di Michele Paris

Da qualche tempo il governo degli Stati Uniti accusa Pechino di condurre operazioni di spionaggio industriale ai danni delle proprie corporations per assicurare un vantaggio tecnologico alle compagnie cinesi. L’accusa, tuttavia, è stata in più occasioni rimandata al mittente e con molte ragioni, anche se Washington insiste che simili pratiche, quand’anche siano state messe in atto dall’intelligence a stelle e strisce, a differenza di quelle della Cina sono giustificate, poiché non avrebbero come fine quello di avvantaggiare il business americano.

Questa giustificazione, già di per sé molto discutibile, è stata smontata ulteriormente qualche giorno fa in seguito alla pubblicazione sulla testata on-line The Intercept di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) americana forniti da Edward Snowden.

L’autore dell’articolo, Glenn Greenwald, spiega come un rapporto segreto emesso nel 2009 dall’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI) affermi apertamente la possibilità da parte della NSA quanto meno di considerare l’attività di spionaggio industriale in un prossimo futuro.

Il documento è denominato “Quadriennal Intelligence Community Review” e, secondo Greenwald, rappresenta un’interessante “finestra sulla mentalità dell’intelligence americana nell’identificazione di future minacce agli Stati Uniti e nella predisposizione di contromisure” in risposta a questa eventualità.

Nello specifico, i documenti in questione si riferiscono a un “potenziale scenario nel quale gli USA potrebbero dover fronteggiare, nel 2025, un blocco [di paesi] centrato su un’alleanza tra Cina, Russia, India e Iran che minacci la supremazia americana”.

Tra i pericoli ipotizzati, vi è la perdita da parte degli USA del proprio vantaggio “tecnologico e innovativo”, così che “le capacità tecnologiche delle corporations multinazionali straniere superino quelle delle corporations americane”. Uno scenario di questo genere, continua il documento, “potrebbe mettere gli Stati Uniti in una situazione di svantaggio crescente - e potenzialmente definitivo - in settori cruciali come quelli energetico, medico, delle nanotecnologie e dell’IT”.

In questo caso, tutto il potenziale dell’apparato di intelligence degli Stati Uniti sarebbe utilizzato per soccorrere le corporations del paese in crisi di competitività. La NSA metterebbe cioè in atto uno sforzo “sistematico e su più fronti per raccogliere informazioni protette e ‘open source’ attraverso mezzi palesi, penetrazione clandestina (sia fisica sia informatica) e controspionaggio”. In particolare, le “cyber operazioni” da condurre dovrebbero servire a penetrare “centri segreti per l’innovazione” com i laboratori di “Ricerca e Sviluppo” di paesi e compagnie straniere.

In un grafico esplicativo - titolato significativamente “Acquisizioni tecnologiche con ogni mezzo” - viene spiegato inoltre che la comunità dell’intelligence americana sarebbe chiamata a fare “approcci clandestini”, ad esempio nei confronti di paesi come India e Russia, ipoteticamente impegnati in progetti di innovazione tecnologica, per “dissolvere la loro partnership”.

Dopo avere condotto le operazioni descritte per ottenere le informazioni necessarie e per indebolire la “catena di approvvigionamento intellettuale”, l’intelligence dovrebbe anche e soprattutto valutare “se e in che modo quanto scoperto possa esse utile all’industria americana”.

Negando quest’ultima affermazione, l’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale ha ribadito allo staff del sito The Intercept che gli Stati Uniti non si appropriano in nessun modo di informazioni aziendali per favorire compagnie private americane e che il rapporto rivelato da Snowden non riflette l’attuale politica dello spionaggio USA.

L’ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale è stato creato una decina di anni fa dall’amministrazione Bush con il compito, tra l’altro, di supervisionare l’intera comunità di intelligence americana. L’ufficio è guidato dal 2010 dall’ex generale dell’aeronautica James Clapper, già responsabile impunito di spergiuro di fronte al Congresso per avere mentito deliberatamente sul monitoraggio di massa delle comunicazioni elettroniche degli americani da parte della NSA.

Vista la vastità delle operazioni che la NSA conduce in tutto il pianeta, è come minimo ipotizzabile che l’agenzia sia già impegnata nelle operazioni che i suoi portavoce smentiscono. Tanto più che tra i documenti forniti da Snowden lo scorso anno, alcuni avevano rivelato l’esistenza del programma “Blackpearl”, con il quale la NSA ottiene dati e informazioni proprio da network privati, tra cui quello del gigante petrolifero brasiliano a maggioranza pubblica Petrobras.

In ogni caso, anche prendendo per vere le rassicurazioni del governo, i documenti appena pubblicati da The Intercept, come osserva Greenwald, confermano che la sottrazione illegale di segreti commerciali è una pratica che l’intelligence USA considera legittima per proteggere le proprie multinazionali.

