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di Michele Paris
Le relazioni bilaterali tra Indonesia e Australia stanno facendo registrare un rapido deterioramento in questi giorni dopo lo scoppio di un’accesa polemica seguita ad alcune recenti rivelazioni dell’ex contractor della CIA e dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Edward Snowden. A scatenare le ire di Jakarta è stata la notizia di un programma della sezione dei servizi segreti australiani deputata alle intercettazioni - Australian Signals Directorate (ASD) - per mettere sotto controllo i telefoni del presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, e di altri leader del paese del sud-est asiatico nel mese di agosto del 2009.
I documenti, datati novembre dello stesso anno, indicano come per almeno due settimane l’ASD australiano abbia intercettato il telefono personale del presidente, di sua moglie e di altre otto importanti personalità indonesiane, tra cui il vice-presidente, Boediono, l’ex vice-presidente e già candidato alla presidenza, Yusuf Kalla, l’ex capo delle forze armate, Widodo Adi Sutjipto, e l’ex ambasciatore a Washington, Dino Patti Djalal. In relazione al presidente Yudhoyono, nei documenti viene descritto anche il tentativo di intercettare una telefonata e ascoltarne il contenuto tra quest’ultimo e un utente tailandese.
Le rivelazioni hanno sollevato un polverone nell’establishment politico di Jakarta, tanto che il governo ha ritirato il proprio ambasciatore a Canberra e lo stesso presidente ha dapprima inondato i suoi account sui principali social media con attacchi all’Australia e richieste di spiegazioni, mentre nella giornata di mercoledì è apparso in diretta alla televisione nazionale per annunciare una serie di iniziative diplomatiche e non solo.
Yudhoyono ha così fatto sapere di avere ordinato la sospensione dei programmi di cooperazione militare e di intelligence con l’Australia, nonché delle esercitazioni militari e dei pattugliamenti congiunti per impedire l’arrivo di profughi via mare sulle coste del vicino meridionale. Secondo quanto riferito alla Reuters da un portavoce dell’esercito indonesiano, queste misure dovrebbero diventare effettive a partire dal prossimo mese di gennaio. Il presidente ha poi chiesto al governo di Canberra guidato dal neo-premier conservatore, Tony Abbott, una “spiegazione chiara” dell’accaduto e “una presa di responsabilità” per le intercettazioni.
Le decisioni di Yudhoyono sono state prese dopo una nottata di consultazioni con alcuni ministri del suo governo e, sempre mercoledì, quello del Commercio, Gita Wirjawan, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze anche per gli scambi commerciali tra i due paesi, superiori agli 11 miliardi di dollari nel solo 2012. L’Indonesia importa svariati prodotti agricoli dall’Australia, mentre quest’ultimo paese è il decimo mercato delle esportazioni di Jakarta.
Significativamente, l’ex generale durante la dittatura di Suharto non ha mancato di esprimere il proprio auspicio per una risoluzione immediata della crisi diplomatica, coerentemente con gli sforzi passati, descritti in questi giorni da svariati membri del suo governo, di stabilire rapporti più solidi con l’Australia.
A motivare la reazione particolarmente dura di Jakarta è anche il fatto che le ultime rivelazioni sono giunte poco dopo la diffusione di altre notizie relative alle attività dei servizi segreti australiani in collaborazione con gli Stati Uniti.
Documenti forniti sempre da Snowden avevano infatti rivelato come l’Australia avesse condotto intercettazioni illegali dalle proprie missioni diplomatiche in Asia, compresa quella in Indonesia, e, assieme all’NSA, messo sotto controllo i partecipanti ad una conferenza ONU sul cambiamento climatico tenuta a Bali nel 2007.
Da parte sua, il premier australiano ha contribuito a gettare benzina sul fuoco, dal momento che le dichiarazioni rilasciate finora sono risultate alquanto provocatorie. Abbott ha rifiutato di scusarsi, facendo appello alla necessità del suo governo di “proteggere il paese” e “gli interessi nazionali”. L’unico rincrescimento il primo ministro lo ha espresso per “l’imbarazzo” creato a Yudhoyono, provocando l’immediata risposta del ministro degli Esteri indonesiano, Marty Natalegawa, il quale ha sostenuto che l’imbarazzo dovrebbe essere soltanto per il governo di Canberra.
Dietro la linea dura di Abbott, in ogni caso, circolano profonde inquietudini tra la classe dirigente australiana per i possibili danni che le rivelazioni di Snowden possono provocare alla partnership strategica con l’Indonesia, considerata uno dei pilastri della cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in funzione anti-cinese.
