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di Mario Lombardo
La commissione del Parlamento europeo per le Libertà Civili (LIBE) ha approvato questa settimana un rapporto sulle attività illegali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), respingendo però contemporaneamente alcuni fondamentali emendamenti legati alla sorte di Edward Snowden. Il rapporto di 60 pagine, preparato dal laburista britannico Claude Moraes e che verrà sottoposto all’attenzione dell’aula il prossimo mese di marzo, ha ottenuto l’approvazione di 33 membri della commissione, mentre 7 hanno espresso parere contrario e 17 sono stati gli astenuti.
Il voto, pur condannando le attività dell’NSA e della sua corrispondente britannica (GCHQ), si è sostanzialmente risolto in un atto di servilismo nei confronti di Washington, rivelando allo stesso tempo la reale attitudine di buona parte della classe dirigente europea verso metodi degni di uno stato di polizia.
In particolare, la commissione ha respinto un emendamento presentato dal gruppo dei Verdi che intendeva chiedere ai paesi membri dell’UE di lasciar cadere eventuali accuse nei confronti di Snowden e di offrire all’ex contractor dell’NSA “protezione contro incriminazioni, estradizione o rendition da parte di paesi terzi”, riconoscendogli inoltre lo status di “whistleblower” (chi cioè, dall’interno di un’agenzia o ufficio governativo, assiste a crimini o malefatte e le rivela al pubblico) e “difensore internazionale dei diritti umani”.
Altre questioni cruciali per i diritti civili che la commissione dovrebbe teoricamente difendere sono state poi vergognosamente lasciate cadere, come l’invito da rivolgere a Washington per concedere un’amnistia a Snowden, cancellando le assurde accuse sollevate formalmente nei suoi confronti di avere violato l’Espionage Act del 1917. Dello stesso nome di Edward Snowden, infine, non è rimasta traccia in tutto il documento finale.
Il portavoce dei Verdi al Parlamento europeo, Jan Philipp Albrecht, ha duramente condannato l’approvazione del rapporto senza gli emendamenti relativi a Snowden, dal momento che soltanto grazie a quest’ultimo i cittadini dell’Europa e del resto del mondo hanno conosciuto il livello di criminalità del governo americano al centro dell’indagine contenuta nel rapporto della commissione per le Libertà Civili.
“Le coraggiose rivelazioni di Edward Snowden - ha affermato il politico tedesco - hanno fornito le basi per questa indagine e il mancato riconoscimento di questo vitale contributo… rappresenta una dimostrazione di vigliaccheria, che si spiega con il desiderio di non offendere gli Stati Uniti”.
I gruppi degli altri partiti di sinistra al Parlamento europeo hanno invece applaudito l’approvazione del rapporto, mettendo comunque in evidenza le mancanze. Una rappresentante del partito tedesco Die Linke ha ad esempio ammesso che “è mancata una reale discussione sull’abuso delle leggi anti-terrorismo e sull’offerta di asilo a Snowden”, così come nessuno ha chiesto la sospensione dei negoziati sul trattato di libero scambio USA-UE né “la revisione dell’intera politica relativa alla sicurezza”.
I voti necessari alla bocciatura degli emendamenti più importanti sono stati assicurati non solo dagli eurodeputati dei partiti conservatori e di centro-destra, ma anche da quelli social democratici.
L’alternativa proposta da questi ultimi e approvata è stata invece una fiacca quanto generica promessa di procedere con “la valutazione della possibilità di garantire protezione internazionale da qualsiasi incriminazione agli whistleblowers”. Nel rapporto viene suggerita inoltre la sospensione dell’accordo sullo SWIFT tra UE e Stati Uniti - grazie al quale Washington ottiene informazioni sui movimenti bancari teoricamente per ragioni di lotta al terrorismo - e di quello denominato “Safe Harbor”, che permette alle compagnie americane di auto-certificare il loro rispetto delle norme europee sulla privacy.
Il voto sul rapporto si è innestato poi sulla discussione in corso riguardante la possibile testimonianza di Snowden proprio di fronte al LIBE tra qualche settimana. Tramite i suoi legali, Snowden ha fatto sapere di essere disponibile ad apparire in video-conferenza ma non di persona se non dopo l’approvazione di misure volte a garantire la sua sicurezza. Contro l’ex contractor della NSA sono giunte infatti nei giorni scorsi aperte minacce di morte da parte di membri dell’apparato della sicurezza nazionale americana.
Contro la testimonianza di Snowden si sono però già espressi chiaramente i gruppi conservatori al Parlamento europeo, mentre lo stesso governo di Washington, come ha fatto per indebolire il rapporto sulle attività della NSA, continua a esercitare forti pressioni perché la questione venga lasciata cadere.
