di Michele Paris

L’approvazione da parte del Congresso americano di ripetute misure volte sostanzialmente a colpire le fasce più deboli della popolazione e a favorire le élite economico-finanziare è la diretta e inevitabile conseguenza della natura di classe di un intero sistema che per molti continua a rappresentare un modello di autentica democrazia.

A mettere ulteriormente in luce una realtà nella quale le classi privilegiate negli Stati Uniti controllano indisturbate l’apparato del potere è stato un recente rapporto dell’organizzazione non-profit Center for Responsive Politics (CPR), dal quale emerge come per la prima volta nella storia di questo paese i milionari costituiscano la maggioranza assoluta dei due rami del parlamento di Washington.

L’aumento decisivo che ha fatto superare questa soglia simbolica è avvenuto tra il 2011 e il 2012, quando il “valore netto” medio dei singoli parlamentari americani è passato da 966.000 a 1.008.767 dollari. A godere dello status di milionari nell’attuale 113esimo Congresso sono 268 membri su 534 totali, contro i 257 dell’anno precedente.

Al di sopra della media risultano poi coloro che fanno parte dell’organo più élitario della politica americana, il Senato, dove la media dei singoli membri ha sfiorato nel 2012 i 2,8 milioni di dollari, con numeri generalmente superiori per i repubblicani rispetto ai democratici.

Senatori e deputati d’oltreoceano non sono stati dunque nemmeno lontanamente sfiorati in questi anni dall’impoverimento forzato subito da decine di milioni di loro concittadini, dal momento che i primi, in media, hanno visto aumentare in un solo anno i propri averi del 10,8%, mentre i membri della camera bassa del 4,6%.

A guidare la classifica dei “congressmen” più ricchi è ancora una volta il deputato repubblicano della California, Darrell Issa, con una fortuna stimata tra i 330 e i 597 milioni di dollari. Quest’ultimo ha costruito la propria fortuna grazie al business degli antifurto per automobili ed ha riconquistato il titolo di parlamentare più benestante dopo che nel 2011 era stato sopravanzato dal collega repubblicano del Texas, Michael McCaul, sceso quest’anno in quinta posizione.

Gli occupanti dei primi otto posti della classifica stilata dal CRP hanno tutti un “valore netto” medio superiore ai 100 milioni di dollari e tra di essi figurano ben sei democratici: i senatori Mark Warner (Virginia, 257 milioni), Richard Blumenthal (Connecticut, 103 milioni), Jay Rockefeller (West Virginia, 101 milioni) e i deputati Jared Polis (Colorado, 197 milioni), John Delaney (Maryland, 154 milioni), Scott Peters (California, 112 milioni).

Le ricchezze così attribuite ai membri del Congresso risultano nettamente sottostimate, visto che i dati aggregati dal CPR non includono abitazioni, automobili e opere d’arte di loro proprietà. Inoltre, praticamente esclusi dai conteggi risultano anche i beni dei rispettivi mariti o mogli, i quali nelle dichiarazioni dei parlamentari possono da quest’anno essere riportati in maniera estremamente generica, ad esempio con indicazioni come “oltre 1 milione di dollari” o “oltre 50 milioni di dollari”.

I membri del Congresso hanno investito il loro denaro in titoli delle maggiori corporation americane. General Electric e il colosso bancario Wells Fargo risultano le preferite, ma la lunga lista comprende, tra le altre, anche Microsoft, JPMorgan, Apple, Procter & Gamble, IBM, Bank of America, AT&T e Cisco Systems.

Il settore prediletto da deputati e senatori per far fruttare il proprio denaro è però quello edilizio, dove investono complessivamente una cifra tra 450 milioni e 1,4 miliardi di dollari. In azioni ci sono invece tra gli 86 e i 259 milioni, nel settore “petrolio e gas” tra i 34 e i 97 milioni, mentre in quello farmaceutico - beneficiario della “riforma” sanitaria di Obama approvata dal Congresso nel 2010 - tra i 30 e i 96 milioni.

I palesi conflitti di interesse che coinvolgono politici chiamati spesso a promulgare leggi su questioni che riguardano compagnie nelle quali essi detengono ingenti investimenti sono quasi sempre aggirati. Come se non bastasse, scrive il CPR nel suo rapporto, “migliaia di compagnie ottengono contratti pubblici per il valore di miliardi di dollari ogni anno e molte di esse fanno attività di lobby in maniera diretta sul Congresso”.

Inoltre, “alcune di queste compagnie possono essere oggetto di indagini congressuali a causa di pratiche di business discutibili, incidenti o addirittura disastri. Il tutto nonostante i parlamentari detengano azioni o intrattengano altre relazioni finanziarie con queste stesse corporations”.

A svuotare del tutto il sistema teoricamente democratico degli Stati Uniti è dunque una struttura reale di potere controllata ad ogni livello da una vera e propria oligarchia di super-ricchi che rappresenta unicamente gli interessi di una classe ben precisa.