Per questa ragione, ad esempio, il nuovo leader del Partito Laburista all’opposizione, Bill Shorten, ha espresso estrema preoccupazione per la crisi diplomatica tra i due paesi e, in un articolo firmato mercoledì per il britannico Guardian, ha sollecitato il governo a ristabilire i rapporti con Jakarta, visto che la cooperazione con l’Indonesia risulta essere “fondamentale per i nostri interessi nazionali”. Il nervosismo manifestato da Shorten, peraltro, si scontra con il fatto che proprio il precedente governo laburista aveva presieduto alle intercettazioni ai danni dei vertici dello stato indonesiano nel 2009.
La classe politica australiana, dunque, teme sia che lo scontro in atto si traduca in sostanziali danni economici per il paese sia che venga meno la collaborazione con Jakarta in materia di “anti-terrorismo” e sulla delicata questione dei rifugiati intenzionati a chiedere asilo a Canberra, provenienti in gran parte dal territorio indonesiano.
Soprattutto, però, le tensioni con il governo del presidente Yudhoyono rischiano di complicare i disegni australiani e americani di coinvolgere l’Indonesia nell’escalation militare in atto in Asia sud-orientale con l’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese.
Questo paese, oltre ad essere il più popoloso e ad avere la prima economia della regione, occupa una posizione geografica di primaria importanza strategica, essendo al centro di rotte da cui passa una quota significativa dei traffici commerciali del pianeta e buona parte di quelli da e verso la Cina. Gli Stati Uniti, infatti, nei loro piani di guerra contro Pechino considerano come fondamentale il controllo in caso di crisi di vie d’acqua come gli stretti di Malacca e di Lombok, entrambi parte del territorio indonesiano.
Per Washington e Canberra, quindi, la collaborazione con Jakarta risulta fondamentale per il successo di qualsiasi futura operazione militare nella regione e ciò dipende appunto dalla disponibilità e dall’orientamento del governo indonesiano al momento dell’esplosione di un’ipotetica “crisi” con la Cina.
La conoscenza della predisposizione e dei processi decisionali della classe politica del più popoloso paese musulmano del pianeta risulta perciò cruciale sia per gli Stati Uniti che per l’Australia. Da qui, la necessità di creare un programma di intercettazioni che includa i vertici stessi del governo. Tanto più che alcuni dei politici sottoposti al controllo dei servizi segreti australiani nel 2009 sono probabili candidati alla successione di Yudhoyono nelle elezioni presidenziali del 2014, a cominciare dall’ex ambasciatore indonesiano negli USA, Dino Patti Djalal.
L’attuale amministrazione al potere, d’altra parte, non appare ancora del tutto allineata agli interessi strategici americani e australiani. Infatti, pur avendo stabilito solidi rapporti militari con Stati Uniti e Australia, il governo Yudhoyono continua a mantenere una certa indipendenza per quanto riguarda la propria politica estera. A differenza di alcuni paesi vicini, infatti, l’Indonesia ha coltivato rapporti cordiali con Pechino, mentre i traffici economici tra i due paesi hanno fatto registrare una netta impennata negli ultimi anni, con la Cina che è diventata ormai il secondo mercato per le esportazioni indonesiane e la prima fonte delle importazioni di Jakarta.
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di Mario Lombardo
Le elezioni presidenziali andate in scena domenica in Cile hanno sancito, come previsto, la netta vittoria della candidata di centro-sinistra Michelle Bachelet. Già presidente tra il 2006 e il 2010, quest’ultima non è però riuscita a superare la soglia del 50% per evitare il ballottaggio di metà dicembre con la candidata del partito di destra al governo, Evelyn Matthei. Sempre nel fine settimana si sono tenute anche le consultazioni per il rinnovo dei due rami del Parlamento, con la coalizione che sosteneva la Bachelet (“Nueva Mayoria”) che ha conquistato una netta maggioranza, probabilmente non sufficiente però a mettere in atto alcune delle riforme in senso progressista promesse in campagna elettorale.
Con gli spogli pressoché ultimati, la Bachelet viene accreditata di quasi il 47% delle preferenze, contro il 25% della sua più immediata rivale ed ex amica di infanzia, nonché figlia di un generale membro della giunta militare di Pinochet. Complessivamente, sulle schede erano presenti nove nomi di candidati alla successione dell’attuale presidente, Sebastian Piñera, impossibilitato dalla costituzione a cercare un secondo mandato consecutivo alla guida del paese sudamericano.
Il voto in Cile è stato il primo dopo le proteste popolari senza precedenti nell’era democratica che erano esplose nel 2011. Imponenti manifestazioni di piazza erano state animate principalmente dagli studenti che continuano a chiedere l’accesso gratuito all’educazione superiore in un paese dove i costi dell’istruzione sono i più alti di tutto il continente, dopo gli Stati Uniti.
