- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Il rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord diffuso lunedì a Ginevra è stato accolto con il previsto clamore da parte della “comunità internazionale”, al cui interno gli Stati Uniti e i loro alleati hanno salutato la minaccia da parte della speciale commissione di inchiesta di raccomandare l’incriminazione del giovane leader di Pyongyang, Kim Jong-un, presso la Corte Penale Internazionale.
Come ampiamente riportato dai media di tutto il mondo, l’indagine coordinata dall’ex giudice australiano Michael Kirby ha elencato i consueti crimini attribuiti al regime stalinista, dalle torture sistematiche alle detenzioni nei campi di lavoro, dalle esecuzioni arbitrarie agli aborti forzati, dalle violenze sessuali alla privazione del cibo come forma di “controllo sulla popolazione”.
Lo stesso rapporto non ha poi risparmiato considerazioni molto dure sulla Corea del Nord, affermando ad esempio che “la gravità, le dimensioni e la natura delle violazioni [dei diritti umani] rivelano una situazione che non ha eguali nella storia contemporanea”. Kirby, da parte sua, ha paragonato i metodi impiegati dal regime di Pyongyang a quelli della Germania nazista, dichiarando apertamente che l’obiettivo del rapporto è quello di “sollecitare azioni da parte della comunità internazionale”.
L’azione intrapresa dall’ONU questa settimana nei confronti della Corea del Nord si inserisce infatti nel quadro della campagna condotta dagli Stati Uniti e dagli altri governi occidentali per destabilizzare il regime di Kim Jong-un e, ancor più, per fare pressioni sull’unico alleato di quest’ultimo, la Cina.
Pechino, d’altra parte, viene eccezionalmente nominata dal rapporto e criticata, tra l’altro, per avere rimpatriato rifugiati nordcoreani pur essendo a conoscenza della sorte a cui essi sarebbero andati incontro e, più in generale, per avere fornito collaborazione nella messa in atto di crimini contro l’umanità.Vittima designata della giustizia selettiva delle Nazioni Unite con il beneplacito degli Stati Uniti, la Corea del Nord non appare certo un modello di democrazia e molti dei crimini enumerati nel rapporto presentato a Ginevra sono stati e continuano indubbiamente ad essere commessi.
Le intenzioni della commissione di inchiesta presieduta dal giudice Kirby sono però quasi interamente di natura politica, come confermano sia le modalità di raccolta delle informazioni riportate nel rapporto sia la parzialità della storia raccontata al mondo per dipingere la situazione dell’isolato e impoverito paese dell’Asia nord-orientale.
Il resoconto dei crimini commessi dal regime, per cominciare, si basa esclusivamente sulle testimonianze degli esuli nordcoreani, soprattutto di stanza nella Corea del Sud, dove questa comunità viene spesso influenzata o manipolata da ambienti anti-comunisti ultra-reazionari e del fondamentalismo cristiano, se non direttamente dai servizi segreti di Seoul. Il regime nordcoreano, infatti, non aveva concesso ai membri della commissione ONU di operare sul proprio territorio.
In merito ad alcune accuse specifiche, inoltre, l’ONU, pur indirizzando pesanti critiche alla Cina, esula gli Stati Uniti da ogni responsabilità. Ciò appare evidente soprattutto in relazione alla questione alimentare e alle violazioni del “diritto al cibo” dei cittadini nordcoreani.
Le numerose carestie che negli anni hanno fatto centinaia di migliaia di morti in questo paese sono da attribuire in primo luogo al blocco economico imposto proprio da Washington a partire dalla fine del conflitto del 1953 come arma per isolare e destabilizzare il regime stalinista.
Le sanzioni sono state poi costantemente inasprite in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, nell’ambito della strategia statunitense di penetrazione in Asia orientale, quasi sempre facendo leva sulla questione dei diritti umani, sulle provocazioni di Pyongyang o sull’avanzamento del programma nucleare militare. Una situazione, quest’ultima, che ha alimentato il senso di assedio del regime e le conseguenti misure repressive adottate per conservare il potere.
Sul fronte delle accuse rivolte a Pechino per avere rimpatriato i profughi nordcoreani, poi, la Cina condivide il ricorso a politiche simili con molti altri governi anche occidentali o, ad esempio, con la stessa Australia del giudice Kirby, responsabile di rimpatri forzati verso Indonesia, Papua Nuova Guinea e altri paesi del sud-est asiatico.