Tutto ciò è rafforzato da cicli elettorali che comportano la spesa di quantità enormi di denaro, assicurando che i candidati di entrambi gli schieramenti, una volta ottenuto l’incarico per cui hanno corso, siano ben disposti verso banche o grandi aziende che, direttamente o indirettamente, li hanno finanziati.

Per i servizi resi nel corso del loro mandato, infine, un numero sempre crescente di parlamentari viene gratificato con incarichi estremamente redditizi nel settore privato una volta conclusa la propria carriera politica.

Questo sistema influisce in maniera inevitabile sulle percezioni di ogni singolo membro del Congresso quando è chiamato a legiferare teoricamente in nome del “popolo”, risolvendosi in politiche rigorosamente di classe lontane anni luce dalla fantasia del bene comune o dell’interesse collettivo degli Stati Uniti.

La conseguenza è una distanza sempre più incolmabile tra la grandissima maggioranza della popolazione e i suoi teorici rappresentanti, tanto da fare apparire quasi ovvio il fatto che il Congresso più ricco della storia americana sia anche quello più impopolare da quando esistono i rilevamenti statistici. Una recente indagine dell’istituto Gallup ha infatti mostrato come l’attuale organo legislativo statunitense raccolga consensi nel paese che non arrivano nemmeno al 10 per cento.

In termini concreti, perciò, l’aristocrazia del Congresso di Washington ha inciso in maniera determinante nella creazione di una realtà nella quale la distribuzione delle ricchezze ha ormai raggiunto livelli paragonabili a quelli del XIX secolo o le protezioni e i diritti dei lavoratori continuano ad essere smantellati.

Questo processo, parallelo all’approdo alla Camera e al Senato di uomini e donne sempre più benestanti, si è intensificato a partire dal 2008, quando la politica – negli USA come altrove – ha risposto prontamente alle esigenze dei grandi interessi economici e finanziari minacciati dalla crisi, facendo gravare il costo del salvataggio del sistema capitalistico interamente sulle spalle delle classi più disagiate.

Ad esemplificare alla perfezione la realtà di un governo dei ricchi e per i ricchi è stata così una recentissima dichiarazione del deputato repubblicano dell’Oklahoma, Frank Lucas, al termine dei negoziati tra i due partiti al Congresso su un pacchetto atteso da tempo riguardante il settore agricolo.

Il presidente della commissione Agricoltura della Camera - accreditato dal rapporto del CPR di un “valore netto” medio di 1,6 milioni di dollari - senza l’ombra di un qualche imbarazzo si è detto cioè “orgoglioso” degli sforzi bipartisan per giungere ad un accordo su un provvedimento che, tra l’altro, taglierà altri 8 miliardi di dollari destinati al finanziamento di buoni alimentari per le fasce più impoverite della popolazione americana.

Questa ennesima impietosa iniziativa della spietata classe dirigente americana va ad aggiungersi, ad esempio, agli 11 miliardi di dollari già tagliati alla fine del 2013 e al mancato rinnovo dei sussidi di disoccupazione straordinari federali, lasciando rispettivamente senza cibo per svariati giorni al mese quasi 50 milioni di persone e senza alcuna fonte di reddito un altro milione e mezzo di senza lavoro.

di Mario Lombardo

La situazione di caos in Ucraina sembra essersi indirizzata in questo inizio di settimana verso uno scontro frontale tra il governo e le forze di sicurezza da una parte e i manifestanti e i leader dell’opposizione politica dall’altra. Dopo l’occupazione della sede del ministero della Giustizia a Kiev nella tarda serata di domenica, la titolare del dicastero, Olena Lukash, nella giornata di lunedì ha infatti minacciato lo stato di emergenza e il conseguente possibile intervento dell’esercito per riportare l’ordine. In seguito a questa minaccia, gli occupanti hanno alla fine lasciato l’edificio, pur rimanendo accampati all’esterno.

L’occupazione del ministero aveva chiuso domenica una giornata caratterizzata da una relativa calma, in seguito alla tregua stabilita per consentire i funerali dei manifestanti deceduti nei giorni scorsi durante le proteste. Protagonista dell’azione era stato il gruppo di attivisti dell’opposizione Spilna Sprava che, secondo quanto riferito dallo stesso ministro all’agenzia di stampa Ukrinform, aveva fatto irruzione nel palazzo della capitale proprio mentre era in corso un incontro del gruppo di lavoro incaricato di risolvere la crisi nel paese.

Quest’ultimo stava discutendo due delle concessioni proposte dal presidente, Viktor Yanukovich, ai manifestanti e all’opposizione: amnistia e modifiche alla Costituzione per tornare alla carta del 2004 che assegnava maggiori poteri al Parlamento rispetto al Presidente.