Questa realtà è d’altra parte tutt’altro che sorprendente, visto che la classe dirigente negli Stati Uniti come altrove identifica sostanzialmente gli interessi del business domestico con quelli dello stato.

Le ultime rivelazioni di Snowden, infine, giungono opportunamente a pochi mesi dall’incriminazione formale da parte della giustizia USA di cinque dipendenti del governo di Pechino con l’accusa di avere violato le reti di svariate compagnie private americane.

Nell’annunciare la decisione a maggio, il ministro della Giustizia, Eric Holder, aveva affermato pubblicamente che i cinque cittadini cinesi erano coinvolti in attività di spionaggio industriale “con il solo scopo di avvantaggiare le compagnie pubbliche e altri interessi” del loro paese, assicurando poi che simili azioni illegali venivano “categoricamente condannate dal governo degli Stati Uniti”, sempre che a commetterle siano però paesi stranieri e possibilmente rivali.

di Mario Lombardo

Con il voto in alcuni stati della costa orientale, nella giornata di martedì si è chiusa negli Stati Uniti la stagione 2014 delle primarie in vista delle elezioni di metà termine del 4 novembre prossimo per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington. L’appuntamento con le urne, già tradizionalmente disertato da molti elettori in assenza della sfida per la Casa Bianca, anche se potrebbe decidere il cambio di maggioranza al Senato, sembra suscitare ben poco interesse al di fuori dei media ufficiali e dei circoli di potere, confermando la crescente sfiducia degli americani verso un sistema totalmente bloccato e privo di reali alternative politche.

A rendere ancora più cupo un clima generale fatto di difficoltà economiche persistenti, disuguaglianze sociali senza precedenti e preparativi per nuove guerre oltreoceano, sembra essere non solo la realtà di due partiti pro-business praticamente intercambiabili che monopolizzano la scena politica statunitense, ma anche la scarsità di sfide realmente competitive che andranno in scena tra meno di due mesi.

Come previsto negli USA, nel “midterm” la Camera dei Rappresentanti verrà rinnovata completamente, mentre al Senato saranno in palio 36 seggi sui 100 complessivi, di cui 21 attualmente detenuti da democratici e 15 da repubblicani.

Nel caso della Camera, è opinione ampiamente condivisa che i repubblicani riusciranno a conservare la maggioranza in maniera agevole, con addirittura un possibile incremento del margine di 35 seggi (234-199) che vantano sui democratici nel 113esimo Congresso uscente.

Dal momento che gli equilibri nei distretti elettorali dei singoli stati per la Camera di Washington risultano in gran parte consolidati, in pratica poco più di una settantina di seggi vedranno una reale competizione tra i candidati dei diversi schieramenti. Ancora meno sono poi i seggi per i quali le sfide si annunciano equilibrate, così che la composizione finale della Camera si discosterà solo in minima parte da quella attuale.

La drastica diminuzione del numero di elezioni competitive per la Camera è in parte il risultato delle modifiche dei distretti elettorali messe in atto in questi anni dalle assemblee legislative locali per assicurare il dominio di uno dei due partiti, attraverso l’inclusione nei confini dei distretti stessi di città o quartieri i cui elettori tendono a votare per il partito che si intende favorire e l’esclusione di quelli che propendono per l’avversario.

Soprattutto, però, questa dinamica è il risultato di una consolidata polarizzazione dell’elettorato americano, riscontrabile però quasi esclusivamente tra una percentuale relativamente ristretta di votanti che partecipano attivamente al processo di selezione della classe dirigente, laddove la grande maggioranza della popolazione rimane indifferente di fronte ad una scelta limitata a due partiti che sono espressione di diverse sezioni delle élites economico-finanziarie del paese.

Casi emblematici di questa realtà sono gli stati solitamente ascrivibili al Partito Democratico o a quello Repubblicano. Come accade nel corso delle campagne elettorali presidenziali, infatti, anche nella corsa al Congresso il partito che raccoglie ben poche fortune in un determinato stato evita in sostanza di “sprecare” risorse economiche in una competizione persa in partenza.

Ciò è evidente ad esempio in vari stati del sud, a grande maggioranza repubblicana, o viceversa nel nord-est e sulla costa occidentale, dove a prevalare sono i democratici. Particolarmente significativi sono i casi di California e Texas, i due stati con le più nutrite delegazioni alla Camera. In entrambi gli stati, secondo gli analisti d’oltreoceano, complessivamente solo due seggi sembrano essere realmente in bilico tra i candidati in corsa sui 55 in palio nel primo e i 36 nel secondo.