Più in generale, la creazione della commissione di inchiesta ONU e il possibile rinvio di Kim Jong-un alla Corte Penale dell’Aia confermano l’attitudine di questi organi internazionali a perseguire una giustizia a senso unico, quasi sempre volta a favorire gli interessi imperialistici degli Stati Uniti o delle altre potenze loro alleate.
Nessuna commissione di inchiesta è stata infatti creata per individuare le responsabilità di crimini colossali come le aggressioni di Afghanistan o Iraq che hanno causato devastazione sociale e milioni di morti tra le popolazioni civili. Entrambe le avventure belliche degli USA – la seconda delle quali anche formalmente illegale dal punto di vista del diritto internazionale – rientrano oltretutto nella definizione di “guerra di aggressione”, condannata dai principi di Norimberga in seguito al processo per i crimini nazisti evocati a Ginevra dal giudice Kirby.
L’obiettivo del rapporto sulla Corea del Nord sembra essere dunque quello di preparare l’opinione pubblica internazionale ad una probabile prossima escalation di pressioni e provocazioni nei confronti del regime di Kim Jong-un, con una strategia consolidata che fa puntualmente riferimento ai principi umanitari, come accadde, ad esempio, alla vigilia del bombardamento NATO della Serbia nel 1999 e della stessa invasione dell’Iraq nel 2003, anticipati da campagne di demonizzazione contro Slobodan Milosevic e Saddam Hussein.Tramite la condanna della Corea del Nord, in questo caso, l’attenzione viene dirottata in particolare sulla Cina, al centro della “svolta” strategica statunitense in Estremo Oriente. Non a caso, d’altra parte, proprio alla vigilia della presentazione del rapporto ONU, il segretario di Stato americano John Kerry, nel corso di una visita a Pechino aveva nuovamente invitato i leader cinesi a esercitare tutte le pressioni possibili per costringere il loro vicino nord-orientale ad abbandonare il proprio programma nucleare.
Ben consapevole dello scenario in cui si colloca il rapporto ONU, nella giornata di martedì il governo cinese ha definito “critiche ingiuste” quelle mossegli contro dalla commissione d’inchiesta sulla Nord Corea. Una portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha poi affermato che “la politicizzazione della questione dei diritti umani non fa nulla” per migliorare la condizione di questi ultimi in un determinato paese.
La Cina, infine, non ha confermato la propria volontà di esercitare il potere di veto nel caso il rapporto ONU dovesse approdare al Consiglio di Sicurezza per un eventuale voto su ulteriori sanzioni ai danni di Pyongyang. È sensazione comune degli osservatori, tuttavia, che Pechino bloccherà ogni azione motivata politicamente che possa danneggiare l’alleato nordcoreano e determinare un arretramento nei confronti degli Stati Uniti su una questione cruciale per la propria sicurezza nazionale.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
I lavoratori americani della fabbrica Volkswagen di Chattanooga, nel Tennessee, qualche giorno fa hanno inflitto un colpo pesantissimo al sindacato automobilistico UAW (United Automobile Workers) e alle sue ambizioni di allargare la propria presenza nel sud degli Stati Uniti per fronteggiare la continua emorragia di iscritti tra le proprie fila. Relativamente a sorpresa, nell’impianto della compagnia tedesca una netta maggioranza dei dipendenti ha infatti votato contro l’ingresso della UAW nella loro fabbrica.
Dopo tre giorni di consultazioni, quasi il 90 per cento dei dipendenti ha espresso il proprio parere sulla questione e, con una maggioranza di 712 a 626, il sindacato automobilistico americano è stato alla fine pesantemente sconfitto. L’esito del voto è apparso a molti sorprendente, dal momento che la UAW aveva investito ingenti risorse per accedere alla struttura di Chattanooga e, soprattutto, perché la dirigenza della Volkswagen aveva mantenuto un approccio neutrale se non, addirittura, espresso una tacita approvazione al processo di sindacalizzazione.
I vertici Volkswagen, in particolare, erano e sono tuttora impegnati a promuovere la creazione anche negli Stati Uniti di “consigli di fabbrica” sul modello tedesco. Per fare ciò, tuttavia, secondo la legge USA è necessario che i lavoratori di una determinata fabbrica siano rappresentati da un sindacato.