Il comportamento della commissione, in ogni caso, non è stato determinato solo dalle pressioni e dalle minacce degli Stati Uniti - evidenti dai toni aggressivi di alcuni membri del Congresso di Washington in visita al Parlamento europeo lo scorso Dicembre - ma anche e soprattutto dall’intenzione della maggioranza dei suoi membri di utilizzare il rapporto sull’NSA come un’operazione di facciata per dare una qualche risposta alla diffusa ostilità popolare verso i metodi di sorveglianza impiegati dal governo americano.
La decisione di dare uno schiaffo a Snowden e di non riconoscere il suo eroico comportamento è in definitiva tutta europea, cioè di una classe dirigente che, con pochissime eccezioni, condivide largamente il ricorso ai metodi illegali della NSA e del GCHQ britannico, poiché a Berlino, Parigi o Roma non si hanno meno scrupoli che a Washington o a Londra nel calpestare i diritti democratici più fondamentali per difendere gli interessi di una ristretta élite.
Non a caso d’altra parte, come è stato messo in luce sia dalle rivelazioni di Snowden che da svariate testimonianze di “insider” da questa e dall’altra parte dell’oceano nei mesi scorsi, nella gran parte dei casi i programmi illegali di intercettazione della NSA sono stati messi in atto sul territorio europeo con la piena e volenterosa collaborazione delle agenzie di intelligence e dei governi nazionali.
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di Michele Paris
Il secondo round dei colloqui sulla Siria ha preso il via questa settimana a Ginevra in un clima di persistente freddezza tra le due parti che si affrontano da ormai quasi tre anni in un sanguinoso conflitto nel paese mediorientale. Mentre lo sforzo diplomatico continua a far segnare ben pochi progressi a causa soprattutto della rigidità della posizione occidentale e dei “ribelli”, da Washington l’amministrazione Obama è tornata a minacciare l’uso della forza, sia pure in maniera velata, per sbloccare la crisi e forzare il cambio di regime a Damasco.
Dopo avere speso inutilmente la giornata di martedì alla ricerca di un punto di incontro tra il regime, che insiste nel mettere al centro della discussione la lotta al terrorismo in Siria, e i membri della cosiddetta Coalizione Nazionale, intenzionati ad avviare trattative su un governo di transizione senza il presidente Assad, mercoledì il rappresentante delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha fatto un nuovo tentativo con una seconda sessione congiunta.
Inoltre, lo stesso diplomatico algerino ha annunciato di volere anticipare a giovedì un vertice inizialmente previsto per il giorno successivo tra i delegati di Russia e Stati Uniti, nella speranza che i due governi che appoggiano le parti in lotta siano disposti ad esercitare pressioni su queste ultime per individuare quanto meno un punto di partenza per intavolare un qualche dialogo.
I problemi incontrati in queste ore sono dunque sostanzialmente identici a quelli emersi nella prima fase dei negoziati di “Ginevra II”, falliti anche nel raggiungimento dell’obiettivo minimo iniziale prefissato, vale a dire l’attuazione di tregue localizzate per consentire operazioni umanitarie nelle aree del paese sotto assedio.
La successiva decisione del governo siriano di permettere l’ingresso degli aiuti nella città di Homs, invece, ha avuto finora un parziale successo, con qualche centinaia di civili evacuati e altri ancora intrappolati dopo alcuni episodi di violenza che nei giorni scorsi avevano ostacolato le operazioni.
Le difficoltà trovate a Homs hanno subito provocato le accuse dei governi occidentali nei confronti del regime siriano, attaccato per avere impedito l’accesso di cibo e medicine destinati alla popolazione civile. Da qui, alcuni paesi hanno fatto circolare una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, teoricamente volta a favorire l’ingresso degli aiuti nella città della Siria occidentale.
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha però bocciato la proposta, bollata come “inaccettabile” poiché contiene “un ultimatum al governo [di Assad]” per risolvere la crisi umanitaria in due settimane. In caso contrario, verrebbero “applicate sanzioni automatiche”. Per Lavrov, l’attenzione posta unicamente sul caso di Homs rivelerebbe un atteggiamento “unilaterale”, visto che sono i “gruppi di militanti [dell’opposizione] a rappresentare il principale impedimento alle operazioni umanitarie”, non solo in questa città ma anche in altre località della Siria.
La posizione dei governi occidentali ha trovato come al solito riscontro nei media ufficiali, impegnati ad evidenziare la sorte dei residenti rimasti a Homs e tralasciando quasi sempre il disastro umanitario provocato altrove dalle formazioni “ribelli”, soprattutto di matrice integralista, nonché le stragi commesse da queste ultime, come quella registrata lunedì nel villaggio a maggioranza alauita di Maan, nella provincia di Hama, dove sono stati massacrati almeno 20 civili che condividono la fede del presidente Assad.
