto a quattro anni fa, corrispondente a 800 mila voti persi. Il relativo arretramento del partito di Orbán era stato in qualche modo annunciato dai sondaggi degli ultimi anni che indicavano come la maggioranza degli elettori ungheresi fosse scontenta del governo in carica.

Secondo molti osservatori e i leader dell’opposizione, il successo di Fidesz sarebbe perciò dovuto in larga misura alle nuove norme restrittive fissate dal governo per regolare la campagna elettorale. Tra le misure più contestate vi è quella che proibisce a partiti e candidati di trasmettere spot elettorali sui media privati, anche se ciò è consentito al governo, così che i messaggi trasmessi si risolvono di fatto in slogan a favore del partito al potere.

L’altro fattore decisivo nella permanenza al governo di Orbán e nell’ulteriore avanzata dell’estrema destra ungherese è lo stato comatoso dell’opposizione di centro-sinistra. Il partito principale è quello socialista (MSZP), presentatosi agli elettori in una coalizione con altre formazioni minori, ed ha raccolto appena il 26% dei voti che gli garantiranno 38 seggi.

Prevedibilmente, il suo leader e candidato premier - Attila Mesterházy - ha evitato qualsiasi autocritica nel dopo voto, attribuendo l’intera responsabilità della débacle del suo partito al clima anti-democratico instaurato nel paese da Orbán.

L’MSZP, in realtà, ha gettato le basi dei propri insuccessi elettorali alla guida di vari governi dopo la caduta del regime stalinista che hanno messo in atto una serie di devastanti “riforme” di libero mercato segnate da austerity e privatizzazioni selvagge. L’ultima esperienza di governo dei socialisti ungheresi è stata tra il 2002 e il 2010, segnata da scandali di corruzione e dal dissesto finanaziario e che quattro anni fa si chiuse nel trionfo elettorale di Fidesz con oltre il 52% dei consensi.

L’arrivo al potere di Orbán e del suo partito nel 2010 è stato seguito dalla già ricordata approvazione di una nuova Costituzione che ha finito per indebolire sensibilmente i meccanismi di controllo sui poteri dell’esecutivo. Inoltre, il governo di destra ha ridotto l’autorità della Corte Costituzionale, ampliato la propria influenza sul potere giudiziario e introdotto una nuova legge sui mezzi di informazione, esposti a pesanti sanzioni e sottoposti ad un’agenzia governativa presieduta da fedelissimi del premier.

Orbán è poi ricorso a un mix di populismo e nazionalismo economico, suscitando frequentemente le critiche dell’Unione Europea e degli “investitori” internazionali. Ciò è accaduto soprattutto in occasione della nazionalizzazione dei fondi pensione privati, le cui risorse sono state utilizzate per coprire i buchi del deficit pubblico.

Il governo ha cercato anche di penalizzare banche e compagnie straniere operanti in Ungheria per favorire il capitalismo indigeno, una strategia apparsa evidente da una popolare iniziativa che ha monopolizzato la campagna elettorale di Fidesz: la riduzione delle tariffe energetiche.

Pressoché in concomitanza con il declino dei livelli di gradimento del governo, Orbán aveva infatti annunciato un piano per abbassare dapprima del 10% e successivamente del 20% le bollette di acqua, energia elettrica e gas degli ungheresi. I fornitori di questi servizi - in gran parte compagnie straniere - sono stati obbligati inoltre a comunicare ai loro clienti la cifra risparmiata mensilmente, facendo quindi della misura uno strumento di propaganda per il governo.

Le stesse compagnie hanno poi contribuito a risollevare le sorti dell’esecutivo avviando un procedimento legale per bloccare la riduzione delle tariffe. Orbán ha abilmente sfruttato questa mossa per fare un appello alla popolazione ungherese e lanciare una sorta di referendum informale che ha fatto risalire le quotazioni di Fidesz a pochi mesi dall’appuntamento con le urne.