Secondo i commenti apparsi in questi giorni sui media ufficiali d’oltreoceano, il modello dei “consigli”, che la Volkswagen impiega praticamente in tutti i suoi più di 100 impianti nel mondo, avrebbe permesso di aumentare la produttività della compagnia attraverso la collaborazione con i lavoratori.
In realtà, questi organi, dove siedono assieme alla dirigenza aziendale i rappresentanti di operai e impiegati, servono fondamentalmente a reprimere qualsiasi forma di opposizione alle decisioni dei vertici delle compagnie dietro la facciata della cosiddetta “co-gestione” e in cambio di modeste concessioni.
Avendo già svolto questo ruolo nei confronti dei propri iscritti a Detroit, la UAW aveva convinto la Volkswagen ad appoggiare i propri sforzi per accedere alla fabbrica del Tennessee, così da mettere le mani su nuovi contributi da prelevare dagli stipendi dei lavoratori e aprire una breccia negli stati meridionali degli Stati Uniti, dove tradizionalmente prevale uno spirito anti-sindacale.
Per fare ciò, il presidente del sindacato automobilistico, Bob King, aveva anche cercato di aggirare la legge, sostenendo che la presenza della sua organizzazione non doveva essere certificata da un voto, visto che alcuni mesi fa la maggioranza dei dipendenti della fabbrica aveva espresso per iscritto il proprio favore alla presenza della UAW.
Dopo il voto, così, il numero uno della Volkswagen di Chattanooga, Frank Fischer, si è detto addolorato per i risultati, mentre lo stesso King ha annunciato di volere considerare un’azione legale contro coloro che avrebbero “avvelenato il clima e impedito un voto regolare”.Il presidente della UAW ha fatto riferimento soprattutto ad alcuni politici repubblicani che nelle settimane precedenti la consultazione si erano impegnati in un’accesa campagna anti-sindacale. Il governatore dello stato, Bill Haslam, aveva ad esempio sostenuto che i possibili fornitori della fabbrica non avrebbero aperto impianti nell’area di Chattanooga se i lavoratori Volkswagen avessero votato per il sindacato.
Il senatore del Tennessee nonché ex sindaco di Chattanooga, Bob Corker, aveva invece rivelato come i vertici Volkswagen gli avessero confessato che, sempre in caso di voto a favore della UAW, l’apertura prevista di una nuova linea di produzione sarebbe stata dirottata verso un altro stabilimento, quasi certamente in Messico. Da parte sua, la Volkswagen aveva smentito il senatore repubblicano, affermando che “non esiste alcun legame tra la decisione dei nostri dipendenti di Chattanooga… e la costruzione di un nuovo prodotto per il mercato americano”.
Il senatore statale, Bo Watson, aveva poi promesso che l’assemblea legislativa del Tennessee non avrebbe approvato ulteriori benefici fiscali per la Volkswagen se i lavoratori avessero accettato il sindacato in fabbrica, mettendo in dubbio i piani di investimento dell’azienda a Chattanooga.
Se la propaganda degli ambienti più reazionari del sud degli Stati Uniti per convincere i dipendenti della Volkswagen può avere avuto un qualche peso, è in primo luogo la storia recente della UAW ad averli convinti a lasciare questo sindacato fuori dai cancelli della loro fabbrica.
A riassumere lo stato d’animo dei lavoratori nel recarsi al voto è stato proprio uno di questi ultimi sentito dal New York Times, al quale ha affermato che la maggior parte dei suoi colleghi è convinta che la UAW abbia profondamente danneggiato i lavoratori del settore auto di Detroit. In altre parole, gli operai di Chattanooga sono perfettamente a conoscenza di come la UAW abbia favorito la chiusura di fabbriche e la scomparsa di migliaia di posti di lavoro nella metropoli del Michigan, così come la drastica riduzione dei livelli retributivi e la distruzione delle conquiste dei lavoratori.
La “ristrutturazione” di General Motors e Chrysler attraverso la bancarotta forzata voluta dall’amministrazione Obama nel 2009 è stata possibile solo grazie alla collaborazione del sindacato che si è tradotta, tra l’altro, nel dimezzamento degli stipendi per i neo-assunti e nella virtuale soppressione della giornata lavorativa di 8 ore.
