di Mario Lombardo

Il drastico spostamento a destra del nuovo governo francese dopo la batosta subita dal Partito Socialista (PS) nelle recenti elezioni amministrative è apparso questa settimana in tutta la sua evidenza in seguito alla presentazione ufficiale da parte del neo-primo ministro, Manuel Valls, di un piano di tagli alla spesa pubblica per i prossimi tre anni.

Dopo l’umiliante rovescio elettorale del mese di marzo che aveva fatto perdere ai socialisti il controllo di centinaia di municipalità francesi a beneficio dei gollisti dell’UMP e del Fronte Nazionale di estrema destra, il presidente Hollande aveva respinto deliberatamente la richiesta popolare di politiche finalmente progressiste per lanciare invece un messaggio inequivocabile a Bruxelles e agli ambienti finanziari internazionali circa le intenzioni del suo governo di proseguire con le “riforme” del sistema Francia.

La sostituzione del premier Jean-Marc Ayrault con il suo ministro dell’Interno Valls - con ogni probabilità quello posizionato ideologicamente più a destra tra gli uomini di governo - aveva preannunciato l’accelerazione in senso liberista delle politiche economiche di Parigi.

Lasciati da parte i timori nell’affrontare voci di spesa politicamente molto delicate, il governo socialista intende dunque portare attacchi diretti alle pensioni e al sistema sanitario d’oltralpe. Il piano di revisione della spesa pubblica del governo Valls è stato così rivelato nella giornata di mercoledì e prevede tagli per ben 50 miliardi di euro da implementare tra il 2015 e il 2017.

Nel dettaglio, le riduzioni di spesa arriveranno per 18 miliardi dal bilancio della macchina statale, per 11 miliardi da quello delle istituzioni locali, per 10 miliardi dalla sanità e per 11 miliardi da altre prestazioni sociali che verranno decurtate più o meno severamente.

“Sono costretto a dire la verità ai francesi”, ha affermato Valls dopo la riunione settimanale del suo governo alla presenza di Hollande. “La nostra spesa pubblica rappresenta il 57% della ricchezza nazionale e non ci è più possibile vivere al di sopra dei nostri mezzi”. Il welfare relativamente generoso della Francia è d’altra parte da tempo nel mirino della classe dirigente transalpina, preoccupata per livelli di spesa eccessivi rispetto, ad esempio, a quelli della Germania.

Ciò viene considerato uno spreco di risorse che possono essere dirottate, tra l’altro, verso tagli al carico fiscale delle aziende private, comprimendo salari, pensioni e servizi pubblici.

L’operazione del governo francese è stata accompagnata da dichiarazioni ufficiali che hanno cercato di convincere i francesi dell’inevitabilità dei tagli. Lo stesso Hollande ha definito “difficili” le decisioni annunciate da Valls anche se “indispendabili”. “Talvolta - ha spiegato cinicamente il presidente socialista - è più facile rimandare le decisioni dolorose o chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma in questa occasione ho voluto finalmente guardare in faccia la realtà”. Valls, da parte sua, in un intervento serale su France 2, ha escluso che i tagli per 50 miliardi di euro alla spesa pubblica rappresentino un piano di austerity.

Le misure che si prospettano, in realtà, includono il congelamento degli stipendi pubblici e delle pensioni, mentre le economie in ambito sanitario - definite dal primo ministro come una “migliore organizzazione delle cure” e un “uso più ragionato dei farmaci” - si risolveranno in razionamenti e riduzione della qualità delle cure stesse.

Un elenco più preciso degli ulteriori tagli sarà comunque reso noto la prossima settimana, quando il governo presenterà in Parlamento il piano ufficiale di spesa per i prossimi tre anni.

Il piano del governo è giunto poi in concomitanza con la decisione di rispettare l’impegno preso con Bruxelles per portare il rapporto deficit/PIL al di sotto del 3% entro il 2015, dopo che questo obiettivo era già stato spostato di un anno con il consenso dell’Unione Europea.

Come ha spiegato mercoledì il Wall Street Journal, perciò, una volta messi da parte i propositi di chiedere un’ulteriore proroga, la Francia si è trovata a dover manovrare “tra la promessa di Hollande di tagliare le tasse sulle aziende e la necessità di ridurre il deficit di bilancio”.