Questa vicenda - assieme al vuoto totale che caratterizza la sinistra ungherese - aiuta a spiegare il livello di consenso raccolto nel paese da Orbán nonostante il risentimento diffuso nei confronti soprattutto dei risvolti più autoritari della sua azione di governo. Come ha scritto il sito web di informazione indipendente politics.hu, cioè, il primo ministro conservatore ha deciso di “interpretare il ruolo di martire patriota in lotta contro forze straniere ostili”, facendo leva sulle “insicurezze di molti ungheresi in merito al rapporto con paesi europei più potenti”.

Le conseguenze rovinose prospettate da un processo di integrazione forzata con l’Unione Europea e la più che giustificata ostilità della popolazione verso partiti politici - come quello socialista - responsabili del drammatico declino delle condizioni di vita degli ultimi due decenni continuano quindi a offrire ampi spazi di manovra alla destra nazionalista ungherese, sia nella sua incarnazione estremista (Jobbik) che relativamente moderata (Fidesz), consentendo a Viktor Orbán di rafforzare ancor più le proprie basi di potere nel prossimo futuro dopo l’agevole bis elettorale appena messo a segno.

di Fabrizio Casari

Società fittizie con sedi in Spagna e alle Cayman, paradiso dell’off-shore; spioni, soldi occulti, banner pubblicitari per far credere ad una finta rete commerciale, server all'estero e ingegneri informatici che non sapevano di lavorare per il governo Usa. Questa è la storia occulta (ma ora nota grazie ad una inchiesta dell’agenzia Associated Press) di ZunZuneo, ormai noto come il “twitter cubano”. Le modalità, i personaggi, i finanziamenti e la rete occulta dell’operazione sono noti, anche se molto ancora ci sarà da scoprire.

Ma intanto si può dire che tutti i componenti di una moderna spy-story dell’era tecnologica sono abbondantemente presenti nella vicenda dell’ennesima figuraccia statunitense nei confronti di Cuba. ZunZuneo (colibrì in italiano) infatti, era un programma della CIA introdotto a Cuba tramite la USAID, che si presenta come agenzia per lo sviluppo ma è, a tutti gli effetti, un braccio operativo dell’intelligence statunitense. Pare che il programma fosse stato messo a punto in Nicaragua, grazie ad un operatore informatico impiegato presso l’ambasciata statunitense a Managua.

Lo riferiscono fonti giornalistiche nicaraguensi, che definiscono Mario Behrnheim, impiegato presso l’ambasciata USA a Managua, uno dei principali programmatori del sistema. Stando alle stesse fonti, Behrnheim fu arruolato da sua sorella, Noy Villalobos, direttrice generale di Creative Associates International, dietro richiesta della USAID. Le basi operative dell’operazione erano appunto a Managua, San Josè de Costa Rica e Washington.

Il suo lavoro consisteva nel creare una rete sociale di messaggi di testo che potesse arrivare ai cellulari cubani allo scopo di un suo successivo utilizzo a fini politici antigovernativi. A capo del progetto c’era Joe McSpedon, funzionario del governo USA e dirigente della USAID che si riunì nel 2010 con una squadra di specialisti in alta tecnologia (tra questi Behrnheim) per creare una rete sociale destinata ad essere utilizzata per attività antigovernative nell’isola socialista.

Presentatosi come prodotto gratuito in un paese dove l’accesso alla rete è carissimo, per via dell’impossibilità - causa embargo - da parte dei cubani di servirsi dei cavi sottomarini attraverso i quali viaggia la rete Internet, ZunZuneo aveva visto l’adesione di 40.000 utenti, che scambiavano opinioni e commenti sullo sport, la musica e su vicende di vita quotidiana.

Il progetto dei suoi ideatori, però, non era certo quello di favorire le relazioni tra cubani: l’intento mascherato di quest’ultimo cavallo di Troja della CIA era invece quello di costruire una rete sociale sulla quale, appena fosse possibile, far viaggiare la protesta contro il governo.

L’USAID, ente del governo statunitense, che si presenta al mondo come organismo umanitario, aveva la gestione diretta dell’affaire. L’idea di utilizzare la Rete per promuovere la sovversione a Cuba, aveva solleticato Langley. Ma come è sempre successo dal 1959 ad oggi, il sogno statunitense della sovversione a Cuba si è rivelato una frustrazione.