Molti operai sentiti dai giornali durante le operazioni di voto a Chattanooga avevano fatto notare come la Volkswagen paghi attualmente in media 19,5 dollari l’ora, vale a dire circa 5 dollari in più rispetto ai dipendenti assunti negli ultimi anni nelle fabbriche di Detroit rappresentate dalla UAW. Il timore diffuso, perciò, è che l’ingresso in azienda di quest’ultima avrebbe potuto innescare nel prossimo futuro un processo di adeguamento verso il basso delle retribuzioni.
Nelle dichiarazioni precedenti il voto di settimana scorsa e nei documenti ufficiali, d’altra parte, i vertici della UAW avevano prospettato proprio un’evoluzione simile se richiesta dall’azienda, in linea con il ruolo svolto a Detroit. Negli accordi con la Volkswagen per la presenza sindacale a Chattanooga, tra l’altro, sarebbe stato previsto che la UAW si sarebbe impegnata a “mantenere e, dove possibile, a migliorare la competitività e il vantaggio relativo ai costi di produzione sui concorrenti negli Stati Uniti e in Nordamerica”.In un’apparizione pubblica, Bob King aveva poi offerto i servizi della sua organizzazione al management Volkswagen in vista della creazione dei “consigli di fabbrica”. Il numero uno della UAW aveva cioè rassicurato circa la disponibilità a “lavorare assieme alla compagnia per ottenere il più alto livello qualitativo e la più alta produttività” attraverso “la cooperazione tra la forza lavoro e la dirigenza”.
Dopo il voto di venerdì, la Volkswagen ha fatto sapere di volere comunque continuare nel tentativo di creare un “consiglio di fabbrica” nell’impianto di Chattanooga, nonostante i paletti imposti dalla legislazione statunitense in assenza di un parere positivo dei lavoratori alla presenza di un’organizzazione sindacale.
Gli sforzi del colosso automobilistico tedesco per trapiantare negli USA un modello ormai regolarmente diffuso in patria sono legati anche agli affanni registrati recentemente sul mercato americano. Secondo i dati ufficiali, le vendite sono calate del 7 per cento nel 2013 a seguito delle difficoltà incontrate da una politica aziendale finora basata quasi unicamente sulle auto di medie dimensioni. Volkswagen, perciò, starebbe ora progettando di investire 7 miliardi di dollari per lanciare la già ricordata nuova linea di produzione, questa volta orientata verso il mercato nordamericano dei SUV.
Gli ostacoli incontrati finora e il nuovo piano di investimenti richiederanno verosimilmente una “razionalizzazione” negli impianti esistenti con conseguenze che si rifletteranno sulle condizioni di lavoro. Da qui la necessità di poter contare sulla collaborazione dei sindacati o, visto il loro crescente discredito, sui tanto celebrati “consigli di fabbrica” per far digerire ai lavoratori le imposizioni provenienti dall’alto.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
La commissione del Parlamento europeo per le Libertà Civili (LIBE) ha approvato questa settimana un rapporto sulle attività illegali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), respingendo però contemporaneamente alcuni fondamentali emendamenti legati alla sorte di Edward Snowden. Il rapporto di 60 pagine, preparato dal laburista britannico Claude Moraes e che verrà sottoposto all’attenzione dell’aula il prossimo mese di marzo, ha ottenuto l’approvazione di 33 membri della commissione, mentre 7 hanno espresso parere contrario e 17 sono stati gli astenuti.
Il voto, pur condannando le attività dell’NSA e della sua corrispondente britannica (GCHQ), si è sostanzialmente risolto in un atto di servilismo nei confronti di Washington, rivelando allo stesso tempo la reale attitudine di buona parte della classe dirigente europea verso metodi degni di uno stato di polizia.
In particolare, la commissione ha respinto un emendamento presentato dal gruppo dei Verdi che intendeva chiedere ai paesi membri dell’UE di lasciar cadere eventuali accuse nei confronti di Snowden e di offrire all’ex contractor dell’NSA “protezione contro incriminazioni, estradizione o rendition da parte di paesi terzi”, riconoscendogli inoltre lo status di “whistleblower” (chi cioè, dall’interno di un’agenzia o ufficio governativo, assiste a crimini o malefatte e le rivela al pubblico) e “difensore internazionale dei diritti umani”.
