di Michele Paris

La condanna a morte ai danni di centinaia di membri dei Fratelli Musulmani in Egitto nella giornata di lunedì è stata solo la più recente e clamorosa iniziativa della giunta militare al potere al Cairo per distruggere i suoi oppositori e consolidare la propria posizione in vista delle prossime elezioni presidenziali. Oltre ad avere condannato ben 529 imputati alla pena capitale in primo grado, il tribunale della città di Matay ha iniziato martedì a presiedere anche un altro processo-farsa, nel quale sono coinvolti più di seicento affiliati all’organizzazione dell’ex presidente Mursi, tra cui alcuni dei più alti esponenti dello storico movimento islamista messo fuori legge dal regime.

Mentre i vertici delle forze di sicurezza egiziane e i membri della giunta militare si sono resi protagonisti a partire dal luglio scorso di una violentissima repressione ai danni dei sostenitori del governo e del presidente eletto dei Fratelli Musulmani, facendo più di 1.400 morti, i 529 condannati di lunedì potrebbero essere giustiziati sostanzialmente per la morte di un solo poliziotto.

I fatti incriminati risalgono all’agosto dello scorso anno, quando le forze di sicurezza - poche settimane dopo il colpo di stato contro il presidente Mursi - dispersero una serie di manifestazioni di protesta dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi reagirono dando vita a scontri violenti soprattutto nella provincia di Minya, a sud del Cairo, una delle roccaforti degli islamisti. Oltre ad assaltare alcune chiese cristiane, i manifestanti presero d’assedio una stazione di polizia a Matay, incendiandola, uccidendo un agente e tentando di ucciderne altri due. Su quest’ultimo episodio verteva il processo da cui sono scaturite lunedì le condanne a morte.

Il mancato rispetto delle basilari norme giudiziarie nel procedimento di primo grado è difficile da sopravvalutare. Per cominciare, i tre giudici che hanno presieduto il processo hanno preso la loro decisione dopo appena due sedute della durata di meno di un’ora ciascuna.

Inoltre, alla difesa non è stato praticamente concesso spazio per esporre la propria versione dei fatti né è stato possibile studiare le oltre tremila pagine di indagini su cui la causa era basata. La stessa richiesta degli avvocati difensori di ricusare uno dei giudici scelti per presiedere il caso non è stata presa in considerazione, nonostante quest’ultimo avesse dei precedenti a dir poco controversi, come l’assoluzione di 11 membri delle forze di sicurezza di Mubarak accusati di avere ucciso dei manifestanti durante la rivoluzione del gennaio 2011.

Secondo i legali della difesa, poi, uno dei condannati sarebbe addirittura paralizzato e costretto su una sedia a rotelle, rendendo quanto meno difficile la sua partecipazione all’assalto contro la stazione di polizia al centro del procedimento.

In ogni caso, dei 545 imputati, solo 150 erano presenti in aula e la maggior parte di essi è stata perciò condannata in absentia. Appena 16 sono stati invece prosciolti. Viste anche le reazioni a livello internazionale, nonché la flagrante violazione di qualsiasi principio di legalità, è probabile che almeno una parte delle condanne a morte verrà ribaltata nei procedimenti di appello già annunciati.

Ciononostante, il verdetto di lunedì e le modalità con cui esso è arrivato rappresentano un tentativo di intimidire gli oppositori del regime militare egiziano e non solo i Fratelli Musulmani. Infatti, le dimensioni della condanna a morte di massa - probabilmente la più pesante da molti decenni a questa parte - la dicono lunga sulle intenzioni dei militari e del potere giudiziario, in larga misura composto ancora da giudici nominati durante l’era Mubarak.

Per dare un’idea della smisuratezza della sentenza, è sufficiente citare alcuni dati riportati dal sito di informazione Ahram Online, secondo il quale in Egitto tra il 1981 e il 2000 nei tribunali civili erano stati condannati a morte 709 imputati, di cui 249 effettivamente giustiziati.

Gli stessi metodi sommari potrebbero essere utilizzati ora nel già ricordato processo ai danni di 683 membri dei Fratelli Musulmani apertosi martedì e subito aggiornato al 28 aprile. Tra di essi spiccano il leader spirituale del movimento, Mohamed Badie, e il numero uno del braccio politico, Saad El-Katatny.