In molti casi, inoltre, il partito sfavorito non ha nemmeno presentato un candidato, come nello stesso Texas, dove i democratici non saranno presenti in una decina di distretti su 36. Le sfide per la Camera, in definitiva, si sono risolte in buona parte durante le primarie dei mesi scorsi, con i confronti interni ai due partiti tra l’anima moderata e ultra-conservatrice dei repubblicani e tra quella ugualmente moderata e “progressista” dei democratici.

Secondo gli standard dei media ufficiali americani, maggiore interesse dovrebbe destare la sorte del Senato, dove la maggioranza democratica di 55 seggi contro i 45 dei repubblicani appare seriamente a rischio. Anche in questo caso, dei 36 seggi che verranno rinnovati solo la metà circa vedrà sfide competitive, quasi tutte in stati tradizionalmente repubblicani o in bilico tra i due partiti.

Se i seggi aperti di Montana, South Dakota e West Virginia, dove i senatori democratici in carica hanno da tempo annunciato il loro ritiro, sembrano destinati ai repubblicani, altri quattro stati vinti da Mitt Romney su Obama nelle presidenziali del 2012 - Alaska, Arkansas, Louisiana e North Carolina - appaiono in bilico e, anzi, vedono al momento leggermente favoriti i democratici.

Questi ultimi hanno però dei margini molto ristretti visto il clima politico a loro sfavorevole e non possono permettersi in pratica nessuna sconfitta in stati dove sono maggiormente favoriti, nonostante debbano talvolta fronteggiare agguerriti rivali repubblicani.

Pur dovendo giocare sulla difensiva, il Partito Democratico ha comunque qualche carta da giocare in tre stati dove i seggi in palio sono occupati da senatori repubblicani. In Kentucky a essere in pericolo è addirittura il leader di minoranza Mitch McConnell, accreditato dai sondaggi solo di un lieve vantaggio sulla 35enne democratica Alison Lundergan Grimes. In Georgia, invece, i democratici con Michelle Nunn - figlia dell’ex senatore Sam Nunn - sembrano avere un margine, anche se precario, sull’imprenditore repubblicano David Perdue.

Più complessa è infine la situazione in Kansas, dove il ritiro del candidato democratico, il procuratore distrettuale Chad Taylor, avrebbe singolarmente complicato le cose per il repubblicano in carica, Pat Roberts. La mossa di Taylor, infatti, potrebbe favorire un candidato indipendente ben finanziato, l’imprenditore Greg Orman, il quale secondo alcuni avrebbe accettato di votare con i democratici se eletto al Senato in cambio, appunto, del ritiro dalla corsa dello stesso Taylor.

I repubblicani stanno investendo ingenti risorse per conquistare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, così da ostacolare ulteriormente, secondo la versione ufficiale, l’implementazione dell’agenda del presidente Obama o per promuovere il loro programa. In realtà, anche se il Senato dovesse passare di mano, le differenze rispetto alla situazione attuale nei prossimi due anni potrebbero non essere particolarmente evidenti.

Obama, oltre a mantenere il potere di veto sui provvedimenti del Congresso che può essere neutralizzato solo con una maggioranza dei due terzi di entrambe le camere, ha già visto affondare in questi anni molte delle sue iniziative alla Camera dei Rappresentanti, nonostante l’appoggio della maggioranza democratica al Senato. Quel che è certo, è che il ribaltamento degli equilibri al Senato produrrebbe invece un nuovo spostamento a destra dell’asse politico di Washington.

In ogni caso, se fino a pochi mesi fa le probabilità di mantenere una maggioranza anche risicata al Senato sembravano reali per i democratici, oggi la situazione appare ribaltata e il partito del presidente viene dato decisamente in affanno.

A conferma di quanto descritto in precedenza sulla totale sfiducia degli elettori verso la classe politica americana, un recentissimo sondaggio Gallup ha rivelato come appena il 14% degli elettori approvi l’operato del Congresso. Questo livello infimo di gradimento a due mesi dalle elezioni è il più basso mai registrato da Gallup da quarant’anni a questa parte.

L’insoddisfazione si concretizzerà con percentuali di astensione elevatissime, mentre saranno i democratici a pagarne maggiormente il prezzo nelle scelte degli elettori, visto che controllano la Casa Bianca. Anche se il suo nome non apparirà sulle schede, Obama rappresenta poi un’ulteriore zavorra per i candidati democratici, soprattutto negli stati considerati di tendenze conservatrici, come dimostra il gradimento in continua caduta della sua amministrazione.

Assieme alle elezioni per il Congresso, il 4 novembre gli elettori americani saranno chiamati a scegliere anche molti governatori e assemblee legislative statali, dove a dominare attualmente sono i repubblicani. Dopo i successi del 2010, però, governatori e parlamentari locali del Partito Repubblicano hanno generalmente messo in atto devastanti politiche anti-sociali e sembrano quindi dover andare incontro a non poche sconfitte.