Altre questioni cruciali per i diritti civili che la commissione dovrebbe teoricamente difendere sono state poi vergognosamente lasciate cadere, come l’invito da rivolgere a Washington per concedere un’amnistia a Snowden, cancellando le assurde accuse sollevate formalmente nei suoi confronti di avere violato l’Espionage Act del 1917. Dello stesso nome di Edward Snowden, infine, non è rimasta traccia in tutto il documento finale.Il portavoce dei Verdi al Parlamento europeo, Jan Philipp Albrecht, ha duramente condannato l’approvazione del rapporto senza gli emendamenti relativi a Snowden, dal momento che soltanto grazie a quest’ultimo i cittadini dell’Europa e del resto del mondo hanno conosciuto il livello di criminalità del governo americano al centro dell’indagine contenuta nel rapporto della commissione per le Libertà Civili.
“Le coraggiose rivelazioni di Edward Snowden - ha affermato il politico tedesco - hanno fornito le basi per questa indagine e il mancato riconoscimento di questo vitale contributo… rappresenta una dimostrazione di vigliaccheria, che si spiega con il desiderio di non offendere gli Stati Uniti”.
I gruppi degli altri partiti di sinistra al Parlamento europeo hanno invece applaudito l’approvazione del rapporto, mettendo comunque in evidenza le mancanze. Una rappresentante del partito tedesco Die Linke ha ad esempio ammesso che “è mancata una reale discussione sull’abuso delle leggi anti-terrorismo e sull’offerta di asilo a Snowden”, così come nessuno ha chiesto la sospensione dei negoziati sul trattato di libero scambio USA-UE né “la revisione dell’intera politica relativa alla sicurezza”.
I voti necessari alla bocciatura degli emendamenti più importanti sono stati assicurati non solo dagli eurodeputati dei partiti conservatori e di centro-destra, ma anche da quelli social democratici.
L’alternativa proposta da questi ultimi e approvata è stata invece una fiacca quanto generica promessa di procedere con “la valutazione della possibilità di garantire protezione internazionale da qualsiasi incriminazione agli whistleblowers”. Nel rapporto viene suggerita inoltre la sospensione dell’accordo sullo SWIFT tra UE e Stati Uniti - grazie al quale Washington ottiene informazioni sui movimenti bancari teoricamente per ragioni di lotta al terrorismo - e di quello denominato “Safe Harbor”, che permette alle compagnie americane di auto-certificare il loro rispetto delle norme europee sulla privacy.
Il voto sul rapporto si è innestato poi sulla discussione in corso riguardante la possibile testimonianza di Snowden proprio di fronte al LIBE tra qualche settimana. Tramite i suoi legali, Snowden ha fatto sapere di essere disponibile ad apparire in video-conferenza ma non di persona se non dopo l’approvazione di misure volte a garantire la sua sicurezza. Contro l’ex contractor della NSA sono giunte infatti nei giorni scorsi aperte minacce di morte da parte di membri dell’apparato della sicurezza nazionale americana.Contro la testimonianza di Snowden si sono però già espressi chiaramente i gruppi conservatori al Parlamento europeo, mentre lo stesso governo di Washington, come ha fatto per indebolire il rapporto sulle attività della NSA, continua a esercitare forti pressioni perché la questione venga lasciata cadere.
Il comportamento della commissione, in ogni caso, non è stato determinato solo dalle pressioni e dalle minacce degli Stati Uniti - evidenti dai toni aggressivi di alcuni membri del Congresso di Washington in visita al Parlamento europeo lo scorso Dicembre - ma anche e soprattutto dall’intenzione della maggioranza dei suoi membri di utilizzare il rapporto sull’NSA come un’operazione di facciata per dare una qualche risposta alla diffusa ostilità popolare verso i metodi di sorveglianza impiegati dal governo americano.
La decisione di dare uno schiaffo a Snowden e di non riconoscere il suo eroico comportamento è in definitiva tutta europea, cioè di una classe dirigente che, con pochissime eccezioni, condivide largamente il ricorso ai metodi illegali della NSA e del GCHQ britannico, poiché a Berlino, Parigi o Roma non si hanno meno scrupoli che a Washington o a Londra nel calpestare i diritti democratici più fondamentali per difendere gli interessi di una ristretta élite.