Come ampiamente riportato dai media di tutto il mondo nei giorni scorsi, l’altra principale proposta di Yanukovich era la nomina di due leader dell’opposizione ad importanti incarichi di governo. Al numero uno del partito “Patria”, Arseniy Yatsenyuk, era stata offerta la carica di primo ministro e all’ex campione di pugilato nonché leader del partito Alleanza Democratica Ucraina per la Riforma (UDAR), Vitaly Klitschko, quella di vice-premier con delega per le “questioni umanitarie”.

Entrambi hanno però respinto l’offerta, rilanciando la protesta e facendo sapere che non verrà accettato niente di meno delle dimissioni di Yanukovich e nuove elezioni, così da installare un nuovo governo interamente formato dall’attuale opposizione filo-occidentale, pronta a riaprire il dialogo con l’Unione Europea e all’implementazione di devastanti politiche di “ristrutturazione” dell’economia ucraina dettate da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale. I manifestanti chiedono poi il ritiro della recente legge speciale che ha di fatto messo fuori legge ogni manifestazione di piazza senza il permesso delle autorità e che ha contribuito a rinvigorire le proteste dopo settimane di relativa quiete.

Il rifiuto della proposta del presidente ha così acceso ulteriormente gli animi nel paese, approfondendo inoltre le divisioni tra le regioni occidentali, dove la protesta contro il governo sta facendo registrare una pericolosa escalation, e quelle orientali, dove Yanukovich e il suo partito conservano la propria base di potere e di consenso.

Il ministro della Giustizia, in ogni caso, lunedì ha chiesto agli occupanti di sgomberare immediatamente l’edificio del suo dicastero, in caso contrario ha minacciato di chiedere al Consiglio per la Sicurezza Nazionale e la Difesa di dichiarare lo stato di emergenza. Allo stesso modo, la Lukash ha affermato di volere chiedere al presidente di interrompere le trattative in corso con i leader dell’opposizione.

Il Parlamento ucraino, intanto, nella giornata di martedì ha aperto una sessione straordinaria, anche se il presidente dell’assemblea ha escluso che la discussione possa trattare la possibile dichiarazione di stato di emergenza nel paese.

L’occupazione del ministero della Giustizia è stata comunque solo l’ultima di una serie di iniziative simili che dalla capitale ucraina si sono diffuse in molte località del paese in questi giorni. In almeno una decina di città, edifici pubblici e sedi di assemblee locali sono state occupate, soprattutto in Ucraina occidentale. Tra le località maggiormente interessate dalle proteste ci sono Dnipropetrovsk, Lviv (Leopoli), Zaporizhya e Cerkasy. Qui, come a Kiev, si sono contati decine di arresti, mentre numerosi risultano i feriti, spesso tra le forze di polizia.

I disordini stanno mettendo in evidenza il ruolo sempre più importante ricoperto nelle proteste da formazioni paramilitari e raggruppamenti ultra-nazionalisti e, talvolta, esplicitamente neo-fascisti. Ai militanti del partito di estrema destra Svoboda (“Libertà”) - il cui leader, l’anti-semita Oleg Tyahnybok, è in prima linea nelle manifestazioni anti-Yanukovich appoggiate dall’Occidente - si sono aggiunti infatti gruppi violenti, protagonisti di attacchi e lanci di bottiglie incendiarie contro la polizia.

A determinare il precipitare degli eventi fino all’orlo di una vera e propria guerra civile in Ucraina - nel caos fin dal novembre scorso, quando il presidente ha interrotto i negoziati per aderire ad un progetto di partnership commerciale con l’UE riorientando il proprio paese verso la Russia - sono stati proprio i governi occidentali con ripetuti interventi diretti di loro esponenti a favore dell’opposizione.

Ancora domenica, infatti, alcuni diplomatici occidentali, tra cui ambasciatori di paesi europei, degli USA e del Canada, hanno visitato Piazza dell’Indipendenza a Kiev, vale a dire il centro nevralgico delle proteste, e, secondo alcuni resoconti, avrebbero parlato anche con i rappresentanti del gruppo radicale “Settore Destro”.

L’emergere di queste formazioni estremiste e l’inasprirsi dello scontro indicano il controllo sempre più tenue esercitato sulla piazza dai leader dell’opposizione politica, i quali oltretutto cominciano ad apparire divisi al loro interno e sempre più a corto di idee per risolvere pacificamente la crisi in atto.

Il governo, da parte sua, riflettendo il desiderio degli oligarchi ucraini che controllano il potere di mantenere fruttuose relazioni commerciali con tutti i partner possibili, è tornato a rilanciare l’ipotesi di avvicinamento a Bruxelles.

In un’intervista rilasciata lunedì al giornale Segodnya, il primo ministro Mykola Azarov ha proposto un dialogo tripartito tra Kiev, l’Unione Europea e la Russia per “decidere la sorte dell’Accordo di Associazione con l’UE che l’Ucraina aveva avviato”. Il premier ha poi ricordato che l’integrazione dell’Ucraina in associazioni internazionali “dipende dalle condizioni e dai benefit” che verranno offerti.

