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di Carlo Musilli
Jean-Claude Juncker è "un nome, non il nome", secondo Matteo Renzi. Per David Cameron, invece, l'ex premier del Lussemburgo è il più inaccettabile dei conservatori: se sarà lui il prossimo presidente della Commissione europea, la Gran Bretagna dirà addio all'Unione. Stando a quanto riporta Der Spiegel, la minaccia sarebbe arrivata dal primo ministro britannico martedì scorso, durante l'ultimo vertice Ue.
Il numero uno di Downing Street ritiene che la scelta di Juncker "destabilizzerebbe così tanto il suo governo - si legge sul settimanale tedesco - che Londra sarebbe costretta ad anticipare il referendum sulla permanenza nell'Unione europea", e il risultato a quel punto sarebbe certamente favorevole all'uscita, perché "un uomo degli anni Ottanta non può risolvere i problemi dell'Europa di oggi". Questa posizione ieri ha incassato anche l'autorevole sostegno del Financial Times, d'accordo con la necessità di rintracciare un "volto nuovo".
Cameron si sarebbe rivolto in particolare alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che però venerdì scorso - dopo qualche esitazione - ha confermato l'appoggio della Germania alla candidatura di Juncker.
In termini generali, le conclusioni cui giunge il premier inglese possono essere condivisibili: dopo essersi riempiti la bocca per mesi di espressioni propagandistiche come "rinnovamento" e "cambio di rotta", i leader europei cadrebbero nella più grottesca incoerenza se scegliessero come presidente della Commissione l'ex numero uno dell'Eurogruppo, un veterano simbolo della nomenclatura che negli ultimi anni ha governato a Bruxelles. Sarebbe come ammettere che ogni cambiamento è possibile soltanto nel magico regno delle vuote ciarle.
D'altra parte, scartare a priori Juncker non è affatto semplice. Era lui il candidato ufficiale del Partito popolare europeo, lo schieramento che - pur avendo perso milioni di voti rispetto alle consultazioni del 2009 - si è classificato primo alle recenti elezioni comunitarie. Spetterebbe quindi a lui il tentativo di creare una nuova squadra di governo a Bruxelles, come ha riconosciuto perfino Alexis Tsipras, candidato dalla sinistra alternativa rappresentata dal GUE.
Negare a Juncker questa possibilità significherebbe far prevalere gli interessi delle cancellerie sul volere degli elettori, che per la prima volta si sono espressi (o avrebbero dovuto esprimersi) sapendo a monte chi fossero i candidati presentati dai diversi schieramenti per la guida della Commissione (in prima linea per il Partito socialista europeo c'era il tedesco Martin Schulz, mentre i liberali avevano mandato avanti il fiammingo Guy Verhofstadt). Che senso ha avuto fare quei nomi se ora basta una manovrina di palazzo vecchio stile per ribaltare tutto?
In ogni caso, stavolta i leader di governo degli Stati membri non avranno l'ultima parola: spetterà a loro il compito d'indicare il nome del nuovo presidente della Commissione, ma l'elezione finale dovrà passare per il voto del Parlamento europeo, il che renderà probabilmente ancora più difficoltoso il superamento degli interessi contrapposti.
Il problema fondamentale riguarda però le alternative. Se non Juncker, chi? Oltre a Cameron si oppongono alla nomina del Ppe l'ungherese Viktor Orban, lo svedese Fredrik Reinfeldt, l'olandese Mark Rutte e il finladese Jyrki Katainen. Nessuno di loro, è evidente, punta all'elezione di qualche più illuminato progressista. Al contrario, per questi signori il non plus ultra sarebbe un ometto scialbo e poco incline al perseguimento dell'ideale comunitario. Il premier britannico, dal canto suo, accentua ogni giorno di più la propria attitudine antieuropea per esigenze di politica interna. Il governo di Londra deve farsi interprete del crescente sentimento di ostilità dell'elettorato nei confronti di Bruxelles se vuole sperare di porre un limite all'avanzata dell'Ukip, partito di estrema destra e acerrimo nemico dell'Ue, che alle elezioni ha registrato un vero e proprio boom (il suo leader, Nigel Farage, ha incontrato Beppe Grillo in vista di una possibile alleanza con M5S nel Parlamento europeo).