La resistenza di Mosca a considerare una risoluzione “umanitaria” è stata criticata, tra gli altri, anche dal presidente francese, François Hollande, durante una conferenza stampa a Washington a fianco di Obama. Hollande ha simulato stupore di fronte alla mancanza di disponibilità della Russia a valutare la creazione di “corridoi umanitari”, utilizzati tradizionalmente dall’Occidente per giustificare interventi militari destinati a rovesciare regimi poco graditi.
Tra le questioni al centro dell’attenzione della visita del presidente transalpino negli Stati Uniti c’è stata appunto la Siria, di cui ha parlato anche l’inquilino della Casa Bianca. Nell’apparizione pubblica con Hollande, infatti, Obama ha riconosciuto le difficoltà dei negoziati nel giungere ad una soluzione pacifica del conflitto, sottolineando “l’enorme frustrazione” che circola a Washington per gli sviluppi della vicenda.
“Ogni giorno che passa”, ha spiegato il presidente americano, “un numero sempre maggiore di persone in Siria è esposto a sofferenze. Lo stato sta crollando e ciò è negativo per… la regione [mediorientale] e per la sicurezza globale”, dal momento che “ci sono estremisti che hanno occupato il vuoto creatosi in alcune aree del paese”, ed essi “possono rappresentare una minaccia nel lungo periodo”.
Dopo questa analisi, e senza aggiungere che la situazione drammatica della Siria è stata causata in gran parte da una guerra per il rovesciamento del regime alimentata precisamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati, Obama ha affermato che “nessuno pensa al momento ad una soluzione militare”. Tuttavia, la sua amministrazione continua a valutare “qualsiasi strada possibile” e il presidente ha detto di volersi “riservare il diritto di decidere un’azione militare a difesa della sicurezza nazionale americana”.
Le parole pronunciate martedì da Obama appaiono estremamente rivelatrici dell’impazienza degli USA, intenzionati a procedere con la deposizione di Assad in qualsiasi modo: diplomaticamente, attraverso la conferenza di Ginevra, o, se necessario, con le armi.
Il pessimismo di Obama è inoltre singolare, visto che il prevedibile stallo di Ginevra è la conseguenza diretta del comportamento tenuto fin dall’inizio dagli stessi Stati Uniti e dai “ribelli” da loro appoggiati. Questi ultimi, infatti, hanno da subito insistito sull’esclusione da qualsiasi futuro governo in Siria della loro controparte nei negoziati, nonostante il regime negli ultimi mesi abbia fatto segnare e continui a far segnare sensibili progressi sul campo ai danni invece di un’opposizione impopolare e allo sbando o, comunque, dominata da gruppi jihadisti violenti.
L’amministrazione Obama, da parte sua, aveva anch’essa escluso da subito per bocca del segretario di Stato, John Kerry, qualsiasi ruolo per Assad nella nuova Siria, mentre proprio durante il primo round di discussioni Washington aveva provocatoriamente deciso la ripresa degli aiuti destinati ai “ribelli” dopo lo stop sul finire dello scorso anno a causa del prevalere delle formazioni estremiste.
Parallelamente alla motivazione “umanitaria”, gli USA e gli altri governi occidentali sono poi tornati ad utilizzare la carta delle armi chimiche, con la quale la scorsa estate si era sfiorata una nuova aggressione militare in Medio Oriente.
Dopo l’accordo mediato dalla Russia, Damasco aveva accettato di inviare all’estero e distruggere tutto il proprio arsenale in un periodo di tempo molto ristretto. Inizialmente, al regime di Assad era stata riconosciuta la propria totale collaborazione con l’agenzia deputata allo smantellamento delle armi chimiche - Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) - ma due scadenze non rispettate nelle scorse settimane hanno immediatamente scatenato una valanga di accuse.
Il governo siriano, il quale si è liberato di un terzo del proprio arsenale nella giornata di lunedì, ha comprensibilmente attribuito i ritardi alla situazione nel paese e al fatto che i convogli diretti verso la città portuale di Latakia devono attraversare aree controllate dai vari gruppi “ribelli” armati.
Dall’OPAC e dai governi occidentali, tuttavia, sono giunti solo avvertimenti a rispettare le scadenze, a conferma che la questione pressoché interamente fabbricata ad arte delle armi chimiche, assieme a quella “umanitaria”, continuerà a rappresentare il pretesto per un maggiore coinvolgimento nel conflitto a favore dell’opposizione se il regime non si piegherà in fretta alle richieste degli Stati Uniti e dei loro alleati.
