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di Michele Paris
Un nuovo round di negoziati sul nucleare iraniano è andato in scena questa settimana a Ginevra senza particolari progressi, nonostante le crescenti pressioni per raggiungere un accordo definitivo entro la scadenza fissata per il 20 luglio prossimo. Mentre da Teheran cominciano a circolare le richieste di un prolungamento di sei mesi dell’accordo ad interim siglato lo scorso novembre, le prospettive per una soluzione positiva all’annosa questione sembrano tutt’altro che rosee.
Ciò a causa principalmente della rigidità mostrata dagli Stati Uniti e dai loro alleati circa la necesità di ridurre in maniera drastica le capacità di arricchimento dell’uranio da parte della Repubblica Islamica.
Dopo l’ultimo summit tenuto a Vienna alla metà di maggio, i giorni scorsi hanno visto un valzer di incontri tra le varie delegazioni impegnate nelle trattative. Lunedì pomeriggio, per cominciare, gli iraniani hanno trascorso cinque ore nella stessa stanza con i rappresentanti di Stati Uniti e Unione Europea, mentre il giorno successivo è andato in scena un incontro bilaterale con gli americani, guidati dal vice-segretario di Stato William J. Burns, già protagonista dei colloqui segreti dello scorso anno con la Repubblica Islamica che portarono all’accordo provvisorio entrato in vigore a gennaio.
Separatamente, nella giornata di mercoledì la delegazione iraniana ha poi visto quella francese, mentre il capo degli inviati di Teheran, il viceministro degli Esteri, Abbas Araqchi, ha incontrato la sua controparte russa, Sergei Ryabkov, sempre mercoledì a Roma. Sabato, infine, il capo-delegazione della Germania presso il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), Hans Dieter Lucas, si recherà nella capitale iraniana per ulteriori colloqui.
Le discussioni di questi giorni dovrebbero servire a preparare il terreno per il nuovo incontro tra l’Iran e i P5+1, previsto a Vienna tra lunedì e venerdì della prossima settimana, quando risulterà ancora più chiaro se rimangano speranze residue per mandare in porto un accordo definitivo entro il 20 di luglio.
Nonostante gli iraniani abbiano definito costruttivi i più recenti colloqui, l’impasse appare ormai evidente. Lo stesso ministro dgli Esteri, Mohammad Javad Zarif, sul suo account Twitter ha chiarito quale sia il punto centrale dello scontro, vale a dire le restrizioni che soprattutto i paesi occidentali - nonché Israele - vorrebbero imporre al numero di centrifughe utilizzate dall’Iran per l’arricchimento dell’uranio.
Teheran dispone attualmente di circa 19 mila centrifughe, di cui poco più della metà in funzione. Mentre il governo iraniano sostiene di avere bisogno di almeno altre 10 mila centrifughe per produrre l’uranio arricchito necessario a fare funzionare le centrali nucleari pianificate, l’Occidente vorrebbe lasciarne attive soltanto alcune centinaia, ufficialmente per il timore che si renda disponibile una quantità di uranio arricchito sufficiente ad essere convertito ad uso militare.
L’intero dibattito ruota cioè attorno al concetto di “breakout”, cioè il periodo di tempo che servirebbe teoricamente all’Iran per arricchire abbastanza uranio al livello necessario per renderlo adatto all’impiego in un singolo ordigno nucleare.
Se la questione appare di cruciale importanza, essa è in realtà pressoché interamente un’invenzione degli Stati Uniti e dei loro alleati, poiché si basa su premesse fabbricate ad arte, così da creare un comodo pretesto per esercitare pressioni sull’Iran e ottenere concessioni sempre più gravose.Come ha spiegato il giornalista investigativo americano Gareth Porter, in un’approfondita analisi uscita qualche giorno fa sul settimanale The Nation, l’amministrazione Obama ha ereditato, senza metterlo in discussione, il concetto di “breakout” dall’amministrazione Bush, la cui posizione si fondava sulla falsa premessa dell’esistenza di un precedente programma nucleare militare segreto della Repubblica Islamica.
In altre parole, secondo Porter, l’attuale richiesta fatta all’Iran di abbattere sensibilmente il numero di centrifughe “non si basa su un’analisi obiettiva del programma nucleare” di Teheran, ma ha al contrario delle implicazioni di natura interamente politica.
Poiché l’Iran sostiene da tempo che per alimentare il proprio programma nucleare civile sono necessarie migliaia di centrifughe, è inevitabile che la richiesta americana di ridurne il numero a poche centinaia continuerà ad essere fermamente respinta.
In un’intervista rilasciata la scorsa settimana allo stesso Porter, il ministro iraniano Zarif aveva spiegato che il suo paese, oltre a rassicurare i P5+1 circa l’assenza di interesse nel perseguire la capacità di “breakout”, intendeva proporre la conversione immediata dell’uranio ad un basso livello di arricchimento in una forma tale da renderne praticamente impossibile l’uso a scopi militari, trasformandolo poi in combustibile per reattori nucleari.
Con un’attitudine che rivela tutta la doppiezza americana, l’amministrazione Obama continua però a sostenere che l’Iran non ha bisogno di produrre da sé il combustibile per le centrali nucleari che intende costruire. Teheran, bensì, potrebbe contare sulle forniture di altri paesi, come Russia o Francia.
Negli ultimi decenni, tuttavia, questi stessi paesi con cui l’Iran aveva firmato accordi per la fornitura di combustibile nucleare si sono tirati indietro proprio a causa delle pressioni americane, convincendo la Repubblica Islamica della necessità di sviluppare internamente un programma di arricchimento dell’uranio.