Tra i governatori repubblicani maggiormente a rischio ci sarebbero Tom Corbett (Pennsylvania), Rick Snyder (Michigan), Scott Walker (Wisconsin) e Rick Scott (Florida). Il possibile cambio alla guida di questi stati non preannuncia comunque significative variazioni dell’agenda politica, come potrebbe accadere in Florida, dove il candidato democratico sarà infatti un ex repubblicano, vale a dire l’ex governatore Charlie Crist.

Nel complesso, il voto di “midterm” è caratterizzato da livelli di spesa da record nelle campagne elettorali, grazie anche a più o meno recenti sentenze della Corte Suprema che hanno abbattuto gran parte dei limiti alle contribuzioni per i donatori più facoltosi. In alcune competizioni a livello statale, come in quella per un seggio al Senato in Kentucky o per la carica di governatore in Florida, la spesa complessiva dei candidati ha addirittura già superato i 100 milioni di dollari.

Questa è d’altra parte la logica conseguenza dell’evoluzione di un sistema politico fatto di ricchi e al servizio dei ricchi, con la conseguente emarginazione delle classi disagiate, tanto che il continuo lievitare delle somme spese nelle campagne elettorali risulta ormai inversamente proporzionale al livello di interesse degli elettori e alla credibilità agli occhi di questi ultimi della classe politica americana.

di Michele Paris

Il grado di collaborazione raggiunto in questi ultimi anni tra la stampa ufficiale negli Stati Uniti e gli organi di governo è stato messo ulteriormente in luce qualche giorno fa da un’indagine apparsa sulla testata on-line The Intercept, co-diretta dall’ex editorialista del Guardian Glenn Greenwald, noto per avere pubblicato molti dei documenti riservati sulla NSA forniti da Edward Snowden.

In seguito a una richiesta basata sul Freedom of Information Act, la CIA ha reso pubbliche centinaia di pagine di documenti riguardanti appunto le relazioni esistenti tra la principale agenzia di intelligence a stelle e strisce e i giornalisti americani. Il quadro che ne è risultato, sia pure molto parziale, è al tempo stesso scoraggiante e relativamente prevedibile.

In sostanza, Greenwald ha delineato un rapporto estremamente cordiale tra le due parti, con richieste di commenti o modifiche sui pezzi ancora da pubblicare e scambi di opinioni nonostante i rappresentanti della stampa sarebbero tenuti a mantenere le distanze, se non un senso decisamente critico, nei confronti di un’agenzia responsabile di innumerevoli crimini e violazioni dei diritti umani e civili.

La vicenda che ha trovato maggiore spazio nell’articolo e che è rimbalzata su qualche testata negli Stati Uniti è quella dell’ex giornalista del Los Angeles Times, specializzato in questioni di intelligence, Ken Dilanian. Di quest’ultimo, dal maggio scorso passato alla Associated Press, vengono presentate una serie di e-mail scambiate con l’ufficio per le relazioni esterne della CIA, a conferma dei suoi “stretti rapporti con l’agenzia”, alla quale prometteva “una copertura giornalistica positiva e talvolta inviava intere bozze di articoli per essere valutati prima della pubblicazione”.

La corrispondenza in questione riguarda soltanto alcuni mesi nel corso del 2012, sufficienti però a chiarire quali siano i metodi “critici” impiegati dai professionisti dell’informazione negli Stati Uniti e, con ogni probabilità, non solo.

Tra gli esempi riportati da The Intercept, vi è un messaggio inoltrato da Dilanian a uno sconosciuto addetto all’ufficio stampa della CIA nel quale lo informa di essere al lavoro “su una storia relativa all’attività di controllo del Congresso sui bombardamenti con i droni”.

L’articolo, secondo il giornalista all’epoca alle dipendenze del Los Angeles Times, poteva “offrire una buona opportunità per voi ragazzi [della CIA]”. A Dilanian, cioè, premeva far sapere all’agenzia di Langley che il suo pezzo sarebbe potuto servire a “rassicurare l’opinione pubblica” sulle operazioni dei droni USA all’estero, responsabili di un numero imprecisato di vittime civili.

In un’altra occasione, invece, Dilanian aveva scambiato varie comunicazioni con la CIA in relazione ad un articolo in fase di preparazione sulle operazioni clandestine della stessa agenzia in Yemen. Alla fine, il giornalista aveva inviato ai suoi interlocutori una bozza modificata secondo le indicazioni ricevute, chiedendo se la nuova versione “appariva migliore”.