Ad occuparsi del nuovo caso che riguarda un altro assalto ad una stazione di polizia - questa volta nella città di Minya - sarà lo stesso tribunale che ha condannato i 529 imputati nella giornata di lunedì. Alla prima seduta di martedì erano presenti solo 60 imputati, mentre gli avvocati della difesa hanno deciso di boicottarla in segno di protesta, sia per la sentenza del giorno precedente che per le irregolarità riscontrate anche nel nuovo procedimento.

Se gli eventi di questi giorni in Egitto sono stati condannati da molti governi occidentali, le loro dichiarazioni critiche sono apparse spesso di circostanza e, soprattutto, non hanno messo in nessun modo in discussione il presunto percorso di transizione “democratica” che il paese nord-africano starebbe seguendo sotto la guida dei militari.

Gli Stati Uniti, in particolare, tramite una portavoce del Dipartimento di Stato hanno espresso “profonda preoccupazione” per le 529 condanne a morte, senza però minacciare una revisione delle relazioni con Il Cairo.

La responsabile della diplomazia per l’Unione Europea, Catherine Ashton, ha semplicemente ricordato al regime come la pena di morte sia “crudele e inumana” e che il rispetto degli “standard internazionali” è particolarmente importante per “la credibilità della transizione egiziana verso la democrazia”. Né Washington né Bruxelles, come è ovvio, hanno ad esempio prospettato possibili sanzioni come quelle tempestivamente applicate nei giorni scorsi contro la Russia per i fatti di Crimea.

Nonostante la retorica occidentale, quello intrapreso dal più popoloso paese arabo, dopo la rimozione di Mohamed Mursi il 3 luglio del 2013 sull’onda delle proteste oceaniche contro il suo impopolare governo, è in realtà un percorso regressivo che ha riconsegnato il controllo diretto del potere ai vertici militari.

La sentenza draconiana contro i Fratelli Musulmani giunge d’altra parte dopo una lunga serie di iniziative anti-democratiche promosse dalla giunta, tra cui la messa al bando di qualsiasi manifestazione di protesta e della stessa organizzazione islamista, nonché l’approvazione di una nuova costituzione che sancisce la posizione di privilegio dei militari nel paese.

I fatti giudiziari di questi giorni, infine, si inseriscono nei preparativi per il lancio verso la presidenza del leader della giunta militare, generale Abdel Fattah al-Sisi, primo responsabile di arresti e uccisioni di massa nei mesi scorsi in nome del ritorno alla stabilità dell’Egitto.

La sua ascesa, favorita dall’Occidente e dalle forze secolari e progressiste che si opponevano ai Fratelli Musulmani, dopo più di tre anni dalla fine di Mubarak segnerà così la chiusura definitiva della parentesi rivoluzionaria, inaugurando però probabilmente l’inizio di una nuova fase di tensioni interne e di inevitabile confronto con la popolazione egiziana.

di Michele Paris

Lo schiaffo ricevuto domenica dal presidente François Hollande per mano degli elettori francesi nel primo turno delle elezioni amministrative è la diretta e inevitabile conseguenza delle politiche annunciate e messe in atto dal governo socialista in questi due anni. La crescente alienazione della tradizionale base elettorale del partito al potere si è tradotta prevedibilmente in un successo senza precedenti per l’estrema destra del Fronte Nazionale (FN), in grado di piazzare centinaia di propri candidati nel secondo turno di ballottaggio in programma domenica 30 marzo.

Il risultato apparentemente modesto ottenuto su scala nazionale dal Fronte - poco meno del 6% dei consensi - nasconde una realtà ben diversa a livello locale, visto che il partito fondato da Jean-Marie Le Pen era presente solo in meno del 2% dei comuni francesi, cioè 596 su 36 mila. Infatti, il Fronte parteciperà ai ballottaggi in quasi il 40% dei comuni nei quali ha corso, vale a dire 229. Un numero da record per la formazione di estrema destra e nettamente superiore al miglior risultato fatto segnare finora, quello del 1995, quando conquistò tre municipalità nei 116 ballottaggi a cui prese parte.

In alcuni casi, il Fronte ha più o meno facilmente battuto sia i candidati del Partito Socialista (PS) che quelli dell’UMP (Union pour un Mouvement Populaire) dell’ex presidente Sarkozy, visto che 17 comuni con più di 10 mila abitanti e altri 7 più piccoli hanno assegnato il maggior numero di voti ad un candidato del partito guidato da Marine Le Pen. Nella roccaforte di quest’ultima - la città settentrionale di Hénin-Beaumont, nel dipartimento Pas-de-Calais - il candidato del Fronte Nazionale, Steeve Briois, ha addirittura sfondato quota 50% al primo turno, assicurandosi già domenica la carica di sindaco.

