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di Michele Paris
Il nuovo fronte della campagna selettiva dell’Occidente per la difesa dei diritti umani nei paesi del Terzo Mondo è diventato da qualche giorno la Nigeria, balzata sulle prime pagine dei giornali internazionali in seguito all’ormai noto rapimento di oltre duecento giovani studentesse da parte della formazione fondamentalista Boko Haram.
La risposta iniziale del governo nigeriano al rapimento, avvenuto il 14 aprile scorso in una scuola di Chibok, nel nord del più popoloso paese africano, era stata in realtà molto blanda, riflettendo lo scarso interesse delle autorità centrali per le impoverite regioni settentrionali a maggioranza musulmana, da tempo abituate a convivere con le atrocità dei guerriglieri islamisti e delle forze di sicurezza.
Gli stessi comandanti militari indigeni non avevano alzato un dito per difendere gli abitanti del villaggio in questione dai militanti islamici, nonostante fossero stati avvertiti con svariate ore di anticipo circa l’arrivo di questi ultimi.
Il rapimento, però, è sembrato avere da subito le caratteristiche necessarie per trasformarsi in un’occasione d’oro per la propaganda dei governi occidentali, i quali non hanno perso tempo ad orchestrare l’ennesima campagna “umanitaria” in un paese di grande importanza strategica in una regione del continente africano segnata dalla crescente competizione internazionale.
In ogni caso, gli ultimi sviluppi della vicenda includono la pubblicazione lunedì di un video da parte dell’agenzia di stampa AFP, nel quale il leader di Boko Haram, Abubakar Shekau, sostiene di essere disposto a liberare le giovani rapite in cambio della scarcerazione di prigionieri appartenenti alla sua organizzazione. In precedenza, Shekau aveva invece minacciato di volere vendere come schiave le oltre 200 ragazze rapite.
Dietro le pressioni internazionali, il presidente nigeriano, Goodluck Jonathan, ha finito per allinearsi alla campagna contro Boko Haram, promettendo di mobilitare le forze dello stato per individuare i reponsabili del rapimento. Lo stesso governo della Nigeria ha fatto sapere nei giorni scorsi di avere già inviato due divisioni dell’esercito nel nord del paese.
Annusando la possibilità di avere una presenza militare sul territorio della prima economia africana, paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non hanno esitato a inviare vari contingenti di “consiglieri” ed “esperti” di anti-terrorismo nel paese. Più recentemente, anche Israele ha offerto l’assistenza dei propri “esperti”, accettati formalmente da Jonathan nella giornata di domenica.
Il presidente francese Hollande, da parte sua, ha annunciato che sabato prossimo si terrà a Parigi un summit speciale per discutere del rapimento e delle misure da mettere in atto per contrastare il dilagare di Boko Haram in Nigeria. Al vertice dovrebbero prendere parte, oltre ai padroni di casa e al governo nigeriano, i leader di paesi vicini come Benin, Camerun, Ciad e Niger, così come - ovviamente - Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea.
L’accordo per l’invio di personale americano in Nigeria era stato raggiunto già la settimana scorsa tra Obama e Jonathan ed è stato da allora propagandato dai principali media e da personalità politiche occidentali di spicco, tutti uniti nel promuovere l’ennesimo intervento “umanitario”, ufficialmente motivato soltanto dagli scrupoli per la sorte delle ragazze rapite e dalla più che giustificata angoscia delle loro famiglie.
I falchi dell’intervento “umanitario” si sono messi dunque in moto, come il senatore repubblicano John McCain, già protagonista di varie apparizioni nei mesi scorsi a fianco degli “eroi” neo-fascisti del golpe anti-Yanukovich in Ucraina. L’ex candidato alla Casa Bianca ha già assicurato che il governo nigeriano non dispone delle capacità per liberare le studentesse rapite e, di conseguenza, ciò che serve è l’invio di personale USA, la cui generosità dovrebbe essere manifestata con l’impiego di soldati e velivoli senza pilota (droni).Il presunto disinteresse di Washington - così come di Londra o Parigi - nel soccorrere il governo nigeriano potrebbe essere però messo in dubbio anche solo da alcuni dati fondamentali relativi al paese dell’Africa occidentale. La Nigeria, come già ricordato, è infatti il primo paese africano per popolazione e dimensioni dell’economia, oltre ad essere il primo produttore di petrolio del continente. Inoltre, la Nigeria - dalla quale gli Stati Uniti ricevono il 5% delle proprie importazioni di petrolio - è l’ottavo esportatore di greggio del pianeta e il quarto di gas naturale.
Più in generale, la nuova campagna dei governi occidentali in Nigeria rientra nella strategia avviata da qualche anno per aumentare la loro presenza in un continente che sta assumendo sempre maggiore importanza strategica, soprattutto per le enormi risorse del sottosuolo in gran parte non ancora sfruttate di cui dispone.
L’accelerazione di queste manovre è legata alla necessità di Washington e alleati di contrastare la crescente influenza di paesi emergenti - a cominciare dalla Cina, il cui governo in questi giorni ha anch’esso offerto assistenza alla Nigeria - in molte regioni del continente africano, dove hanno stabilito importanti partnership strategiche e investito decine di miliardi di dollari. A fornire poi la giustificazione del rinnovato impegno africano dell’Occidente è quasi sempre la necessità di combattere instabilità e terrorismo, allo stesso modo quasi sempre causati proprio dalle politiche occidentali.