Di casi simili ve ne sono molti e tutti illuminanti. Nel giugno del 2012, ad esempio, dopo che alcuni membri del Congresso avevano inviato al presidente Obama una lettera per esprimere la loro preoccupazione nei riguardi del programma di bombardamenti con i droni condotto dalla CIA, Dilanian aveva scritto all’agenzia per prospettare l’ennesima “buona opportunità” per limitare i danni.

La lettera di deputati e senatori era giunta in seguito alle notizie che descrivevano varie incursioni con i droni in Pakistan e in Yemen con decine di morti tra la popolazione civile, il tutto senza alcun reale controllo sulle operazioni da parte del Congresso. In questa occasione, Dilanian informò la CIA che stava preparando un articolo “non solo rassicurante per l’opinione pubblica” ma che avrebbe fornito anche “la possibilità di fare luce sulla disinformazione relativa ai droni che a volte giunge dai media locali”.

Il giornalista americano chiedeva l’aiuto della CIA nel produrre una storia nella quale sarebbero stati citati esponenti del governo che sostenevano che il programma di bombardamenti veniva svolto con la dovuta attenzione per evitare “danni collaterali”, smentendo così quelle notizie che riportavano numerose vittime civili.

Qualche giorno dopo, Dilanian avrebbe risposto alla diffusione della notizia dell’uccisione con un drone in Pakistan del leader di al-Qaeda, Abu Yahya al-Libi, assieme ad almeno una decina di persone, sostenendo che il jihadista ricercato dagli USA era in realtà l’unica vittima dell’operazione. In un’e-mail inviata alla CIA prima della pubblicazione del pezzo, Dilanian chiedeva se l’agenzia avesse qualcosa da obiettare alla sua versione.

Prevedibilmente, la CIA non aveva nulla da eccepire, ma parecchi mesi più tardi Amnesty International avrebbe diffuso un rapporto sulla vicenda di al-Libi, rivelando che il missile lanciato da un drone aveva ucciso cinque uomini, tra cui oltretutto non figurava lo stesso militante fondamentalista. Al-Libi sarebbe stato ucciso da un secondo attacco avvenuto poco dopo il primo e che fece altre 15 vittime.

Almeno una modifica suggerita dall’ufficio stampa della CIA è stata riscontrata da Greenwald nella versione pubblicata di un articolo di Ken Dilanian sul Los Angeles Times, nonostante la corrispondenza resa pubblica non riveli il contenuto dei messaggi inoltrati dalla stessa agenzia di intelligence.

Il 16 maggio 2012, infatti, un pezzo uscito sul principale quotidiano della California, relativo al coinvolgimento della CIA nella “guerra al terrorismo” in Yemen, appare parzialmente diverso rispetto alla bozza della stessa storia sottoposta dal reporter all’agenzia due settimane prima.

Su indicazione della CIA, Dilanian aveva rimosso l’esplicito riferimento alla presenza di membri dell’agenzia nel paese della penisola arabica, dove stavano collaborando con clan locali per fornire le informazioni di intelligence necessarie alle incursioni dei droni USA, sostituendolo con un cenno più vago a “un piccolo contingente di truppe americane” e aggiungendo la presenza di Al-Qaeda nel territorio in questione.

Il lavoro di disinformazione svolto da Dilanian è confermato infine da uno scambio di messaggi sulle polemiche seguite alla collaborazione della CIA con la regista e lo sceneggiatore del film “Zero Dark Thirty” - rispettivamente Kathryn Bigelow e Mark Boal - sull’assassinio di Osama bin Laden. I repubblicani, in particolare, avevano criticato l’amministrazione Obama per avere condiviso con gli autori del film di propaganda alcune informazioni riservate sul blitz in Pakistan.

Per Dilanian la vicenda rappresentava una nuova occasione di intervenire per proteggere la CIA dalle conseguenze della rivelazione. In questo caso, il reporter proponeva di scrivere un articolo nel quale si sosteneva che le informazioni fornite per la realizzazione di “Zero Dark Thirty” erano “routine” e che non si discostavano da quelle che l’agenzia aveva offerto al mondo del cinema in altre occasioni, dimostrando così che “l’episodio non rappresenta affatto uno scandalo”.

Un anno più tardi, scrive Greenwald, un documento interno della CIA, pubblicato in seguito ad una richiesta approvata in base al Freedom of Information Act, avrebbe confermato che l’ufficio per le relazioni esterne dell’agenzia di Langley – lo stesso con cui era in contatto Dilanian – aveva chiesto e ottenuto modifiche alla sceneggiatura del film per fare apparire la CIA sotto una luce migliore. La corrispondenza di Dilanian con la CIA è costellata anche di espressioni che rivelano la familiarità dei rapporti tra le due parti e l’entusiasmo con cui il giornalista sottoponeva il proprio lavoro all’esame dell’intelligence americana.