Queste limitazioni che si vorrebbe imporre all’Iran, nonostante il paese mediorientale sia firmatario del Trattato di Non Proliferazione, continuano ad essere motivate in primo luogo dalla presunta esistenza di un programma nucleare militare segreto attivo almeno fino al 2003. Visto che le autorità di Teheran avrebbero tenuto nascosti i test eseguiti, gli USA e i loro alleati sostengono che esse siano ora inaffidabili e non debbano essere garantite loro nemmeno le capacità teoriche di produrre un solo ordigno.
Come ricorda Porter, questa tesi è accettata interamente sia dall’apparato della sicurezza nazionale americano sia dalla stampa ufficiale, i quali per rafforzare la propria posizione si riferiscono puntualmente a due serie di più che discutibili documenti di intelligence diffusi dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) che rappresenterebbero la prova dell’esistenza di un programma nucleare militare condotto dalla Repubblica Islamica.
Alcuni di questi documenti erano apparsi nel 2004 e, secondo la versione ufficiale, provenivano dal computer di uno scienziato iraniano che lavorava al programma nucleare. Secondo l’intelligence americana e, successivamente, l’AIEA, i documenti erano autentici, anche se gli schemi che apparivano in essi descrivevano un tipo di veicolo di rientro dei missili iraniani Shahab-3 che era stato abbandonato da Teheran nel 2000, cioè due anni prima della presunta stesura dei documenti stessi.
A questo proposito, il giornalista americano cita la testimonianza di un importante ex funzionario del ministero degli Esteri tedesco, Karsten Voigt, il quale ha rivelato che i documenti in questione erano stati consegnati ai servizi segreti tedeschi dall’organizzazione terroristica iraniana Mujahedin-e-Khalq (MEK), la quale si batte con metodi violenti contro il regime della Repubblica Islamica fin dai primi anni Ottanta.Secondo Voigt, un veterano dell’intelligence tedesca aveva espresso seri dubbi sulla fonte dei documenti e gravi preoccupazioni circa l’intenzione dell’amministrazione Bush di basare la propria politica nei confronti dell’Iran proprio su di essi. Tanto più che gli stessi documenti originavano con ogni probabilità dai servizi segreti di Israele, i quali a loro volta tra il 2008 e il 2009 avrebbero fornito all’AIEA una serie di rapporti altrettanto improbabili che mostravano come l’Iran aveva proseguito i test su ordigni nucleari anche dopo il 2003.
Su questo materiale aveva manifestato estremo scetticismo l’allora direttore generale dell’AIEA, l’egiziano Mohamed ElBaradei, ma, dopo che quest’ultimo venne sostituito a fine 2009 dal ben più docile giapponese Yukia Amano, l’agenzia pubblicò un nuovo rapporto basato proprio sui documenti israeliani, accusando l’Iran di avere proseguito dopo il 2003 le ricerche finalizzate alla costruzione di armi nucleari.
Simili premesse, fatte proprie dagli Stati Uniti, finiscono dunque per dare per scontato che, almeno nel recente passato, l’Iran abbia cercato assiduamente di costruire armi nucleari, oltretutto in maniera segreta. In questo modo, l’atmosfera venutasi a creare in Occidente attorno al programma di Teheran proietta inevitabilmente un’ombra minacciosa sull’esito dei negoziati in corso. Infatti, secondo Washington, Parigi o Tel Aviv, i precedenti iraniani impongono che questo paese venga privato anche della capacità soltanto teorica di acquisire un ordigno atomico.
Che le intenzioni delle autorità della Repubblica Islamica non siano affatto queste, tuttavia, è stato confermato già in molte occasioni, a cominciare ad esempio dalla “fatwa” emanata dal leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, contro la creazione di armi di distruzione di massa. Con essa, Khamenei ribadiva l’ordine del suo predecessore, ayatollah Ruhollah Khomeini, emesso negli anni Ottanta in piena guerra con un Iraq che stava utilizzando armi chimiche contro gli iraniani.
Come fa notare Gareth Porter, inoltre, durante la presidenza Ahmadinejad la combinazione di retorica nazionalista e anti-occidentale, assenza di negoziati e di sanzioni internazionali così stringenti come quelle approvate successivamente avrebbe potuto facilmente spingere l’Iran a raggiungere la capacità di “breakout” se ciò fosse stato nei programmi dei suoi leader.
Al contrario, tra il 2010 e il 2012, l’Iran si è mosso nella direzione opposta, usando meno della metà delle proprie centrifughe e convertendo l’uranio arricchito in forma inutilizzabile a scopi militari, indicando chiaramente il proposito di evitare provocazioni e un controproducente clima di scontro con gli Stati Uniti e l’Occidente.
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di Michele Paris
La situazione critica in cui versa ormai da tempo l’Iraq si è ulteriormente aggravata in seguito alla caduta della seconda città del paese, Mosul, e di Tikrit, città natale di Saddam Hussein, ora nelle mani di un guppo integralista sunnita dopo alcuni giorni di scontri con le forze armate di Baghdad. I ribelli jihadisti protagonisti dell’operazione fanno parte del cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), già impegnato nel conflitto con il regime di Bashar al-Assad e ora sempre più vicino all’obiettivo di creare un califfato sunnita ultra-reazionario nel territorio di confine tra i due paesi a cui fa riferimento il nome del gruppo stesso.