La storia delle studentesse nigeriane, inoltre, offre per l’opinione pubblica internazionale un appeal irresistibile e difficilmente uguagliabile dalle vicende di altri paesi interessati dagli interventi occidentali. I fatti di queste settimane hanno anche un evidente parallelo con la campagna organizzata nel 2012 contro il signore della guerra ugandese Joseph Kony e sostenuta da svariate celebrità americane e non solo.
In quell’occasione, a suscitare l’indignazione selettiva dell’Occidente era stato l’impiego di bambini-soldato rapiti in vari paesi dell’Africa centrale dall’organizzazione di Kony (Esercito di Resistenza del Signore), per combattere il quale gli Stati Uniti avevano inviato in Uganda centinaia di militari delle forze speciali e velivoli da guerra.
Tutte queste battaglie sono perciò selezionate con cura dai governi occidentali, mentre i media “mainstream” sono complici nell’occultare sia le complesse realtà politiche e sociali che si nascondono dietro alle varie crisi, sia il fatto che altre atrocità - in Africa, come altrove, frequentemente causate proprio dagli Stati Uniti o dai loro alleati - non sembrano meritare lo stesso livello di attenzione e mobilitazione.
In relazione alla Nigeria, ad esempio, il governo nigeriano ha più di una responsabilità nell’esplosione della violenza per mano di Boko Haram. Innanzitutto, le diversità etniche e religiose del paese sono state spesso alimentate con conseguenze disastrose per dividere una popolazione in larghissima parte costretta in condizioni di miseria estrema nonostante le ricchezze petrolifere a disposizione.
Nella battaglia contro i militanti del gruppo integralista, inoltre, Abuja continua a utilizzare metodi repressivi, ricorrendo a torture, detenzioni illegali e omicidi deliberati di migliaia di innocenti, facendo aumentare il risentimento verso le autorità centrali soprattutto tra la popolazione di fede islamica.Il governo della Nigeria non è però il solo responsabile di una situazione di crescente precarietà che si estende a tutta la regione del Sahel. Boko Haram, infatti, come altre formazioni islamiste è sembrata beneficiare della destabilizzazione di tutta l’area in seguito ad un’altra impresa “umanitaria” occidentale, il rovesciamento del regime di Gheddafi in Libia nel 2011.
Gli effetti di questa campagna si erano fatti sentire inizialmente in Mali, dove un’organizzazione legata ad Al-Qaeda e gli indipendentisti Tuareg avevano preso il controllo del nord dello sterminato paese, richiedendo un altro intervento esterno, questa volta condotto dalla Francia.
La suddivisione del lavoro svolto dai governi occidentali nel gettare le basi della rioccupazione dell’Africa sta vedendo proprio Parigi in prima fila, essendo la ex potenza coloniale di vari paesi nei quali è stato deciso l’invio di truppe straniere.
Come ora in Nigeria, così era stato in Costa d’Avorio e più recentemente nella Repubblica Centrafricana, gettata nel caos guarda caso proprio da un colpo di stato favorito almeno tacitamente dalla Francia contro un presidente già protetto da Parigi e successivamente macchiatosi, tra l’altro, di eccessive aperture economiche e diplomatiche verso la Cina.
Gli Stati Uniti, com’è ovvio, rimangono però la forza trainante del riallineamento strategico occidentale in Africa, come dimostra l’impegno assunto in questi giorni in Nigeria con il pretesto delle studentesse rapite. Solo di qualche giorno fa è ad esempio l’annuncio di un accordo tra Washington e il governo di Gibuti per il prolungamento decennale della concessione alle forze USA di una gigantesca base nel piccolo paese affacciato sul Golfo di Aden, nel Corno d’Africa.
Lo strumento della politica statunitense in questo continente è il Comando Africano (AFRICOM), attivato ufficialmente dall’amministrazione Bush nell’ottobre del 2008, attraverso il quale Washington ha aumentato enormemente il proprio impegno militare e non solo, fino ad avere oggi almeno 5 mila uomini stanziati in maniera più o meno permanente in oltre trenta paesi.
A livello formale, i contingenti americani assumono spesso il ruolo di “consiglieri” dei vari governi ospitanti o svolgono incarichi “umanitari”, principalmente per evitare l’opposizione popolare all’impiego di forze armate degli Stati Uniti entro i confini dei propri paesi, come conferma il fatto che, a quasi sei anni dall’inaugurazione, il quartier generale di AFRICOM continua a rimanere in una base nella lontana Stoccarda.
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di Michele Paris
Il più recente atto di repressione contro il movimento Occupy Wall Street che aveva scosso gli Stati Uniti tra il 2011 e il 2012 è andato in scena questa settimana in un’aula di tribunale di New York, dove la studentessa 25enne Cecily McMillan è stata ritenuta colpevole dell’aggressione ad un poliziotto che la stava arrestando durante una protesta organizzata nel marzo del 2012.
Il procedimento legale ai danni della giovane attivista è durato incredibilmente due anni e si è concluso ancora più incredibilmente con un verdetto di condanna, nonostante le prove schiaccianti non solo della sua innocenza in relazione ai fatti addebitati, ma anche delle violenze da lei stessa subite e dell’abituale brutalità dell’agente di polizia, indicato come “vittima” nel processo.