Risultati importanti il Fronte li ha fatti segnare poi nel sud della Francia, comprese le grandi città. A Marsiglia - la seconda città più grande del paese - il frontista Stéphane Ravier si è piazzato secondo dietro al candidato dell’UMP e davanti a quello socialista. Lo stesso ordine nell’assegnazione dei voti è stato registrato anche nella vicina Nizza.

Le maggiori chances per il Fronte di conquistare la vittoria al secondo turno in una grande città sembrano essere però a Perpignan (120 mila abitanti), dove il vice presidente dell’FN, Louis Aliot, ha sopravanzato il sindaco uscente dell’UMP e tenuto a oltre 20 punti percentuali di distanza quello del Partito Socialista. I candidati di estrema destra sono infine in vantaggio dopo il primo turno anche in altre città di medie dimensioni, talvolta con risultati superiori al 40%, come Fréjus, Béziers e Avignone.

A favorire il Fronte Nazionale è stata significativamente l’emorragia di consensi per i socialisti tra i lavoratori francesi, come conferma l’avanzata dell’estrema destra in molte località nel nord del paese segnate dal processo di deindustrializzazione degli ultimi anni. Non solo, il Partito Socialista e i suoi alleati di sinistra sono stati battuti anche dalla destra tradizionale, la quale su scala nazionale ha ottenuto oltre il 46% dei voti espressi contro il 38% dei rivali.

In generale, il malcontento verso tutta la classe politica d’oltralpe è stato manifestato dall’altissimo livello di astensione. I francesi che non si sono recati alle urne domenica sono stati circa il 38%, di più ancora del 33,5% registrato nelle amministrative del 2008.

Lo scarso entusiasmo soprattutto per i socialisti è apparso evidente anche nella corsa a sindaco di Parigi. Nella capitale, la favorita Anne Hidalgo è stata di poco superata dalla candidata dell’UMP, Nathalie Kosciusko-Morizet, anche se al secondo turno dovrebbero comunque spuntarla i socialisti, soprattutto dopo il già annunciato accordo trovato con i Verdi (Europe Écologie Les Verts, EELV).

Nonostante gli scandali in cui sono coinvolti alcuni suoi esponenti di spicco, a cominciare dall’ex presidente Sarkozy e dall’attuale leader Jean-François Copé, l’UMP potrebbe uscire dal ballottaggio di domenica prossima con il maggior numero di sindaci conquistati. Lo stesso Copé ha previsto una “grande vittoria” al secondo turno, anticipando una confluenza di voti da sinistra nelle sfide tra i propri candidati e quelli del Fronte Nazionale.

Ciò è d’altra parte già stato prospettato, ad esempio, dalla portavoce del PS, Najat Vallaud-Belkacem, la quale in un’intervista alla rete televisiva France 2 ha annunciato che il suo partito farà “di tutto” per provare a impedire che il Fronte si aggiudichi un solo sindaco nei ballottaggi.

L’appoggio dei socialisti ai candidati di centro-destra nelle competizioni in cui i propri sono stati esclusi dal secondo turno a vantaggio di quelli del Fronte Nazionale non è d’altra parte cosa nuova. L’esempio più importante fu quello delle presidenziali del 2002, quando il PS e gli altri partiti di sinistra decisero di appoggiare la candidatura di Jacques Chirac dopo che al primo turno Jean-Marie Le Pen aveva umiliato l’allora primo ministro socialista, Lionel Jospin.

Questa strategia, se anche impedirà al Fronte Nazionale di fare il pieno al secondo turno delle amministrative francesi, farà ben poco per cambiare la realtà di un partito di governo ed un presidente fortemente impopolari tra gli elettori.

L’analisi del rovescio socialista nei media, tuttavia, non è andata molto al di là di giustificazioni superficiali e fuorvianti, riassumibili nella spiegazione che, in una sorta di elezione di “medio termine” come quella delle amministrative, la sconfitta del partito di maggioranza in Parlamento è considerata più o meno “normale”.

Al contrario, le responsabilità dei socialisti nell’avere dissipato il consenso raccolto nelle precedenti elezioni amministrative e parlamentari, grazie all’insofferenza diffusa per le politiche di destra promosse da Sarkozy, risultano enormi.