Raggiunto da Greenwald per commentare i suoi legami con la CIA, Ken Dilanian ha definito la condivisione dei suoi articoli con l’agenzia prima della pubblicazione - cosa che, inoltre, andava contro il codice di autoregolamentazione interno alla redazione del Los Angeles Times - soltanto come una “pessima idea”.

La condotta di Dilanian e il suo minimizzare le rivelazioni di The Intercept testimoniano di un’evoluzione del ruolo della stampa ufficiale negli Stati Uniti specifico di questi ultimi anni. In particolare, il clima venutosi a creare dopo l’11 settembre 2001 ha determinato una sorta di rapporto di simbiosi tra la stampa “manistream” e il governo di Washington, all’interno del quale le notizie da pubblicare devono passare attraverso una vera e propria censura o, sempre più spesso, auto-censura.

In questo scenario, il diritto del pubblico all’informazione viene subordinato alle necessità della sicurezza nazionale con conseguenze catastrofiche per la libertà di stampa. I media principali, ormai in mano a grandi corporations e diretti da multimilionari, si dimostrano peraltro perfettamente a loro agio in questa realtà.

Il New York Times, solo per citare una pubblicazione ritenuta tra le più prestigiose, nell’America del post-11 settembre aveva ad esempio rimandato la pubblicazione della notizia dell’autorizzazione da parte dell’amministrazione Bush di un programma di intercettazione illegale su richiesta della Casa Bianca, così da non compromettere la rielezione del presidente repubblicano nel 2004.

Inoltre, la stessa testata aveva concordato con l’amministrazione Obama la pubblicazione dei documenti riservati del Dipartimento di Stato ottenuti da Wikileaks, mentre l’allora direttore, Bill Keller, si era impegnato in prima persona nell’opera di demolizione dell’immagine di Julian Assange, giungendo inoltre a scrivere in un famigerato editoriale che la libertà di stampa consisteva principalmente nella “libertà di non pubblicare determinate informazioni”, verosimilmente se considerate dannose per il governo.

La condotta di Ken Dilanian non è dunque un’eccezione, visto che la sola indagine di The Intercept ha riscontrato contatti abituali tra la CIA e reporter o editorialisti di altre testate, come Washington Post, New York Times, Wall Street Journal, Fox News e NPR (National Public Radio).

Oltre a discutere del materiale da pubblicare, molti esponenti della carta stampata e dell’informazione digitale vengono frequentemente invitati al quartier generale della CIA per “briefing e altri eventi”, a cui partecipano, assieme ai giornalisti, anche alcuni dei cosiddetti “ombudsmen” di varie testate, la cui figura negli USA, secondo molti, dovrebbe essere garanzia della trasparenza e della qualità dell’informazione.

di Carlo Musilli

Ne parlano da quando hanno memoria, ma stavolta il traguardo è a portata di mano e non serviranno scudi né spade per raggiungerlo. Dopo tre secoli di convivenza forzata con i cugini inglesi, gli scozzesi sono a un passo dall'indipendenza. Secondo un sondaggio realizzato da YouGov per il Sunday Times e pubblicato a meno di due settimane dal referendum del 18 settembre, i secessionisti hanno più che rimontato il gap iniziale e sono ora in vantaggio sugli unionisti, seppur di misura (51 contro 49%).

E' la prima volta che da un'indagine emerge una percentuale a favore della scissione: la stessa fonte ricorda che i divisionisti, dati al 47% appena cinque giorni fa, hanno recuperato in un mese un distacco di circa 22 punti percentuali. E' vero, un sondaggio non fa primavera, e considerando il margine d'errore statistico oggi siamo al pareggio virtuale. Eppure il clima di assoluta incertezza è più che sufficiente a scatenare  il terrore politico a Londra.

Pur di evitare la débacle, ieri George Osborne, ministro britannico delle Finanze, ha promesso il trasferimento alla Scozia di maggiori poteri in caso di bocciatura della causa indipendentista: "Nei prossimi giorni - ha annunciato Osborne - arriverà un piano di azione che concederà maggiori poteri alla Scozia, più poteri sulle tasse, sulla spesa e sul welfare".

Un'avance subito rispedita al mittente dal primo ministro di Edimburgo, che è anche leader dello Scottish National Party (Snp): "Stanno cercando di corromperci - ha tuonato Alex Salmond - ma non funzionerà, perché non sono più credibili. Ho sempre pensato che potessimo vincere. Ora i sondaggi sono molto incoraggianti".