Dal momento che la prima delle due cose era già stata finalizzata qualche settimana fa, il governo ha proceduto con la seconda, assaltando la spesa pubblica e, a conferma delle politiche di classe intraprese o annunciate fin dall’insediamento di Hollande, prendendo nuovamente di mira le categorie più deboli della popolazione.

Questa realtà è confermata dal cosiddetto “Patto di responsabilità” firmato recentemente con gli industriali e alcuni sindacati, secondo il quale sono previsti 30 miliardi di euro di sgravi fiscali per le aziende e una riduzione dei contributi da esse dovuti per i dipendenti con gli stipendi più bassi.

Come la stessa scelta di Manuel Valls alla guida del governo da parte di Hollande, anche l’annuncio dei tagli alla spesa di questa settimana ha suscitato i prevedibili malumori della sinistra del Partito Socialista e delle organizzazioni sindacali.

Mentre queste ultime hanno annunciato manifestazioni di protesta contro un governo e un presidente che, peraltro, avevano contribuito a fare eleggere, alcune voci all’interno del partito al potere hanno fatto notare come la lezione impartita recentemente dagli elettori sia stata tutt’altro che compresa.

I malumori nel PS sono legati principalmente ad una popolarità del partito e dello stesso presidente in caduta libera, soprattutto in vista dell’appuntamento di maggio con il voto per le europee che minaccia di trasformarsi in un nuovo tracollo a tutto beneficio della destra all’opposizione.

di Michele Agostini

Quello che sta avvenendo in Cina, più precisamente nel sud del paese, a Dongguan, mette ancora un volta in primo piano i limiti del capitalismo globale. C’è una Corporation con gli occhi a mandorla, la Taiwanese Yue Yuen, che produce un fatturato annuo di circa 7.5 miliardi di dollari, con profitti pari a $434 milioni nel solo 2013.

Una Corporation che rifornisce i mercati di calzature del ricco e bulimico occidente: Nike, Crocs, Adidas, Reebok, Asics, New Balance, Puma, Timberland. Un gigante che occupa circa 60.000 lavoratori, molti immigrati da altre provincie del paese (che costano ancora meno).

Un paio di giorni fa la metà dei lavoratori ha incrociato le braccia: sciopero, con buona pace degli affamati mercati del lusso nel resto del mondo. Produzione in stallo, rifornimenti a rischio. Questa nuova generazione di forza lavoro chiede i contributi per assicurazione e previdenza sociale oltre che miglioramenti delle condizioni di lavoro quotidiane e pagamento del fondo casa.

China Labor Watch, organizzazione no profit che tutela i diritti dei lavoratori cinesi, ha stabilito che su 400 fabbriche monitorate negli ultimi dieci anni, nemmeno una adempie pienamente alla legge in vigore che regola le assicurazioni sul lavoro per gli operai. La legge esiste ma andrebbe anche fatta funzionare sul campo.

Appena il 5 aprile scorso vi era stato il primo sciopero dei lavoratori della Yue Yuen, praticamente ignorato dai vertici aziendali, impegnati a far lievitare i profitti della Multinazionale; è o non è l’anno dei mondiali in Brasile?

Uno dei mantra del capitalismo planetario si basa sulla competizione, un gigantesco Cinodromo, dove l’obiettivo per chi siede comodamente in tribuna è quello di far correre un intero sistema dietro ad una lepre di metallo, irraggiungibile, sempre una manciata di metri dalla sua cattura, che non avverrà mai. Il trucco è noto a tutti, ma non ai suoi partecipanti per eccellenza, costretti a corse sempre al limite, illusi che un giorno raggiungeranno quella lepre.

Preda ottimale per la grande Compagnia Globalizzata è il lavoratore che viene da aree fortemente sottosviluppate, costretto spesso a fuggirne, sovente a causa della stessa industria che lo assume, che divora ed avvelena non solo i suoli ma gli stessi mercati locali.