Tra martedì e mercoledì l’occupazione degli edifici strategici delle due città dell’Iraq settentrionale, capitali rispettivamente delle province di Ninive e Saladin, ha già costretto più di mezzo milione di abitanti a cercare rifugio nelle località vicine, mentre testimoni e giornalisti hanno raccontato di cadaveri abbandonati per le strade e di soldati che hanno lasciato le loro postazioni permettendo ai militanti di impossessarsi di un vasto arsenale di armi.
Oltre a Mosul e Tikrit, i jihadisti di ISIS sono entrati nella serata di martedì anche nella vicina Baiji, dove avrebbero preso il controllo di una delle più importanti raffinerie di petrolio dell’Iraq, in grado di processare 300 mila barili al giorno destinati a Baghdad e alle altre province del paese.
Come già anticipato, la conquista di Mosul, una città di oltre 2 milioni di abitanti a maggioranza sunnita, ha aperto la strada all’unificazione del territorio dove operano, tra l’Iraq e la Siria, le forze affiliate a ISIS. L’organizzazione fondamentalista, guidata dal comandante Bakr al-Baghdadi - in rotta con il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri - controlla ora nel solo Iraq un’area pari alle dimensioni del Portogallo e che ospita circa 3,5 milioni di abitanti.
Dall’assalto a Mosul e Tikrit, inoltre, ISIS ha guadagnato centinaia o forse migliaia di nuovi militanti, liberati dalle carceri delle città, così come ha potuto mettere le mani sui depositi bancari e sulle armi dell’esercito, tra cui centinaia di veicoli corazzati.
La nuova crisi che sta investendo l’Iraq ha gettato nel panico le autorità di Baghdad. Il primo ministro Maliki ha fatto appello al paese per combattere i ribelli, sollecitando il Parlamento a dichiarare lo stato di emergenza che gli assegnerebbe poteri speciali. Alcune misure estreme sembrano inoltre essere allo studio o già intraprese, a conferma sia della disperazione che della debolezza del governo centrale.
Secondo alcuni resoconti giornalistici, ad esempio, il governo avrebbe iniziato la distribuzione di armi ai civili, peraltro del tutto impreparati a fronteggiare una forza estremamente disciplinata e capace di costringere alla fuga un esercito regolare composto da decine di migliaia di uomini.
Il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, ha invece prospettato una collaborazione con le forze armate della regione autonoma curda (Peshmerga), con cui il governo di Baghdad è in rotta di collisione da tempo a causa di una disputa legata al controllo delle risorse petrolifere.
Alcuni ufficiali dei Peshmerga nella giornata di mercoledì hanno affermato che per il momento l’esercito curdo non ha ricevuto richieste di aiuto dal governo di Maliki per combattere i jihadisti a Mosul, ma sul campo ci sarebbero già stati episodi di collaborazione con le forze armate di Baghdad.Il governo centrale continuerà però a incontrare gravi difficoltà nella lotta contro ISIS, i cui guerriglieri mantengono tuttora il controllo dell’intera città di Fallujah e di parte di Ramadi, nella provincia occidentale di Anbar, dopo avere già respinto vari tentativi dell’esercito regolare di riprendere le località perdute nel mese di gennaio.
Con la presa di Mosul, in ogni caso, ISIS occupa ora uno snodo stradale importante verso Baghdad, teoricamente facilitando l’avanzata dei propri uomini verso la capitale, e un collegamento vitale per le rotte petrolifere dirette verso le raffinerie nel nord dell’Iraq.
La natura dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria è apparsa evidente soprattutto nel corso del conflitto in quest’ultimo paese, dove l’organizzazione integralista si è distinta per la ferocia con cui sta perseguendo un’agenda settaria contro sciiti, curdi e cristiani. Il fanatismo sunnita dei membri di ISIS ha fatto registrare un numero altissimo di attacchi suicidi, esecuzioni e torture, nonché violenti scontri anche con gli altri gruppi della galassia dell’opposizione armata anti-Assad.
In particolare, ISIS è stato al centro di una disputa cruenta con il Fronte al-Nusra, risolta solo formalmente dai vertici di al-Qaeda che hanno deciso di riconoscere, tra quelle attive in Siria, soltanto quest’ultima formazione come legittimamente affiliata all’organizzazione fondata da Osama bin Laden.
La crescente influenza di ISIS ha messo in allarme anche gli Stati Uniti, principalmente a causa degli effetti negativi sulla guerra condotta in Siria per la rimozione del regime di Assad. Il ruolo di primo piano svolto da ISIS con metodi sanguinari ha infatti scatenato una serie di scontri fratricidi tra l’opposizione, rendendo più cauta l’amministrazione Obama nell’offrire il proprio sostegno alle forze anti-governative per il timore che gli aiuti militari destinati alle fazioni “moderate” possano finire nelle mani degli estremisti.
Allo stesso modo, Washington sta cercando di contenere lo strapotere di ISIS anche in Iraq. Qui gli Stati Uniti appoggiano il governo del premier Maliki, il quale continua a ricevere ingenti forniture militari dall’alleato d’oltreoceano. Il Dipartimento di Stato americano si è detto “estrememate preoccupato” per gli sviluppi della situazione a Mosul ed ha promesso tutta “l’assistenza necessaria al governo iracheno”, poiché ISIS rappresenta “una minaccia non solo per la stabilità dell’Iraq ma anche per quella dell’intera regione”.
Le reali responsabilità della catastrofe che sta investendo l’Iraq - incluso il dilagare di ISIS - sono comunque da ricercare proprio a Washington. L’invasione totalmente illegale del 2003 ha causato centinaia di migliaia di morti tra la popolazione di questo paese, cui vanno aggiunti milioni di feriti, altrettanti profughi e la distruzione del tessuto sociale ed economico del paese mediorientale.