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di Michele Paris
Una sospetta esclusiva pubblicata questa settimana dalla Associated Press ha rivelato come l’amministrazione Obama starebbe valutando l’opportunità di assassinare extra-giudiziariamente un altro cittadino con passaporto americano sospettato di terrorismo e di stanza in un paese straniero. I presunti scrupoli della Casa Bianca, riportati dall’agenzia di stampa d’oltreoceano circa il ricorso ai droni per portare a termine l’operazione, sarebbero da collegare alle nuove linee guida relative all’impiego dei velivoli senza pilota, fissate dal presidente stesso lo scorso anno per legittimare una pratica indiscutibilmente illegale e incostituzionale.
L’individuo in questione sarebbe un membro di al-Qaeda direttamente responsabile di attentati letali contro cittadini americani all’estero e che starebbe ancora pianificando attacchi di questo genere. Sul sospetto starebbe lavorando da tempo la CIA che però, pur operando un proprio programma con i droni, non sarebbe più autorizzata ad agire in casi simili dopo le modifiche decise da Obama al programma di assassini mirati.
A condurre l’operazione dovrebbe essere invece il Dipartimento della Difesa, tramite il comando delle Operazioni Speciali (JSOC). Il Pentagono, secondo la Associated Press, starebbe così valutando se considerare l’individuo pericoloso al punto tale che valga la pena affrontare le conseguenze di un assassinio di stato ai danni di un cittadino americano senza processo né accuse formali, nonché le reazioni di un paese straniero che non accetta che gli Stati Uniti operino in flagrante violazione della propria sovranità. Nonostante i dubbi, il Pentagono avrebbe già espresso parere positivo all’assassinio.
Inoltre, a complicare la situazione ci sarebbero altre condizioni che non sembrano essere soddisfatte affinché venga dato il via libera all’operazione secondo le nuove linee guida di Obama, a cominciare proprio dal rifiuto del paese in cui si trova il sospettato a consentire un’incursione militare americana. Il Dipartimento di Giustizia, poi, non avrebbe ancora messo assieme un vero e proprio caso per dichiarare l’assassinio “legale e costituzionale”, come richiesto dalla legislazione statunitense relativa ai cosiddetti “nemici in armi” (Autorizzazione all’Uso della Forza Militare), approvata all’indomani dell’11 settembre 2001.
Questa misura richiesta al Dipartimento di Giustizia, è bene ricordare, non è però altro che un espediente per giustificare un assassinio deliberato senza nessun procedimento legale garantito dalla Costituzione, dal momento che si risolve in un semplice parere legale di un organo del potere esecutivo con il quale il nome di un sospettato viene messo su una lista nera in attesa di un ordine di assassinio emesso direttamente dal presidente.
Così come viene fatto con le più basilari regole democratiche, anche la disposizione che debba essere il Pentagono ad occuparsi di assassini simili potrebbe comunque essere aggirata senza troppe difficoltà. Come ha scritto il New York Times, infatti, esponenti del governo e del Congresso ritengono che questa norma preveda eccezioni e consenta alla Casa Bianca di incaricare la CIA dell’operazione letale con i droni.
Le anonime fonti della rivelazione della Associated Press hanno poi elencato altri requisiti che l’operazione in fase di discussione presenterebbe e che rientrano invece perfettamente - e, forse, tutt’altro casualmente - nelle nuove disposizioni sull’uso dei droni, vale a dire la necessità di “impedire o fermare attacchi contro cittadini americani” e l’impossibilità o l’indisponibilità ad agire da parte del governo del paese in cui il sospettato starebbe operando.
L’obiettivo dell’incursione con i droni, secondo quanto stabilito da Obama lo scorso anno, dovrebbe infine anche rappresentare “una minaccia continua e imminente” nei confronti degli Stati Uniti, cioè la sua cattura o uccisione sarebbe giustificata solo se esso stesse pianificando un attacco terroristico. Quest’ultima condizione appare però estremamente vaga e, oltretutto, impossibile da verificare vista la segretezza con cui opera l’anti-terrorismo americano.
L’intera procedura pseudo-legale sugli assassini extra-giudiziari messa in piedi dall’amministrazione Obama, così come da quella repubblicana guidata da George W. Bush, serve in definitiva solo a dare una parvenza di legalità ad una colossale violazione della costituzione americana in nome della “guerra al terrore”, specificatamente del Quinto Emendamento, il quale afferma come “nessuno debba essere… privato della vita, della libertà o delle proprietà senza un giusto processo di legge”.
Ugualmente allo scopo di pubblicizzare la presenza di un dibattito “trasparente” e di un processo “legale” relativamente ad assassini condotti dal governo, la stessa rivelazione della Associated Press di lunedì sembra essere stata promossa proprio dall’amministrazione Obama, da tempo impegnata a cercare di favorirne la normalizzazione e di neutralizzare le prevedibili critiche o condanne che essi suscitano.