Le proteste si sono poi allargate fino a mobilitare le popolazioni indigene in lotta per i loro diritti e i lavoratori del settore estrattivo - il Cile è il primo produttore mondiale di rame al mondo - uniti nell’opposizione alle politiche ultra-liberaliste dell’amministrazione Piñera, celebrata invece dalla stampa ufficiale per avere garantito consistenti tassi di crescita economica negli ultimi anni.
Il ritorno in termini parlamentari di quelle proteste nel voto di domenica è stato rappresentato dalla presenza tra i candidati al Parlamento di alcuni leader del movimento studentesco protagonisti delle manifestazioni iniziate oltre due anni fa. Quattro di essi hanno finito per conquistare un seggio, tra cui la 25enne dirigente comunista Camila Vallejo, che ha diretto con straordinaria efficacia politica e mediatica l’iniziativa politica del movimento studentesco, ottenendo una notorietà a livello internazionale e diventando in qualche modo il volto stesso delle proteste.
Il malcontento diffuso nei confronti delle forze di destra, per la prima volta al governo dalla fine del regime di Pinochet nel 1990, è stato alimentato anche dalle crescenti disuguaglianze di reddito - le più marcate tra i 34 paesi facenti parte dell’OCSE - e ha finito per travolgere Piñera e la sua maggioranza.
Michelle Bachelet, tornata in patria lo scorso mese di marzo dopo avere lasciato la guida di un’agenzia delle Nazioni Unite che promuove i diritti delle donne nel pianeta, ha così cavalcato il disagio nel paese, impegnandosi ad intraprendere una serie di riforme sociali, da pagare in gran parte con un innalzamento delle tasse sulle grandi aziende e i redditi più elevati.
La probabile prossima “presidenta”, dopo la diffusione dei risultati nella serata di domenica, ha parlato alla folla nella capitale, Santiago, sottolineando come “il popolo abbia votato per un’educazione gratuita e di qualità, per una maggiore integrazione e maggiori opportunità per i nostri figli. I cileni hanno votato per una riforma fiscale che consenta di attuare riforme nell’ambito dell’assistenza sanitaria pubblica, del sistema pensionistico e delle politiche sociali, e perché coloro che posseggono di più contribuiscano secondo le loro possibilità”.
Molte delle iniziative promesse dalla Bachelet - la quale viene accreditata dai sondaggi di un netto vantaggio su Evelyn Matthei in vista del secondo turno del 15 dicembre - avranno però poche probabilità di essere implementate nel prossimo futuro, quanto meno integralmente. Per cominciare, molti osservatori hanno fatto notare come le risorse da reperire con l’aumento delle tasse proposto non siano sufficienti a coprire la spesa per finanziare tutti i cambiamenti elencati nel programma elettorale del centro-sinistra.
I numeri di una coalizione che va dai cristiano-democratici ai comunisti e che dovrebbe sostenere il prossimo presidente, inoltre, non basteranno a mettere assieme la maggioranza richiesta dalla costituzione per intervenire in alcuni ambiti, come quello dell’educazione né, tantomeno, per modificare la stessa carta costituzionale che risale all’era Pinochet e sulla quale si erano concentrate buona parte delle proteste popolari.
I risultati del voto per il Parlamento, infatti, risentono di insolite regole elettorali adottate durante la dittatura e che assegnano alla formazione che si classifica al secondo posto una rappresentanza superiore rispetto al livello di consenso raccolto alle urne. Se eletta presidente, la Bachelet dovrà perciò cercare un compromesso con l’opposizione di destra per mettere in atto le riforme più ambiziose del suo programma.
Soprattutto, come ha riassunto opportunamente un’elettrice cilena all’inviata del New York Times a Santiago, la coalizione di centro-sinistra “non ha mantenuto le promesse di cambiamento per 20 anni e perciò non c’è ragione per cui debba mantenerle ora”. Questa sensazione sembra essere piuttosto diffusa nel paese, così come una sostanziale sfiducia degli elettori nei confronti di tutta la classe politica cilena, tanto che il livello di astensione nel voto di domenica, secondo la Associated Press, avrebbe toccato il 44%.
Inoltre, va ricordato che la sconfitta del centro-sinistra nelle precedenti elezioni a beneficio della destra era stata causata proprio dal malcontento generato dalle politiche del governo appoggiato dalla cosiddetta “Concertación”, incapace di porre rimedio ai problemi sociali del paese o di alterare in maniera significativa le strutture politiche e gli orientamenti economici imposti durante la dittatura di Pinochet.
Nonostante faccia parte del Partito Socialista, Michelle Bachelet, secondo le parole del Wall Street Journal, ha sempre mantenuto “ottime relazioni con la comunità degli affari” e, come hanno dimostrato i quattro anni del suo primo mandato, l’obiettivo principale della sua eventuale futura amministrazione sarà quello di continuare a creare le condizioni migliori per attrarre il capitale straniero nel paese, pur se cercherà in ogni modo di garantire nuove e diverse politiche sociali.