Fin dal suo insediamento all’Eliseo, il presidente Hollande ha operato a sua volta una svolta molto netta verso destra, rimangiandosi in fretta le promesse elettorali che gli avevano permesso anche se di misura, di sconfiggere il presidente in carica dopo un solo mandato.

Hollande e il suo primo ministro, Jean-Marc Ayrault, hanno infatti presieduto ad attacchi con pochi precedenti contro lo stato sociale francese, così come al tentativo di flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro e alla chiusura di importanti stabilimenti nel settore automobilistico e non solo.

A contribuire alla débacle elettorale dei socialisti è stata infine la recentissima firma del cosiddetto “Patto di Responsabilità”, siglato dagli industriali francesi e da alcune organizzazioni sindacali. Con la scusa di promuovere la “competitività” delle aziende transalpine, il “Patto” offrirà a queste ultime venti miliardi di euro in benefici fiscali, da recuperare con tagli alla spesa sociale di portata ancora superiore entro i prossimi anni.

Anche di fronte ad un livello di disoccupazione che ha ormai raggiunto l’11%, l’accordo non prevede alcun obiettivo in merito alla creazione di posti di lavoro, ma include ad esempio tagli sostanziali ai sussidi garantiti a chi è senza un impiego.

Contro il “Patto di Responsabilità”, pur avendo partecipato ai negoziati, hanno manifestato un’opposizione nominale le sigle sindacali CGT (Confédération Générale du Travail) e FO (Force Ouvrière), rispettivamente la prima e la terza in Francia per numero di iscritti, così come i vari partiti ufficialmente a sinistra del PS.

La loro opposizione al “Patto” e più in generale alle politiche di Hollande, tuttavia, non si è mai concretizzata in una visione sociale realmente alternativa a quella del partito di governo, lasciando pericolosamente spazio all’avanzata dell’estrema destra, identificata ancora una volta, sia pure in maniera distorta, come l’unica vera forza di opposizione ad un sistema che - in Francia come altrove - non ha più nulla da offrire alla maggioranza della popolazione.

di Mario Lombardo

Tra poco più di due settimane, le elezioni per il rinnovo del Parlamento in Ungheria assegneranno con ogni probabilità una nuova schiacciante vittoria ad un partito di governo che è stato accusato di avere impresso una svolta anti-democratica senza precedenti nella storia del paese mitteleuropeo di questi ultimi due decenni. Dopo avere conquistato più del 52% dei voti espressi nelle elezioni del 2010, il partito di destra Fidesz del primo ministro Viktor Orbán viene accreditato di un consenso più o meno simile anche in vista dell’appuntamento con le urne del 6 aprile prossimo.

Infatti, i più recenti sondaggi assegnano in media a Fidesz circa il 49% delle preferenze tra gli elettori che hanno già preso una decisione, contro il 26% per la coalizione di centro-sinistra all’opposizione, guidata dal Partito Socialista (MSZP).

Le prospettive poco meno che trionfali del partito al potere sono dovute ad un insieme di fattori, il primo dei quali è legato all’approvazione nel 2011 di una legge elettorale che lo favorisce pesantemente, grazie al premio di maggioranza previsto per il vincitore, alla ridefinizione dei distretti elettorali e alla fissazione di soglie minime per l’ingresso in Parlamento dei partiti minori.

Inoltre, le norme che regolano la campagna elettorale sono diventate molto restrittive per tutti i partiti, anche se esse penalizzano in larga misura quelli di opposizione. Le televisioni private, cioè, non possono trasmettere messaggi elettorali di partiti e candidati, ma questa regola non si applica al governo. L’esecutivo può quindi fare propaganda sui media privati, come sta appunto accadendo in questa campagna elettorale, così che i messaggi trasmessi si risolvono di fatto in slogan a favore del partito di governo.

Fidesz, così, nel prossimo Parlamento avrà quasi certamente i due terzi dei seggi, come nella legislatura che sta per terminare, durante la quale la maggioranza ha potuto approvare una nuova e discussa carta costituzionale di fronte alle proteste interne e internazionali. La nuova Costituzione ha sancito l’impronta sempre più autoritaria del governo Orbán, responsabile di una serie di misure anti-democratiche che vanno, ad esempio, dalla severa limitazione della libertà di stampa all’indebolimento del principio della separazione dei poteri, esemplificato dalle maggiori attribuzioni garantite all’esecutivo in ambito giudiziario.