In maniera se possibile ancora più inquietante, poi, anche se la discussione riguarda per il momento cittadini americani che si trovano all’estero, la definitiva istituzionalizzazione di questi assassini extra-legali potrebbe in un futuro forse non troppo lontano essere allargata fino a comprendere eventuali “minacce terroristiche” sul suolo domestico.
In ogni caso, se il presidente Obama dovesse alla fine accogliere le raccomandazioni del Pentagono si renderebbe responsabile del quinto assassinio di un cittadino americano con queste modalità, quanto meno in base al conteggio effettuato grazie alle informazioni di pubblico dominio
In precedenza, a finire sotto il fuoco dei droni erano stati nel settembre 2011 in Yemen il predicatore nato nel Nuovo Messico, Anwar al-Awlaki, e Samir Khan, presunto responsabile di una pubblicazione on-line in lingua inglese dell’organizzazione al-Qaeda nella Penisola Arabica. Pochi giorni più tardi, sempre in Yemen, sarebbe stato invece fatto a pezzi da un missile lanciato da un velivolo senza pilota il figlio 16enne di Awlaki, Abdulrahman, anch’egli con passaporto americano. Nel novembre del 2011, infine, fu la volta del 20enne Jude Kenan Mohammad, questa volta giustiziato in Pakistan.
Secondo il governo americano, dei quattro assassini solo quello di Anwar al-Awlaki sarebbe stato ordinato esplicitamente, mentre gli altri tre sono stati “danni collaterali” di un programma che in oltre un decennio ha fatto centinaia o migliaia di vittime civili innocenti tra il Pakistan, l’Afghanistan, lo Yemen e la Somalia.
Del più recente sospettato, dietro richiesta dell’amministrazione Obama, la Associated Press non ha pubblicato il nome né il paese in cui egli si troverebbe. Il Washington Post ha però ipotizzato che il cittadino americano in questione potrebbe essere Adam Gadahn, nativo dell’Oregon e membro di al-Qaeda in Pakistan, da dove negli ultimi anni è apparso in svariati filmati di propaganda circolati in rete. Gadahn, tuttavia, secondo gli analisti non sembra avere incarichi operativi tali da renderlo una minaccia terroristica immediata per gli Stati Uniti.
In concomitanza con le rivelazioni della Associated Press, sempre questa settimana la nuova testata on-line The Intercept diretta dal giornalista americano Glenn Greenwald, autore per il britannico Guardian degli articoli basati sulle rivelazioni dell’ex contractor dell’NSA, Edward Snowden, ha mostrato il ruolo decisivo giocato dalla stessa Agenzia per la Sicurezza Nazionale USA nel programma di omicidi mirati operato con i droni.
Basandosi sulle testimonianze di ex agenti operativi dell’NSA e di ex membri dell’aeronautica militare americana, Greenwald ha rivelato come quest’ultima agenzia individui i sospettati di terrorismo da eliminare localizzando le SIM card dei loro telefoni cellulari.
Gli obiettivi vengono però spesso seguiti e selezionati senza verificare se i telefoni intercettati siano effettivamente utilizzati, nel momento dei bombardamenti, dai sospettati sulla lista nera della Casa Bianca. Questo modo di operare - ben lontano dalle rassicurazioni del governo USA circa la massima precisione impiegata prima di procedere con un assassinio mirato attraverso i droni - si risolve frequentemente e inevitabilmente nell’uccisione delle “persone sbagliate”, cioè di civili innocenti.
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di Mario Lombardo
La cosiddetta “svolta” asiatica annunciata da qualche anno dall’amministrazione Obama sta creando sempre maggiori tensioni in Estremo Oriente non solo tra la Cina e i paesi alleati di Washington ma anche tra questi ultimi, come conferma, in particolare, la freddezza persistente tra Giappone e Corea del Sud. Per provare a rilanciare una strategia finora tutt’altro che vincente, il presidente democratico ha appena rivelato lo svolgimento di una visita in quest’area del globo il prossimo mese di aprile, quando si recherà, oltre che a Tokyo e probabilmente a Seoul, in Malaysia e in uno dei paesi in prima fila nelle manovre USA dirette contro Pechino, le Filippine.
La trasferta asiatica di Obama dovrebbe servire a riparare almeno in parte il danno all’immagine e alla credibilità americana causata dalla cancellazione dell’attesa visita dello scorso autunno per partecipare al summit dell’Associazione dei Paesi del Sud-Est Asiatico (ASEAN).
L’itinerario dell’inquilino della Casa Bianca avrebbe dovuto limitarsi a visite in Giappone, Malaysia e Filippine ma da più parti sono giunte pressioni per includere anche la Corea del Sud, in modo da non irritare ulteriormente il governo di questo paese, i cui rapporti con quello ultra-conservatore di Tokyo sono sprofondati negli ultimi mesi.