Come già con il terrorismo e la guerra diplomatica, politica e commerciale ai danni dell’isola, anche l’utilizzo della Rete si è rivelato un fallimento e l’ultimo tentativo in ordine di tempo perpetrato dal governo statunitense di istigare la sovversione a Cuba è stato prima smascherato e poi irriso.

E’ stata, come si diceva, una magistrale inchiesta giornalistica della Associated Press a scoprire l’ennesimo tentativo statunitense di costruire sovversione e destabilizzazione politica in paesi sovrani. Il Portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, in evidente imbarazzo, ha sostenuto che l’iniziativa non era segreta, dal momento che il Congresso l’aveva discussa e l’Ufficio di contabilità del governo l’aveva approvata. Successivamente lo stesso Carney ha aggiustato il tiro: l'amministrazione Obama avrebbe chiesto solo a una sottocommissione di Capitol Hill - quella che approva i programmi federali - di discutere sui finanziamenti di Usaid al programma.

E comunque non sarà stata (forse) segreta per il Congresso Usa, ma certo lo era per i cubani, che non sapevano di utilizzare un sistema (che credevano destinato ad usi commerciali) impiantato dagli Usa a scopi di sovversione interna. Resta poi il fatto che, a conoscenza del governo o no, l’operazione è illegale, in quanto in palese violazione delle norme del diritto internazionale che proibiscono l’ingerenza negli affari interni dei paesi.

Nella sua inchiesta la Ap cita un promemoria del 2010 di Mobile Accord, una società di media coinvolta nel progetto, dove si avverte che “non sarà menzionato il governo degli Stati Uniti, è cruciale per la riuscita a lungo termine della Missione”. Non solo: ad evidenziare il carattere dell’operazione destinata all’infiltrazione spionistica, la Ap rende noto che in un altro documento si dice che “falsi banner pubblicitari daranno l'impressione di una impresa commerciale”.

Quale che sia lo scenario e i mezzi utilizzati, il refrain delle attività sovversive e terroristiche di Washington verso L’Avana, l’esito è sempre lo stesso: milioni di dollari impiegati, zero risultati ottenuti. E, oltre al danno, la beffa, perché l’ennesima vicenda d’ingerenza statunitense nei confronti di Cuba finisce come tutte le altre, con il Dipartimento di Stato che raggranella la sua ennesima figuraccia.

Una parte dell’establishment USA, comincia ad aver chiaro il quadro. Ultimo, in ordine di tempo, il Senatore democratico e presidente della commissione giudiziaria del Senato, Patrick Leahy, che in  un'intervista al canale Msnbc, ha definito il progetto ZunZuneo  "stupido, stupido, stupido".

Non solo stupido, ma notevolmente costoso. Come avviene del resto con la fallimentare Radio e Tv Martì, dirette e gestite dalla mafia cubano americana di Miami e da nessuno ascoltate; o come con l’inutile utilizzo della mercenaria Joany Sanchez, popolarissima sui media occidentali ma sconosciuta a Cuba, dove della sua esistenza sono informati solo i parenti stretti, falliscono di nuovo i tentativi d’invadere l’isola socialista con la propaganda trasmessa attraverso denaro e mezzi tecnologici imponenti.

Le covert action dell’intelligence USA proseguono, ma incontrano regolarmente sconfitte che sembrano replicare quelle ottenute in sede Onu quando, annualmente, Washington si trova da sola contro il mondo intero per il suo blocco anacronistico e illegale verso Cuba.

In quest’ultima vicenda emerge semmai l'aspetto simbolico di una sconfitta patita dagli inventori e gestori di Internet, prima potenza al mondo per spionaggio e risorse tecnologiche, che devono arrendersi davanti ad un paese agli ultimi posti al mondo per risorse informatiche. Per arrogante e muscoloso che appaia Golia, Davide ha una buona mira.

di Michele Paris

Ad aggiungere un nuovo capitolo allo scontro in corso negli Stati Uniti tra il Congresso e la CIA è stata la pubblicazione questa settimana sul Washington Post di alcune anticipazioni relative all’indagine condotta da una commissione del Senato sugli interrogatori con metodi di tortura di presunti terroristi durante l’amministrazione di George W. Bush.