I fatti in questione risalgono al 17 marzo di due anni fa, quando, al termine di una manifestazione nel parco Zuccotti, a Manhattan, per celebrare i sei mesi dalla nascita del movimento Occupy Wall Street, Cecily McMillan venne arrestata assieme ad una settantina di altri attivisti.
Il “crimine” commesso da quest’ultima sarebbe stato un colpo inferto con il gomito contro il viso dell’agente della polizia di New York, Grantley Bovell, il quale era però intento ad afferrarla in modo estremamente brusco da dietro la schiena. La ragazza ha sempre sostenuto di avere reagito istintivamente a quella che essa stessa riteneva un’aggressione, senza nemmeno accorgersi che la persona alle sue spalle fosse un poliziotto.
La versione della McMillan è stata supportata da numerose testimonianze, così come da filmati e immagini scattate durante l’arresto. Inoltre, in seguito all’assalto della polizia, l’accusata fu vittima di un malore che rese necessario il ricovero in ospedale. A causa delle percosse subite, la presunta assalitrice avrebbe poi presentato ematomi e ferite varie a schiena, spalle, testa e seno, tutte puntualmente documentate da immagini fotografiche.Come in un processo in uno stato di polizia, queste prove sono state tuttavia bollate come altamente sospette dall’accusa, quando non escluse del tutto, mentre la deposizione dell’agente Bovell - il quale, secondo alcuni reporter presenti in aula, si sarebbe addirittura sbagliato nell’indicare l’occhio colpito dal gomito di Cecily McMillan - è stata giudicata inattaccabile.
L’altra prova presentata dalla procuratrice Erin Choi è risultata poi essere un filmato di meno di un minuto e di pessima qualità apparso in maniera anonima su YouTube che avrebbe mostrato il momento in cui l’accusata ha colpito l’agente Bovell, tralasciando ciò che aveva causato la reazione istintiva della giovane e le stesse operazioni in corso delle forze di polizia, impegnate a percuotere e arrestare in maniera indiscriminata i manifestanti.
Come se non bastasse, il giudice scelto a presiedere il processo, Ronald Zweibel, si è anche rifiutato di ammettere come prova a discolpa della McMillan i referti medici sulle sue condizioni dopo le percosse ricevute per mano della presunta vittima. Il giudice Zweibel ha infine giudicato irrilevanti le testimonianze di altri attivisti che quella stessa sera del 17 marzo 2012 erano finiti ugualmente vittime dello stesso agente Bovell, tra cui un giovane al quale il poliziotto avrebbe sbattuto ripetutamente la testa contro i sedili dell’autobus utilizzato per trasportare gli arrestati.
Fuori dagli atti sono rimasti infine anche i file relativi ad almeno due procedimenti disciplinari subiti da Bovell durante la sua carriera nella polizia, il primo dopo che aveva investito un 17enne nel corso di un inseguimento e l’altro per avere colpito ripetutamente un sospettato steso sul pavimento di un negozio del Bronx.
Cecily McMillan, in ogni caso, dopo la condanna è stata subito trasferita nel famigerato carcere di Rikers Island, nell’East River di New York, dove attenderà il verdetto relativo alla pena da scontare, previsto per il 19 maggio, che potrebbe arrivare fino a sette anni.
Secondo l’avvocato della difesa, la decisione del giudice di escludere la possibilità di cauzione nel caso della sua assistita risulta alquanto insolita e conferma il carattere vendicatorio dell’intero procedimento. L’imputata, secondo il suo legale, sconterebbe in particolare il rifiuto del patteggiamento proposto dalla procura, secondo il quale la McMillan avrebbe dovuto accettare un capo d’accusa minore e in cambio sarebbero stati lasciati cadere quelli più gravi. L’attivista americana ha invece coraggiosamente insitito sulla sua innocenza, anche se accettando il patteggiamento non avrebbe fatto un solo giorno di carcere.
Viste le “anomalie” del processo di primo grado appena concluso, sembrano esserci ora ampi spazi per un ribaltamento della sentenza in appello. In molti mettono però in guardia dal clima intimidatorio nei confronti dei movimenti di protesta negli Stati Uniti e il crescente utilizzo dei tribunali per scoraggiare qualsiasi forma di dissenso contro il sistema.Le stesse modalità con cui il movimento Occupy Wall Street era stato represso durante il mandato dell’ex sindaco multi-miliardario di New York, Michael Bloomberg, testimoniano a sufficienza sia dei timori della classe dirigente USA per una rivolta sociale strisciante contro le enormi disuguaglianze che caratterizzano questo paese sia la mancanza di scrupoli nell’utilizzare metodi di polizia anti-democratici, spesso condannati dal governo di Washington quando vengono messi in atto da paesi nemici.
Occupy Wall Street, d’altra parte, pur non offrendo una chiara prospettiva politica ed economica alternativa, aveva per la prima volta da molti anni portato al centro del dibattito le esplosive questioni di classe esistenti negli Stati Uniti, mettendo l’accento sull’accentramento del potere politico ed economico nelle mani di una ristrettissima cerchia, identificata con lo slogan dell’1%.