La posizione ufficiale dei governi occidentali sull’Ucraina continua però a prevedere l’impossibilità di aderire contemporaneamente alla partnership con Bruxelles e all’area di libero scambio proposta da Mosca. Per gli Stati Uniti e i loro alleati, infatti, la disputa sull’Ucraina è legata a questioni strategiche che hanno precisamente a che fare con il tentativo di indebolire l’influenza russa sugli ex satelliti sovietici.

Da qui la linea dura mantenuta in queste settimane e l’appoggio all’opposizione con il rischio di alimentare scontri e il proliferare di organizzazioni di estrema destra. Gli USA, ad esempio, dopo la morte di almeno quattro manifestanti durante le proteste della settimana scorsa, hanno già adottato una serie di sanzioni nei confronti di alcuni esponenti del governo di Kiev e dei vertici delle forze di sicurezza.

Gli organi di stampa occidentali, a loro volta, soffiano sul fuoco della rivolta, ricordando l’importanza strategica di un paese che, tra l’altro, rappresenta un crocevia importante per le forniture energetiche dirette verso ovest.

In questo senso, tra i più espliciti a rivelare le mire di Washington e Bruxelles è stato il Wall Street Journal, dove nel fine settimana è apparso un articolo nel quale viene chiesto uno “sforzo per strappare l’Ucraina dall’orbita di Mosca” e, contemporaneamente, si invita l’Europa ad evitare “divisioni e indecisioni” che avevano caratterizzato la crisi dei Balcani negli anni Novanta.

di Mario Lombardo

Le proteste di piazza tornate a infuriare da qualche giorno in Ucraina hanno fatto segnare una grave escalation nella giornata di mercoledì con tre morti tra i manifestanti anti-governativi nel corso di violenti scontri con le forze di sicurezza. I resoconti provenienti da Kiev hanno parlato di due giovani dimostranti uccisi da colpi di arma da fuoco nei pressi del palazzo che ospita il Parlamento ucraino, mentre la terza vittima avrebbe perso la vita in seguito ad una caduta mentre la folla stava fronteggiando la polizia.

Ad innescare il nuovo round di proteste settimana scorsa era stata l’approvazione di un nuova legge che limita sensibilmente le libertà di protesta e di stampa. Secondo alcuni rappresentanti dell’opposizione, ad accendere gli animi avrebbe contribuito anche il divieto, emanato domenica dalle autorità, di organizzare una prevista marcia di protesta di fronte al Parlamento e la ricezione da parte dei manifestanti di SMS nei quali venivano informati di essere stati registrati come partecipanti ad una manifestazione illegale.

Il primo ministro ucraino, Mykola Azarov, durante una riunione del suo gabinetto mercoledì ha accusato l’opposizione di avere portato in piazza i “terroristi”, prospettando poi un intervento ancora più duro delle forze dell’ordine per “punire le azioni criminali”, a suo dire incoraggiate dagli stessi leader dei partiti di opposizione.

Le proteste che stanno agitando l’Ucraina erano iniziate nel mese di novembre in seguito alla decisione del presidente, Viktor Yanukovich, di abbandonare i negoziati per la firma di un accordo di partnership con l’Unione Europea, accettando invece gli aiuti economici offerti dalla Russia e valutando l’adesione ad un’area di libero scambio promossa da Mosca.

A motivare questa decisione era stata sia la prospettiva di ulteriore povertà per la maggior parte della popolazione in caso di avvicinamento a Bruxelles sia, soprattutto, il prevalere della volontà di quegli oligarchi ucraini che ritenevano più vantaggiosa una partnership con la Russia piuttosto che con i paesi europei.

L’imbarazzo provocato dalla marcia indietro di Kiev - oltretutto avvenuta poco dopo quella dell’Armenia - aveva così spinto l’UE e gli Stati Uniti a soffiare sul fuoco delle proteste in Ucraina, motivate in realtà soprattutto dal diffusissimo malcontento verso l’intera classe dirigente indigena a causa della persistente povertà, del controllo dell’economia da parte di una ristretta cerchia di multi-miliardari e della corruzione dilagante.

La svolta violenta delle manifestazioni in questi giorni sarebbe dovuta poi anche alla presenza sempre più massiccia tra i dimostratori di frange estremiste che hanno attaccato ripetutamente le forze di polizia con sassi e bottiglie molotov nonostante gli appelli a continuare le proteste in maniera pacifica lanciati dai leader dell’opposizione politica.

L’evoluzione della situazione nelle strade di Kiev sta perciò mostrando una rapida perdita del controllo da parte di questi ultimi sui manifestanti, come avevano confermato nei giorni scorsi i fischi e gli insulti a loro indirizzati durante alcuni comizi.

Alla guida delle proteste contro il governo, in particolare, si sono autoproclamati tre leader di altrettanti partiti di opposizione: l’ex campione di boxe Vitaly Klitschko col suo partito UDA legato all’Unione Cristiano Democratica tedesca (CSU), Arseniy Yatsenyuk del partito nazionalista “Patria” dell’ex premier in carcere Yulia Tymoshenko e il noto anti-semita Oleg Tyahnybok del partito di estrema destra “Svoboda” (“Libertà”).