Infine, il rallentamento già iniziato della crescita dell’economia cilena, determinato in particolare dalla frenata delle quotazioni del rame, farà aumentare le pressioni sul nuovo governo per muoversi in direzione opposta a quella prospettata dalla Bachelet in campagna elettorale. Sarà importante vedere come la Bachelet potrà impegnare il Cile nel blocco democratico latinoamericano, rappresentato da Brasile, Argentina e Uruguay e alleato dell’ALBA (Ecuador, Bolivia, Venezuela, Nicaragua e Cuba) dove l’integrazione regionale nel sistema di scambi potrebbe favorire una migliore condizione per il Paese andino.
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di Michele Paris
A pochi giorni dal nuovo vertice sul nucleare iraniano tra i rappresentanti di Teheran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), più di una nuvola minacciosa si sta addensando su negoziati che in molti vorrebbero vedere naufragare completamente. L’incontro di Ginevra tra il 21 e il 22 novembre prossimi metterà così alla prova soprattutto le intenzioni dell’amministrazione Obama, chiamata in sostanza a prendere un’importantissima decisione che, per mandare in porto un accordo efficare, dovrà finalmente riconoscere il diritto della Repubblica Islamica ad operare un programma nucleare a scopi pacifici del tutto legittimo, finendo inevitabilmente per creare più di un malumore tra i tradizionali alleati in Medio Oriente.
Come è noto, l’opposizione più irriducibile ad un accordo con Teheran continua ad essere manifestata dalla grande maggioranza dei membri del Congresso di Washington e dal governo Netanyahu in Israele, preoccupato per la possibile perdita della propria superiorità nella regione. Per allentare le resistenze dei leader di Camera e Senato, l’amministrazione Obama ha così messo in campo sia il Segretario di Stato, John Kerry, che lo stesso presidente.
Il Senato, infatti, minaccia di approvare un nuovo pacchetto di sanzioni contro l’Iran già licenziato dalla Camera qualche mese fa e che congelerebbe per intero i traffici commerciali del paese mediorientale entro i prossimi anni. In un’audizione al Senato, perciò, Kerry ha avvertito che l’applicazione di ulteriori sanzioni determinerebbe il quasi certo collasso dei colloqui. L’ex senatore democratico, inoltre, venerdì prossimo si recherà in Israele, dove è giunto domenica anche il presidente francese, François Hollande, per rassicurare il premier Netanyahu.
Obama, da parte sua, qualche giorno fa ha spiegato invece che l’unica alternativa al tentativo di “esplorare l’opzione diplomatica” sarebbe con ogni probabilità una guerra rovinosa. Entrambi i leader statunitensi, hanno comunque confortato i falchi del Congresso e gli israeliani, assicurando che la Casa Bianca appoggerà qualsiasi nuova misura punitiva nei confronti dell’Iran se i colloqui non dovessero portare a risultati concreti.
Secondo le indiscrezioni filtrate da Ginevra due settimane fa, l’accordo preliminare su cui si sta discutendo prevederebbe un quasi totale blocco del programma nucleare iraniano per sei mesi, durante i quali verrebbero allentate alcune sanzioni, così da consentire trattative per un’intesa definitiva di più ampio respiro. Su un testo simile, i negoziati erano saltati all’ultimo minuto e la delegazione della Repubblica Islamica e quelle delle potenze occidentali hanno poi riportato versioni contrastati sulle responsabilità del mancato accordo.
Il Segretario di Stato americano ha sostenuto che gli iraniani non sono stati in grado di accettare la bozza di accordo presentata dal fronte compatto dei P5+1, mentre il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, ha respinto le accuse, puntando il dito contro le proprie controparti e, in particolare, la Francia.
I resoconti della stampa all’indomani del vertice di Ginevra - secondo i quali il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, aveva di fatto bloccato la firma di un accordo condiviso ponendo alcune condizioni inaccettabili per l’Iran - sono stati confermati qualche giorno fa anche da un’analisi del giornalista americano Gareth Porter pubblicata dall’agenzia di stampa Ipsnews e basata sulle dichiarazioni rilasciate nel corso di una conferenza stampa dal Cairo del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov.
Quest’ultimo ha rivelato come, al termine delle discussioni nella città svizzera, “i P5+1 non siano stati in grado di accordarsi su un documento condiviso”. Inizialmente, in realtà, “era emersa una bozza proposta dagli americani e che era stata approvata dalla delegazione iraniana”. Questa versione dell’accordo avrebbe poi trovato l’OK anche dei russi e degli altri paesi coinvolti.
Secondo Lavrov, se questo documento fosse stato appoggiato da tutti fino all’ultimo “ora staremmo probabilmente già implementando le prime condizioni dell’accordo”. Invece, gli americani hanno improvvisamente apportato delle modifiche al testo negoziato con l’Iran su insistenza della Francia e senza consultare la Russia. La nuova versione è così circolata “letteralmente quando le delegazioni stavano per lasciare Ginevra” e le modifiche sono risultate tali da essere inaccettabili per gli iraniani.