Fin qui, i nomi più accreditati al posto di Juncker sono tre: il polacco Tusk, il finlandese Katainen e l'irlandese Kenny, tutti più o meno esplicitamente auto-candidati. La settimana scorsa si è detto perfino che Renzi potrebbe cercare di entrare nella partita proponendo il nome di Enrico Letta, ma si tratta di un'eventualità assai remota.
Nonostante il premier italiano sia anche il segretario del partito più votato d'Europa e dal primo luglio inizi il semestre italiano di presidenza Ue, sulla strada di Letta ci sono almeno due ostacoli insormontabili: primo, il vertice della Commissione è tradizionalmente riservato a Paesi che non rientrano fra le maggiori potenze (il presidente uscente è il portoghese Josè Manuel Barroso); secondo, all'Italia è già stata concessa una casella internazionale d'importanza capitale come la presidenza della Banca centrale europea, in mano a Mario Draghi.
A prescindere dalle qualità personali e al grado d'indipendenza di un candidato alternativo a Juncker, è evidente che la scelta di un nome di compromesso dimostrerebbe ancora una volta quanto il potere europeo sia in mano a un'oligarchia. Dopo aver concesso agli elettori un potere decisionale, si sceglierebbe di sottrarglielo a giochi fatti, ora che la campagna elettorale è finita. Come a dire "abbiamo scherzato". Proprio quello che ci vuole per combattere l'antieuropeismo.
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di Emanuela Muzzi
Londra. Anche nel Regno Unito la prospettiva di un’alleanza Grillo-Farage ha sollevato polemiche: nonostante la foto della “strana coppia” nessuno crede che MS5 e UKIP si spartiranno poltrone a Strasburgo. Ed il motivo è la sostanziale differenza di vedute dei due partiti, o meglio, dei due movimenti pseudo populsti. Anche il grillino Giuseppe Brescia ha fatto i necessari distinguo:“L’Ukip è un partito xenofobo, il nostro no”.
Ha ragione il parlamentare grillino: infatti l’M5S non è un movimento xenofobo, è un movimento misogino. E questa è una “differenza di vedute” insormontabile. Tra l’anti UE e anti immigrazione Farage e l’antitutto (soprattutto anti-donne del Pd quando avversarie politiche) c’è una differenza ‘filisofica’ di fondo. Il razzismo violento contro gli immigrati dall’Unione europea nel Regno Unito promosso dal capo dell’Independent Party ha una costanza pericolosa che gli è valsa il 29.1% dei voti e 24 poltrone a Strasburgo (il primo partito contro il Labour 25.4%, the Conservatives 24.6%).
E’ un movimento reattivo premiato dagli elettori britannici che credono così di potersi difendere dalla competizione degli skilled workers e colletti bianchi in fuga principalmente da Francia, Polonia, Spagna e Italia; laureati e “masterizzati” preparatissimi che fuggono da crisi, corruzione e pressioni politiche che li schiacciano e li escludono. Se Farage se la prende più o meno apertamente con gli immigrati dei paesi dell’Est è perché è un furbo. Sa molto bene che la retorica sul tasso di delinquenza in Romania (e Bulgaria) ha sempre successo sugli elettori di tutti i livelli sociali; è la retorica vincente per prendere voti.
Chi vive a Londra sa molto bene che gli immigrati più temuti dai British sono quelli che gli stanno di fatto togliendo i posti di lavoro qualificati; nella finanza o nelle banche ad esempio, dove gli italiani sono richiestissimi per il livello di preparazione. Ma anche in ambito medico o della ricerca. Gli inglesi non sono anti europei ed anti immigrazione perchè qualche decina di migliaia di camerieri o commessi italiani o spagnoli scappa dal paese d’origine per sopravvivere; sono contro l’immigrazione qualificata.
Se la prendono con i cittadini UE per un motivo che evidentemente gli esponenti del M5S non sanno e non capiscono nella loro ignoranza sostanziale (e maleducazione formale): ovvero che per la legge britannica non se la possono prendere con i cittadini immigrati provenienti dai paesi del Commonwealth o con persone di razze diverse, ovvero con il colore della pelle diverso. E questo perché c’è una legge molto severa che punisce la discriminazione razziale e che regola ad esempio la distribuzione dei benefit o l’assegnazione dei posti di lavoro; le stesse applications per i posti di lavoro vengono condotte in base a criteri di rappresentanza in percentuale delle diverse etnie e dei generi (maschio-femmina).Ma che vogliate che ne sappiano i grillini di queste cose; per loro basta aprire bocca, fare due battute usando i parametri “culturali” berlusconiani ed è fatta; gli italliani gli vanno dietro, li votano con la stessa coscienza con la quale hanno votato Berlusconi, perché se prima la droga elettorale era la televisione ora è il web, e Grillo, (animale mediatico) lo ha capito molto bene.