Il timore per il possibile scivolamento del paese nel caos ha spinto mercoledì lo stesso Yatsenyuk a invitare il governo e il presidente Yanukovich a trovare una soluzione assieme all’opposizione, avvertendo che “restano pochi giorni, o addirittura poche ore, per risolvere la crisi con il dialogo”. Ciò dovrebbe essere fatto “mentre il popolo è ancora disposto a prestare attenzione ai politici e ad accettare una via d’uscita politica dalla crisi”.

Nel tentativo di riprendere in mano l’iniziativa, poi, i vertici del partito della Tymoshenko hanno annunciato anche la formazione di una sorta di governo parallelo, denominato “consiglio del popolo” e composto da parlamentari ed esponenti delle amministrazioni locali.

Il presidente Yanukovich, da parte sua, ha anch’egli cercato di gettare acqua sul fuoco emettendo un comunicato ufficiale per condannare le violenze commesse da entrambe le parti. Yanukovich ha inoltre annunciato l’avvio di colloqui con i tre leader dell’opposizione dopo che a lungo aveva respinto le loro richieste.

Da Bruxelles, intanto, dopo avere alimentato le proteste nelle scorse settimane, i vertici UE hanno condannato le violenze di questi giorni. La numero uno della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha chiesto al governo e all’opposizione di iniziare “un dialogo reale”. Il Dipartimento di Stato americano, invece, mercoledì ha fatto sapere di avere revocato il visto di ingresso negli USA ad alcuni esponenti del governo e delle forze di sicurezza coinvolti nelle violenze contro i manifestanti.

La minaccia di sanzioni simili da parte di Washington era già stata avanzata dopo l’approvazione della legge ucraina per limitare le manifestazioni di piazza, mentre altre misure punitive contro il governo di Kiev sarebbero già allo studio. Sull’onda delle decisioni prese dagli Stati Uniti, sempre mercoledì il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, ha fatto sapere infine che anche l’UE potrebbe adottare sanzioni contro l’Ucraina.

Le proteste in corso, in ogni caso, sono state sfruttate e incoraggiate dall’UE e dagli USA per ragioni strategiche e non certo per scrupolo democratico, nel tentativo di rimuovere un governo responsabile di essere tornato a guardare verso la Russia dopo avere voltato le spalle all’Occidente.

L’Ucraina, d’altra parte, appartiene tradizionalmente alla sfera di influenza di Mosca e, portarla nell’orbita occidentale avrebbe inflitto un grave colpo alle aspirazioni russe, soprattutto in merito alla creazione di una vasta area di libero scambio nella regione eurasiatica in competizione con quella europea.

Come spesso accade in seguito alle manovre di Washington e Bruxelles, tuttavia, anche le forze scatenate in Ucraina sembrano essere ora finite fuori controllo, contribuendo a provocare l’escalation di scontri e violenze a cui si sta assistendo in questi giorni.

di Michele Paris

La tanto attesa conferenza di pace sulla Siria si aprirà stamani a Montreux, in Svizzera, senza la controversa partecipazione di uno dei paesi maggiormente coinvolti nel conflitto, la Repubblica Islamica dell’Iran. L’assurda esclusione di Teheran dai negoziati dopo il veto degli Stati Uniti e della cosiddetta Coalizione Nazionale Siriana (CNS) ha suggellato in maniera imbarazzante la conclusione dei faticosissimi preparativi per un appuntamento atteso ormai quasi da un anno e che sembra già destinato a fallire ancor prima di avere inizio.

Alla base della gaffe che lunedì ha minacciato di far saltare l’incontro è stata un’apparentemente inspiegabile incomprensione tra il governo americano e il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Domenica scorsa, quest’ultimo aveva invitato ufficialmente l’Iran a partecipare a “Ginevra II” dopo che il ministro degli Esteri di questo paese, Mohammad Javad Zarif, sembrava avergli garantito l’accettazione dell’obiettivo dei negoziati, fissato nel giugno 2012 nella stessa località svizzera (“Ginevra I”), vale a dire “la creazione, di comune accordo, di un organo di governo transitorio con pieni poteri” in Siria.

Come è noto, l’iniziativa di Ban Ki-moon è stata duramente condannata dagli Stati Uniti, poiché l’Iran, a loro dire, non avrebbe mai accettato in maniera ufficiale quello che l’amministrazione Obama ritiene essere l’obiettivo principale dei negoziati, ovvero la rimozione di Bashar al-Assad e la nascita di un nuovo governo filo-occidentale.

I vertici del CNS, da parte loro, hanno addirittura minacciato di non partecipare a Ginevra II se non fosse stato ritirato l’invito all’Iran. Lunedì, infine, da Teheran è arrivata una provvidenziale smentita circa l’accettazione dei presunti obiettivi della conferenza, accompagnata dalla conferma che la partecipazione ai negoziati da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica sarebbe avvenuta solo se non fossero state fissate condizioni. Ban Ki-moon ha potuto così ritirare il proprio invito e la minaccia di boicottaggio da parte del CNS è definitivamente rientrata.