Parallelamente, il governo Orbán ha adottato alcune misure di stampo populista che gli hanno garantito una certa popolarità, come il taglio delle tariffe dell’energia per i privati. In una campagna elettorale segnata da un senso di inevitabilità, il premier ha poi promesso di abbassare i costi energetici anche per le industrie ungheresi.

Il contributo decisivo al prossimo successo elettorale di Fidesz viene però dalle condizioni in cui versano i partiti di opposizione, ampiamente screditati agli occhi degli ungheresi. I precedenti governi a maggioranza socialista, guidati dagli ex membri del partito, Ferenc Gyurcsány e Gordon Bajnai, oltre ad avere dovuto fronteggiare svariati scandali, sono stati protagonisti dell’implementazione di pesantissime misure di austerity contro il volere della popolazione.

Lo stesso MSZP del candidato premier Attila Mesterházy si presenterà ora alle urne in un’alleanza elettorale con i partiti di Gyurcsány, Bajnai ed altri ancora, con al centro del proprio programma – oltre a vuote promesse di riforme sociali – un riavvicinamento all’Unione Europea dopo questi anni di scontro tra Bruxelles e il governo Orbán.

In un intervento pubblico mercoledì alla Camera di Commercio ungherese, lo stesso primo ministro ha da parte sua promesso di proseguire le politiche economiche messe in atto negli ultimi quattro anni, rivendicando la legittimità di un modello differente da quello promosso dall’Unione Europea.

Orbán ha fatto riferimento in particolare a misure - tutt’altro che gradite a Bruxelles e agli ambienti finanziari internazionali - volte a favorire il business indigeno e a penalizzare le compagnie straniere operanti in Ungheria. Lo stesso principio Orbán ha affermato di volerlo applicare anche al settore bancario, per fare in modo che almeno la metà degli istituti del paese sia “in mano ungherese”.

Al di là di iniziative simili improntate al nazionalismo economico, che favoriscono esclusivamente le élite magiare, il governo di estrema destra al potere a Budapest non ha risparmiato attacchi alle fasce più deboli della popolazione, sia con misure di rigore che con leggi anti-democratiche, come l’obbligo di accettare qualsiasi impiego per i disoccupati o la persecuzione dei senzatetto.

Le tendenze autoritarie emerse con il governo Orbán hanno inevitabilmente prodotto uno spostamento a destra dell’asse politico ungherese e il conseguente emergere di proteste di piazza e tensioni sociali. Ciò ha determinato la legittimazione di forze estremiste se non apertamente neo-fasciste, rappresentate in primo luogo dal partito anti-semita Jobbik, il quale appoggia talvolta le iniziative di legge di Fidesz. Jobbik era stato in grado di ottenere quasi il 17% nelle elezioni del 2010 e i suoi rappresentanti occupano attualmente 43 seggi in Parlamento.

Per Orbán e Fidesz, in ogni caso, gli scontri con l’Unione Europea e con gli Stati Uniti potrebbero intensificarsi anche a causa delle scelte di Budapest in politica estera. Al contrario di quasi tutti gli altri paesi dell’Europea orientale, l’Ungheria di questi ultimi anni ha cercato infatti di costruire rapporti di collaborazione con tutte le potenze globali, comprese Russia e Cina.

Il premier Orbán – come fece il presidente ucraino Yanukovich poco prima della sua deposizione – è stato ad esempio protagonista lo scorso febbraio di una visita di tre giorni in Cina, dove assieme al presidente, Xi Jinping, ha discusso delle modalità con cui approfondire la cooperazione tra i due paesi.

Orbán, infine, ha fatto della Russia uno dei partner strategici dell’Ungheria, siglando nel mese di gennaio un accordo con Mosca per l’ampliamento del settore nucleare domestico a scopi energetici. In base all’intesa - criticata dall’opposizione socialista - Budapest otterrà un prestito dalla Russia di quasi 14 miliardi di dollari nei prossimi tre decenni per finanziare l’ambizioso progetto.