Non a caso d’altra parte, come è stato messo in luce sia dalle rivelazioni di Snowden che da svariate testimonianze di “insider” da questa e dall’altra parte dell’oceano nei mesi scorsi, nella gran parte dei casi i programmi illegali di intercettazione della NSA sono stati messi in atto sul territorio europeo con la piena e volenterosa collaborazione delle agenzie di intelligence e dei governi nazionali.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il secondo round dei colloqui sulla Siria ha preso il via questa settimana a Ginevra in un clima di persistente freddezza tra le due parti che si affrontano da ormai quasi tre anni in un sanguinoso conflitto nel paese mediorientale. Mentre lo sforzo diplomatico continua a far segnare ben pochi progressi a causa soprattutto della rigidità della posizione occidentale e dei “ribelli”, da Washington l’amministrazione Obama è tornata a minacciare l’uso della forza, sia pure in maniera velata, per sbloccare la crisi e forzare il cambio di regime a Damasco.
Dopo avere speso inutilmente la giornata di martedì alla ricerca di un punto di incontro tra il regime, che insiste nel mettere al centro della discussione la lotta al terrorismo in Siria, e i membri della cosiddetta Coalizione Nazionale, intenzionati ad avviare trattative su un governo di transizione senza il presidente Assad, mercoledì il rappresentante delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha fatto un nuovo tentativo con una seconda sessione congiunta.
Inoltre, lo stesso diplomatico algerino ha annunciato di volere anticipare a giovedì un vertice inizialmente previsto per il giorno successivo tra i delegati di Russia e Stati Uniti, nella speranza che i due governi che appoggiano le parti in lotta siano disposti ad esercitare pressioni su queste ultime per individuare quanto meno un punto di partenza per intavolare un qualche dialogo.
I problemi incontrati in queste ore sono dunque sostanzialmente identici a quelli emersi nella prima fase dei negoziati di “Ginevra II”, falliti anche nel raggiungimento dell’obiettivo minimo iniziale prefissato, vale a dire l’attuazione di tregue localizzate per consentire operazioni umanitarie nelle aree del paese sotto assedio.
La successiva decisione del governo siriano di permettere l’ingresso degli aiuti nella città di Homs, invece, ha avuto finora un parziale successo, con qualche centinaia di civili evacuati e altri ancora intrappolati dopo alcuni episodi di violenza che nei giorni scorsi avevano ostacolato le operazioni.
Le difficoltà trovate a Homs hanno subito provocato le accuse dei governi occidentali nei confronti del regime siriano, attaccato per avere impedito l’accesso di cibo e medicine destinati alla popolazione civile. Da qui, alcuni paesi hanno fatto circolare una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, teoricamente volta a favorire l’ingresso degli aiuti nella città della Siria occidentale.
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha però bocciato la proposta, bollata come “inaccettabile” poiché contiene “un ultimatum al governo [di Assad]” per risolvere la crisi umanitaria in due settimane. In caso contrario, verrebbero “applicate sanzioni automatiche”. Per Lavrov, l’attenzione posta unicamente sul caso di Homs rivelerebbe un atteggiamento “unilaterale”, visto che sono i “gruppi di militanti [dell’opposizione] a rappresentare il principale impedimento alle operazioni umanitarie”, non solo in questa città ma anche in altre località della Siria.
La posizione dei governi occidentali ha trovato come al solito riscontro nei media ufficiali, impegnati ad evidenziare la sorte dei residenti rimasti a Homs e tralasciando quasi sempre il disastro umanitario provocato altrove dalle formazioni “ribelli”, soprattutto di matrice integralista, nonché le stragi commesse da queste ultime, come quella registrata lunedì nel villaggio a maggioranza alauita di Maan, nella provincia di Hama, dove sono stati massacrati almeno 20 civili che condividono la fede del presidente Assad.