Politici e media iraniani nella giornata di martedì hanno criticato in particolare gli Stati Uniti per le pressioni fatte su Ban Ki-moon, anche se è apparsa evidente la volontà da parte del governo del presidente Rouhani di non agitare troppo le acque in concomitanza con l’entrata in vigore lunedì dell’accordo temporaneo di sei mesi sul nucleare con i P5+1 (USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania).

Dal momento che il segretario generale dell’ONU si era fino ad ora coordinato con gli USA sulla Siria, l’incomprensione è apparsa a molti difficile da spiegare. Sulla vicenda può avere influito però la sostanziale manipolazione da parte americana della dichiarazione di Ginevra del 2012 che dovrebbe servire da base per i colloqui. In essa, infatti, non vi è alcuna menzione delle dimissioni di Assad, così che il diplomatico sudcoreano potrebbe avere considerato sufficiente la posizione ufficiale dell’Iran, il quale da tempo ha manifestato il proprio desiderio di giungere ad una soluzione pacifica del conflitto in Siria.

Anche se gli USA continuano a ripetere che non c’è spazio per il presidente Assad nel futuro della Siria, il testo della dichiarazione del 2012 prevede soltanto “il lancio di un processo politico guidato dai siriani che porti ad una transizione in grado di rispondere alle legittime aspirazioni della popolazione e che consenta ad essa di decidere democraticamente del proprio futuro”. In riferimento al nuovo organo di governo, la stessa dichiarazione stabilisce che esso sia neutrale e “includa membri dell’attuale governo, dell’opposizione e di altri gruppi”.

Per questa ragione, il recente annuncio di Assad, nel corso di un’intervista all’agenzia di stampa francese AFP, che egli stesso con ogni probabilità deciderà di candidarsi alle elezioni presidenziali di Aprile per ottenere un nuovo mandato non contraddice lo spirito di Ginevra I, visto che “tutte le parti della società siriana devono essere ascoltate nel modellare l’accordo politico per la transizione”.

Con una popolazione che desidera stabilità e la fine delle violenze dopo tre anni di guerra, nonché di fronte alla profonda impopolarità di gruppi “ribelli” armati in larga misura formati da fondamentalisti islamici stranieri, è d’altra parte più che probabile che Assad sia a tutt’oggi la figura più popolare tra le parti in lotta e che finirebbe per aggiudicarsi anche un’elezione organizzata secondo gli standard occidentali.

L’allontanamento di Assad - già di per sé assurdo se si considera che una delle parti al tavolo dei negoziati dovrebbe sottoscrivere a priori il proprio suicidio politico - sarebbe poi ancora più illogica alla luce della situazione sul campo in Siria, dove il regime ha fatto segnare sensibili progressi in questi ultimi mesi ed è tornato a controllare aree importanti nel paese.

In ogni caso, ciò che al momento fa apparire fondamentalmente impraticabile un qualsiasi negoziato di pace a Ginevra sono, in primo luogo, le differenti aspettative del regime da una parte e, dall’altra, dei governi occidentali e dei loro alleati in Medio Oriente e in Siria. Mentre questi ultimi, come già spiegato, si attendono la formazione di un governo di transizione possibilmente senza Assad, il regime intende utilizzare i colloqui per focalizzare l’attenzione della comunità internazionale sulla lotta al terrorismo nel suo paese.

Ciò permetterebbe al regime di recuperare una qualche credibilità tra i partecipanti alla conferenza ed è quanto ha ripetuto lo stesso presidente nella già citata intervista alla AFP, durante la quale ha anche definito l’ipotesi di formare un governo con esponenti del CNS nient’altro che uno “scherzo”.

In questo quadro, è più che comprensibile che i media occidentali continuino a ripetere come l’unico punto di incontro quanto meno per le fasi iniziali dei negoziati sembri essere un possibile accordo sull’apertura di corridoi umanitari per accedere alle località sotto assedio oppure lo scambio di prigionieri o ancora delle tregue localizzate, mentre una qualche intesa politica sarebbe da rimandare ad un futuro che potrebbe non materializzarsi mai.

Un’altra complicazione è rappresentata poi dalla divergenza di vedute tra gli Stati Uniti e l’altro sponsor della conferenza, la Russia. Mosca, infatti, ritiene correttamente che Ginevra I non includa le dimissioni del proprio alleato Assad e ha avuto perciò parole di condanna verso Washington in seguito al mancato coinvolgimento dell’Iran, un paese che “potrebbe influenzare direttamente la situazione” in Siria.