Comunque vada, se Farage si mette con Grillo ci guadagna soltanto, dato che le poltrone a Strasburgo sono una questione di numeri, il voto può essere libero, i punti in comune se li inventeranno e così via.
Ma dal punto di vista “italiano” il sodalizio di Grillo con i razzisti xdenofobi di Farage è grave, perché sarebbe un’alleanza contro gli italiani. Un’alleanza in Europa con chi è contro i cittadini italiani pur nascondendolo abilmente e diplomaticamente.
Evidentemente degli Italiani e del Paese a “Beppe” non gliene importa nulla, lo ha dimostrato chiaramente con la vicenda degli insulti alla Presidente della Camera. A Strasburgo sarà il nuovo Borghezio: un MEP di cui vergognarsi.
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di Michele Paris
Le speranze della giunta militare al potere in Egitto di ottenere una qualche legittimità attraverso le elezioni presidenziali di questa settimana sono crollate clamorosamente di fronte all’impressionante manifestazione di sfiducia decretata dalla popolazione nei confronti del nuovo regime. In particolare, l’impopolarità del superfavorito, generale Abdel Fattah al-Sisi, è apparsa in tutta la sua umiliante evidenza dall’infimo livello di partecipazione al voto e dai tentativi disperati del regime sia per convincere gli egiziani a recarsi alle urne sia per manipolare i risultati della consultazione.
Come risultava chiaro da tempo, il vincitore del voto di questa settimana non poteva essere che lo stesso Sisi, alla luce sia del clima intimidatorio creato nel paese sia del fatto che nessun altro candidato appariva sulle schede elettorali se non il nasseriano Hamdeen Sabahi, descritto come oppositore di “sinistra” dai media occidentali.
Quest’ultimo ha così fornito una minuscola parvenza di pluralismo alle elezioni, anche se, secondo i dati del governo, alla fine ha raccolto appena il 3% dei consensi espressi, cioè ancora meno delle schede bianche o nulle (3,7%). Il presidente eletto Sisi, invece, si è aggiudicato addirittura il 93,3% dei voti.
La vera battaglia si disputava però sull’affluenza, come ben sapevano i militari, in grado di schiacciare ogni opposizione politica dopo il golpe contro il governo di Mohamend Mursi e dei Fratelli Musulmani nel luglio scorso ma ben più in difficoltà nel convincere gli egiziani ad esprimere il loro appoggio al regime.
Così, dopo che i due giorni scelti per il voto - 26 e 27 maggio - hanno mostrato seggi praticamente vuoti in tutto il paese, Sisi e la sua cerchia di potere sono finiti nel panico e hanno messo in atto una serie di provvedimenti che hanno evidenziato ancor più il fallimento dell’operazione elettorale. Dapprima è stata creata una nuova festività per prolungare eccezionalmente le operazioni di voto nella giornata di mercoledì, mentre in seguito è stato diffuso l’annuncio che i mezzi pubblici avrebbero trasportato a titolo gratuito gli elettori diretti ai seggi.
Parallelamente, il regime ha minacciato sanzioni di svariate decine di dollari per gli astenuti e i media ufficiali hanno ospitato patetici appelli al voto lanciati da esponenti del governo e da alcuni leader religiosi, sia musulmani sia cristiani copti.
Alla fine, le autorità egiziane hanno fissato il dato dell’affluenza attorno al 47%, un numero già di per sé modesto eppure, con ogni probabilità, gonfiato in maniera consistente. Secondo un anonimo diplomatico occidentale sentito dalla Reuters, ad esempio, i votanti sarebbero stati tra i 10 e i 15 milioni, vale a dire tra il 19% e il 28% dell’elettorato.Seri dubbi sull’attendibilità dei risultati diffusi dalle autorità li ha sollevati anche il Centro Egiziano per gli Studi sui Media e l’Opinione Pubblica (Takamol Masr), i cui ricercatori hanno rivelato al quotidiano indipendente Al-Masry Al-Youm che nei primi due giorni del voto l’affluenza sarebbe stata appena del 7,5%. Il dato più alto - 10,5% - è stato registrato nel governatorato di Qena, nell’Alto Egitto, mentre nella località balneare di Marsa Matrouh solo l’1,2% degli elettori si è recato alle urne tra lunedì e martedì.