Ciò aveva incontrato un certo sostegno tra la popolazione, così che le autorità hanno ben presto proceduto con la repressione dei vari centri di protesta che erano sorti nelle principali città americane, quasi sempre con la giustificazione di dover fare rispettare l’ordine pubblico o, quando sono stati smantellati gli accampamenti pacifici nei parchi cittadini, le norme sanitarie.
Tra i sostenitori di Occupy Wall Street gli arresti sono stati alla fine migliaia, anche se la grande maggioranza dei fermati sarebbero stati successivamente rilasciati senza essere incriminati, soprattutto dopo che il movimento ha iniziato a perdere energia. La vicenda di Cecily McMillan, perciò, risulta emblematica e la giovane attivista potrebbe essere stata presa di mira come esempio, visto che era stata una degli organizzatori del movimento ed era apparsa in molte cronache sui principali giornali nazionali.
Il suo caso, inoltre, spicca per la ferocia e la determinazione con cui l’ufficio del procuratore distrettuale di New York, il democratico Cyrus Vance jr., ha perseguito la condanna in aula. Determinazione che il figlio dell’ex segretario di Stato americano ai tempi di Jimmy Carter ha invece mancato di dimostrare nei confronti di reali associazioni a delinquere come le principali banche di Wall Street, le cui attività criminali rientrerebbero interamente nelle competenze della procura della Grande Mela.
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di Mario Lombardo
Dopo sei mesi di scontri e proteste di piazza, l’opposizione anti-governativa e i tradizionali centri di poteri thailandesi hanno ottenuto uno dei loro obiettivi principali nella giornata di mercoledì grazie ad una sentenza tutta politica del più altro tribunale del paese del sud-est asiatico. Quello che è avvenuto a Bangkok è stato nulla di meno di un golpe giudiziario, portato a termine dalla Corte Costituzionale contro il primo ministro, Yingluck Shinawatra, rimossa dal suo incarico con l’accusa di “abuso di potere”.
Il procedimento contro il capo del governo era stato avviato da alcuni senatori dell’opposizione ed era legato al trasferimento ad altro incarico del numero uno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Thawil Pliensri, nel settembre del 2011 subito dopo la vittoria elettorale del partito Pheu Thai. Secondo l’accusa, Thawil era stato messo da parte per fare spazio ad un membro di quest’ultimo partito, nonché parente di Yingluck, Priewpan Damapong, con modalità che, appunto, avrebbero indicato un “abuso di potere”.
La decisione rischia ora di aggravare ulteriormente la situazione già tesa in Thailandia, soprattutto in vista delle annunciate iniziative dei sostenitori del governo nelle strade della capitale, Bangkok. Inoltre, la Corte Costituzionale ha declinato la nomina di un nuovo premier, così che un esecutivo già notevolmente indebolito e con un incarico ad interim dallo scorso dicembre si troverà a dover gestire una difficile uscita dalla crisi e a provare ad evitare il completamento di un colpo di stato sempre più probabile.
I nove giudici della Corte Costituzionale thailandese hanno dunque votato all’unanimità per condannare Yingluck e rendere nullo il suo status di primo ministro. Contemporaneamente, anche una decina di ministri in carica ora e durante i fatti incriminati sono stati sollevati dai loro incarichi, tra cui quelli delle Finanze, degli Esteri e del Lavoro.
Secondo la Corte, la rimozione di Thawil dalla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale rientrava in realtà tra i poteri del premier, ma la decisione sarebbe stata presa in maniera precipitosa e, soprattutto, allo scopo unico di liberare l’incarico per un suo parente. La natura quanto meno bizzarra del procedimento contro Yingluck e le ragioni puramente politiche dietro ad esso sono confermate poi dal fatto che lo stesso Thawil era stato reintegrato lo scorso marzo al suo posto da un tribunale amministrativo thailandese, mentre egli stesso aveva più volte affermato le sue simpatie per il movimento di opposizione anti-governativo.
Anche se la sentenza di mercoledì incoraggerà le forze anti-governative a dare la spallata decisiva a quello che viene definito come il “regime degli Shinawatra”, alla maggioranza del Pheu Thai è stata riconosciuta la possibilità di scegliere un nuovo premier provvisorio per traghettare il paese verso nuove elezioni. Poche ore dopo il verdetto, così, un vertice del partito ha nominato il ministro del Commercio, Niwatthamrong Boonsongpaisarn, alla carica di premier ad interim al posto di Yingluck.L’opposizione politica dominata dal Partito Democratico e quella attiva nelle piazze, organizzata nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), intendono invece rimandare la data del voto, così da creare un esecutivo di transizione non eletto che operi una serie di “riforme” volte a sradicare l’influenza della famiglia di Yingluck e dell’ex premier in esilio Thaksin.
Proprio settimana scorsa, l’ex primo ministro Democratico, Abhisit Vejjajiva, aveva incontrato i vertici supremi delle forze armate thailandesi - finora ufficialmente neutrali anche se con chiare simpatie per l’opposizione - proponendo una sorta di “road map” per superare lo stallo, con contenuti virtualmente simili a quelli avanzati da mesi dai leader del PDRC.
La data del voto era stata in ogni caso stabilita recentemente per il 20 luglio prossimo tra il governo e la Commissione Elettorale. Ciò si è reso necessario dopo che sempre la Corte Costituzionale aveva invalidato l’elezione dello scorso febbraio vinta dal Pheu Thai, poiché non si era potuta tenere in un unico giorno in tutto il paese a causa proprio delle manifestazioni di protesta messe in atto dai gruppi di opposizione.