Le rivelazioni, basate su fonti anomime che hanno avuto l’opportunità di leggere il rapporto classificato di oltre 6 mila pagine, rappresentano un’ulteriore devastante conferma del grado di criminalità dei vertici dell’agenzia di Langley e dello stesso governo americano, accusati di ricorrere in maniera ripetuta a pratiche illegali nell’ambito della “guerra al terrore” e di avere deliberatamente mentito sia sulla loro efficacia sia sull’entità stessa delle minacce alla sicurezza nazionale provenienti dal fondamentalismo islamico.

Secondo un esponente del governo USA citato dal Washington Post, “la CIA sosteneva sia con il Dipartimento di Giustizia sia con il Congresso che i programmi [di interrogatorio] consentivano di ottenere informazioni fondamentali e impossibili da ottenere in altra maniera per sventare trame terroristiche e salvare migliaia di vite”. Alla domanda se questa tesi corrispondesse al vero, la stessa fonte del quotidiano della capitale americana ha risposto con un secco “no”.

Uno degli aspetti sottolineati dal rapporto prodotto dalla Commissione sui Servizi Segreti del Senato sarebbe appunto l’intervento dei vertici della CIA per manipolare i risultati degli interrogatori, ingigantendone l’importanza.

Il materiale di intelligence più significativo nella lotta contro Al-Qaeda - incluse le informazioni che avrebbero portato all’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan nel 2011 - non è stato però reperito grazie alle cosiddette “tecniche avanzate di interrogatorio”, vale a dire torturando i detenuti, ma con i metodi tradizionali.

Ad esempio, le informazioni rivelate da Abu Zubaydah - ritenuto dagli americani uno dei massimi esponenti di Al-Qaeda - sarebbero state ottenute durante normali interrogatori ad opera dell’agente dell’FBI Ali Soufan in un ospedale in Pakistan e non dopo che lo stesso sospettato era stato sottoposto a torture varie, tra cui il “waterboarding” per ben 83 volte.

Ciononostante, spiega il rapporto del Senato, il percorso delle informazioni raccolte dall’agente Soufan verso i vertici del governo era stato falsificato, in modo da dare l’impressione che esse fossero state il risultato dei durissimi interrogatori della CIA.

La stessa posizione ricoperta da Zubaydah all’interno di Al-Qaeda era stata esagerata, visto che in seguito molti esperti di terrorismo islamico avrebbero affermato che il ruolo nell’organizzazione del cittadino saudita ora detenuto nel lager di Guantanamo era soltanto quello di aiutante nelle operazioni di reclutamento.

Lo stesso schema fuorviante la CIA lo utilizzò anche nel caso di Hassan Ghul, la cui testimonianza sarebbe servita a identificare il corriere di bin Laden e a rivelare la residenza del leader di Al-Qaeda in Pakistan. Ghul aveva cioè detto quanto sapeva già alle autorità curde nel nord dell’Iraq, ma le informazioni di maggiore rilievo sarebbero state fatte successivamente confluire in quelle di minore importanza ottenute dalla CIA in una delle prigioni segrete gestite dall’agenzia, in questo caso in Romania, dove il detenuto è stato in seguito trasferito.

Nel rapporto del Congresso sono descritte nel dettaglio anche alcune delle pratiche criminali usate contro i detenuti nel corso degli interrogatori. Significativa in questo senso è la vicenda di Ammal al-Baluchi, nipote di Khalid Sheik Mohammed, autodefinitosi la “mente” degli attentati dell’11 settembre.