La preda non deve avere cultura, la cultura porta consapevolezza e la consapevolezza domande scomode. Purtroppo per questi colossi industriali, internet e le moderne tecnologie diffondono la protesta ed i diritti in ogni angolo del globo, risvegliando coscienze assuefatte alla monotonia di una fabbrica.

Appena un mese fa, sempre nel sud della Cina, a Shenzen, oltre seimila operai avevano protestato col taglio dei salari nella loro fabbrica che produce scarpe New Balance. Certo è una cultura utilitaristica, fine a se stessa, che porterà l’operaio a rientrare nei ranghi una volta raggiunto lo scopo. Ma sicuramente l’effetto domino su altre province cinesi, o altri paesi del mondo è innegabile.

Secondo il China Labour Bullettin oltre il 40% dei 1171 scioperi registrati della metà del 2011 alla fine del 2013 erano nel settore manifatturiero. Il Ministero per le risorse umane ed i Servizi Sociali della Repubblica Popolare Cinese (MOHRSS) riporta considerevoli miglioramenti nei salari minimi della popolazione: adesso dopo Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, Filippine e Malesia c’è il colosso cinese, lontanissimo dalle vette, ma in costante crescita. 1319 dollari il salario minimo mensile giapponese, 264 quello cinese.

La storia, almeno quella degli ultimi 60 anni, si ripete: il mondo occidentale, benestante, impegnato, consumista, centrifugo e civile ha bisogno di carburanti sotto pagati, sfruttati ed inquinanti per reggere a dei ritmi sempre più ai limiti. Sistemi globali, modelli globali, sogni globali, menzogne globali; tutti dietro a quella lepre sempre troppo veloce. Fargli capire che è di latta è il problema più difficile.

di Michele Paris

Nel pieno del cosiddetto dibattito in corso negli ambienti ufficiali degli Stati Uniti attorno al problema delle crescenti disuguaglianze di reddito, due studi autorevoli negli ultimi giorni hanno nuovamente messo in luce come la crisi economica in corso stia premiando enormemente la ristretta cerchia al vertice della piramide sociale a discapito della grande maggioranza della popolazione americana.

La prima delle due indagini è stata condotta dal più grande sindacato statunitense - AFL-CIO - e fotografa una realtà ormai fuori da qualsiasi logica, con gli amministratori delegati delle 350 principali compagnie USA che nel 2013 hanno ottenuto compensi in media 331 volte superiori a quelli dei lavoratori medi.

In termini concreti, l’anno scorso la crema dell’aristocrazia economico-finanziaria d’oltreoceano è stata cioè premiata per i propri servizi con una media di 11,7 milioni di dollari, a fronte di un salario medio ricevuto dai meno privilegiati pari a poco più di 35 mila dollari.

Ancora più sbalorditivo, anche se tutt’altro che sorprendente, risulta poi il divario tra gli stessi 350 “CEO” americani e i lavoratori costretti a sopravvivere con il salario minimo federale, fissato alla miseria di 7,25 dollari l’ora (circa 15 mila dollari l’anno). In questo caso, i primi hanno fatto segnare, sempre nel 2013, introiti 774 volte superiori alla paga minina.

Per comprendere la portata di dati simili è sufficiente confrontarli con il passato. Nel 1950, infatti, il rapporto tra i guadagni dei manager più pagati negli USA e i lavoratori medi era di 20 a 1, mentre nel 1980, alla vigilia della controrivoluzione reaganiana, sarebbe salito a 42 a 1.

L’incremento vertiginoso dei compensi garantiti agli amministratori delegati giunge poi spesso in situazioni aziendali segnate da licenziamenti e congelamento delle retribuzioni dei lavoratori nonostante i frequenti aumenti dei profitti.

Nell’attuale sistema capitalistico, in definitiva, la più devastante crisi economica dal dopoguerra si è tradotta in una drammatica regressione delle condizioni di vita per le fasce più povere della popolazione, mentre contemporaneamente i ricchi e i super-ricchi  (negli Stati Uniti come altrove) stanno facendo registrare livelli di agiatezza senza precedenti.