La ricostruzione di Lavrov conferma dunque come le incertezze non siano da attribuire alla Repubblica Islamica - il cui nuovo governo moderato deve peraltro fronteggiare le ansie di una parte dell’establishment conservatore che vede con estremo sospetto qualsiasi trattativa con l’Occidente - bensì agli Stati Uniti e ai loro alleati che, pur vedendo indubbi vantaggi strategici in un accordo con Teheran, continuano quanto meno a rimandare una decisione sostanzialmente politica che avrebbe conseguenze tutt’altro che trascurabili per gli equilibri mediorientali e non solo.
Nella necessità di porre fine al più presto a sanzioni che hanno messo in ginocchio la propria economia, l’Iran continua infatti a mostrare tutta la propria disponibilità a trattare per risolvere la questione del nucleare. Ciò è stato confermato da una serie di annunci dei giorni scorsi, a cominciare dall’accordo trovato tra l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e Teheran per un regime di ispezioni più severo presso i siti nucleari iraniani.
Più recentemente, inoltre, la stessa agenzia delle Nazioni Unite ha confermato come l’Iran abbia congelato negli ultimi mesi l’espansione del proprio programma nucleare, senza aggiungere praticamente nessuna nuova centrifuga per l’arricchimento dell’uranio nelle strutture di Natanz e Fordo. Infine, Teheran ha deciso anche di interrompere i lavori per l’avvio dell’impianto di Arak che dovrebbe servire a produrre plutonio dal prossimo anno e sul quale si erano concentrate le critiche francesi due settimane fa a Ginevra.
Tra pressioni contrastanti e in aumento, dunque, i prossimi giorni dovrebbero rivelare finalmente quanto gli Stati Uniti saranno disposti ad andare contro le resistenze interne ed esterne per giungere ad uno storico accordo che, dopo decenni, potrebbe aprire l’Iran all’Occidente con conseguenze economiche e strategiche che appare sempre più difficile sopravvalutare.
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di Michele Paris
Nella giornata di mercoledì gli operai della Boeing di Everett, nello stato di Washington, saranno chiamati ad approvare o respingere una proposta di contratto negoziata tra il management della compagnia aerospaziale, i vertici sindacali e i leader politici locali che promette di sconvolgere in maniera permanente i rapporti di fabbrica e le condizioni di lavoro di quasi 20 mila persone. Nonostante il contratto in vigore dei meccanici della Boeing sia in scadenza solo fra tre anni, la dirigenza della compagnia ha sfruttato il prossimo inizio della produzione del nuovo aeromobile 777X per ottenere una serie di concessioni dai lavoratori difficilmente conseguibili nell’ambito delle normali trattative con il sindacato (International Association of Machinists, IAM).
In particolare, la Boeing richiede la garanzia che non verranno organizzati scioperi nei prossimi 11 anni, il passaggio dall’attuale sistema pensionistico a quello contributivo e quindi meno vantaggioso, lo stop all’accumulazione di ulteriori benefici in vista della pensione, l’aumento dei premi da pagare per le polizze sanitarie di dipendenti e pensionati e l’allungamento del periodo previsto per il raggiungimento del livello massimo di retribuzione da sei a sedici anni.
Inoltre, tra il 2016 e il 2024 saranno erogati soltanto quattro aumenti salariali pari all’1% ciascuno. Gli stipendi, cioè, verranno di fatto tagliati visti i livelli di inflazione decisamente più elevati. In cambio di questa svendita dei lavoratori e dei loro diritti acquisiti sostanzialmente appoggiata dal sindacato, la Boeing promette un bonus una tantum pari a 10 mila dollari.
Se gli operai non approveranno il nuovo accordo, la Boeing potrebbe concretizzare la minaccia di trasferire la produzione del nuovo 777X dal gigantesco stabilimento a nord di Seattle in un impianto non sindacalizzato della Carolina del Sud, con la conseguente perdita, includendo l’indotto, di decine di migliaia di posti di lavoro per lo stato di Washington.
La richiesta di firmare il prolungamento del contratto con una pistola puntata alla tempia ha prodotto una massiccia opposizione tra i lavoratori nei confronti dei vertici aziendali e dello stesso sindacato che dovrebbe teoricamente tutelare i loro interessi.
Un’accesa riunione tra gli iscritti all’IAM lo scorso giovedì ha fatto emergere tutta la rabbia degli operai, tanto che il presidente della sezione 751 del sindacato, Tom Wroblewski, ha addirittura fatto a pezzi una copia dell’accordo da lui firmato, minacciando di revocare il voto di mercoledì.