Tanto più che a Montreux e, da giovedì a Ginevra, tra gli oltre 30 paesi presenti ci saranno anche Arabia Saudita, Qatar e Turchia, responsabili in varia misura del finanziamento e della fornitura di armi ai gruppi armati jihadisti anti-Assad. La responsabilità di questi governi nella devastazione della società siriana per i propri interessi strategici appare di gran lunga superiore a quella dell’Iran, così che la loro presenza al tavolo delle trattative testimonia a sufficienza dell’ipocrisia degli Stati Uniti, i quali intendono giungere al cambio di regime a Damasco per via diplomatica dopo avere fallito con la forza.

Un anonimo funzionario del Dipartimento di Stato americano, d’altra parte, lunedì ha ammesso candidamente al New York Times che uno degli scopi della conferenza di Ginevra sarà quello di “incoraggiare defezioni tra i sostenitori di Assad”, in particolare di fede alauita come il presidente, in modo da dare ad un’eventuale nuovo governo un’immagine di inclusività nonostante il settarismo che sta caratterizzando il conflitto in Siria.

Qualsiasi accordo anche minimo dovesse essere raggiunto nel corso dei negoziati avrebbe comunque ben poche possibilità di essere implementato da parte dei “ribelli”, visto che il CNS risulta ampiamente screditato in Siria e ha un controllo pressoché inesistente sui gruppi armati che si battono contro il regime.

Oltretutto, il voto del fine settimana all’interno del CNS per approvare la partecipazione a Ginevra II è stato estremamente sofferto e ha rischiato di spaccare l’organo appoggiato dall’Occidente, per non parlare dei toni minacciosi usati dalle formazioni islamiste che dominano l’opposizione armata sul campo nei confronti del CNS in seguito alla decisione di partecipare ai colloqui.

La convocazione della conferenza di Ginevra, infine, ha lasciato fuori anche voci importanti dell’opposizione siriana moderata, spesso con un peso decisamente superiore a quello del CNS. Come ha messo in luce lunedì un’indagine del quotidiano libanese Al Akhbar, i governi occidentali hanno di fatto spinto per la partecipazione ai colloqui con il regime solo dell’opposizione più malleabile e disposta a rappresentare i loro interessi, dimostrando ben poca attenzione alle aspirazioni della popolazione in Siria.

Lontani dal tavolo rimarranno così, ad esempio, sia il Consiglio per il Coordinamento Nazionale Siriano che il Partito dell’Unione Democratica curdo (PYD). Il primo è composto da 13 partiti di sinistra e svariati gruppi studenteschi e si batte da tempo per l’avvio di un dialogo pacifico e senza interferenze esterne con il regime. Il secondo, a differenza dell’altro partito curdo siriano (Consiglio Nazionale Curdo, KNC), ha deciso invece di disertare Ginevra in seguito al rifiuto degli USA, della Turchia e dei regimi del Golfo Persico di riconoscere la questione curda come uno dei punti da trattare nel corso della conferenza.

Secondo un rappresentate del PYD, infatti, al suo partito, così come ad altre formazioni di opposizione, sarebbe stato chiesto di delegare le proprie istanze ai membri della Coalizione Nazionale Siriana inviati a Ginevra, privando in sostanza di una loro voce i rappresentanti di una minoranza che si è ricavata in questi tre anni spazi significativi nel paese e che rappresenta quasi il dieci per cento della popolazione complessiva.

di Mario Lombardo

Il dibattito attorno alla pena di morte negli Stati Uniti è tornato a riaccendersi in questi giorni in seguito alla raccapricciante esecuzione di un condannato a morte in un carcere dell’Ohio, ucciso da un’iniezione letale dopo quasi mezz’ora di agonia. L’atroce spettacolo andato in scena la settimana scorsa in un braccio della morte nello stato del Midwest è stato dovuto con ogni probabilità all’utilizzo di un nuovo mix di farmaci mai testato in precedenza e a cui le autorità hanno fatto ricorso per ovviare all’indisponibilità delle sostanze comunemente usate fino a poco tempo fa.

L’esecuzione del 53enne Dennis McGuire - condannato per lo stupro e l’assassinio di una donna incinta nel 1989 - era stata autorizzata in maniera definitiva dopo che un giudice distrettuale aveva respinto un ultimo ricorso dei suoi avvocati, preoccupati per i possibili effetti delle nuove sostanze da utilizzare nel caso del loro cliente.

Il via libera del tribunale è avvenuto nonostante la mancanza di certezze sull’efficacia del nuovo metodo che, come previsto da vari esperti, ha infatti causato enormi sofferenze al condannato, risolvendosi di fatto in una “punizione crudele e inusuale” in violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. In precedenza, anche il governatore dell’Ohio, il repubblicano John Kasich, aveva negato una sospensione della condanna, bocciando un’altra richiesta della difesa, la quale aveva sostenuto che McGuire soffriva di disturbi mentali essendo stato vittima di abusi sessuali da bambino.