Dopo la sentenza di mercoledì, la premier Yingluck ha respinto le accuse di abuso di potere, mentre molto dura è stata la reazione del numero due del partito Pheu Thai, Phokin Palakul, il quale ha definito il parere della Corte Costituzionale come un tentativo di distruggere la sua formazione politica. Phokin ha poi invitato tutti i thailandesi “che amano la democrazia ad esprimere la loro opposizione alla sentenza in modi pacifici”, mentre ha affermato che il voto di luglio servirà a “risolvere la crisi politica in maniera democratica”.
L’appello alla mobilitazione del leader del partito Pheu Thai fa eco alle minacce dei vertici delle cosiddette “Camicie rosse” filo-governative di portare centinaia di migliaia di thailandesi nelle strade di Bangkok. Alcuni giorni fa, in previsione della decisione della Corte su Yingluck, il numero uno delle “Camicie rosse”, Jatuporn Prompan, aveva annunciato una manifestazione nella capitale per sabato prossimo, anche se già giovedì potrebbero esserci i primi cortei a sostegno della deposta premier.
I simpatizzanti del governo in carica vengono in larga misura dalle aree rurali della Thailandia tradizionalmente emarginati dalla borghesia della capitale e delle provincie meridionali del paese, da dove il Partito Democratico, la casa regnante, le Forze Armate e la burocrazia statale traggono il proprio sostegno.
Queste ultime forze si sentono da tempo minacciate dall’irruzione sulla scena politica thailandese del clan Shinawatra, a cominciare dal successo elettorale nel 2001 di Thaksin che lo portò per la prima volta alla guida del governo. Il magnate delle telecomunicazioni ha da allora coltivato una solida base elettorale tra i ceti più disagiati del suo paese, soprattutto attraverso limitate politiche di riforma sociale.
Avendo perso ogni elezione da due decenni a questa parte, il Partito Democratico, con l’appoggio dei centri di potere ad esso vicini, ha allora utilizzato i militari e i tribunali per cercare di liquidare dapprima lo stesso Thaksin e in seguito i governi e i partiti che lo hanno succeduto.
Un ruolo di primo piano in questo senso lo ha giocato proprio la Corte Costituzionale, le cui prerogative erano state ampliate dalla nuova Costituzione redatta nel 2007 da una commissione nominata dalla giunta militare dopo il colpo di stato dell’anno precedenti ai danni di Thaksin.Sempre nel 2007, poi, per via giudiziaria venne sciolto il partito di Thaksin - Thai Rak Thai - con l’accusa di violazione della legge elettorale e più di 100 suoi membri furono banditi dall’attività politica per cinque anni. Nel 2008, la Corte Costituzionale avrebbe messo fuori legge anche il successore del Thai Rak Thai, il Partito del Potere Popolare, e rimosso contestualmente dalla carica di primo ministro Somchai Wongsawat, cognato di Thaksin. Poche settimane prima, la stessa sorte di quest’ultimo era toccata al suo predecessore, il defunto Samak Sundaravej, colpevole di non avere abbandonato la conduzione di un programma culinario in televisione dopo la nomina a primo ministro.
Queste iniziative giudiziarie si sono risolte infine nell’ascesa al potere senza passare attraverso il voto popolare del Partito Democratico sotto la guida di Abhisit, responsabile assieme al suo vice e all’attuale leader del PDRC, Suthep Thaugsuban, della durissima repressione avvenuta a Bangkok nel 2010 delle “Camicie Rosse”, tra i cui sostenitori si contarono un centinaio di morti.
Se, ad esempio, Suthep rimane oggi in libertà nonostante un mandato di arresto per avere ordinato il massacro, i tribunali thailandesi sono tornati a perseguire i vertici del nuovo governo a partire dall’autunno scorso, quando sono riesplose le proteste di piazza in seguito ad un fallito tentativo da parte del partito di maggioranza di modificare la Costituzione e di fare approvare un’amnistia che avrebbe permesso a Thaksin di rientare in patria nonostante una condanna per abuso di potere.
Oltre al procedimento che ha portato mercoledì alla destituzione di Yingluck, la ormai ex premier e vari parlamentari del suo partito erano finiti al centro di altri procedimenti motivati politicamente, usati come strumento per operare un cambio di governo.
Yingluck è accusata anche di avere gestito in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato, mentre decine di parlamentari del Pheu Thai erano stati indagati sostanzialmente per avere fatto il loro dovere, presentando cioè la già citata proposta di modifica costituzionale per rendere interamente elettivo il Senato thailandese.
La situazione nel paese dell’Asia sud-orientale rischia dunque di precipitare nei prossimi giorni, oltretutto con gli indicatori economici continuamente ritoccati verso il basso a causa del persistere delle tensioni interne.
Nelle ultime settimane erano perciò aumentate le voci preoccupate per lo stallo a Bangkok, con gli ambienti politici e finanziari internazionali sempre più orientati a tollerare - almeno tacitamente - un colpo di mano per togliere di mezzo il governo di Yingluck e favorire uno sblocco della situazione che, contestualmente, potrebbe portare alla fine definitiva delle politiche populiste favorite dal Pheu Thai e incanalare anche la Thailandia sulla strada dell’austerity.