Lo stesso Wroblewski, tuttavia, qualche giorno più tardi è tornato a sostenere l’accordo, sia pure in maniera velata, e a ricordare ai lavoratori di decidere “ciò che è giusto per loro, per le loro famiglie e per la comunità”, visto che in ballo c’è “il loro futuro e il loro lavoro”.
Le minacce e le pressioni del sindacato per dividere i lavoratori e giungere ad un voto positivo hanno fatto però ben poco per calmare gli animi, visto che nel pomeriggio di lunedì un’altra riunione tra alcune centinaia di iscritti ha di nuovo mostrato l’ampia opposizione all’accordo. Alcuni di questi ultimi hanno anche denunciato i tentativi dei vertici sindacali di mettere a tacere il dissenso, accusandoli inoltre di avere tradito lo sciopero di quasi due mesi messo in atto nel 2008 imponendo le pesanti concessioni volute dall’azienda.
Tra gli operai intervistati dal Seattle Times durante l’incontro, molti hanno espresso il malcontento nei confronti del sindacato e il timore per i tagli a stipendi e benefit che si prospetterebbero con l’estensione del contratto, provocando nel prossimo futuro una sorta di “Wal-martizzazione dell’industria aerospaziale” nello stato, in riferimento alla depressione delle retribuzioni causata dall’arrivo del gigante della distribuzione Wal-Mart nelle varie comunità degli Stati Uniti.
A conferma dell’unità di intenti tra politica, sindacato e azienda per portare attacchi senza precedenti contro i lavoratori, nella giornata di lunedì il leader sindacale Wroblewski è apparso a fianco dell’amministratore delegato di Boeing Commercial Airplanes, Ray Conner, e del governatore democratico dello stato di Washington, Jay Inslee, durante una cerimonia organizzata per la firma da parte di quest’ultimo di un pacchetto legislativo che comprende svariati benefici per la compagnia.
Lo stato di Washington ha infatti da poco approvato un provvedimento ad hoc per la Boeing in seguito alle richieste della compagnia per garantire la produzione del 777X a Everett. Tra le agevolazioni previste ci sono 8,7 miliardi di dollari in tagli alle tasse nei prossimi tre decenni, 8 milioni di dollari destinati alla formazione di lavoratori del settore aero-spaziale e norme più semplici per la realizzazione di progetti industriali in questo ambito.
La Boeing ha anche chiesto, oltre al nuovo contratto che gli operai dovranno votare mercoledì, un pacchetto fiscale per finanziare l’ammodernamento delle infrastrutture dello stato, tra cui le strade che la compagnia utilizza per trasportare i propri aeromobili. Su quest’ultima misura, tuttavia, il parlamento statale di Washington non ha ancora trovato un accordo definitivo.
L’amministratore delegato Conner, intanto, sempre nella giornata di lunedì ha ribadito che la minaccia di portare la produzione del 777X in Carolina del Sud “non è un bluff”, dal momento che la sua compagnia è ormai “sotto assedio dai concorrenti stranieri”, a cominciare dall’europea Airbus.
La Boeing, d’altra parte, come altre grandi aziende americane, ha già mostrato ben pochi scrupoli nel trasferire i propri impianti da stati a forte presenza sindacale e con retribuzioni relativamente elevate ad altri, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, dove la manodopera risulta molto più flessibile ed economica.
Nel 2009, ad esempio, la produzione del 787 Dreamliner è stata spostata proprio nell’impianto di North Charleston, in Carolina del Sud, così come altre commesse hanno ugualmente lasciato l’area a nord di Seattle e altri impianti nello stato di Washington.
Anche con la firma del nuovo contratto, peraltro, nonostante le concessioni è tutt’altro che certo che la produzione del nuovo prodotto Boeing rimarrà interamente a Everett. Tra le parti dell’accordo che più preoccupano i lavoratori, oltre a quelle riguardanti le loro condizioni, ce n’è infatti una che sembra lasciare aperta la possibilità per la compagnia di appaltare la realizzazione delle sofisticate ali del nuovo aeromobile ad un fornitore esterno.
Tutti i sacrifici richiesti con la collaborazione del sindacato ai propri operai dietro il ricatto di vedere sparire migliaia di posti di lavoro, va ricordato, si inseriscono in un frangente nel quale la Boeing sta raccogliendo profitti da record e letteralmente ricoprendo di dollari i propri top manager.
Nel terzo trimestre di quest’anno, la compagnia aerospaziale ha fatto registrare un aumento degli utili pari al 12% (2,2 miliardi di dollari), mentre il CEO di Boeing Company, Jim McNerney, ha ricevuto nel 2012 qualcosa come 27,5 milioni di dollari tra stipendio e benefit vari dopo che la compagnia americana ha superato per la prima volta in un decennio la rivale Airbus.