Stando al Sunday Times, inoltre, la regina Elisabetta II in persona è "preoccupata" per l'esito del referendum. Il timore a Buckingham Palace è che l’eventuale vittoria dei secessionisti dia il via a una crisi costituzionale, minacciando il ruolo della corona al vertice dello Stato scozzese.

Ma al di là delle cariche e delle tradizioni, quali sarebbero le principali conseguenze economiche della divisione? Un primo dubbio riguarda la valuta: la Scozia indipendente continuerebbe a usare la sterlina? Secondo Salmond sì, creando una specie di "Sterlinozona" sul modello dell'Eurozona, oppure in via informale, come si fa con l’euro in Kosovo.

Sul versante dei conti pubblici, è assai complicato ipotizzare come sarebbe spartito il debito. Da alcune simulazioni risulta che, scorporando anche il prodotto interno lordo scozzese, il rapporto debito-Pil del resto del Regno Unito rischierebbe di salire di oltre dieci punti percentuali.

Londra potrebbe ricordare come la Scozia abbia ricevuto trasferimenti dallo Stato centrale che hanno contribuito non poco ad aumentare il debito britannico. Edimburgo, da parte sua, potrebbe chiedere che dalla propria quota di debito vengano scomputate le tasse che il Regno Unito ha raccolto sull’estrazione del petrolio scozzese.

Già, a chi andrebbe il petrolio del Mare del Nord? L’Istituto nazionale della ricerca economica e sociale inglese calcola che alla Scozia indipendente spetterebbe il 91% dei ricavi legati all’oro nero.

La questione sarebbe però sicuramente al centro d'interminabili negoziati, considerando che fino a oggi la maggior parte degli investimenti su pozzi e piattaforme è arrivata dal governo britannico o dal colosso British Petroleoum.

Infine, quelli che secondo The Economist sarebbero i problemi numero uno per una Edimburgo separata da Londra: sanità e pensioni. Poiché i giovani scozzesi emigrano verso l'Inghilterra, nei prossimi anni il rapporto fra lavoratori e pensionati calerà in Scozia, mentre aumenterà in Inghilterra. D'altro canto, per quanto riguarda la salute, uno studio pubblicato dall'Ocse colloca la qualità della vita scozzese fra le ultime tre d’Europa.

Chi pagherà questi conti, se non Londra? Salmond parla di un fondo sovrano che investa sui mercati finanziari, come in Norvegia. E' probabile che su questo punto si giocherà la battaglia per l'ultimo voto.

di Mario Lombardo

La sola durata della visita in Giappone di questa settimana del primo ministro indiano, Narendra Modi, rende a sufficienza l’idea dell’importanza che il governo di estrema destra di Nuova Delhi assegna alle relazioni con il principale alleato degli Stati Uniti in Asia orientale. I cinque giorni trascorsi nel paese del Sol Levante dal leader del partito suprematista indù BJP hanno visto al centro dei colloqui la promozione della partnership strategico-militare e gli inviti al business nipponico a investire in India per rianimare l’economia in grave affanno di quella che viene definita come la più popolosa democrazia del pianeta.

La trasferta di Modi ha inaugurato un mese di frenetiche attività diplomatiche per il capo del governo indiano, il quale giovedì e venerdì ospiterà a Delhi il proprio omologo australiano, Tony Abbott, prima di ricevere il presidente cinese, Xi Jinping, a metà settembre. In seguito, per chiudere la serie di vertici con tutte le principali potenze coinvolte nella rivalità strategica in Estremo Oriente tra Washington e Pechino, Modi volerà per la prima volta negli Stati Uniti, dove incontrerà Barack Obama alla Casa Bianca.

Sul fronte dei rapporti economici, Modi si sarebbe garantito accordi per 35 miliardi di dollari in investimenti giapponesi per progetti di sviluppo e infrastrutture da realizzare in India nei prossimi cinque anni. Per quanto riguarda gli scambi commerciali, nello stesso periodo di tempo i due paesi si sono impegnati a raggiungere i 50 miliardi di dollari rispetto ai 16 miliardi attuali.

Modi ha garantito alle compagnie giapponesi un trattamento particolare in India, a cominciare dalla creazione di un apposito team con l’incarico di gestire le proposte di investimento nipponiche, di cui faranno parte anche due membri scelti da Tokyo.

Secondo il Times of India, il governo di Shinzo Abe avrebbe assicurato il proprio supporto a praticamente tutti i progetti presentati da Modi, tra cui la costruzione di un treno ad alta velocità sul modello di quelli giapponesi. L’intero panorama dei media indiani ha espresso perciò estrema soddisfazione per il viaggio in Giappone del primo ministro, pressoché universalmente definito un successo.