Nel mettere in atto uno dei più macroscopici crimini di guerra della storia, gli Stati Uniti hanno apertamente alimentato le divisioni settarie dell’Iraq, in modo da abbattere il regime sunnita di Saddam Hussein e sradicare l’establishment baathista dalle strutture dello stato.In questo modo, il risentimento della minoranza sunnita ora emarginata è esploso contro il nuovo governo sciita, creando le condizioni per la diffusione di gruppi legati ad al-Qaeda, del tutto assenti dall’Iraq sotto il regime di Saddam nonostante le menzogne dell’amministrazione Bush. A Mosul come a Falluja, d’altra parte, in molti tra la popolazione di fede sunnita hanno voltato le spalle al governo di Baghdad, appoggiando le forze fondamentaliste, sia pure in maniera riluttante e per puro opportunismo.
Il nuovo fronte di guerra aperto in Iraq, infine, non fa che aggravare un bilancio a dir poco drammatico della crisi umanitaria in atto a due anni e mezzo dall’uscita di scena delle forze di occupazione americane. Le divisioni settarie interne sfruttate dalle élites politiche e la sconsiderata campagna dell’Occidente e delle dittature del Golfo Persico in Siria a sostegno dell’opposizione armata, hanno provocato un’ulteriore devastazione dell’Iraq in questi ultimi anni.
Il 2013, ad esempio, è stato l’anno con il maggior numero di vittime a partire dal periodo più buio dell’occupazione USA, tra il 2006 e il 2007. L’aggravamento della situazione è confermato poi dal fatto che il mese di maggio appena trascorso è risultato il più sanguinoso dall’inizio dell’anno, con 799 iracheni uccisi dalle violenze settarie, di cui oltre 600 civili.
Solo nei giorni precedenti la caduta di Mosul e Tikrit, poi, in varie città del paese si era assistito ad attentati devastanti con decine di morti, tra l’altro, a Baghdad, Ramadi e Samara, tutti o quasi rivendicati proprio dallo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.
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di Mario Lombardo
Con un seguito di oltre 100 uomini d’affari e di 7 ministri del suo governo, il presidente iraniano Hassan Rouhani è stato protagonista questa settimana di un’attesa visita in Turchia, dove un leader della Repubblica Islamica non metteva piede da ben 18 anni. I temi all’ordine del giorno sono stati molteplici tra i due vicini spesso attestati su posizioni divergenti in relazione ad alcune delle questioni mediorientali più importanti, con un’attenzione particolare agli scambi commerciali, alle politiche energetiche e alla persistente crisi siriana.
Il presidente “riformista” dell’Iran è sbarcato ad Ankara nella giornata di lunedì ed ha trascorso due giorni in Turchia, dove ha incontrato sia il presidente, Abdullah Gül, sia il primo ministro, Recep Tayyip Erdogan. La visita ha seguito quella di quest’ultimo lo scorso gennaio a Teheran, durante la quale era stato firmato un accordo di commercio preferenziale per la riduzione delle tariffe doganali negli scambi di merci tra i due paesi.
Durante la visita di Rouhani sono stati siglati una decina di nuovi accordi culturali ed economici, in particolare nel settore delle costruzioni e a favore di aziende turche che opereranno in Iran, con l’obiettivo di raddoppiare il volume degli scambi bilaterali, da poco meno di 15 miliardi di dollari nel 2013 a 30 miliardi nel 2015, sempre che - come ha affermato il ministro per lo Sviluppo di Ankara, Cevdet Yilmaz - vengano eliminate le “ingiuste” sanzioni economiche che pesano sulla Repubblica Islamica.
Le relazioni commerciali tra i due paesi, in realtà, erano già vicine a questo traguardo nel 2012, quando la Turchia aveva deciso di aggirare le sanzioni americane contro Teheran pagando le importazioni di gas naturale in oro. Quando però gli Stati Uniti hanno approvato nuove misure punitive per impedire anche gli scambi di metalli preziosi con l’Iran, il volume dei traffici bilaterali si è quasi dimezzato.
I colloqui di questa settimana sono serviti anche per cercare di risolvere una diatriba legata al prezzo del gas naturale destinato alla Turchia, dopo che Ankara nel 2012 aveva presentato un esposto alla Corte Internazionale di Arbitrato, lamentando l’eccessivo costo delle importazioni dall’Iran rispetto alle forniture provenienti dalla Russia o dall’Azerbaijan. La questione è stata discussa da Rouhani ed Erdogan e, pur non avendo ancora trovato una soluzione, i due leader hanno dato istruzione ai rispettivi ministri competenti di proseguire le trattative per giungere ad un esito condiviso.
La Turchia importa attualmente già 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale dall’Iran ma un eventuale superamento della disputa in corso potrebbe anche in questo caso far raddoppiare le forniture. Uno dei punti centrali del programma di governo di Rouhani è d’altra parte l’aumento delle esportazioni delle risorse energetiche iraniane, tuttora limitate dalle sanzioni internazionali.Per la Turchia, invece, come ha ricordato lunedì l’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar sulla testata on line Asia Times, la partnership con Teheran in questo settore contribuisce a soddisfare le ambizioni di trasformare il paese in un “hub” delle esportazioni di gas dall’Iran verso l’Europa una volta che le relazioni con l’Occidente saranno normalizzate.