Oltre alle dispute territoriali, ad accendere gli animi tra Giappone e Corea del Sud è l’atteggiamento di Tokyo, dove un mix di nazionalismo e militarismo sta caratterizzando l’azione di governo del premier Shinzo Abe, responsabile di svariate dichiarazioni di stampo revisionista sul comportamento del suo paese sulla terraferma asiatica durante il periodo coloniale.
L’atteggiamento giapponese è stato pericolosamente incoraggiato proprio dagli Stati Uniti, nel tentativo di fare allineare gli alleati in Estremo Oriente ai propri sforzi per contenere l’espansionismo della Cina. Questa politica, scatenando forze reazionarie e innestandosi su rivalità storiche, ha però prodotto l’effetto indesiderato di dividere Giappone e Sud Corea, mentre nelle intenzioni americane i due paesi avrebbero dovuto realizzare una partnership strategica in funzione anticinese che per il momento non sembra essere nemmeno lontanamente all’orizzonte.
Ancora più grave è poi lo scontro in atto tra Giappone e Cina, per il quale le responsabilità principali sono da assegnare nuovamente a Washington. Qui, la contesa attorno ad un gruppo di isole - Senkaku in giapponese, Diaoyu in cinese - nel Mar Cinese Orientale ha già fatto registrare momenti di tensione tra la seconda e la terza economia del pianeta.
Solo nelle ultime settimane, le relazioni sono sprofondate in seguito alla dichiarazione da parte della Cina di una propria “zona di identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) nel Mar Cinese Orientale - all’interno della quale ogni velivolo è tenuto a fornire informazioni in merito alla sua rotta, destinazione o qualsiasi altro dettaglio richiesto dalle autorità - e alla visita del premier Abe ad un tempio scintoista dove sono sepolti alcuni criminali di guerra giapponesi.
Più recentemente, Tokyo e Pechino sono tornate a scontrarsi a causa della dichiarazione di un alto dirigente della rete televisiva nazionale nipponica NHK, il quale ha sostanzialmente negato il massacro di Nanchino, in Cina, ad opera delle truppe del proprio paese nel 1937 che fece più di 140 mila morti (300 mila per i cinesi).
A queste parole, solo parzialmente rettificate alcune ore dopo essere state pronunciate, il ministero degli Esteri cinese ha risposto duramente e in un comunicato ufficiale ha condannato il tentativo da parte della autorità giapponesi di “riscrivere la storia” di un evento attorno al quale “la comunità internazionale ha da tempo espresso un verdetto definitivo”.
Alla falsificazione della storia come strumento di propaganda nelle attuali dispute in Asia orientale ha fatto ricorso poi questa settimana anche il presidente delle Filippine, Benigno Aquino, in un’intervista esclusiva alla quale il New York Times ha dato ampio spazio.
Il figlio della defunta ex presidente, Corazón Aquino, ha cioè paragonato la Cina odierna alla Germania nazista alla vigilia della seconda guerra mondiale. Secondo Benigno Aquino, la disputa territoriale del suo paese con Pechino nel Mar Cinese Meridionale rischierebbe di ricalcare la vicenda dei Sudeti in Cecoslovacchia nel 1938 che portò all’invasione hitleriana.
Come la Cecoslovacchia, a detta di Aquino, anche le Filippine devono oggi fare i conti con “le richieste di cedere gradualmente parte del proprio territorio ad una potenza straniera”, così che, per resistere, sarebbe necessario “un più robusto sostegno internazionale”, a differenza della docilità dei governi occidentali negli anni Trenta del secolo scorso nei confronti della Germania di Hitler.
Significativamente, il richiamo alla seconda guerra mondiale da parte del presidente filippino è giunto pochi giorni dopo che Shinzo Abe, nel corso del World Economic Forum di Davos, aveva fatto riferimento al primo conflitto mondiale nel tracciare un parallelo tra la rivalità di Germania e Gran Bretagna con quella odierna di Giappone e Cina.
L’evocazione dei due eventi più catastrofici del secolo scorso indica a sufficienza il livello di tensione raggiunto in Estremo Oriente a causa della “svolta” asiatica degli Stati Uniti. Soprattutto, Abe e Aquino intendono ribaltare le responsabilità dell’attuale situazione, dal momento che la Cina, non essendo una potenza imperialista al contrario degli USA, non ha mai minacciato l’invasione di nessun paese, rendendo semplicemente assurdi gli accostamenti alla Germania imperiale o a quella nazista.