I due processi, com’è ovvio, sono strettamente legati tra di loro, visto che impoverimento di massa, disoccupazione, compressione dei salari e peggioramento delle condizioni di lavoro sono componenti fondamentali del colossale trasferimento di ricchezza in corso, favorito da politiche economiche e sociali deliberate di una classe politica che è espressione unica dei poteri forti.

Qualche giorno prima della pubblicazione del rapporto dell’AFL-CIO, il centro studi californiano Equilar aveva a sua volta reso noti i dati sui compensi degli amministratori delegati più potenti degli Stati Uniti. Secondo questa seconda indagine, la media dei guadagni ai vertici delle prime 100 corporations americane nel 2013 ha sfiorato i 14 milioni di dollari, con un incremento rispetto all’anno precedente.

A guidare la speciale classifica è ancora una volta il co-fondatore e CEO di Oracle, Larry Ellison, in grado di portarsi a casa nei dodici mesi ben 78,4 milioni di dollari tra stipendio, azioni e “stock options”.

Ellison è l’incarnazione stessa della moderna aristocrazia che ha accumulato ricchezze da favola nel pieno della devastazione sociale con cui il resto della popolazione deve fare i conti. I suoi beni sono stimati attorno ai 48 miliardi di dollari - pari alla somma dei PIL di svariate decine di paesi - e lo collocano al quinto posto tra gli individui più ricchi del pianeta. Alle centinaia di proprietà immobiliari a sua disposizione, Ellison nel 2012 ha aggiunto nientemento che un’intera isola, quella di Lanai, alle Hawaii, la sesta per estensione dell’arcipelago del Pacifico, acquistata al 98% per una somma compresa tra i 500 e i 600 milioni di dollari.

La concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochissimi è confermata anche da altri dati. Tra il 1978 e il 2012, ad esempio, lo 0,5% della popolazione ha visto aumentare la propria percentuale della ricchezza complessiva negli Stati Uniti dal 17% al 35%. Se si considera poi la ristrettissima cerchia di super-ricchi, vale a dire lo 0,1% della popolazione americana, la quota di ricchezza nelle sue mani ammonta addirittura al 20% del totale.

I due rapporti di AFL-CIO ed Equilar sono stati accolti dalla stampa americana con il consueto disinteresse, tutt’al più riproponendo l’illusione che essi serviranno a convincere la classe dirigente della necessità di intervenire con provvedimenti concreti per invertire la tendenza e porre un freno alle disparità sociali e di reddito.

Come è già avvenuto negli ultimi anni, tuttavia, simili propositi verranno disattesi anche in questa occasione, e tra dodici mesi i nuovi studi sui compensi negli USA metteranno in luce con ogni probabilità un ulteriore allargamento del gap tra ricchi e poveri.

La politica di Washington e gli stessi ambienti finanziari internazionali, in ogni caso, vedono con crescente apprensione le conseguenze in termini di tensioni sociali create da una distribuzione sempre più irrazionale delle ricchezze.

Combinandosi a scrupoli elettorali in vista del voto di novembre per il rinnovo di gran parte del Congresso, questi timori hanno da qualche tempo convinto la stessa amministrazione Obama della necessità di promuovere improbabili e insignificanti iniziative populiste per combattere le disuguaglianze sociali e di redito. Questa presunta battaglia intrapresa dalla Casa Bianca, tra una raccolta fondi alla presenza di donatori miliardari e l’altra, è stata addirittura definita dal presidente democratico come “la sfida più importante dei nostri tempi”.

Le già scarse iniziative di legge proposte per ridurre le disuguaglianze - come il limitato innalzamento dello stipendio orario minimo avanzato da Obama - rischiano inoltre di sparire del tutto nel prossimo futuro. Infatti, il dominio dei poteri forti sulla politica di Washington potrebbe, se possibile, anche aumentare in seguito ad una recente sentenza della Corte Suprema USA, la quale ha cancellato i limiti sui contributi totali che un singolo individuo può erogare alle campagne elettorali di candidati a cariche pubbliche.