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di Michele Paris
Le possibilità di un’attesa testimonianza di Edward Snowden di fronte al Parlamento tedesco sono con ogni probabilità svanite nei giorni scorsi in seguito all’intervento del governo di Berlino per mettere il veto sull’apparizione in qualsiasi forma dell’ex contractor della NSA nell’ambito dell’inchiesta in corso in Germania sulle operazioni illegali di intercettazione telefonica dell’agenzia spionistica americana.
Pressoché in concomitanza con la visita della cancelliera Merkel a Washington, il gabinetto formato da CDU/CSU e SPD ha indirizzato una comunicazione di trenta pagine al Bundestag, nella quale, con toni tipici di un regime dittatoriale, viene affermata l’inopportunità della testimonianza di Snowden per non compromettere “la sicurezza dello Stato”.
Il documento del governo tedesco è stato reso noto dal quotidiano Süddeutsche Zeitung e valuta un eventuale invito rivolto a Snowden ad apparire davanti alla speciale commissione d’inchiesta parlamentare sui crimini della NSA come un atto contrario agli “interessi politici della Repubblica Federale di Germania”. Ciò, infatti, rischierebbe di danneggiare in maniera permanente i rapporti con gli Stati Uniti, mettendo a repentaglio anche la collaborazione tra i servizi segreti dei due paesi alleati.
Vista la precaria situazione legale di Snowden a causa della vera e propria campagna persecutoria del governo USA cui è sottoposto, inoltre, la sua presenza in Germania avrebbe dovuto essere garantita dalla concessione dell’asilo politico. Già lo scorso anno, però, il governo di Berlino aveva respinto la domanda dei legali di Snowden, con la scusa che quest’ultimo non aveva fatto richiesta di asilo di persona sul suolo tedesco.
Un invito da parte del Parlamento tedesco avrebbe ora potuto soddisfare questo requisito, così che il gabinetto Merkel ha deciso di evitare qualsiasi complicazione con Washington, sostenendo alla fine che, per la prosecuzione dell’inchiesta sulla NSA, sarà sufficiente una dichiarazione scritta di Snowden.
La presa di posizione del governo, come sostiene il Süddeutsche Zeitung, determinerà poi anche lo stop definitivo di un procedimento criminale ai danni della NSA che la giustizia tedesca - teoricamente indipendente - stava valutando fin dall’inizio dell’anno, in particolare dopo le rivelazioni relative al monitoraggio da parte americana del telefono personale di Angela Merkel.
Gli uffici della procura federale deputati all’indagine avrebbero già accettato la decisione del governo e sarebbero persuasi ad abbandonare ogni sforzo anche a causa della più che certa mancanza di collaborazione legale degli Stati Uniti.Per dare ancora maggiore sostanza alla propria imposizione, il governo è andato anche oltre, minacciando di fatto i membri del Parlamento. Secondo una rivelazione del settimanale Der Spiegel, la posizione dell’Esecutivo nei confronti di Snowden e della commissione di inchiesta sulla NSA si sarebbe basata su di un parere dello studio legale di Washington “Rubin, Winston, Diercks & Cooke”, il quale afferma che chiunque dovesse entrare in contatto con l’ex analista americano sarebbe a rischio di incriminazione.
Uno degli avvocati che hanno redatto il documento in questione sostiene che gli Stati Uniti avrebbero la giurisdizione per incriminare coloro che dovessero ricevere informazioni classificate da Snowden, al di là della loro nazionalità e del luogo in cui tali incontri dovessero avvenire. I politici tedeschi, in questo caso, non godrebbero degli stessi diritti che hanno in Germania nel caso mettessero piede negli USA.
Oltre a ribadire il chiaro tentativo di intimidire chiunque intenda dare spazio alle rivelazioni di Snowden, come ha spiegato il legale americano di quest’ultimo, una simile interpretazione risulta anche giuridicamente assurda, visto che l’ex contractor della NSA non si è mai offerto di rivelare nuove operazioni di sorveglianza nel caso fosse stato sentito come testimone dal Parlamento tedesco.
La più recente mossa del governo Merkel, in ogni caso, è la logica conseguenza dell’atteggiamento tenuto in seguito alle rivelazioni di Snowden sulle attività di sorveglianza elettronica della NSA ai danni dei cittadini tedeschi. Le reazioni dell’establishment politico avevano iniziato infatti ad assumere toni relativamente duri solo quando erano emersi i particolari riguardanti le intercettazioni da parte americana delle comunicazioni private dei vertici dello stato tedesco.
La Merkel e il suo governo avevano allora espresso cautamente il loro malcontento nei confronti di Washington, dando sfogo a timori legati esclusivamente ai possibili vantaggi in ambito strategico ed economico che gli USA avrebbero potuto avere in questo modo sulla Germania.
Gli scrupoli per i diritti democratici della popolazione tedesca non sono invece mai stati seriamente considerati, se non in relazione al sentimento anti-americano diffusosi nel paese, come conferma appunto il recente veto posto alla testimonianza di Snowden al Bundestag. Tali diritti, cioè, sono stati totalmente subordinati agli “interessi dello stato”, vale a dire alla conservazione dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti, i cui metodi illegali di spionaggio la Germania ha finito per accettare e, in molti casi, appoggiare e condividere.