Nel caso delle Filippine, inoltre, la retorica di Aquino serve a far digerire ad un’opinione pubblica tutt’altro che entusiasta l’accordo in fase di negoziazione con gli Stati Uniti per l’utilizzo di alcune basi nella loro ex colonia. Il presidente filippino, infatti, nella stessa intervista al Times ha annunciato che Manila e Washington sono “vicini” ad un’intesa, descrivendo poi la permanenza nel paese di soldati stranieri come un semplice “avvicendamento”, così da aggirare il divieto a simili iniziative contenuto nella costituzione delle Filippine.
L’accordo verrà con ogni probabilità definito in occasione della visita di Obama a Manila nel mese di aprile, quando potrebbe essere sollevata anche la questione della partecipazione delle Filippine al trattato di libero scambio trans-pacifico (TPP), recentemente “raccomandata” dal nuovo ambasciatore americano.
Il TPP, da cui è esclusa la Cina, è un altro strumento promosso Washington per isolare Pechino, in questo caso economicamente, e include per il momento dodici paesi asiatici e del continente americano (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam).
Il trattato, scritto e negoziato in gran segreto, sta però sollevando non poche perplessità tra i paesi che dovrebbero aderirvi, principalmente per le condizioni in esso contenute che prescrivono lo smantellamento delle regolamentazioni locali per aprire le varie economie alle corporation statunitensi.
Le date fissate da Washington per la definitiva approvazione del TPP stanno perciò slittando una dopo l’altra e più di un problema l’amministrazione Obama lo sta incontrando anche in patria. Proprio qualche giorno fa, il leader di maggioranza al Senato, il democratico Harry Reid, ha bocciato i tentativi della Casa Bianca di incanalare il trattato in una corsia preferenziale al Congresso, così da ottenerne l’approvazione senza possibilità di discussioni o emendamenti.
La presa di posizione del senatore del Nevada è la conseguenza dell’impopolarità dei trattati di libero scambio, che si traducono puntualmente in perdita di posti di lavoro negli Stati Uniti, ma è già stata criticata dai falchi della politica estera USA, preoccupati per lo slittamento di una misura ritenuta fondamentale nell’ambito della “svolta” anti-cinese nel continente asiatico.
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di Michele Paris
Mentre il presidente afgano, Hamid Karzai, continua ad insistere nel rinviare la firma sul cosiddetto Accordo Bilaterale per la Sicurezza con gli Stati Uniti, l’amministrazione Obama sta cercando di far fronte ad una situazione impensabile fino a poche settimane fa per mandare in porto un trattato che consentirebbe di mantenere un significativo contingente militare nel paese centro-asiatico dopo il 31 dicembre di quest’anno.
Gli ultimi sviluppi nella vicenda dei rapporti tra Kabul e Washington hanno spinto il presidente Obama ad incontrare nella giornata di martedì alla Casa Bianca i responsabili della guerra in Afghanistan, ufficialmente per discutere del numero di soldati che dovranno restare una volta ultimate le operazioni di combattimento. Al vertice erano presenti, tra gli altri, il comandante delle forze di occupazione USA, generale Joseph Dunford, e il capo di stato maggiore, generale Martin Dempsey, nonché il segretario alla Difesa, Chuck Hagel.
Le consultazioni di emergenza a Washington sarebbero avvenute per preparare il prossimo vertice NATO nel quale verranno discusse con i partner degli Stati Uniti le dimensioni del contingente da mantenere in Afghanistan a partire dal gennaio 2014. Alla luce dei crescenti attriti con Karzai, tuttavia, è praticamente certo che Obama abbia affrontato con i propri generali le modalità migliori per esercitare pressioni sul leader afgano in relazione al trattato bilaterale.
Alcuni importanti membri del Congresso informati sull’incontro della Casa Bianca si sono infatti riferiti a quest’ultima questione, lasciando anche intendere la possibilità di un cambiamento della strategia americana. In particolare, il presidente della commissione del Senato per le Forze Armate, il democratico Carl Levin, ha affermato che “l’amministrazione [Obama] semplicemente non dovrebbe contare su Karzai per la firma dell’accordo”. Per il senatore del Michigan sarà piuttosto il prossimo presidente afgano ad essere “più affidabile” circa l’accordo bilaterale.
Dello stesso avviso è stato anche il senatore repubblicano Lindsey Graham, il quale ha suggerito che la scadenza ultima per la firma dell’accordo dovrebbe essere spostata a dopo le elezioni presidenziali del 5 aprile prossimo e la conseguente uscita di scena di Karzai.
La Casa Bianca, tuttavia, ancora martedì sembrava essere ferma sulla propria precedente linea. Il portavoce di Obama, Jay Carney, aveva cioè ribadito che la firma sull’accordo “non può essere attesa per mesi” ma deve essere una questione di settimane. Inizialmente, il governo USA aveva chiesto a Karzai di approvare definitivamente l’accordo entro la fine del 2013, così da consentire ai vertici militari di avere il tempo necessario per pianificare le operazioni.