Come già ricordato, questi livelli di disparità economica stanno già provocando profonda frustrazione ed esplosive tensioni sociali tra la grande maggioranza della popolazione. Per questa ragione, la classe dirigente americana  (e non solo) oltre a creare continue crisi internazionali per dirottare verso l’esterno i propri conflitti interni, ha da tempo costruito un apparato di controllo da stato di polizia per reprimere ogni forma di dissenso o ribellione, come hanno rivelato i documenti della NSA resi noti grazie a Edward Snowden. Simili disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza nelle società capitalistiche moderne, d’altra parte, risultano sempre meno compatibili con un sistema autenticamente democratico.

di Michele Paris

Il lungo elenco delle promesse mancate del candidato alla presidenza degli Stati Uniti Barack Obama una volta giunto alla Casa Bianca include la riforma dell’immigrazione e lo stop alle drastiche misure adottate per contrastare gli ingressi illegali nel paese dall’amministrazione Bush.

Dopo più di cinque anni dal suo insediamento, infatti, non solo nessuna delle due promesse è stata mantenuta dal presidente democratico, ma il suo governo si è addirittura distinto come il più spietato della storia recente americana in materia di immigrazione.

A confermarlo sono i numeri record di espulsioni di coloro che sono entrati negli USA senza permesso e la lievità dei reati a loro attribuiti - quando qualche reato lo hanno effettivamente commesso - per giustificare un provvedimento così drastico.

Entrambi gli aspetti legati alla politica immigratoria dell’amministrazione Obama sono stati al centro di una recente approfondita indagine del New York Times, dalla quale risulta evidente come, a partire dal 2009, quasi i due terzi delle deportazioni abbiano riguardato immigrati che non hanno commesso alcun atto illegale o soltanto infrazioni trascurabili, come violazioni del codice stradale. Solo il 20% dei provvedimenti totali, invece, è seguito a gravi violazioni, come quelle legate al narco-traffico.

Il confronto con gli ultimi cinque anni dell’amministrazione Bush fornisce dunque l’occasione per mettere in risalto la crescente severità dell’agenzia governativa deputata al controllo dell’immigrazione (ICE, Immigration and Customs Enforcement) dopo il passaggio di consegne alla Casa Bianca.

I casi di espulsione di immigrati coinvolti in violazioni del codice stradale sono ad esempio passati da 43 mila tra il 2004 e il 2009 a 193 mila nei cinque anni successivi sotto Obama. Triplicate sono state invece le deportazioni dovute a rientri illegali negli Stati Uniti dopo un precedente provvedimento di espulsione.

Inoltre, l’amministrazione democratica ha sempre più frequentemente incriminato in maniera formale gli immigrati irregolari espulsi, fino al 90% del totale che ha lasciato forzatamente il paese nell’anno 2013. Questa decisione fa in modo che gli immigrati in questione non possano rientrare negli USA per almeno cinque anni e, nel caso dovessero essere sorpresi nel paese senza documenti, sono certi di finire direttamente dietro le sbarre.

“Per anni”, ha spiegato al New York Times la direttrice del National Immigration Law Center, Mariaelena Hincapié, “l’amministrazione Obama ha sostenuto che le deportazioni riguardavano soltanto gli irregolari criminali, ma i numeri parlano da soli. In realtà, questa amministrazione - più di qualsiasi altra - ha provocato la devastazione di comunità di immigrati nel paese, separando famiglie i cui membri sono stati fermati soltanto per avere guidato senza patente o per avere cercato di rientrare negli Stati Uniti nel tentativo disperato di riunirsi con i propri familiari”.

La Casa Bianca, da parte sua, attribuisce le responsabilità di queste politiche sempre più inflessibili all’incapacità del Congresso di approvare una riforma dell’immigrazione per offrire un percorso verso la legalità ad almeno una parte degli 11,5 milioni di irregolari che vivono negli Stati Uniti.

I due rami legislativi, secondo Obama, nell’ultimo decennio sarebbero stati al contrario solerti nel produrre misure più severe nei confronti degli immigrati senza permesso, così che il governo si troverebbe, suo malgrado, nella posizione di dovere mettere in atto le leggi esistenti.