In previsione proprio del propabile reintegro della Repubblica Islamica nei circuiti del capitalismo internazionale, il business turco e il governo Erdogan intendono costruirsi una posizione privilegiata, così da avvantaggiarsi nei confronti di paesi e compagnie concorrenti nel momento in cui dovesse scattare la competizione per un mercato con enormi potenzialità.
Gli interessi economici di entrambi i paesi sembrano dunque prevalere sulle differenti posizioni assunte dai due governi attorno a svariate questioni. In relazione alla Siria, in particolare, Turchia e Iran si ritrovano a sostenere le due parti in causa nel conflitto. Erdogan, pur avendo abbassato i toni negli ultimi mesi alla luce dell’evidente fallimento della propria politica siriana, rimane uno dei più convinti sostenitori dell’opposizione che si batte contro Bashar al-Assad. L’Iran, al contrario, è il principale alleato del regime alauita (sciita).
Le divergenze riguardano anche l’Iraq, il cui primo ministro sciita, Nouri al-Maliki, è sostenuto da Teheran ed ha accusato più volte la Turchia di essersi intromessa negli affari interni del proprio paese. Soprattutto, Baghdad vede con estremo sospetto l’appoggio di Ankara al governo semi-autonomo curdo in Iraq, con il quale Erdogan ha siglato un accordo di fornitura di petrolio contro il volere delle autorità centrali.
Allo stesso tempo, il governo islamista dell’AKP, come l’Iran, desidera però che l’Iraq mantenga l’integrità territoriale, anche perché l’eventuale indipendenza del Kurdistan iracheno potrebbe avere conseguenze destabilizzanti sulla stessa Turchia, vista la considerevole e inquieta minoranza curda che vive entro i propri confini.A spingere verso un riavvicinamento tra Iran e Turchia è, più in generale, anche il sostanziale naufragio delle ambizioni di leadership in Medio Oriente nutrite dal governo Erdogan, di fatto frantumatesi con il mancato rovesciamento di Assad a Damasco e con la fine dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Gli iraniani, inoltre, nonostante le differenze apprezzano il riconoscimento da parte della Turchia del diritto allo sviluppo del proprio controverso programma nucleare a fini pacifici, sottolineato, tra l’altro, sia dalle recenti critiche del governo di Ankara verso le sanzioni americane sia dalla bozza di accordo proposta nel 2010 dal governo turco assieme a quello del Brasile per la risoluzione di uno stallo che prosegue tuttora con la comunità internazionale.
Non caso, forse, la visita di Rouhani in Turchia, che segna - secondo le parole dello stesso presidente iraniano - un “punto di svolta” nelle relazioni tra i due paesi e contribuisce al processo di normalizzazione delle relazioni internazionali della Repubblica Islamica, è coincisa con il nuovo round di negoziati sul nucleare andato in scena a Ginevra, definiti dalla delegazione di Teheran “positivi e costruttivi”, nonostante appaia sempre più probabile che per trovare un accordo definitivo saranno necessari altri sei mesi in aggiunta a quelli che scadono il 20 luglio prossimo.
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di Fabrizio Casari
Con una iniziativa di assoluto valore etico e politico, 37 parlamentari italiani hanno firmato una lettera rivolta al Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, per chiedergli di liberare Gerardo Hernandez, Ramon Labanino e Antonio Guerrero, i tre antiterroristi cubani ancora detenuti negli USA per aver esercitato attività investigativa in difesa di Cuba.
Primo firmatario il Senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione Straordinaria per la tutela e la difesa dei diritti umani, i 37 deputati e senatori autori della missiva compongono l’Intergruppo parlamentare, formatosi su iniziativa meritoria della senatrice del PD Daniela Valentini.
La rappresentante dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, avvocato Tecla Faranda, attualmente a Washington per le "giornate di solidarietà" con la causa dei cubani, ha consegnato la lettera durante gli incontri tra la delegazione internazionale di parlamentari, giuristi e intellettuali con i congressisti statunitensi.
Un gesto, quello dei 37 deputati e senatori, che rompe il velo di silenzio che in Italia avvolge la vicenda paradossale di questi uomini incarcerati per aver combattuto il terrorismo ma che, com’era da aspettarsi, non trova l’interesse dei media nostrani, intruppati ideologicamente nelle fila ordinate dell’impero a stelle e strisce. Si sommano così ai parlamentari di Gran Bretagna, Germania, Brasile, Messico, Belgio, Cile, Panama, Scozia, Giappone e tanti altri ancora che hanno chiesto con atti parlamentari la liberazione dei tre cubani ancora prigionieri.
Nel nostro Paese si deve dare merito alla tenacia dell’Associazione Italia-Cuba e di tutti coloro che hanno voluto alzare la voce contro questa ignobile vicenda di abuso giudiziario, se le migliori firme della cultura italiana hanno aderito alla campagna per la loro liberazione. E l’iniziativa dei 37 parlamentari interrompe il silenzio apatico - quando non complice - delle nostre istituzioni.
Un silenzio voluto in alcuni casi, conseguenza del provincialismo tutto italiano che fa dedicare montagne di pagine agli spifferi d'ogni politicante e tace su ciò che è dotato di rilievo più ampio. Eppure la vicenda, sotto ogni punto di vista, poteva e può considerarsi enorme; sia per gli aspetti politici, sia per quanto attiene alla mostruosità giuridica del caso, sia anche per la dimostrazione della mancanza totale d’indipendenza della magistratura statunitense nei confronti della Casa Bianca. Dal punto di vista strettamente giornalistico la storia avrebbe avuto innumerevoli spunti di riflessione e di denuncia e ben avrebbe meritato inchieste invece mai nemmeno iniziate, mentre sono stati scanditi uno ad uno sedici anni di silenzi.