Da questi numeri è difficile credere che l’affluenza sia miracolosamente esplosa mercoledì, come confermano i resoconti dei giornali occidentali che hanno continuato a raccontare di seggi deserti anche durante la terza giornata di voto.
Il rifiuto della grande maggioranza degli egiziani a rispondere agli appelli dei militari rappresenta uno schiaffo diretto allo stesso Sisi, il quale in campagna elettorale aveva chiesto un’affluenza pari almeno al 75% per ottenere un mandato popolare sufficientemente solido a legittimare la presa illegale del potere dei militari e le prossime politiche di lacrime e sangue che si prospettano per il paese nordafricano.
I dati governativi riguardanti l’affluenza, sia pure poco credibili, sono inoltre inferiori a quelli registrati nel secondo turno delle presidenziali del giugno 2012 vinte da Mursi, quando votò poco più della metà degli aventi diritto.
Brogli e abusi sono stati comunque numerosi nonostante i risultati abbiano nascosto a malapena la sostanziale umiliazione subita dal regime. Alcuni osservatori inviati ai seggi dallo staff elettorale di Hamdeen Sabahi sono finiti ad esempio agli arresti dopo che era stato loro impedito di monitorare le operazioni di voto e di spoglio.
La disillusione diffusa tra gli elettori è stata ammessa anche dai media occidentali, dove i governi avevano generalmente accettato il voto per la scelta del presidente come meccanismo per normalizzare la situazione egiziana, segnata da mesi di violenze e da una durissima repressione. La mano pesante del regime militare si è fatta sentire soprattutto nei confronti dei Fratelli Musulmani, i cui sostenitori sono stati soggetti ad assassini, arresti e condanne di massa, talvolta alla pena capitale, al termine di processi-farsa.
Allo stesso modo, la repressione ha colpito anche attivisti e membri delle organizzazioni studentesche che avevano animato la rivoluzione anti-Mubarak a inizio 2011 e che, in gran parte, avevano appoggiato i militari nella deposizione di Mursi sull’onda delle proteste popolari contro il governo dei Fratelli Musulmani.
I mesi scorsi, infine, sono stati segnati da una lunga serie di scioperi in molti settori dell’economia egiziana, scaturiti dalle pessime condizioni di lavoro e dal continuo deterioramento del potere d’acquisto dei lavoratori.
Come in molti altri paesi caratterizzati da una situazione economica di grave crisi, anche l’Egitto sotto la guida di Sisi e dei militari sarà chiamato ora ad adottare misure radicali che peggioreranno ulteriormente le condizioni di vita di decine di milioni di persone. Il compito del neo-presidente sarà però decisamente complicato alla luce della vastissima disapprovazione manifestata verso il regime dagli egiziani in queste elezioni.
Il nuovo governo e i militari - la cui posizione dominante nel panorama politico, sociale ed economico dell’Egitto è stata fissata nella Costituzione recentemente approvata - dovranno perciò ricorrere ancor più a metodi dittatoriali che, peraltro, non hanno risparmiato in questi mesi, riportando il paese in una situazione simile a quella dell’era Mubarak.Da Washington non sono ancora giunte reazioni ufficiali significative al voto in Egitto, a conferma probabilmente delle difficoltà americane a far digerire all’opinione pubblica domestica il sostegno ad un processo di transizione verso la “democrazia” rivelatosi ormai come una farsa.
L’amministrazione Obama, dopo avere appoggiato il governo dei Fratelli Musulmani, aveva finito per avallare il colpo di stato contro Mursi di fronte al pericolo delle crescenti tensioni sociali nel paese. Gli USA avevano poi legittimato la giunta militare guidata da Sisi, pur mantenendo pubblicamente un certo atteggiamento critico, vista la durezza della repressione scatenata dal nuovo regime contro i propri oppositori interni, e sospendendo temporaneamente una parte degli aiuti finanziari elargiti annualmente alle Forze Armate egiziane.
L’importanza strategica del Cairo per gli Stati Uniti è però difficile da sopravvalutare e i rapporti con i militari continuano ad essere estremamente solidi. La scommessa della Casa Bianca è perciò quella di ristabilire la piena partneship con l’Egitto una volta stabilizzata la situazione interna e la trasformazione - puramente esteriore - di un regime violento e repressivo in un governo legittimamente eletto.