Obama, peraltro, aveva annunciato una propria iniziativa un paio di anni fa per provare a regolarizzare una parte degli immigrati ed evitare la deportazione, anche se rivolta solo a coloro che erano giunti da bambini negli Stati Uniti. La proposta si è però ben presto arenata in un Congresso dove soprattutto i repubblicani considerano ogni provvedimento vagamente indulgente sulla questione dell’immigrazione come un cedimento inaccettabile ad un’orda di irregolari, visti come una minaccia mortale all’identità americana.

Il percorso verso la regolarizzazione così proposto prevedeva in ogni caso una lunga serie di procedure gravose e costose, le quali si sarebbero risolte anche in un autentico programma di schedatura degli immigrati irregolari nel paese.

Per il momento, di fronte alle critiche provenienti da più parti e in vista delle elezioni di “metà termine” a novembre che fanno prevedere una pesante sconfitta per i democratici, l’amministrazione Obama sta cercando di correre ai ripari, visto che ha appena annunciato una revisione del processo di espulsione, così da renderlo “più umano”.

Dietro alla retorica repubblicana dell’invasione di immigrati irregolari, quasi sempre identificati con criminalità e delinquenza, e alle deportazioni spesso indiscriminate del governo, in ogni caso, si celano realtà drammatiche come quelle raccontate dal New York Times nella località di Painesville, nell’Ohio.

In questa cittadina, dove gli immigrati hanno lavorato per decenni nelle sue fabbriche, il quotidiano riporta ad esempio la vicenda dell’immigrata “irregolare” Anabel Barron, a rischio di espulsione dopo essere stata fermata per eccesso di velocità ed essendo stata trovata senza patente di guida. Dal momento che la donna era già stata deportata in passato, la sua situazione risulta particolarmente delicata, anche perché vive da quasi vent’anni negli Stati Uniti, dove sono nati i suoi quattro figli da cui ora potrebbe essere separata.

Ancora più agghiacciente è poi il caso di Arlette Rocha, suicidatasi ad appena 11 anni nella propria abitazione nell’aprile del 2010, alcuni mesi dopo che il padre era stato deportato in Messico. In seguito al provvedimento delle autorità, la madre aveva trovato un lavoro in fabbrica per sostenere la famiglia, lasciando la giovane a custodire i suoi tre fratelli più piccoli.

L’impennata delle deportazioni di immigrati irregolari, in ogni caso, era iniziata già nelle fasi finali dell’amministrazione Bush, tanto che durante la campagna elettorale per la Casa Bianca del 2008 Barack Obama aveva frequentemente criticato il presidente repubblicano su tale questione.

Dopo il successo alle urne, Obama aveva in realtà posto fine ad alcune pratiche odiose, come i raid nelle fabbriche e nelle aziende agricole del paese per verificare la regolarità dei lavoratori.

Il giro di vite contro gli immigrati non si è però attenuato con l’arrivo alla Casa Bianca di un presidente democratico ma, semplicemente, le modalità di persecuzione sono state in parte cambiate per limitare le pratiche più controverse.

Ad esempio, l’amministrazione Obama ha intensificato le operazioni degli agenti dell’immigrazione direttamente alle frontiere, mentre all’interno del paese - dove gli irregolari sono spesso insediati da più tempo e hanno stabilito legami più profondi - si è cercato talvolta di agire con maggiore cautela. Allo stesso tempo, tuttavia, un progetto pilota studiato durante l’era Bush è stato ampliato per estendere i controlli di polizia sulla regolarità dei permessi di residenza negli USA a qualsiasi individuo fermato o arrestato.

di Michele Paris

La continua mobilitazione dei manifestanti filo-russi in numerose città dell’Ucraina orientale sembra smentire in maniera evidente le insistenti pretese del regime golpista di Kiev e dei suoi sponsor occidentali circa un presunto complotto di Mosca messo in atto per giustificare un’invasione delle forze del Cremlino. Nella giornata di lunedì, dopo che l’ultimatum lanciato dalle autorità ucraine ai separatisti che avevano occupato svariati edifici governativi era stato ignorato, il presidente ad interim Oleksandr Turchynov ha minacciato un intervento militare per ristabillire l’ordine nelle circa dieci località interessate dai disordini.