Dopo la cattura a fine aprile 2003 a Karachi, in Pakistan, Baluchi venne trasferito in una prigione segreta della CIA a Kabul, dove fu sottoposto a svariate torture. Tra di esse, il rapporto elenca una tecnica mai inclusa nella lista approvata dal Dipartimento di Giustizia, come l’immersione in una vasca di acqua gelata, nella quale inoltre gli agenti americani gli tenevano forzatamente la testa impedendogli di respirare.

Il trattamento riservato a Baluchi prevedeva poi regolari percosse con bastoni, mentre la sua testa veniva frequentemente sbattuta contro il muro. Ad assistere agli interrogatori vi era sempre un “medico” della CIA, con l’incarico di monitorare le funzioni vitali dei sospettati ed evitare che i maltrattamenti risultassero fatali.

Rendendo il tutto ancora più inquietante, le torture sarebbero continuate ad avvenire anche dopo che Baluchi, come molti altri detenuti, aveva deciso di collaborare con i propri torturatori. Ugualmente, i vertici dell’agenzia ordinavano spesso di proseguire con questi metodi anche quando veniva accertato che non era possibile estrarre ulteriori informazioni dai detenuti.

Quest’ultima rivelazione smentisce perciò clamorosamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei membri dell’amministrazione Bush e dello stesso ex presidente repubblicano, i quali avevano più volte sostenuto l’importanza delle informazioni raccolte con metodi di tortura per evitare un altro 11 settembre.

Allo stesso modo, lo smascheramento delle menzogne del governo USA - assieme alla conferma del ricorso a torture spesso nemmeno contemplate dai già vergognosi pareri legali del Dipartimento di Giustizia, redatti per giustificare le violenze commesse ai danni dei detenuti durante gli interrogatori - dovrebbe servire a mettere sotto accusa anche l’amministrazione Obama, colpevole fin dal suo insediamento di avere insabbiato qualsiasi procedimento giudiziario nei confronti dei responsabili.

Lo stesso rapporto del Senato, d’altra parte, non conterrebbe alcuna raccomandazione per punire o anche solo sottoporre a indagine coloro che hanno autorizzato e portato a termine questi crimini o che hanno mentito alla popolazioe americana per nascondere colossali violazioni dei diritti umani.

La rivelazione della sostanziale inutilità ai fini pratici delle torture impiegate dalla CIA con il consenso dell’intero governo solleva soprattutto inquietanti interrogativi legati alle reali finalità dell’intera “guerra al terrore”. In altre parole, come la costruzione di un apparato pseudo-legale contrario alle basilari norme democratiche e costituzionali è servito a gettare le fondamenta di un sistema autoritario dotato di strumenti da stato di polizia per contrastare qualsiasi minaccia derivante nel prossimo futuro dalle esplosive tensioni sociali interne agli Stati Uniti, così il ricorso alle torture avrebbe potuto anche avere l’obiettivo di legittimare o testare metodi estremi di interrogatorio da utilizzare in circostanze simili.

La pubblicazione dell’esclusiva del Washington Post si inserisce in ogni caso in un momento estremamente delicato nei rapporti tra la CIA e il Congresso. Poche settimane fa, infatti, la presidente della Commissione sui Servizi Segreti del Senato, la democratica Dianne Feinstein, era stata protagonista di un discorso senza precedenti, nel quale accusava la CIA di avere violato il principio costituzionale della separazione dei poteri.

L’agenzia di Langley aveva cioè spiato i computer dei membri della commissione deputata al suo controllo e dei loro collaboratori per scoprire a quali documenti segreti e non autorizzati questi ultimi avevano avuto accesso nella loro indagine sugli interrogatori post 11 settembre.

In particolare, i senatori erano riusciti a visionare un rapporto classificato nel quale la CIA sembrava appoggiare le conclusioni critiche nei suoi confronti espresse dal rapporto della commissione. Pubblicamente, al contrario, i vertici della principale agenzia di intelligence americana avevano invece respinto le accuse del Congresso.

Il rapporto della commissione del Senato rimane comunque segreto, anche se almeno una parte di esso potrebbe essere pubblicata nel prossimo futuro. Giovedì, infatti, nonostante la contrarietà di quasi tutti i suoi membri repubblicani, la Commissione sui Servizi Segreti ha approvato una risoluzione che intende sollecitare la Casa Bianca a declassificare qualche centinaio di pagine del rapporto stesso.