Anche le stesse trattative volute da Berlino per normalizzare i rapporti tra le due intelligence tramite un accordo bilaterale sulle attività di spionaggio - sul modello di quelli in vigore tra gli USA e i loro più stretti alleati Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda - restano in alto mare, come è apparso chiaro dall’incontro tra Obama e la Markel nei giorni scorsi.L’atteggiamento del governo rappresenta comunque un motivo di imbarazzo per molti politici del partito della Merkel, così come per i socialdemocratici, poiché entrambe le formazioni ora al governo nella “Grosse Koalition” nel mese di marzo avevano promesso di fare luce sulle pratiche della NSA in Germania, principalmente a seguito dell’indignazione popolare sollevata dalle rivelazioni di Snowden.
Molti parlamentari si sono mostrati perciò irritati, tanto che uno dei membri della commissione di inchiesta per il partito dei Verdi ha addirittura ipotizzato un ricorso sulla questione alla Corte Costituzionale Federale, il più alto tribunale tedesco.
Il governo, però, non sembra intenzionato a fare alcuna marcia indietro, visto che, oltre a impedire a Snowden di volare in Germania, ha già annunciato che la commissione avrà un accesso solo parziale ai documenti classificati relativi alle attività della NSA in proprio possesso.
D’altra parte, una reale indagine a tutto campo non farebbe altro che mettere in luce le responsabilità stesse delle strutture dello stato tedesco nelle operazioni di sorveglianza illegali della NSA e del GCHQ britannico (Government Communications Headquarters).
Il timore di mettere a rischio questa collaborazione è ugualmente uno dei motivi principali delle decisioni del gabinetto Merkel in merito a Snowden, dal momento che l’agenzia di intelligence “esterna” (BND, Bundesnachrichtendienst), quella domestica (BfV, Bundesamt für Verfassungsschutz) e quella militare (MAD, Amt für den militärischen Abschirmdienst) scambiano quotidianamente montagne di dati con le loro controparti americane, aggirando le limitazioni previste in entrambi i paesi sulla raccolta di informazioni relative ai propri connazionali.
L’altra ragione della docilità tedesca verso gli USA riguarda infine l’Ucraina. Berlino, in sostanza, non intende creare frizioni con Washington in una delicata fase segnata dalle manovre congiunte anti-russe dei due alleati nel paese dell’Europa orientale.
La Germania di Angela Merkel, assieme agli Stati Uniti, è stata infatti in prima linea nel promuovere il regime golpista di Kiev infestato da forze neo-fasciste violente, minacciando conseguenze contro il Cremlino per fantomatiche violazioni del diritto internazionale proprio mentre ha finito per condonare quelle ben più gravi ed evidenti contro i propri cittadini di cui continua a macchiarsi l’alleato americano.
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di Michele Paris
A quasi sei anni dall’esplosione della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione, il panorama economico e sociale negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente si presenta ben diverso da quello che caratterizzava il periodo antecedente il tracollo avvenuto su scala planetaria. In particolare, i proclami relativi ad una presunta ripresa economica in corso e al ristabilimento dei livelli di occupazione precedenti la crisi sono contraddetti da una realtà segnata da una profonda ristrutturazione dei rapporti di classe con il conseguente irreversibile deterioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori.
A mettere l’accento sulla vera natura della ripresa economica è stato qualche giorno fa uno studio pubblicato dall’organizzazione americana National Employment Law Project (NELP). I dati si riferiscono agli Stati Uniti del “dopo crisi”, ma il dilagare di precarietà e posti di lavoro drammaticamente sottopagati che viene descritto può essere facilmente riconosciuto dai lavoratori di qualsiasi paese europeo e non solo.
Il cuore della ricerca indica come, durante questi anni teoricamente segnati da un ritorno a livelli accettabili dell’economica a stelle e strisce, abbia avuto luogo una perdita estremamente consistente di impieghi caratterizzati da stipendi considerati “medio-alti”, sostituiti da un numero sproporzionatamente elevato di posti di lavoro sottopagati.
Nel sottolineare come continui a persistere uno squlibrio tra “le industrie che hanno fatto segnare una perdita di posti di lavoro e quelle che hanno registrato la maggiore crescita dall’inizio della ripresa economica”, i ricercatori del NELP rivelano che i settori dell’economia USA che offrono impieghi pagati non più di 13 dollari l’ora hanno perso il 22% dei posti di lavoro complessivi durante la recessione ma ne hanno creati ben il 44% di quelli totali negli ultimi quattro anni.
Poco meno della metà dei posti di lavoro prodotti dalla fine teorica della crisi, cioè, pagano stipendi da fame, mentre i posti di questo genere persi durante la recessione erano stati appena un quinto, o poco più, del totale.
I posti di lavoro svaniti nei settori che rientrano nella fascia a medio (da 13 a 20 dollari l’ora) e ad “alto” reddito (da 20 a 32 dollari l’ora) sono stati invece molti di più: rispettivamente il 37% e il 41% del totale. In queste due fasce, tuttavia, sono stati creati finora appena il 26% e il 30% degli impieghi complessivi dopo l’uscita ufficiale dalla crisi.