Sempre lunedì, inoltre, un attacco al quartier generale della polizia ucraina nella città di Horlivka, non lontano da Donetsk, condotto da un centinaio di attivisti filo-russi, avrebbe provocato un certo numero di feriti e il decesso del capo della polizia locale.

Lo stesso Turchynov, tuttavia, aveva in precedenza mostrato qualche apertura sull’ipotesi di un referendum circa la struttura futura dell’Ucraina, anche se i manifestanti nelle regioni orientali sono intenzionati, sull’esempio della Crimea, ad inserire nell’eventuale consultazione popolare l’opzione dell’indipendenza e dell’ingresso nella Federazione Russa.

Turchynov, poi, ha proposto di tenere un referendum nazionale in concomitanza con le elezioni presidenziali del 25 maggio prossimo, così da diluire le tendenze separatiste, mentre i filo-russi vogliono che il voto si tenga soltanto nelle regioni al confine con la Russia. Il presidente è stato protagonista infine di una conversazione telefonica con il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, al quale avrebbe chiesto il dispiegamento di “peacekeepers” nel paese per allentare la crisi e condurre operazioni “anti-terrorismo” con le forze di sicurezza ucraine. Visto il potere di veto della Russia al Consiglio di Sicurezza, è comunque evidente l’improbabilità di una tale ipotesi.

Da Mosca, intanto, non sembra esserci alcun desiderio di smembrare l’Ucraina, tanto che il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha appoggiato l’idea di un referendum per dare al paese una struttura federale, anche se ha tenuto a sottolineare che tutti i cittadini dovranno essere trattati allo stesso modo. Il regime installato a Kiev con l’appoggio dell’Occidente aveva infatti deciso in maniera tempestiva di cancellare lo status di lingua ufficiale del russo - assieme all’ucraino - in un gesto inequivocabile della natura delle forze “rivoluzionarie”.

Nonostante la retorica e le accuse lanciate contro il Cremlino, in ogni caso, sono i governi occidentali che continuano a soffiare sul fuoco della crisi, rendendo sempre più concreto il rischio di un confronto armato tra Kiev e Mosca che, a sua volta, potrebbe scatenare un conflitto tra la Russia e gli Stati Uniti o i loro alleati, com’è ovvio con conseguenze potenzialmente rovinose.

Questo pericolo alimentato dall’irresponsabile politica estera occidentale è stato denunciato nella serata di domenica dall’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, nel corso di una riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza richiesta da Mosca. Il diplomatico russo ha affermato che l’eventuale scivolamento dell’Ucraina nella guerra civile dipende ora dall’Occidente, correttamente accusato di avere provocato in maniera deliberata l’escalation della crisi nel paese dell’Europa orientale.

Churkin ha anche chiesto al governo ucraino di “avviare un dialogo genuino” con la maggioranza filo-russa nel paese, ricordando ai colleghi occidentali i pericoli derivanti dalla loro strategia, fondata sull’appoggio a forze “neo-naziste e anti-semite”.

Dal Cremlino hanno anche fatto notare come, vista la massiccia presenza di cittadini di nazionalità russa nelle regioni orientali dell’Ucraina, risulti inevitabile che una parte di essi stia partecipando alle proteste, pur non essendo agenti di Mosca. La composizione etnica di queste regioni renderebbe dunque pressoché inevitabile un qualche coinvolgimento diretto della Russia in caso di guerra civile.

Da Washington gli appelli russi sono stati però respinti, mentre si continua ad appoggiare i piani di repressione studiati da Kiev, così come vengono ribadite le accuse senza fondamento alla Russia di avere ammassato ai confini con l’Ucraina decine di migliaia di truppe e armamenti in vista di una possibile invasione. Le mosse del governo sembrano comunque essere concordate con l’Occidente, come rivelerebbe una visita non confermata nel fine settimana del direttore della CIA, John Brennan, a Kiev per “consultazioni” con i vertici della sicurezza interna ucraina.

I vari leader occidentali sembrano poi fare a gara nel rilasciare affermazioni ufficiali che ribaltano incredibilmente la realtà dei fatti. Il vice-cancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha ad esempio sostenuto che la “Russia è pronta a consentire ai suoi carri armati di passare attraverso le frontiere dell’Europa”, proprio mentre l’Occidente attraverso la NATO sta presiedendo ad un’escalation militare senza precedenti ai confini con la stessa Russia.