L’insofferenza degli egiziani manifestata durante il voto che ha portato come previsto alla presidenza il generale Sisi rischia però di creare più di un intralcio alla definitiva normalizzazione dei rapporti bilaterali, lasciando gli americani in bilico tra le proprie esigenze strategiche e la necessità di continuare a ostentare il proprio ruolo di presunti sostenitori dei principi democratici.
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di Michele Paris
Soltanto tre mesi fa, i leader di Stati Uniti e Unione Europea erano intenti a condannare con toni molto duri il governo dell’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich per la presunta repressione messa in atto contro i manifestanti anti-governativi nelle strade di Kiev. Oggi, al contrario, da Obama alla Merkel, da Cameron a Hollande, gli sponsor occidentali del regime golpista e del neo-presidente, Petro Poroshenko, l’oligarca uscito vincitore dalle elezioni-farsa di domenica scorsa, si complimentano per le operazioni militari in corso contro i ribelli “filo-russi” nelle regioni orientali dell’Ucraina, risoltesi in un numero di vittime tra i civili già di gran lunga superiore a quello registrato durante gli scontri che avevano preceduto il colpo di stato di febbraio.
L’invio di carri armati, aerei ed elicotteri da guerra era iniziato lunedì in concomitanza con la conquista momentanea dell’aeroporto di Donetsk da parte dei ribelli. L’iniziativa di Kiev si è risolta in un bagno di sangue, con un bilancio povvisorio di un centinaio di morti, di cui almeno la metà civili. Secondo il vice-primo ministro ucraino, Vitaly Yarema, “l’operazione anti-terrorismo continuerà fino a che non rimarrà un solo terrorista sul territorio” del paese, così che ancora mercoledì sono state segnalate incursioni aeree ed esplosioni nella stessa Donetsk, ma anche a Slovyansk e in altre città orientali.
L’escalation decisa a Kiev è coincisa soprattutto con l’esito del voto per le presidenziali, come aveva chiarito lo stesso Poroshenko già nel suo discorso seguito alla difussione dei risultati. Il miliardario ucraino, arricchitosi grazie al saccheggio delle proprietà dello stato dopo il crollo del comunismo, aveva infatti promesso di rinvigorire una campagna anti-terrorismo in fase di stallo, così da spegnere la rivolta in un periodo di tempo calcolabile in “ore” piuttosto che in mesi.
Quello che sta accadendo in Ucraina orientale con l’avallo dell’Occidente conferma quindi come il voto di domenica sia stato precisamente lo strumento non solo per legittimare un regime installato illegalmente e con il contributo decisivo di forze apertamente neo-naziste, ma anche per fornire alle nuove autorità la copertura necessaria a portare a termine un autentico massacro.
A questo scopo viene ripetutamente sottolineato nei media occidentali il solido mandato che il presidente eletto Poroshenko avrebbe ricevuto dai cittadini ucraini. Il 54% delle preferenze ottenute non può però far dimenticare le condizioni in cui il voto ha avuto luogo. Per cominciare, le presidenziali si sono svolte con le operazioni militari già in corso contro i ribelli, condotte sia dalle forze regolari che da milizie di estrema destra giunte in Ucraina orientale da Kiev, reponsabili della morte di oltre 40 “filo-russi” - tra cui donne incinte e bambini - in un singolo cruento episodio registrato il 2 maggio scorso a Odessa.Inoltre, le elezioni si sono tenute alla presenza in territorio ucraino di personale militare e di intelligence degli Stati Uniti con il compito di coordinare la repressione con le autorità di Kiev, nonché nel pieno di un’escalation militare americana e della NATO rivolta contro la Russia che ha interessato svariati paesi dell’ex blocco sovietico e le acque del Mar Nero.
Il voto, infine, è stato sostanzialmente boicottato dalle popolazioni dell’Ucraina orientale, in larghissima misura ostili al nuovo regime di Kiev, nonostante la propaganda ufficiale descriva i disordini in corso come opera di un ristretto numero di separatisti sostenuti da Mosca se non addirittura “terroristi”.
La repressione in atto, in ogni caso, non è diretta solo contro i “filo-russi” ma serve anche a rafforzare il governo e a intimidire tutta la popolazione in vista dell’implementazione delle misure di liberalizzazione dell’economia richieste come condizione per il prestito da 17 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale.