Il presidente Obama, da parte sua, ha più volte lanciato segnali positivi in questo senso, anche se la versione che sarà resa pubblica risulterà pesantemente oscurata e, oltretutto, i tempi della pubblicazione potrebbero essere molto lunghi.

L’amministrazione democratica, inoltre, pur cercando di apparire intenzionata a fare chiarezza sugli abusi della CIA, ha appoggiato nemmeno troppo velatamente l’attuale direttore dell’agenzia di intelligence, l’ex consigliere di Obama per l’anti-terrorismo, John Brennan, nella diatriba con il Congresso. Come è apparso di recente sui giornali americani, infine, la stessa Casa Bianca si era anche rifiutata di fornire alla Commissione del Senato più di 9 mila documenti utili all’indagine sui programmi illegali della CIA.

di Michele Paris

Dopo il tracollo elettorale registrato dal Partito Socialista (PS) nel voto amministrativo in Francia, il presidente François Hollande ha operato come previsto un immediato cambio di governo, liquidando il primo ministro Jean-Marc Ayrault. L’inquilino dell’Eliseo ha tratto però le conseguenze più nefaste possibili dall’appuntamento con le urne caratterizzato dall’ascesa del Fronte Nazionale, dal momento che le aspettative degli elettori per politiche progressiste mai materializzatesi in questi due anni sono state nuovamente ignorate con la promozione a premier di uno dei ministri più a destra del gabinetto uscente.

A determinare la perdita di ben 155 comuni francesi con più di 10 mila abitanti in mano ai socialisti è stata in larghissima misura l’adozione e la programmazione a livello nazionale di “riforme” che hanno gettato le basi per il drastico ridimensionamento del welfare relativamente generoso d’oltralpe. A ciò vanno aggiunte le decine di miliardi di euro in benefici fiscali offerti alle aziende francesi, da recuperare con ulteriori tagli alla spesa sociale, come fissato nel cosiddetto “Patto di Responsabilità” recentemente firmato dagli industriali e da alcune organizzazioni sindacali sotto gli auspici del presidente e del governo.

Dal momento che il non esattamente brillante candidato Hollande era stato premiato nelle presidenziali del 2012 grazie all’impopolarità di Nicolas Sarkozy e alla promessa di sia pure modeste iniziative di stampo progressista, il PS è stato inevitabilmente punito nelle elezioni conclusesi domenica scorsa per avere sostanzialmente proseguito il percorso della destra sotto la spinta dell’Unione Europea e degli ambienti finanziari internazionali.

Nella serata di lunedì, Hollande ha parlato in diretta TV, affermando di avere “personalmente ricevuto il messaggio degli elettori”, per poi annunciare la nomina a nuovo capo del governo del ministro dell’Interno, Manuel Valls, autentica incarnazione della deriva conservatrice degli ultimi decenni del Partito Socialista e delle formazioni socialdemocratiche occidentali.

Non conoscendo l’affiliazione politica di Valls, risulterebbe infatti difficile distinguere il neo-premier francese da un esponente della destra ultra-liberista con tendenze autoritarie se non addirittura razziste. Valls fa parte dell’ala destra del Partito Socialista e ammira apertamente la disastrosa esperienza politica del “New Labour” di Tony Blair, al quale viene spesso accostato.

Le sue posizioni in ambito economico e sulle questioni della sicurezza interna erano emerse già nel corso delle primarie per le presidenziali francesi vinte da Hollande. Nonostante in quell’occasione giunse quinto su sei candidati alla nomination per l’Eliseo, raccogliendo un misero 6%, Valls utilizzò la vetrina come trampolino di lancio della sua carriera politica, ben consapevole dell’utilità di figure dalle credenziali reazionarie in un quadro politico sempre più spostato verso destra.