Non a caso, perciò, in questi giorni il primo ministro ungherese ha evitato di unirsi al coro di condanne verso il Cremlino provenienti dai governi dell’est europeo in seguito ai fatti di Crimea. Una posizione relativamente indipendente da Bruxelles e Washington, quella mostrata da Orbán, che rischia però di essere molto rischiosa nel prossimo futuro, vista la sorte riservata ai leader di quei paesi che intendono intraprendere un percorso alternativo al totale allineamento agli interessi strategici occidentali.

di Michele Paris

Con la nuova tranche di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), rivelati da Edward Snowden e pubblicati questa settimana dal Washington Post, alcune delle rassicurazioni espresse dal governo di Washington nei mesi scorsi circa la relativa limitatezza dei programmi di sorveglianza e il presunto rispetto delle basilari garanzie costituzionali sono state clamorosamente smentite.

Grazie ad un programma denominato MYSTIC, la NSA ha sviluppato da alcuni anni la capacità di intercettare e registrare il “100 per cento” delle conversazioni telefoniche che avvengono in un determinato paese straniero. Le registrazioni vengono poi conservate per 30 giorni e gli agenti americani possono richiamare liberamente la conversazione di loro interesse in qualsiasi momento, ascoltandone il contenuto.

Nei documenti, uno dei gestori del programma lo paragona ironicamente ad una sorta di “macchina del tempo”, perché in grado di riprodurre una conversazione avvenuta nel recente passato senza la necessità che le persone intercettate siano state in precedenza oggetto di attività di sorveglianza.

Il programma pare essere stato inaugurato nel 2009 ed ha raggiunto la piena operatività due anni più tardi, quando è stato predisposto uno strumento chiamato RETRO - abbreviazione di “recupero retrospettivo” - che ha permesso di avviare l’intercettazione totale delle telefonate in un primo paese straniero.

Su richiesta del governo USA, il Washington Post ha deciso di non divulgare il nome del paese in questione, ma ha rivelato che i documenti ottenuti da Snowden indicano come nel 2013 fossero in atto i preparativi per allargare il programma anche ad altri paesi. Anzi, aggiunge il quotidiano della capitale americana, il bilancio della NSA dello scorso anno elenca cinque paesi già interessati dal programma MYSTIC ed un sesto nel quale esso avrebbe dovuto partire lo scorso mese di ottobre.

Nel corso delle operazioni così descritte sono state ovviamente raccolte anche le conversazioni telefoniche di cittadini americani che hanno chiamato all’estero o che dall’estero hanno ricevuto chiamate. La NSA, però, non filtra le telefonate degli americani finite nella propria rete, come sarebbe invece tenuta a fare, considerandole come dati “ottenuti accidentalmente” all’interno di un’operazione diretta contro presunti “obiettivi stranieri legittimi”.

Qualche mese fa, una speciale commissione nominata dalla Casa Bianca per rivedere le politiche di sorveglianza del governo aveva raccomandato, tra le altre cose, di distruggere i dati relativi a telefonate ed e-mail di cittadini americani al momento della loro raccolta “accidentale”, ma il presidente Obama ha deciso di respingere la proposta.

L’ampiezza del programma MYSTIC, dunque, contraddice svariati tentativi messi in atto da esponenti del governo americano di minimizzare l’attività della NSA. Per cominciare, le ultime rivelazioni di Snowden forniscono teoricamente altro materiale per procedere con l’impeachment di Obama, dal momento che quest’ultimo solo lo scorso 17 gennaio, in un discorso tenuto al Dipartimento di Giustizia, aveva garantito che “gli Stati Uniti non sono intenti a spiare le persone comuni che non rappresentano una minaccia per la nostra sicurezza nazionale”, a prescindere dalla loro nazionalità.

Inoltre, per la prima volta dall’inizio della pubblicazione dei documenti riservati lo scorso mese di giugno, viene rivelato come la NSA raccolga e ascolti anche il contenuto delle conversazioni telefoniche, mentre i precedenti programmi di cui si è saputo riguardavano esclusivamente i cosiddetti “metadati”, cioè informazioni come i numeri telefonici, la localizzazione degli utenti intercettati o la durata delle telefonate.

Il governo americano aveva fino ad ora garantito che la NSA aveva l’autorità di ottenere esclusivamente i metadati delle comunicazioni elettroniche e questa limitazione sarebbe rientrata nella legalità, visto che i metadati stessi - con un’interpretazione a dir poco discutibile - non erano considerati coperti dal Quarto Emendamento della Costituzione, che proibisce senza eccezioni perquisizioni e confische senza un valido motivo e il mandato di un tribunale.