Alle consuete devastanti “riforme” ha fatto riferimento lo stesso Obama nella dichiarazione rilasciata per salutare il successo di Poroshenko. Quest’ultimo, a sua volta, già domenica aveva prospettato iniziative per creare un “ottimo clima per gli investimenti” e ogni altra misura “necessaria ad attirare il business”, presumibilmente inclusa la repressione violenta ai danni dei ribelli anti-governativi.
Sugli effetti delle ricette imposte dal Fondo Monetario e dall’Occidente sembra puntare la Russia, apparsa in questi giorni tutt’altro che intenzionata a forzare la mano nonostante le promesse di Putin di agire in caso di violenze ai danni della minoranza russofona in Ucraina.
In definitiva, le tensioni sociali che saranno provocate, tra l’altro, dall’aumento delle tariffe energetiche, dalla fine dei sussidi statali o dalle privatizzazioni delle compagnie pubbliche - vale a dire tutto ciò che la partnership con l’Unione Europea porterà in dono agli ucraini - potrebbero fare il gioco del Cremlino, provocando nuove proteste contro le autorità di Kiev nel prossimo futuro e, possibilmente, un nuovo riavvicinamento a Mosca.
La Russia, d’altra parte, ha lanciato più di un segnale di disponibilità a cercare un accomodamento con il nuovo regime di Kiev e con l’Occidente, come conferma la decisione di riconoscere il voto di domenica scorsa e le aperture verso Poroshenko. Putin si trova tuttavia sotto pressione vista la mano pesante mostrata dal governo ucraino nei confronti dei ribelli.I leader di questi ultimi nella cosiddetta Repubblica Popolare di Donetsk, proclamata dopo il referendum sull’autodeterminazione dell’11 maggio, hanno infatti chiesto disperatamente l’aiuto di Mosca per fronteggiare gli assalti di Kiev. Il Cremlino, però, a parte le richieste ufficiali di mettere fine alle operazioni militari per lasciare spazio al dialogo, continua a mostrare poco interesse per un’iniziativa simile a quella messa in atto in Crimea o per un qualche coinvolgimento oltreconfine.
La conferma di questa attitudine russa è giunta ancora mercoledì, quando il braccio destro di Putin, Yuri Ushakov, ha sostenuto di non avere ricevuto nessuna richiesta d’aiuto ufficiale dalla Repubblica Popolare di Donetsk. Sempre mercoledì, però, il ministero degli Esteri russo ha fatto sapere di avere ricevuto richieste urgenti di aiuti umanitari da “persone e organizzazioni nelle aree interessate dal conflitto in Ucraina orientale” e ha promesso che il governo di Mosca intende agire in risposta a questo appello.
L’evoluzione della crisi ucraina svela comunque per l’ennesima volta la vera faccia dell’interventismo dei governi occidentali, interessati a promuovere “rivoluzioni democratiche” o a difendere i “diritti umani” solo quando in gioco ci sono i loro interessi strategici, senza alcuno scrupolo nell’assecondare - come nel caso ucraino - massacri di civili per mano di forze neo-fasciste e regimi golpisti o - come in Libia e in Siria - nell’appoggiare più o meno tacitamente organizzazioni legate al terrorismo internazionale.
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di Michele Paris
Con un'insofferenza nei confronti dell’Unione Europea ai massimi storici, il voto conclusosi domenica nei 28 paesi che ne fanno parte ha registrato, con alcune rare eccezioni, una netta flessione se non un crollo clamoroso dei partiti protagonisti in questi ultimi anni dell’implementazione di impopolari misure di austerity, sia di destra che nominalmente di sinistra.
Nessuna flessione ha fatto segnare invece il livello di astensionismo, rimasto come nel 2009 al 57%, confermando come una netta maggioranza degli elettori continui ad esprimere la propria opposizione alle istituzioni europee disertando le urne, non vedendo alcun progetto politico in grado di offrire molto di diverso da povertà, disoccupazione, erosione dei diritti sociali e strapotere di banche e multinazionali.
La corretta percezione dell’Unione Europea come strumento unico dei grandi interessi economici e finanziari ha avuto, come previsto, esiti nefasti soprattutto in Francia. Qui, sulla scia di quanto accaduto nelle recenti elezioni amministrative, il Fronte Nazionale (FN) di estrema destra si è imposto come primo partito, aggiudicandosi quasi il 25% delle preferenze, davanti sia all’opposizione di centro-destra dell’UMP (Unione per un Movimento Popolare), attestatosi al 20,8%, e soprattutto al Partito Socialista di governo.