Secondo i testimoni presenti, in ogni caso, all’inizio la sua esecuzione era sembrata procedere senza problemi. Dopo alcuni minuti, tuttavia, il condannato ha cominciato a respirare rumorosamente e in maniera affannosa, agitandosi convulsamente e aprendo e chiudendo la bocca in continuazione. Dalle descrizioni non è stato possibile accertare se McGuire fosse cosciente o meno durante la procedura.

Di fronte all’orrore dei suoi familiari, McGuire è stato dichiarato morto dopo ben 26 minuti in un’esecuzione che è risultata la più lunga tra quelle portate a termine in Ohio da 15 anni a questa parte, da quando cioè lo stato ha reintrodotto la pena di morte. Secondo un’esperta legale della Fordham University sentita da Al Jazeera, una normale esecuzione tramite iniezione letale dovrebbe durare dai 2 ai 3 minuti, anche se le condanne eseguite nell’ultimo decennio in Ohio hanno talvolta richiesto fino a 10 minuti.

Ad uccidere Dennis McGuire è stata l’introduzione nel suo corpo di due sostanze, un potente sedativo (midazolam) e un antidolorifico (hydromorphone), in sostituzione dei tre farmaci utilizzati nella procedura standard di quasi tutte le esecuzioni avvenute negli USA in questi ultimi anni (cloruro di potassio, pancuronio e pentobarbital).

Come già anticipato, gli effetti della combinazione dei due nuovi farmaci non sono mai stati testati sull’uomo, mentre i medici avevano ipotizzato proprio il genere di sofferenze patite dal detenuto giustiziato giovedì scorso in Ohio.

Il mix dei tre farmaci era stato abbandonato in alcuni stati dopo che le case produttrici ne avevano interrotto le forniture destinate agli USA perché i loro prodotti erano appunto usati nelle procedure di esecuzione capitale.

Le autorità statali, a cominciare proprio dall’Ohio, avevano allora sperimentato nuovi metodi, ricorrendo in particolare ad un singolo farmaco, come l’anestetico tiopental sodico. L’azienda Hospira, che produceva quest’ultima sostanza in un impianto in Italia, ha però ben presto interrotto le forniture a causa delle normative che in Europa impediscono la vendita di farmaci utilizzati per le condanne a morte.

Successivamente, gli stati americani a corto di farmaci letali hanno optato per il solo pentobarbital, ma anche in questo caso la compagnia produttrice - questa volta danese - ha bloccato le vendite alle autorità degli Stati Uniti. I singoli stati, perciò, hanno iniziato una ricerca affannosa di sostanze legali ed efficaci per giustiziare i loro condannati a morte.

Lo stato del Missouri, ad esempio, ha studiato l’ipotesi di ricorrere al propofol, un altro potente e popolare anestetico, anche se la proposta è stata subito abbandonata per il timore che questa sostanza potesse essere boicottata dai produttori europei, causando problemi di approvvigionamento anche per gli ospedali americani.

La selezione di sostanze adatte alle esecuzioni negli USA è complicata poi dal fatto che qualsiasi cambiamento delle procedure stabilite deve passare attraverso lunghi procedimenti legali e di approvazione, dovendo rispettare la già ricordata norma costituzionale che vieta punizioni crudeli e inusuali.

Il ricorso ai due farmaci che hanno ucciso settimana scorsa Dennis McGuire aveva ottenuto infine l’approvazione dei tribunali, così che le prime esecuzioni del 2014 sono state portate a termine con modalità mai testate in precedenza e con drammatiche conseguenze. Già nel corso della procedura di condanna a morte eseguita un paio di settimane fa in Oklahoma, infatti, il detenuto Michael Lee Wilson, poco dopo la somministrazione dell’iniezione letale, aveva esclamato di sentire il proprio corpo “bruciare”.

Nel solo Ohio, invece, ci sono attualmente 138 detenuti nel braccio della morte e questo stato è uno dei pochi ad avere visto aumentare negli ultimi anni il numero di condannati alla pena capitale. Nel 2013, l’Ohio ha giustiziato 6 detenuti e 5 verranno messi a morte nel 2014, un numero superiore soltanto a Texas e Florida. Già in passato, inoltre, questo stato ha avuto problemi con le esecuzioni, come nel settembre del 2009, quando la condanna di Romell Broom venne interrotta dopo due ore e decine di tentativi di individuare una vena per iniettargli il cocktail letale.

Mentre i familiari di Dennis McGuire hanno fatto sapere di volere denunciare le autorità dello stato dell’Ohio per la disastrosa procedura di esecuzione di giovedì scorso, la ricerca di metodi alternativi ed economici per giustiziare i condannati ha fatto già emergere tendenze fascistoidi negli Stati Uniti.

In particolare, due deputati repubblicani delle assemblee statali di Missouri e Wyoming nei giorni scorsi hanno annunciato la prossima presentazione di leggi per autorizzare le esecuzioni capitali tramite fucilazione. Questo metodo è d’altra parte ancora contemplato in alcuni stati americani, tra cui lo Utah, dove dal 1977 a oggi sono stati fucilati tre detenuti, di cui l’ultimo meno di quattro anni fa.


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