Minacce di ulteriori sanzioni contro Mosca non sono inoltre mancate ed esse sono state discusse anche in un vertice dei ministri degli Esteri UE andato in scena lunedì in Lussemburgo. Se gli Stati Uniti hanno peraltro già preso nuovi provvedimenti nei giorni scorsi, i partner europei continuano ad essere molto cauti, viste le implicazioni e i rischi economici che misure più severe potrebbero comportare.

La favola del complotto di Mosca dietro all’occupazione degli edifici governativi a Donetsk, Slavyansk, Kharkiv, Lugansk e altre località dell’Ucraina orientale è comunque smentita anche dalla crescente partecipazione alle proteste contro il regime di Kiev di alcune sezioni dei lavoratori dell’industria pesante indigena strettamente legata al mercato russo.

Alcuni media anche occidentali hanno raccontato, ad esempio, della mobilitazione dei minatori della regione del Donbas, molti dei quali stanno sorvegliando gli edifici occupati e affermano di essere motivati dalla loro ferma opposizione alle politiche del nuovo governo centrale e dai timori per lo strapotere di milizie neo-fasciste, come il cosiddetto “Settore Destro”.

Le prospettive economiche dell’Ucraina, in particolare, suscitano estrema apprensione, con ogni probabilità non solo tra la popolazione filo-russa. Il prestito da 27 miliardi di dollari promesso dal Fondo Monetario Internazionale, infatti, richiederà misure di ristrutturazione e di devastazione sociale nel paese, con conseguenze molto pesanti soprattutto per i dipendenti dell’industria pesante nell’Ucraina orientale, decisamente poco competitiva sui mercati globali.

La minaccia alla maggioranza filo-russa, nonostante le rassicurazioni di Kiev e dell’Occidente, è più che mai concreta, visto che le organizzazioni neo-fasciste che avevano contribuito in maniera decisiva alla deposizione dell’ex presidente Yanukovich sembrano pronte ad intervenire nuovamente.

I membri di “Settore Destro”, soprattutto, sono stati chiamati alle armi dal loro leader, Dmitri Yarosh, il quale ha lanciato un appello alla mobilitazione per “difendere la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina”, chiedendo alla popolazione di aiutare la sua milizia “a ristabilire l’ordine e la legalità”.

Simili appelli mettono i brividi a molti, dal momento che queste ed altre formazioni armate di estrema destra sono responsabili in larga misura della strage di manifestanti avvenuta nelle fasi finali della battaglia per la rimozione di Yanukovich nel febbraio scorso.

Che i cecchini responsabili dei decessi fossero membri dell’opposizione è stato confermato recentemente anche da un’indagine della TV tedesca ARD, secondo la quale sarebbe perciò confermata la tesi sostenuta qualche settimana fa dal ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, nel corso di una sconvolgente conversazione telefonica apparsa in rete con la responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton.

La “rivoluzione democratica” ucraina si è dunque realizzata grazie anche a forze simili - protagoniste nei mesi della lotta contro il governo di Yanukovich dell’occupazione di edifici governativi come sta ora accadendo nell’Ucraina orientale - nonché alla promozione da parte dell’Occidente di politici e partiti di destra, pronti a favorire la penetrazione di Washington o Berlino in un paese strategicamente cruciale per la Russia.

La prevalenza di formazioni ultra-reazionarie e apertamente razziste ha determinato l’inevitabile quanto limitato intervento della Russia in Crimea, strumentalizzato dall’Occidente per giustificare un ampliamento drammatico - e previsto da tempo - delle operazioni e della presenza NATO in svariati ex satelliti sovietici.

La trasformazione della Russia nell’aggressore è stata resa possibile infine da un’incessante propaganda orchestrata dagli stessi governi e media occidentali, in collaborazione con il nuovo regime-fantoccio di Kiev, pronto ad agitare continuamente lo spettro dell’invasione del paese da parte delle forze di Mosca.


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