Gli attacchi allo stato sociale francese del presidente Hollande e la decisione di operare un’ulteriore svolta a destra dopo la batosta patita nelle amministrative con la nomina a primo ministro di Manuel Valls, nonostante il messaggio opposto lanciato dagli elettori francesi, si sono tradotte in una umiliante sconfitta nel fine settimana appena trascorso.
Il PS ha ricevuto la miseria del 14% dei voti, vale a dire meno della metà di quelli delle elezioni legislative che vinse nel 2012. La Francia fa parte della decina di paesi nei quali l’affluenza è stata leggermente superiore al 2009, dovuta in questo caso, con ogni probabilità, al desiderio diffuso di punire il partito di governo.
L’esecutivo socialista ha convocato lunedì una riunione di emergenza, anche se le prime iniziative in risposta all’esito disastroso del voto annunciate dal premier Valls sono apparse nuovamente disconnesse dalla realtà, visto che l’ex ministro dell’Interno ha prospettato un taglio delle tasse che avrebbe conseguenze ancora più gravi su una spesa pubblica già ridotta enormemente dal recente bilancio.Da parte sua, la leader dell’FN, Marine Le Pen, ha chiesto lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, affermando che i francesi “vogliono che la Francia sia governata dai francesi, per i francesi e con i francesi” e non da “commissari stranieri”, a conferma di come i successi del suo partito siano basati sull’odio diffuso per le politiche imposte da Bruxelles.
Un esito simile a quello della Francia hanno avuto poi le elezioni europee in Gran Bretagna, dove l’equivalente dell’FN - anche se esteriormente più “moderato” - ha messo in fila laburisti e conservatori, i cui governi negli ultimi anni sono stati protagonisti della demolizione senza precedenti del welfare nel Regno Unito.
Il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) di Nigel Farage ha ottenuto quasi il 28%, cioè oltre dieci punti percentuali in più del 2009, contro il 25,4% del Partito Laburista e il 24% dei Conservatori. Virtualmente spazzato è via è stato addirittura il Partito Liberal Democratico, partner di governo dei Conservatori a Londra, finito quinto con meno del 7% e dietro anche ai Verdi.
Irrisoria è stata l’affluenza alle urne in Gran Bretagna, con quasi due elettori su tre che hanno preferito rimanere a casa. Questo dato e il successo dell’UKIP mandano un segnale molto chiaro al primo ministro Cameron e ai Conservatori a un anno dalle elezioni parlamentari, anche se probabilmente il governo cercherà ora di contrastare l’appeal del partito di Farage con misure e appelli xenofobi, nonché insistendo sul referendum per la permanenza di Londra nell’Unione Europea, promesso per il 2017.
I sentimenti anti-europeisti degli elettori si sono fatti sentire ugualmente in Grecia, anche se hanno premiato soprattutto la sinistra. Qui, SYRIZA (Coalizione della Sinistra Radicale) di Alexis Tsipras ha coronato i progressi degli ultimi anni diventando il primo partito con il 26,5% delle preferenze. Subito dietro si è piazzato il partito di destra del premier Antonis Samaras, Nuova Democrazia, il quale ha perso però quasi dieci punti rispetto a cinque anni fa, attestandosi al 23%.
Devastante è stata la sconfitta dei socialisti del PASOK, ex primo partito greco e da tempo ombra di se stesso dopo avere presieduto all’inaugurazione delle politiche di devastazione sociale somministrate da Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale. Il PASOK ha ottenuto appena l’8%, meno ancora del già disastroso risultato delle legislative del 2012 (13%) e quasi trenta punti in meno delle europee del 2009.In attesa dei risultati delle amministrative, che si sono tenute sempre domenica in Grecia, Tsipras ha festeggiato quella che ha definito come “una vittoria contro l’austerity”, per chiedere poi elezioni anticipate. Come è ovvio, SYRIZA ha capitalizzato la frustrazione degli elettori greci per il processo di impoverimento di massa ordinato dagli ambienti finanziari internazionali tramite l’Unione Europea.