Al di là dell’esito del voto di mercoledì, che nonostante le manifestazioni di protesta contro l’accordo non appare per nulla scontato viste le pressioni a cui i meccanici della Boeing sono sottoposti, la vicenda della fabbrica di Everett è l’ennesima conferma di come i lavoratori negli Stati Uniti e altrove non trovino ormai più nessuna significativa rappresentazione nelle organizzazioni sindacali tradizionali.
Queste ultime, infatti, operano sempre più come un’estensione della dirigenza aziendale per far accettare ai propri iscritti ogni richiesta di concessione o smantellamento dei propri diritti, dividendo e isolando i lavoratori che intendono manifestare un qualsiasi proposito di resistenza.
Di fronte a questo scenario, la sconfitta dei lavoratori nelle singole unità produttive diventa pressoché inevitabile, tanto più che le compagnie trovano regolarmente preziosi alleati tra i politici di entrambi gli schieramenti e la stampa ufficiale, diligentemente impegnata a predicare l’impossibilità di combattere e percorrere strade alternative che non prevedano il deterioramento delle condizioni di lavoro per evitare lo spettro continuamente agitato di licenziamenti e della chiusura degli impianti industriali.
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di Michele Paris
Le divisioni emerse domenica tra i governi impegnati nei colloqui con l’Iran per la risoluzione della crisi del nucleare di Teheran e il conseguente rinvio di un accordo che solo poche ore prima sembrava a portata di mano, hanno consentito ai falchi di Washington e Tel Aviv di tornare ad agitarsi per impedire un esito positivo della complicata questione.
Come è stato ampiamente riportato dalla stampa di tutto il mondo, a determinare il relativo fallimento del vertice di Ginevra sarebbe stato l’irrigidimento della posizione francese nel corso dei negoziati, manifestato da una dichiarazione pubblica del ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, responsabile di avere rotto il tacito accordo che prevedeva il massimo riserbo sul contenuto delle condizioni in discussione
La Francia, in sostanza, ha espresso riserve su una eventuale intesa che non avrebbe incluso alcune condizioni più dure nei confronti della Repubblica Islamica, come l’invio all’estero di tutto l’uranio finora arricchito al 20% e lo smantellamento dell’impianto di Arak per la produzione di plutonio che dovrebbe essere attivato nel 2014. Simili richieste, come sa perfettamente il governo socialista transalpino, appaiono difficilmente accettabili dagli iraniani.
Lo stop provocato dai francesi ha rappresentato un brusco risveglio per quanti avevano visto aumentare le aspettative attorno al summit di Ginevra nel fine settimana, soprattutto dopo che venerdì i ministri degli Esteri dei P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), tra cui il segretario di Stato americano, John Kerry, erano volati nella località svizzera in vista dell’annuncio di un accordo, sia pure provvisorio per consentire ulteriori trattative nei prossimi mesi su un’intesa più ampia.
Le ricostruzioni prevalenti in merito alla frenata improvvisa sono state però in parte smentite da quanto riportato lunedì dal New York Times, secondo il quale a determinare un rinvio di una decina di giorni dei colloqui sarebbe stata invece la posizione assunta dai negoziatori iraniani di fronte alle loro controparti.
Secondo questa versione, basata su quanto rivelato da anonimi diplomatici presenti a Ginevra e supportata in gran parte dalle dichiarazioni rilasciate sempre lunedì da John Kerry, sarebbe stata la delegazione di Teheran, guidata dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, a esprimere resistenze dopo avere preso atto dell’assenza tra i P5+1 della volontà di riconoscere esplicitamente il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione.
Come ha scritto domenica il quotidiano israeliano Jerusalem Post, cioè, all’interno dei P5+1 non ci sarebbe stata alcuna divisione ed essi, anzi, avrebbero approvato in maniera unanime un documento da sottoporre agli iraniani che a loro volta lo hanno giudicato “troppo duro”, sostenendo che si rendevano necessarie consultazione con il governo a Teheran.
Quest’ultima versione, se corrispondente al vero, dimostra come nella realtà dei fatti i progressi delle ultime settimane siano stati meno significativi di quanto propagandato, visto che, in tal caso, l’atteggiamento tenuto pochi giorni fa a Ginevra dai P5+1 e, in particolare, dai governi occidentali ricorderebbe quello mostrato durante tutti i precedenti vertici, puntualmente falliti quando le aperture iraniane sono state accolte con richieste o concessioni inaccettabili. Tanto più che lunedì un diplomatico iraniano ha rivelato come il suo governo avrebbe raggiunto un’intesa con le Nazioni Unite su una “road map” per adottare un regime di ispezioni più severo nelle proprie strutture nucleari.