Valls fu ad esempio molto critico nei confronti della settimana lavorativa di 35 ore, introdotta anni prima sempre da un governo socialista, mentre più in generale manifestò la volontà di procedere con la “modernizzazione” del partito, esemplificata dalla sua proposta di cambiare il nome stesso, togliendo l’aggettivo “socialista” così da mettere fine alla pretesa puramente formale del riferimento al socialismo, definito dal neo-premier francese come un pensiero “obsoleto” e “da diciannovesimo secolo”.

Sul fronte delle politiche legate alla sicurezza, inoltre, nel corso del suo incarico a ministro dell’Interno Manuel Valls ha promosso un rafforzamento dei poteri degli organi di polizia, rispecchiando tra l’altro la parabola dell’ex presidente Sarkozy prima della sua elezione a Capo dello Stato. Particolarmente controverse sono state poi le sue posizioni sui Rom, i cui campi ha continuato a smantellare per poi dichiarare che i membri di questa minoranza etnica che vivono in Francia avrebbero dovuto essere deportati in massa perché “non assimilabili”.

Proprio l’atteggiamento dell’appena nominato primo ministro su tali questioni chiarisce ancora una volta la risposta del tradizionale establishment politico francese alla crescita dell’estrema destra, affrontata cioè incorporando nei propri programmi e nella propria retorica alcuni dei temi cari a quest’ultima, provocando inevitabilmente un ulteriore spostamento a destra del baricentro politico.

Non a caso, d’altra parte, uno dei dati più significativi delle amministrative secondo i media ufficiali francesi sarebbe lo scardinamento del sistema bipolare che vede alternarsi al potere i socialisti e i gollisti dell’UMP (Union pour un Mouvement Populaire), con l’irruzione a pieno titolo del Fronte Nazionale nel panorama politico transalpino.

Una simile evoluzione comporta tuttavia la legittimazione delle istanze neo-fasciste del movimento fondato da Jean-Marie Le Pen e, nuovamente, contribuisce allo spostamento verso destra dell’asse politico generale.

Sul fronte economico, la scelta di Valls dimostra invece quali siano i punti di riferimento di Hollande, vale a dire Bruxelles e i circoli finanziari piuttosto che gli elettori francesi. Il licenziamento del governo Ayrault e la nomina al suo posto di un ministro tra i più convinti sostenitori delle “riforme” di libero mercato intendono rispondere infatti ai malumori espressi per la mancanza di decisione con cui Parigi ha finora condotto gli attacchi alla spesa pubblica e alle condizioni di vita dei lavoratori.

Come ha spiegato il Financial Times, d’altra parte, la Francia è sotto pressione per rimettere in ordine le proprie finanze, visto oltretutto che ha già ottenuto dall’Unione Europea due anni di tempo in più - fino al 2015 - per ridurre il deficit di bilancio al 3% del PIL, attestato ora al 4,3%.

Prevedibilmente, la notizia dell’arrivo di Valls all’Hôtel Matignon ha suscitato le proteste dei partiti a sinistra del PS. Secondo Libération, ad esempio, Jean-Luc Mélenchon, Pierre Laurent e Olivier Besancenot - leader rispettivamente del Partito della Sinistra (Parti de Gauche, PG), del Partito Comunista Francese (PCF) e del Nuovo Partito Anticapitalista (Nouveau Parti Anticapitaliste, NPA) - hanno definito la nomina decisa da Hollande un “tradimento” e hanno poi fatto appello ai Verdi (Europe Écologie-Les Verts, EE-LV) ad abbandonare il governo per costruire insieme un’alleanza alternativa.

Il riferimento al “tradimento” è legato al fatto che queste formazioni avevano appoggiato nel 2012 la candidatura alla presidenza di Hollande, alimentando nell’elettorato l’illusione di potere esercitare pressioni sul governo socialista, così da convincerlo ad adottare una serie di politiche progressiste.

Due anni più tardi, con la scelta di Manuel Valls per guidare un governo nominalmente socialista e i successi elettorali del Fronte Nazionale, la realtà francese vede tuttavia un netto dominio delle forze di destra, con prospettive ancora più cupe in vista dell’imminente voto per il Parlamento europeo.


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