In molti, tuttavia, fanno notare come il movimento di Tsipras - protagonista nei mesi scorsi di svariate apparizioni pubbliche in Europa e negli Stati Uniti per rassicurare i propri interlocutori - oltre a promettere un’inversione di rotta sul fronte dei tagli alla spesa pubblica e agli stipendi, intenda soltanto rinegoziare i termini per il rimborso del debito della Grecia con UE/FMI, prospettando tutt’al più solo un lieve allentamento della morsa nella quale si trova costretto da anni questo paese.
Nonostante l’avanzata della sinistra, qualche progresso lo ha fatto segnare anche l’estrema destra dei neofascisti di Alba Dorata (Chrysi Avgi), neutralizzando in parte i tentativi di emarginazione nei suoi confronti degli ultimi mesi. Il partito guidato dall’anti-semita Nikolaos Michaloliakos ha superato il 9%, migliorando sensibilmente le prestazioni delle ultime tornate elettorali.
A differenza di Francia, Gran Bretagna e Grecia, in Spagna i due principali partiti del panorama politico hanno conservato il primato, anche se le perdite in termini di voti sono apparse notevoli. Il Partito Popolare (PP) al governo, in particolare, ha assistito ad una vera e propria emorragia nonostante sia risultato il più votato con il 26% dei suffragi. Il PP aveva vinto le elezioni parlamentari nel 2011 con quasi il 45%, mentre alle europee del 2009 aveva superato il 42%.
Male è andato anche il Partito Socialista (PSOE), fermatosi al 23% contro il già fallimentare 29% del 2011 e il 38,5% del 2009. A chiarire il cambiamento di attitudine degli elettori spagnoli è ancor più il dato combinato dei voti raccolti da PP e PSOE, pari a oltre l’80% del totale nel 2009 e nemmeno in grado di toccare il 50% dopo il voto di domenica.
A beneficiare del crollo di PP e PSOE sono stati partiti e formazioni di sinistra che hanno fatto campagna elettorale con un messaggio contro l’austerity. L’alleanza Sinistra Plurale e “Podemos”, partito nato recentemente dal movimento degli “Indignados”, hanno sfiorato rispettivamente il 10% e il 9%. Buoni risultati hanno fatto registrare infine anche i partiti separatisti catalani.
Relativamente in controtendenza sono apparsi i risultati della Germania, caratterizzati dalla tenuta dei partiti di governo CDU/CSU e SPD. Il partito della cancelliera Merkel ha chiuso al 36% e i socialdemocratici a poco meno del 28%. Mentre questi ultimi sono cresciuti sia rispetto alle europee del 2009 che alle recenti elezioni federali, la CDU/CSU ha registrato una certa flessione.
Se i Verdi e Die Linke sono stati tutto sommato stabili, gli anti-europeisti di AfD (Alternativa per la Germania), pur salendo al 6,5%, non hanno sfondato. Uno dei dati più inquietanti provenienti dal voto di domenica in Germania è invece la probabile conquista di un seggio al Parlamento europeo del Partito Nazionaldemocratico tedesco (NDP) di ispirazione neo-nazista, in grado per la prima volta di superare quota 1%.In linea generale, sono stati i partiti anti-europeisti di estrema destra a crescere, a discapito soprattutto di quelli di centro-sinistra. Uno dei dati più eclatanti, oltre che dalla Francia, è giunto dalla Danimarca, dove il Partito Popolare (DF) ultranazionalista e xenofobo ha ottenuto più di un quarto dei voti espressi, davanti al Partito Social Democratico di governo, fermatosi al 19%.
Primo partito è stato allo stesso modo l’N-VA (Nuova Alleanza Fiamminga) con il 16,5% in un Belgio interessato anche dalle elezioni legislative, mentre in Austria il Partito della Libertà (FPÖ) è giunto dietro sia al Partito Popolare di centro destra (ÖVP) che ai Social Democratici (SPÖ) ma, con quasi il 20% ha superato di otto punti il risultato delle precedenti europee.
Complessivamente, i risultati del voto di domenica dovrebbero confermare il gruppo del Partito Popolare Europeo come il più numeroso nel parlamento appena eletto, con circa 214 seggi sui 751 totali contro i 274 raccolti nel 2009. I socialisti europei dovrebbero avere invece attorno ai 186 seggi, mentre il resto sarà diviso tra gruppi minori e indipendenti non affiliati.
I nuovi equlibri renderanno perciò più probabile l’elezione a presidente della Commissione Europea dell’ex premier lussemburghese, Jean-Claude Juncker, uno dei più convinti sostenitori delle politiche di rigore all’interno dell’Unione.