Se le questioni economiche hanno avuto un ruolo significativo durante il vertice indo-giapponese, soprattutto perché servono a Modi e al BJP al potere per offrire qualche risultato dopo il successo elettorale e le promesse di far ripartire il gigante asiatico, forse ancora più importanti sono però le implicazioni strategiche della visita terminata mercoledì.

I due leader hanno evitato di fare alcun riferimento pubblico alla Cina ma la partnership annunciata trionfalmente al mondo da Tokyo non può che essere inserita nell’ambito delle rivalità che attraversano il continente. India e Giappone sono d’altra parte i due pilastri sui quali si basa la strategia statunitense di accerchiamento della Cina. Se Tokyo è ormai al centro di un’alleanza consolidata, il rapporto con Delhi è ancora da definire del tutto per Washington, visto che la leadership indiana sembra spesso voler mantenere la propria tradizionale autonomia in politica estera ed evitare di incrinare eccessivamente le relazioni con il vicino cinese.

Per questa ragione, l’entusiasmo con cui Modi ha mostrato di volere promuovere la partnership con il Giappone indica la disposizione del governo indiano quanto meno a valutare seriamente un possibile allineamento in maniera più chiara agli interessi degli USA nel continente.

Allo stesso modo, il valore dell’India per il Giappone è difficile da sopravvalutare, in particolare in un frangente che vede Tokyo e Pechino ai ferri corti per le dispute territoriali nel Mare Cinese Orientale. Lo stesso Giappone si trova poi in una situazione economica tutt’altro che entusiasmante, così che i suoi leader vedono importanti opportunità in India, un paese da sfruttare anche come serbatoio di manodopera a bassissimo costo in alternativa proprio alla Cina.

Nel quadro di un rafforzamento dell’alleanza trilaterale – USA, India, Giappone – in funzione anti-cinese, anche i rapporti militari hanno avuto un’attenzione particolare nel corso del summit di questa settimana.

Al di là dell’ottimismo e della fiducia mostrate pubblicamente, tuttavia, in questo ambito rimangono molte riserve, soprattutto da parte indiana. I due capi di governo si sono accordati per esercitazioni navali congiunte e la fornitura di equipaggiamenti militari all’India ma un effettivo ampliamento dei rapporti in relazione alla sicurezza è stato rimandato.

In particolare, Modi ha bocciato l’idea di istituire con Tokyo un formato di cooperazione definito “2+2”, come quello già operativo tra Giappone e Stati Uniti, composto cioè dai rispettivi ministri degli Esteri e della Difesa che dovrebbero incontrarsi regolarmente a scadenze fissate per stabilire alcuni capisaldi della condotta strategica dei due paesi.

Un altro mancato accordo tra Abe e Modi è stato inoltre quello sul nucleare civile. L’India, in questo caso, non ha ottenuto come sperava il consenso del Giappone alla firma di un accordo di fornitura di tecnologia nucleare a scopi civili, con il premier nipponico che ha solo promesso ulteriori negoziati per definire la questione.

Essendo uno dei paesi che non hanno sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione e disponendo di armi nucleari, l’India sarebbe teoricamente esclusa dal mercato del nucleare civile, anche se alcuni paesi, a cominciare dagli USA e, come annunciato proprio in questi giorni, l’Australia, hanno ugualmente siglato accordi di questo genere con l’obiettivo di rinsaldare le proprie relazioni strategiche con Delhi.

Nonostante i segnali lanciati apertamente dal premier Modi in Giappone circa la propria disponibilità ad abbracciare senza riserve l’alleanza strategica guidata dagli USA in Asia orientale, la classe dirigente indiana rimane divisa circa l’orientamento da dare alla politica estera del proprio paese.

La questione fondamentale nella presa in considerazione di un eventuale allineamento agli interessi strategici di Washington e Tokyo verte in definitiva attorno all’opportunità di inimicarsi un vicino importante come la Cina, con la quale l’India ha scambiato più di 66 miliardi di dollari di beni nel 2012 e con cui condivide una linea di confine lunga 3 mila chilometri.

A Pechino, infine, le reazioni spazientite all’annunciato rafforzamento delle relazioni tra India e Giappone sono state affidate sostanzialmente ai giornali controllati dal regime. Questi ultimi hanno invitato gli indiani a non trascurare l’importanza dei rapporti con la Cina e il governo Abe ad astenersi dal proseguire sulla strada delle provocazioni.

Da parte cinese, in ogni caso, le contromosse per ostacolare il solidificarsi della partnership trilaterale tra USA, India e Giappone sono ben note e consisteranno ancora una volta in incentivi soprattutto economici. La prossima visita a Delhi del presidente Xi, infatti, si annuncia già ricca di proposte per progetti di sviluppo e cooperazione a cui il governo Modi e un’India in piena stagnazione difficilmente potranno resistere.


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