Se a determinare l’esito del summit è stata invece la presa di posizione della Francia, è estremamente probabile che essa sia da collegare, come ha affermato un anonimo diplomatico occidentale in un’intervista al britannico Guardian, “agli interessi di Parigi nel Golfo [Persico]” nonché al lavoro dietro le quinte svolto dal governo di Tel Aviv e, in particolare, “al fatto che [il presidente François] Hollande questo mese si recherà in Israele e non vuole che il suo viaggio si trasformi in un incubo”.
Più in generale, a sottolineare le implicazioni strategiche ed economiche della crisi del nucleare iraniano e di una sua eventuale risoluzione è stato il vice-ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, per il quale ci sarebbero “molte questioni che influiscono sugli interessi di svariati paesi”, a cominciare dai P5+1, e che si concretizzano in divisioni sempre più accentuate.
Inoltre, la relativa distensione tra Washington e Teheran ha già fatto intravedere come le relazioni e gli equilibri in Medio Oriente potrebbero essere stravolti da un accordo di ampio respiro, con i tradizionali alleati degli Stati Uniti - come Israele e Arabia Saudita - che stanno mostrando segni di insofferenza ed altre potenze (come appunto la Francia) che cercano di conquistare posizioni di favore per stabilire nuove o più solide alleanze in un’area cruciale del globo.
Ciò che risulta evidente, in ogni caso, non sono soltanto le difficoltà nel risolvere una questione annosa sulla quale agiscono pressioni enormi ma anche la posta in palio che va ben al di là del programma nucleare della Repubblica Islamica, per il quale peraltro non esiste una sola prova che abbia come obiettivo la produzione di armi atomiche.
Già domenica, così, è iniziata a circolare la notizia che il Senato degli Stati Uniti potrebbe discutere a breve un nuovo pacchetto di sanzioni economiche contro l’Iran, come ha confermato in un intervento al programma “This Week” della ABC il presidente della commissione Esteri, il democratico Robert Menendez. Il senatore del New Jersey ha minacciato di far procedere la legislazione già approvata lo scorso luglio dalla Camera e che, se implementata, mirerebbe a congelare pressoché interamente le esportazioni petrolifere iraniane entro il 2015.
Al Congresso USA, d’altra parte, esiste un’ampia maggioranza trasversale molto più disposta rispetto alla Casa Bianca ad assecondare le richieste di Israele, il cui governo continua a tuonare contro qualsiasi accordo sul nucleare che non rappresenti una resa totale per Teheran.
Con i colloqui rimandati, inoltre, la macchina della propaganda soprattutto israeliana opererà a pieno regime nei prossimi giorni per cercare di far naufragare completamente i negoziati. Milioni di dollari sono infatti già stati spesi da gruppi di lobbies negli Stati Uniti favorevoli a Israele per “convincere” il governo e il Congresso di Washington a non siglare nessun accordo con Teheran.
La linea dura che intendono perseguire senatori e deputati di entrambi gli schieramenti appare particolarmente preoccupante per la Casa Bianca, poiché un’ipotetica soppressione anche solo di alcune sanzioni contro l’Iran in seguito ad un futuro accordo dovrà essere approvata proprio da un voto del Congresso.
Per cercare di placare l’opposizione ai negoziati, l’amministrazione Obama nella giornata di domenica ha così inviato in Israele la sottosegretaria di Stato Wendy Sherman, responsabile della delegazione USA a Ginevra, mentre Kerry dopo un breve stop ad Abu Dhabi è tornato a Washington nella serata di lunedì e martedì sarà protagonista di un’audizione al Senato per convincere i suoi ex colleghi a rinviare la discussione sulle nuove sanzioni.
Le minacce di istituire una sorta di embargo totale sul commercio iraniano, nonostante le intenzioni dichiarate di mantenere alta la pressione su Teheran per favorire un accordo e ottenere le maggiori concessioni possibili sul nucleare, servono sostanzialmente a far saltare il tavolo delle trattative e giungere, in ultima analisi, ad un intervento militare in Iran e ad un cambio di regime, uniche soluzioni gradite a quanti si oppongono in maniera strenua ad ogni genere di accomodamento con questo paese.
I toni bellicosi del governo israeliano e dei “congressmen” americani, d’altra parte, hanno sempre prodotto un comprensibile irrigidimento del regime iraniano e questa dinamica non sembra essere stata alterata con l’arrivo al potere di una leadership moderata e ben disposta verso l’Occidente.
Ciò è stato dimostrato, ancora una volta, dalle dichiarazioni del presidente, Hassan Rouhani, di fronte al parlamento iraniano nella giornata di domenica. Nella necessità anche di concedere qualcosa agli esponenti della linea dura contrari al dialogo con gli Stati Uniti, Rouhani ha cioè ribadito il diritto della Repubblica Islamica ad arricchire l’uranio per scopi pacifici, aggiungendo che il suo governo non si piegherà né si lascerà intimidire da nessuna minaccia esterna.