A tutt’oggi, così, negli Stati Uniti ci sono 1,85 milioni di posti di lavoro in più nei settori sottopagati rispetto al periodo pre-crisi, mentre quelli che garantiscono stipendi medio-alti sono quasi 2 milioni in meno.
Le paghe più misere sono genericamente elargite agli impiegati di settori come quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, i quali garantiscono stipendi medi di nemmeno 10 dollari l’ora, e sono responsabili per il 39% dell’aumento dei posti di lavoro in ambito privato negli ultimi quattro anni.
Particolarmente colpiti sono invece i settori di solito associati con lavori ben pagati, come quelli dell’edilizia o dell’industria manifatturiera, dove il numero di posti creati non ha nemmeno lontanamente eguagliato quelli persi dall’inizio della crisi nel 2008. Nel primo caso, i posti in meno sono il 20% e nel secondo almeno l’11%.
Questo fenomeno appena descritto è del tutto nuovo per i periodi successivi alle crisi cicliche del sistema capitalistico, tanto che, ad esempio, durante la ripresa dopo la recessione del 2001 i settori ad “alto” reddito furono in grado di creare il 40% dei nuovi posti di lavoro complessivi.Se l’analisi dell’istituto di ricerca con sede a New York si concentra sul settore privato, essa evidenzia anche come la situazione attuale sia aggravata dal fatto che l’amministrazione pubblica negli USA durante l’era Obama abbia distrutto in questi anni 627 mila posti di lavoro che garantivano un reddito dignitoso, di cui addirittura il 44% nel solo ambito scolastico.
Il quadro complessivo che esce dallo studio del NELP conferma dunque la vera natura della ripresa economica di questi anni - taciuta da politici, imprenditori e media “mainstream” - tradottasi in un ridimensionamento forzato dei livelli di vita per decine di milioni di lavoratori sufficientemente fortunati da trovare un qualche impiego dopo essere stati licenziati.
Al contrario, la ripresa effettiva ha riguardato quasi esclusivamente i profitti delle grandi aziende e le grandi ricchezze finanziarie, direttamente dipendenti dal processo deliberato di impoverimento di massa e dallo stravolgimento dei rapporti di classe appena descritto.
In concreto, tutto ciò si è tradotto in una riduzione di oltre l’8% del reddito medio degli americani tra il 2007 e il 2012, proprio mentre le ricchezze dei miliardari negli Stati Uniti sono più che raddoppiate, salendo ad un totale di 1.200 miliardi di dollari.
Che l’assalto alle condizioni di vita dei lavoratori per la difesa e la promozione degli interessi di una ristretta oligarchia economico-finanziaria non sia il risultato di forze impersonali bensì di politiche deliberate è confermato in primo luogo dal ruolo avuto dall’amministrazione Obama nella compressione delle retribuzioni.
Subito dopo l’esplosione della crisi, infatti, il neo-presidente democratico aveva forzato la bancarotta e la ristrutturazione di General Motors e Chrysler, imponendo tra l’altro il sostanziale dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti in aziende, come quelle automobilistiche, che tradizionalmente fissano i parametri retributivi dell’industria manifatturiera americana.
Anche in questo settore, così, gli stipendi si sono allineati a quelli peggio pagati, perfettamente in linea con gli sforzi di Obama di rivitalizzare e rendere più competitiva l’industria degli Stati Uniti, attraverso la riduzione del gap tra le retribuzioni dei lavoratori indigeni e quelli dei paesi asiatici, latino-americani o dell’Europa orientale.
Le conseguenze di tali sviluppi sono state, da un lato, disoccupazione cronica, stagnazione o taglio degli stipendi, esplosione di lavori temporanei e part-time, smantellamento di diritti e benefit vari conquistati nei decenni scorsi dai lavoratori, con conseguente incremento dei livelli di povertà, mentre dall’altro sono decollati i profitti delle corporation, saliti ad una quota dell’economia pari oggi all’11% contro appena il 3% di nemmeno trent’anni fa.Lo studio pubblicato dal NELP, in ogni caso, si è inserito nel dibattito in corso negli Stati Uniti attorno all’opportunità di innalzare il livello dello stipendio minimo, vale a dire uno dei punti centrali della campagna elettorale di Obama e del Partito Democratico in vista del voto di novembre per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington.
La “battaglia” del presidente e dei suoi colleghi di partito al Campidoglio - impegnati in questi anni a perseguire esattamente l’obiettivo contrario - ha patito però un’umiliante sconfitta proprio settimana scorsa, quando una proposta di legge per alzare la paga minima oraria a livello federale è stata bloccata sul nascere al Senato dall’ostruzionismo repubblicano.
Osteggiata da ampie sezioni dell’imprenditoria americana, questa iniziativa non aveva comunque nessuna possibilità di andare in porto, dal momento che, se anche avesse superato l’ostacolo del Senato, la Camera a maggioranza repubblicana non l’avrebbe con ogni probabilità nemmeno discussa in aula.
La proposta partorita dai democratici, oltretutto, avrebbe portato lo stipendio minimo federale da 7,25 a 10,10 dollari l’ora, ad un livello cioè inferiore - in termini reali - a quello di mezzo secolo fa. Secondo un recente studio, piuttosto, tenendo conto dell’inflazione e dell’aumento della produttività, la retribuzione minima negli Stati Uniti dovrebbe oggi essere fissata ad un livello non lontanto dai 22 dollari l’ora.