Come è spesso accaduto con le precedenti rivelazioni, anche in questo caso i documenti della NSA descrivono poi le difficoltà da parte dell’agenzia nel gestire la quantità enorme di dati raccolti in maniera illegale. Con le registrazioni dei contenuti di miliardi di telefonate il problema appare ancora più accentuato, tanto che, scrive il Washington Post, nel primo anno del suo impiego, il programma MYSTIC ha raggiunto ben presto il punto nel quale la raccolta e l’archiviazione delle informazioni hanno superato le capacità della NSA.

Per far fronte a questo handicap, l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, starebbe procedendo alla costruzione di un gigantesco centro per l’archiviazione dati nello stato occidentale dello Utah, il cui costo è stimato in qualcosa come 2 miliardi di dollari.

Di fronte alle ultime rivelazioni, la NSA ha risposto con le consuete dichiarazioni orwelliane. La portavoce dell’agenzia, Vanee Vines, ha meccanicamente affermato che la NSA opera “rigorosamente nel rispetto della legge”, per poi accusare velatamente di tradimento chiunque continui a portare alla luce “tecniche e strumenti utilizzati per attività legittime di intelligence degli Stati Uniti”.

Il commento forse più inquietante all’articolo del Washington Post è stato però quello della portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Caitlin Hayden, la quale, pur declinando di rispondere direttamente alle domande sul programma MYSTIC, lo ha giustificato affermando che “le nuove minacce… sono spesso nascoste all’interno dell’ampio e complesso sistema delle moderne comunicazioni globali”, così che, per identificarle, “gli Stati Uniti, in determinate circostanze, sono costretti a raccogliere informazioni sulle comunicazioni elettroniche in massa”.

In definitiva, il governo americano sostiene che, per individuare ipotetiche quanto, spesso, fantomatiche minacce terroristiche, è necessario che ogni singola attività individuale che comporta l’utilizzo di dispositivi elettronici debba essere monitorata, di fatto in violazione di tutti i principi democratici fondamentali.

Un’affermazione di questo tipo conferma in maniera inequivocabile come sia già in fase estremamente avanzata, negli Stati Uniti e non solo, il processo per la creazione di un apparato degno di un vero e proprio stato totalitario.

di Mario Lombardo

Nonostante la sorte del volo Malaysia Airlines 370 e dei suoi 239 passeggeri continui a rimanere avvolta nel mistero a più di dieci giorni dalla scomparsa, alcune rivelazioni giornalistiche e delle autorità locali hanno iniziato in questi giorni a fare luce su quanto è accaduto nei cieli del sud-est asiatico durante le prime ore di sabato 8 marzo. In particolare, l’ipotesi del dirottamento sembra diventata ora la più probabile dopo la notizia di una deliberata inversione di rotta a bordo del velivolo.

Inoltre, citando anonime fonti americane, il New York Times ha riportato che l’aereo avrebbe cambiato la propria rotta non con una virata operata manualmente ma in seguito alla modifica delle coordinate di volo sul computer di bordo

Ciò comporta anche la pressoché totale certezza che ad operare le modifiche necessarie alla rotta Kuala Lumpur-Pechino sia stato un esperto del funzionamento del Boeing 777 o, quanto meno, di altri modelli della compagnia statunitense.

In questo nuovo scenario, le indagini si stanno concentrando sul comandante, Zaharie Ahmad Shah, e sul giovane co-pilota, Fariq Abdul Hamid, le cui abitazioni nella capitale malese sono già state perquisite. In quella del comandante è stato analizzato il simulatore di volo che egli aveva a disposizione, ma le tracce rimaste delle esercitazioni si riferirebbero a molteplici piste di atterraggio in Asia e in Europa, senza fornire indicazioni di possibili piani suicidi.

Quest’ultima ipotesi si scontra d’altra parte con le altre rivelazioni diffuse già la settimana scorsa, cioè che il Boeing 777 aveva proseguito il proprio volo per almeno altre sei ore dopo che gli strumenti di comunicazione con i controllori del traffico aereo civile erano stati spenti.

Come è noto, sono stati i radar militari malesi a rivelare sia la virata dalla rotta prestabilita che il proseguimento del volo. Nella giornata di martedì ciò è stato confermato anche dai militari thailandesi, i quali hanno fatto sapere di avere ricevuto fino all’1:22 dell’8 marzo scorso i normali segnali dal volo MH370 diretto a Pechino, per poi vederlo sparire dai radar. Sei minuti più tardi, l’aviazione militare thailandese ha poi intercettato il segnale di un velivolo sconosciuto, possibilmente quello della Malaysia Airlines, diretto ora verso ovest al di sopra dello Stretto di Malacca.