Questa scadenza sembrava dover essere rispettata senza difficoltà, dopo che nel mese di novembre una speciale assemblea tribale - “loya jirga” - convocata dallo stesso presidente afgano aveva approvato i termini dell’accordo con gli Stati Uniti. A sorpresa, però, Karzai aveva puntato i piedi, sostenendo che la firma sull’accordo non sarebbe arrivata prima delle elezioni per la scelta del suo successore.
Il trattato bilaterale già negoziato prevede la permanenza per almeno un decennio di circa 10 mila soldati americani, i quali avranno accesso a nove basi in territorio afgano. I militari godranno inoltre di totale immunità dalle leggi locali per eventuali crimini commessi nel paese occupato.
Queste e altre condizioni imposte dagli USA, così come la stessa occupazione americana, sono fortemente osteggiate dalla maggioranza della popolazione afgana. Da qui, probabilmente, l’atteggiamento sempre più scontroso del presidente nei confronti dell’amministrazione Obama.
Da alcuni mesi, così, Karzai ha iniziato a chiedere varie concessioni alle forze di occupazione, come lo stop ai raid notturni nelle abitazioni private dei cittadini afgani sospettati di legami con gli “insorti” e il sostegno ad un processo di riconciliazione con i Talebani. Karzai, inoltre, è giunto più volte a criticare aspramente l’occupazione americana, accusando talvolta le forze NATO di essere dietro ad alcuni attentati, in modo da ingigantire la situazione di crisi nel paese e far salire le pressioni per la firma sull’accordo bilaterale.
A gettare nuova benzina sul fuoco è stata poi questa settimana una rivelazione riportata dal New York Times, secondo la quale Karzai avrebbe avviato colloqui segreti con gli stessi Talebani a partire dal mese di novembre. La notizia è stata poi confermata da esponenti del regime di Kabul, tra cui il portavoce del presidente, Aimal Faizi, che ha definito “serie” le discussioni andate in scena a Dubai. Ad aprire la strada del negoziato sarebbero stati i leader Talebani, incoraggiati proprio dall’atteggiamento sempre più ostile di Karzai nei confronti dei padroni americani.
L’iniziativa di pace difficilmente porterà a qualche risultato e, secondo alcuni osservatori, potrebbe essere solo una strategia talebana per dividere ancor più Karzai e gli USA nel tentativo di far naufragare del tutto il trattato bilaterale, spianando la strada agli “studenti del Corano” per una riconquista del potere ai danni di un regime senza protezioni straniere. Lo stesso Karzai, a sua volta, potrebbe utilizzare la minaccia di una pace separata con i Talebani per estrarre maggiori concessioni dagli Stati Uniti.
In ogni caso, gli USA non sembrano gradire particolarmente eventuali negoziati dietro le loro spalle, nonostante le dichiarazioni ufficiali tutt’altro che polemiche di questi giorni, poiché una riconciliazione di Kabul con i Talebani renderebbe insostenibile la motivazione ufficiale per la presenza militare indefinita in Afghanistan, vale a dire la necessità di continuare a combattere la minaccia “terroristica” nel paese.
La vera ragione dell’occupazione afgana e della necessità di prolungare la permanenza in questo paese è da ricercare invece in questioni strategiche legate alle risorse energetiche della regione centro-asiatica e alla crescente competizione con altre potenze come Russia, Cina o Iran.
Al di là degli scontri e delle tensioni di questi ultimi mesi, sono in pochi a credere che l’accordo bilaterale tra USA e Afghanistan possa realmente fallire. La classe politica indigena deve infatti a Washington la propria posizione di potere e le ricchezze accumulate in questi anni, così che un’uscita di scena improvvisa degli Stati Uniti dal primo gennaio prossimo comporterebbe non solo la perdita di miliardi di dollari in aiuti finanziari provenienti dall’Occidente da cui trarre profitto ma favorirebbe con ogni probabilità anche il ritorno al potere dei Talebani in tempi non troppo lunghi.
La fine del mandato di Hamid Karzai, d’altra parte, dovrebbe togliere di mezzo l’ostacolo principale al raggiungimento dell’obiettivo americano in Afghanistan. Tutti i principali candidati alla presidenza - tra cui gli ex ministri degli Esteri, Abdullah Abdullah e Zalmai Rassoul, l’ex ministro delle Finanze, Ashraf Ghani Ahmadzai, e il fratello dell’attuale presidente, Quayum Karzai - appaiono infatti favorevoli alla firma dell’accordo sulla sicurezza senza ulteriori rinvii.