Gerardo Hernandez, Ramon Labanino, René Gonzalez, Fernando Gonzalez e Antonio Guerrero erano agenti dei servizi segreti dell'Avana impegnati in attività antiterroristiche. Fornirono al loro governo documentazioni precise su quanto avveniva a Miami. Cuba, nella convinzione che la guerra al terrorismo fosse diventata davvero una priorità per gli Stati Uniti, consegnò ad alti funzionari del FBI un lungo e dettagliato dossier sulle attività terroristiche anticubane organizzate in Florida.
Iniziativa pagata cara, forse con la speranza che le relazioni bilaterali Cuba-USA potessero segnare una discontinuità positiva in materia di lotta al terrorismo. L'FBI, preso atto della documentazione fornitagli, agì immediatamente: lasciò liberi i terroristi e arrestò gli antiterroristi. Era il 12 settembre 1998 e cominciava la storia pubblica dei cinque eroi cubani.
Vennero accusati con 26 capi d'imputazione relativi ad altrettante violazioni delle leggi federali USA. Ventiquattro di queste di ordine tecnico (dalla falsificazione di documenti alla mancata registrazione come agenti di servizi segreti stranieri) e, tutto sommato, lievi. Non c’erano accuse di porto abusivo di armi, né di atti violenti contro persone o cose. Eppure le condanne sono state abnormi.I cinque agenti cubani si trovavano negli Stati Uniti per infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche cubano-americane stanziate in Florida. Queste, che agiscono con la copertura ed il sostegno delle autorità federali della Florida e l'appoggio politico della Casa Bianca, sono responsabili di innumerevoli attentati ed assassinii di funzionari del governo cubano e cittadini dell'isola. Sono altresì responsabili di sequestri di aerei, navi ed attentati ad installazioni cubane dentro e fuori l'isola. I loro affiliati, coordinati e finanziati sia dalla CIA che dalla FNCA, la Fondazione Nazionale Cubano Americana, sono liberi.
Non hanno subito mai nessun tipo di condanna per le loro azioni criminali e la loro cospirazione ai danni di un paese straniero, e godono della totale impunità da parte del governo statunitense, che gli permette persino di addestrarsi apertamente alla guerriglia nelle everglades della Florida. Sono la mano d’opera sporca per ogni operazione della Cia in America Latina, dunque vengono considerati patrimonio delle covert actions che dal Canada alla Terra del Fuoco gli Stati Uniti programmano e realizzano a difesa dei loro interessi.
La storia della Rivoluzione cubana s'intreccia purtroppo di continuo con quella del terrorismo diretto e organizzato negli USA contro di lei; un terrorismo che dal 1959 ha prodotto una invasione militare (fallita), 3478 morti, 2099 feriti, 294 tentativi di dirottamenti marittimi ed aerei, 697 atti terroristici, 600 tentativi di assassinio del suo leader, 1821 miliardi di dollari di danni diretti e dimostrati procurati all'economia dell'isola. Il lavoro dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti aveva almeno impedito 44 attentati ulteriori attentati, salvando la vita a chissà quante persone. Se fossero stati cittadini statunitensi avrebbero ricevuto una medaglia e centinaia di reportages, ma sono cubani e dunque vanno in galera e sotto silenzio assoluto.
Il processo, svoltosi in Florida, durò sette mesi, un record per i processi penali statunitensi. La difesa presentò più di 70 testimoni a favore, tra i quali due generali dell'esercito, un ammiraglio ora in pensione, ed un ex assistente presidenziale. Lo stesso Pubblico Ministero ammise che non venne trovato ai cinque nemmeno un foglio contenente informazioni riservate destinate alla sicurezza nazionale. Ciò nonostante, l'accusa fu quella di spionaggio.
Vennero accusati del tentativo di carpire segreti militari agli USA e di attività contro la sicurezza nazionale. Ma il loro compito era quello, esclusivo, d'infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche cubano-americane e, quindi, nulla aveva a che vedere con lo spionaggio antistatunitense. Risulta perciò paradossale (o illuminante, dipende dai punti di vista) che proprio questa attività investigativa sia stata considerata dal tribunale una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Perché indagare sui terroristi diventa minacciare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti?
Più che le accuse nei confronti degli antiterroristi cubani, dalla loro vicenda emerge una verità storica e politica che surclassa quella della farsa processuale: i cinque cubani non furono condannati per violazione delle leggi degli Stati Uniti, ma per aver scoperto quelli che, sì, le vìolano. Si sono infiltrati in una rete terroristica che, per il fatto di poter essere infiltrata, evidentemente esiste e non è inviolabile. Se si vuole.
La detenzione dei cinque cubani, come la sentenza di condanna, è stata molto al di sotto degli standard minimi di decenza. In barba alla tanto osannata indipendenza dei media verso il potere, giornali e Tv statunitensi decisero di oscurare completamente la vicenda, che per la loro assurdità e per il suo valore simbolico avrebbe potuto creare danni notevoli alla retorica della leadership statunitense.
Ma la sabbia sotto la quale hanno tentato di nascondere la vergogna dell’operazione non ha impedito a Cuba e a quanti, fuori da Cuba, si sono impegnati nella denuncia delle violazioni dei diritti umani, di sollevare il caso e imporlo all’attenzione internazionale.Anche grazie alla mobilitazione di una rete di solidarietà internazionale, alla quale hanno aderito intellettuali, artisti, giuristi, personaggi della cultura e della politica di tanti paesi, ben dieci Premi Nobel e Amnesty International, il 27 Maggio del 2005, il Gruppo di Lavoro sulle Detenzioni Arbitrarie della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU, dichiarò "arbitraria" la loro detenzione e chiese al governo USA di adottare immediate misure per risolvere la situazione.