Dal momento che i segnali satellitari non permettono di localizzare il velivolo, le ricerche si stanno concentrando in aree comprese all’interno di due ampie zone a forma di arco, la prima verso nord-ovest e che va dalla Thailandia fino al Kazakistan, la seconda verso sud dall’Indonesia all’Oceano Indiano sud-orientale.

La prima area ha suggerito svariate teorie vista la folta presenza in essa di organizzazioni terroristiche. Difficilmente, tuttavia, l’aereo avrebbe potuto effettuare un atterraggio senza essere intercettato, dal momento che avrebbe dovuto attraversare spazi aerei fortemente sorvegliati da vari paesi. Nel secondo caso, invece, sono inclusi ampi tratti marini spesso senza copertura radar, così che un eventuale schianto potrebbe risultare difficile da individuare.

Nell’Oceano Indiano sud-orientale le ricerche sono affidate alle autorità australiane, le quali hanno però avvertito delle difficoltà incontrate nel coprire un’area molto vasta con mezzi limitati.

A rendere ancora più complicata la vicenda è stata poi una dichiarazione rilasciata dal governo cinese sempre nella giornata di martedì. Pechino, cioè, non avrebbe trovato alcuna prova che qualcuno tra i 153 passeggeri di nazionalità cinese dei 227 a bordo sia da collegare a trame terroristiche o di possibili dirottamenti.

Le autorità cinesi potrebbero però cercare di allentare le pressioni a cui sono sottoposte dopo il recente attentato terroristico nella città di Kunming, nel sud-ovest del paese, condotto dai separatisti Uiguri e che ha fatto 29 vittime.

La probabilità di un dirottamento porta in ogni caso a valutare con attenzione la pista terroristica, anche se stranamente i media e i governi occidentali, a cominciare da quelli americani, hanno finora messo in guardia da conclusioni affrettate in questo senso, mentre in presenza di episodi sospetti sono soliti agitare la minaccia terroristica anche in assenza di indizi significativi.

Tra i pochi a non avere escluso questa pista già settimana scorsa è stato il direttore della CIA, John Brennan, il quale in un intervento al Council on Foreign Relations di New York aveva ammesso l’ipotesi del terrorismo, suggerendo addirittura non meglio specificate “rivendicazioni di responsabilità” circa l’aereo scomparso.

Che gli Stati Uniti possano essere in possesso di maggiori informazioni sull’accaduto lo si può ipotizzare dalla massiccia presenza di installazioni militari e sistemi di sorveglianza su cui possono contare in quest’area del globo, soprattutto in seguito all’escalation militare seguita alla svolta strategica anti-cinese nel continente asiatico decisa dall’amministrazione Obama.

Questa possibilità l’ha prospettata nel fine settimana anche un ex comandante dell’aviazione militare USA, generale Tom McInerney. Quest’ultimo, in un’intervista rilasciata alla Fox ha affermato che il governo americano sa molto di più di quanto afferma pubblicamente e che ha “un quadro [dell’accaduto] più chiaro di quello dei governi di Cina e Malaysia”.

Dichiarazioni simili gettano qualche ombra anche sulla polemica, ora parzialmente rientrata, tra Kuala Lumpur e Washington, con il governo malese che avrebbe rifiutato l’assistenza dell’FBI nelle indagini per poi smorzare i toni e confermare pubblicamente la collaborazione con l’ente federale di polizia statunitense.

Oltre a questi interrogativi ne restano poi aperti molti altri, a cominciare dalle reali identità dei passeggeri - o di alcuni di essi - che potrebbero rappresentare la chiave per la risoluzione del mistero.

Inoltre, anche il comportamento del governo malese continua a suscitare perplessità. Innanzitutto, non è chiaro il motivo per cui l’annuncio del cambiamento di rotta del Boeing 777 sia avvenuto così tardivamente nonostante i militari avessero da subito intercettato segnali radar dal velivolo scomparso.

Il governo di Kuala Lumpur, infine, aveva inizialmente smentito le notizie provenienti dagli Stati Uniti che l’aeromobile aveva volato a lungo dopo avere perso contatto con i controllori del traffico aereo civile, per poi fare marcia indietro poche ore più tardi e confermare pubblicamente le rivelazioni diffuse dalla stampa internazionale.


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