La resistenza di Mosca a considerare una risoluzione “umanitaria” è stata criticata, tra gli altri, anche dal presidente francese, François Hollande, durante una conferenza stampa a Washington a fianco di Obama. Hollande ha simulato stupore di fronte alla mancanza di disponibilità della Russia a valutare la creazione di “corridoi umanitari”, utilizzati tradizionalmente dall’Occidente per giustificare interventi militari destinati a rovesciare regimi poco graditi.Tra le questioni al centro dell’attenzione della visita del presidente transalpino negli Stati Uniti c’è stata appunto la Siria, di cui ha parlato anche l’inquilino della Casa Bianca. Nell’apparizione pubblica con Hollande, infatti, Obama ha riconosciuto le difficoltà dei negoziati nel giungere ad una soluzione pacifica del conflitto, sottolineando “l’enorme frustrazione” che circola a Washington per gli sviluppi della vicenda.
“Ogni giorno che passa”, ha spiegato il presidente americano, “un numero sempre maggiore di persone in Siria è esposto a sofferenze. Lo stato sta crollando e ciò è negativo per… la regione [mediorientale] e per la sicurezza globale”, dal momento che “ci sono estremisti che hanno occupato il vuoto creatosi in alcune aree del paese”, ed essi “possono rappresentare una minaccia nel lungo periodo”.
Dopo questa analisi, e senza aggiungere che la situazione drammatica della Siria è stata causata in gran parte da una guerra per il rovesciamento del regime alimentata precisamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati, Obama ha affermato che “nessuno pensa al momento ad una soluzione militare”. Tuttavia, la sua amministrazione continua a valutare “qualsiasi strada possibile” e il presidente ha detto di volersi “riservare il diritto di decidere un’azione militare a difesa della sicurezza nazionale americana”.
Le parole pronunciate martedì da Obama appaiono estremamente rivelatrici dell’impazienza degli USA, intenzionati a procedere con la deposizione di Assad in qualsiasi modo: diplomaticamente, attraverso la conferenza di Ginevra, o, se necessario, con le armi.
Il pessimismo di Obama è inoltre singolare, visto che il prevedibile stallo di Ginevra è la conseguenza diretta del comportamento tenuto fin dall’inizio dagli stessi Stati Uniti e dai “ribelli” da loro appoggiati. Questi ultimi, infatti, hanno da subito insistito sull’esclusione da qualsiasi futuro governo in Siria della loro controparte nei negoziati, nonostante il regime negli ultimi mesi abbia fatto segnare e continui a far segnare sensibili progressi sul campo ai danni invece di un’opposizione impopolare e allo sbando o, comunque, dominata da gruppi jihadisti violenti.
L’amministrazione Obama, da parte sua, aveva anch’essa escluso da subito per bocca del segretario di Stato, John Kerry, qualsiasi ruolo per Assad nella nuova Siria, mentre proprio durante il primo round di discussioni Washington aveva provocatoriamente deciso la ripresa degli aiuti destinati ai “ribelli” dopo lo stop sul finire dello scorso anno a causa del prevalere delle formazioni estremiste.
Parallelamente alla motivazione “umanitaria”, gli USA e gli altri governi occidentali sono poi tornati ad utilizzare la carta delle armi chimiche, con la quale la scorsa estate si era sfiorata una nuova aggressione militare in Medio Oriente.Dopo l’accordo mediato dalla Russia, Damasco aveva accettato di inviare all’estero e distruggere tutto il proprio arsenale in un periodo di tempo molto ristretto. Inizialmente, al regime di Assad era stata riconosciuta la propria totale collaborazione con l’agenzia deputata allo smantellamento delle armi chimiche - Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) - ma due scadenze non rispettate nelle scorse settimane hanno immediatamente scatenato una valanga di accuse.
Il governo siriano, il quale si è liberato di un terzo del proprio arsenale nella giornata di lunedì, ha comprensibilmente attribuito i ritardi alla situazione nel paese e al fatto che i convogli diretti verso la città portuale di Latakia devono attraversare aree controllate dai vari gruppi “ribelli” armati.