Oggi, quando Renè e Fernando Gonzalez sono di nuovo a Cuba, dopo aver scontato la loro condanna, Antonio, Ramon e Gerardo sono ancora prigionieri. In numerose occasioni Cuba ha fatto presente che si potrebbe aprire una trattativa bilaterale che porti alla loro liberazione in cambio di quella di Alan Gross, spia statunitense sotto copertura della NED, arrestato a L’Avana per spionaggio nel 2009 e condannato a 15 anni di prigione.
Da Washington non arrivano segnali di disponibilità, per ora rifiutano l’idea di dover trattare con L’Avana; eppure, solo pochi giorni orsono, con i Talebani hanno scambiato un soldato statunitense con quattro jahidisti detenuti a Guantanamo. Ai Talebani evidentemente la Casa Bianca riconosce una possibilità d’interlocuzione che invece nega a Cuba.
Sul piano giuridico formale lo scambio potrebbe essere semplice e rapido. Obama dispone della facoltà di usare il “perdono presidenziale” per i condannati in via definitiva e rilasciare i tre cubani detenuti ingiustamente avrebbe come effetto immediato il ritorno a casa di Alan Gross. Si chiuderebbe in questo modo una vicenda vergognosa per la giustizia statunitense e potrebbe aprirsi uno spiraglio nelle relazioni tra Washington e L’Avana.
Gli avvenimenti recenti, però, nonostante la reiterata disponibilità di Cuba ad avviare una nuova fase nei rapporti con gli USA, non dispongono all’ottimismo. La recente vicenda della multa alla banca francese BNP Paribas, accusata dagli USA di aver effettuato transazioni finanziarie con Cuba e altri paesi presenti nella ridicola lista dei cattivi che Washington stila ogni anno, non sembra indicare un cambio di rotta nella Casa Bianca. Pare semmai che Washington insista nel trasformare le proprie iniziative politiche in giurisprudenza internazionale, estendendo a tutto il mondo le sue leggi interne, a voler ribadire chi governa il mondo.
E nemmeno sul fronte dell’aggressione terroristica sembra potersi proiettare un film diverso da quello degli ultimi 53 anni. Gli arresti del 6 Maggio scorso a L’Avana dei mercenari José Ortega Amador, Obdulio Rodríguez González, Raibel Pacheco Santos y Félix Monzón Álvarez, tutti procedenti da Miami e reo confessi di organizzazione di atti terroristici, indicano che l’attività dei gruppi terroristici della Florida proseguono e che Washington non ha nessuna intenzione di rinunciare all’uso del terrorismo nello scontro politico con l’isola socialista.
Obama o Bush, in questo senso cambia poco: se gli avversari degli Usa diventano automaticamente terroristi e i terroristi amici degli USA vengono definiti "combattenti per la libertà", allora diventa difficile separare lo stretto interesse politico della Casa Bianca dall’ipocrita guerra al terrore planetario.
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di Michele Paris
La minaccia americana di infliggere al colosso bancario francese BNP Paribas una maxi-multa da 10 miliardi di dollari ha scatenato un acceso scontro diplomatico tra Washington e Parigi, emerso in particolare durante il recente incontro tra i presidenti Obama e Hollande a margine del G-7. Una delle più grandi banche del pianeta, BNP, è da tempo nel mirino delle autorità d’oltreoceano per avere processato transazioni finanziarie con paesi colpiti da sanzioni decise dal governo degli Stati Uniti.
Tra il 2002 e il 2009, la banca francese avrebbe cioè aggirato le sanzioni imposte dagli USA contro Sudan, Cuba e Iran, principalmente nascondendo l’identità di coloro che erano coinvolti in trasferimenti di denaro in modo da passare attraverso il sistema finanziario americano senza far scattare l’allarme delle autorità.
I vertici di BNP sono stati protagonisti di trattative con svatiati uffici competenti per giungere ad un accordo, tra cui il Dipartimento di Giustizia e quello del Tesoro di Washington, il procuratore distrettuale di Manhattan e il Dipartimento per i Servizi Finanziari dello stato di New York.
Oltre ai 10 miliardi di multa, la banca potrebbe essere costretta ad ammettere di avere commesso un crimine, aprendo così la strada ad ulteriori denunce. Inoltre, anche se le autorità USA sembrano avere ritirato la più grave minaccia di revocare la licenza per operare negli Stati Uniti, BNP potrebbe vedersi sospendere temporaneamente il permesso di processare transazioni finanziare in dollari americani.
Dal febbraio scorso, quando BNP aveva annunciato di avere accantonato 1,5 miliardi di dollari per far fronte a possibili sanzioni negli Stati Uniti, la banca ha perso il 18% del proprio valore di borsa. L’importo della multa di cui si discute, d’altra parte, ammonterebbe a poco meno del totale delle entrate del 2013, vale a dire 11,2 miliardi di dollari e, per gli analisti, potrebbe trascinare l’istituto in “zona pericolo” in concomitanza con i cosiddetti “stress test” bancari dell’Unione Europea.
I 10 miliardi di dollari che potrebbero essere richiesti a BNP hanno suscitato le ire del management della banca e dello stesso governo francese, visto che altre banche nel recente passato hanno concordato con il governo americano multe nettamente inferiori per avere fatto affari con paesi sulla lista nera di Washington.
Le britanniche HSBC e Standard Chartered, ad esempio, avevano pagato rispettivamente 667 milioni e 1,9 miliardi di dollari, mentre l’olandese ING si era accordata per 619 milioni di dollari. Secondo i giornali finanziari, tuttavia, la rilevanza della sanzione ai danni di BNP sarebbe dettata da svariati fattori, tra cui il numero molto più elevato di transazioni “proibite” gestite rispetto alle altre banche, il coinvolgimento diretto dei massimi vertici dell’istituto e la scarsa collaborazione con le autorità americane mostrata da questi ultimi durante l’indagine.La possibile penalizzazione di BNP Paribas ha spinto molti politici di spicco in Francia a criticare apertamente il governo americano e ad adoperarsi per limitare i danni. Dopo la visita a inizio maggio a New York dell’amministratore delegato, Jean-Laurent Bonnafé, e del governatore della Banca Centrale francese, Christian Noyer, per chiedere clemenza, lo stesso François Hollande ha fatto propria la causa della banca transalpina.
Nell’incontro con Obama settimana scorsa, il presidente socialista ha definito la sanzione da 10 miliardi di dollari “del tutto sproporzionata”, visto che potrebbe avere “conseguenze economiche e finanziarie per tutta l’eurozona”. Della difesa dell’istituto privato si sono fatte carico anche altre importanti personalità francesi, tra cui il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, che in un’intervista radiofonica ha paragonato la sanzione contro BNP ad una “sentenza di morte”, e l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, secondo il quale una maxi-multa potrebbe innescare una reazione a catena colpendo tutto il sistema finanziario europeo.
Ancor più del servilismo mostrato dalla classe politica francese verso uno dei maggiori colossi bancari del pianeta, tuttavia, la vicenda di BNP spicca perché ha fornito una nuova occasione per valutare il modo in cui gli Stati Uniti danno l’impressione di perseguire in maniera imparziale chiunque e qualsiasi compagnia si renda responsabile di attività criminose, al di là della sua posizione o del suo peso economico.
Per cominciare, la risposta di Obama alla supplica di Hollande avrebbe dovuto suscitare lo scherno di qualsiasi giornale o televisione realmente liberi. Il presidente americano ha infatti escluso di potere intervenire nel caso BNP, sostenendo che non è possibile per lui “sollevare il telefono per dire al procuratore generale come gestire la causa”. Per Obama, il sistema americano sarebbe fatto in modo tale da “assicurare che la legge non venga in nessun modo influenza da ragioni di convenienza politica”.
Simili affermazioni sono giunte dal capo di un governo che ha fatto di tutto negli ultimi anni per impedire che un solo dirigente di una sola banca responsabile della colossale crisi finanziaria esplosa nel 2008 venisse messo sotto accusa nonostante la più che ampia evidenza di responsabilità, messe in luce - tra le indagini più autorevoli - da un rapporto del Congresso sul crack di Wall Street nel quale è stato esposto nel dettaglio un sistema quasi interamente basato su attività criminali.
La presunta durezza della giustizia americana, inoltre, continua a riguardare in gran parte banche straniere, tutt’altro che casualmente concorrenti di quelle indigene. Oltre alle già citate HSBC, Standard Chartered e ING, le autorità degli Stati Uniti hanno recentemente negoziato una sanzione da 2,6 miliardi di dollari con l’elvetica Credit Suisse, accusata di avere aiutato ricchi americani ad evadere il fisco nascondendo denaro su conti off-shore. Nessuna di queste banche, oltretutto, è stata perseguita per le attività fraudolente che hanno portato alla rovinosa crisi finanziaria del 2008.Questo giro di vite del governo USA è stato deciso sull’onda delle polemiche piovute sul ministro della Giustizia, Eric Holder, dopo che aveva lasciato intendere che alcuni istituti bancari risultavano troppo grandi per essere incriminati senza creare problemi all’intero sistema finanziario.
L’ipotesi della multa da 10 miliardi di dollari contro BNP, poi, è arrivata anche per dare seguito ad un intervento pubblico di qualche settimana fa dello stesso Holder, nel quale, per smentire le precedenti dichiarazioni, aveva affermato che il suo dipartimento non intende rispariamre nessuna banca di grandi dimensioni.
Alcune banche americane sono state in realtà perseguite ed hanno negoziato sanzioni importanti, anche se sempre tutt’altro che adeguate al livello di criminalità e comunque poco più che irrisorie rispetto ai profitti accumulati. JP Morgan Chase, ad esempio, l’anno scorso ha pagato 13 miliardi di dollari per chiudere una serie di cause civili legate alle truffe dei mutui sub-prime, mentre Bank of America starebbe trattando un accordo con le autorità che potrebbe includere una multa da oltre 10 miliardi. In tutti i casi, comunque, i patteggiamenti hanno escluso l’ammissione di colpa o l’incriminazione dei vertici delle banche.
Le sanzioni così pagate, quindi, sono considerate poco più di una voce di costo necessaria per continuare a fare affari con modalità in larga misura identiche a quelle che hanno causato il tracollo del sistema.
L’incriminazione di banche europee per la violazione di sanzioni imposte da Washington, infine, rappresenta un messaggio inequivocabile agli istituti e ai governi del vecchio continente, proprio mentre il governo USA sta cercando di raccogliere consensi per adottare misure punitive più pesanti contro la Russia.
Qualsiasi banca che dovesse evadere eventuali sanzioni statunitensi, cioè, potrebbe trovarsi esposta al rischio di multe miliardarie come quella minacciata ai danni di BNP Paribas.