Dall’OPAC e dai governi occidentali, tuttavia, sono giunti solo avvertimenti a rispettare le scadenze, a conferma che la questione pressoché interamente fabbricata ad arte delle armi chimiche, assieme a quella “umanitaria”, continuerà a rappresentare il pretesto per un maggiore coinvolgimento nel conflitto a favore dell’opposizione se il regime non si piegherà in fretta alle richieste degli Stati Uniti e dei loro alleati.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Una sospetta esclusiva pubblicata questa settimana dalla Associated Press ha rivelato come l’amministrazione Obama starebbe valutando l’opportunità di assassinare extra-giudiziariamente un altro cittadino con passaporto americano sospettato di terrorismo e di stanza in un paese straniero. I presunti scrupoli della Casa Bianca, riportati dall’agenzia di stampa d’oltreoceano circa il ricorso ai droni per portare a termine l’operazione, sarebbero da collegare alle nuove linee guida relative all’impiego dei velivoli senza pilota, fissate dal presidente stesso lo scorso anno per legittimare una pratica indiscutibilmente illegale e incostituzionale.
L’individuo in questione sarebbe un membro di al-Qaeda direttamente responsabile di attentati letali contro cittadini americani all’estero e che starebbe ancora pianificando attacchi di questo genere. Sul sospetto starebbe lavorando da tempo la CIA che però, pur operando un proprio programma con i droni, non sarebbe più autorizzata ad agire in casi simili dopo le modifiche decise da Obama al programma di assassini mirati.
A condurre l’operazione dovrebbe essere invece il Dipartimento della Difesa, tramite il comando delle Operazioni Speciali (JSOC). Il Pentagono, secondo la Associated Press, starebbe così valutando se considerare l’individuo pericoloso al punto tale che valga la pena affrontare le conseguenze di un assassinio di stato ai danni di un cittadino americano senza processo né accuse formali, nonché le reazioni di un paese straniero che non accetta che gli Stati Uniti operino in flagrante violazione della propria sovranità. Nonostante i dubbi, il Pentagono avrebbe già espresso parere positivo all’assassinio.
Inoltre, a complicare la situazione ci sarebbero altre condizioni che non sembrano essere soddisfatte affinché venga dato il via libera all’operazione secondo le nuove linee guida di Obama, a cominciare proprio dal rifiuto del paese in cui si trova il sospettato a consentire un’incursione militare americana. Il Dipartimento di Giustizia, poi, non avrebbe ancora messo assieme un vero e proprio caso per dichiarare l’assassinio “legale e costituzionale”, come richiesto dalla legislazione statunitense relativa ai cosiddetti “nemici in armi” (Autorizzazione all’Uso della Forza Militare), approvata all’indomani dell’11 settembre 2001.
Questa misura richiesta al Dipartimento di Giustizia, è bene ricordare, non è però altro che un espediente per giustificare un assassinio deliberato senza nessun procedimento legale garantito dalla Costituzione, dal momento che si risolve in un semplice parere legale di un organo del potere esecutivo con il quale il nome di un sospettato viene messo su una lista nera in attesa di un ordine di assassinio emesso direttamente dal presidente.
Così come viene fatto con le più basilari regole democratiche, anche la disposizione che debba essere il Pentagono ad occuparsi di assassini simili potrebbe comunque essere aggirata senza troppe difficoltà. Come ha scritto il New York Times, infatti, esponenti del governo e del Congresso ritengono che questa norma preveda eccezioni e consenta alla Casa Bianca di incaricare la CIA dell’operazione letale con i droni.
Le anonime fonti della rivelazione della Associated Press hanno poi elencato altri requisiti che l’operazione in fase di discussione presenterebbe e che rientrano invece perfettamente - e, forse, tutt’altro casualmente - nelle nuove disposizioni sull’uso dei droni, vale a dire la necessità di “impedire o fermare attacchi contro cittadini americani” e l’impossibilità o l’indisponibilità ad agire da parte del governo del paese in cui il sospettato starebbe operando.L’obiettivo dell’incursione con i droni, secondo quanto stabilito da Obama lo scorso anno, dovrebbe infine anche rappresentare “una minaccia continua e imminente” nei confronti degli Stati Uniti, cioè la sua cattura o uccisione sarebbe giustificata solo se esso stesse pianificando un attacco terroristico. Quest’ultima condizione appare però estremamente vaga e, oltretutto, impossibile da verificare vista la segretezza con cui opera l’anti-terrorismo americano.
L’intera procedura pseudo-legale sugli assassini extra-giudiziari messa in piedi dall’amministrazione Obama, così come da quella repubblicana guidata da George W. Bush, serve in definitiva solo a dare una parvenza di legalità ad una colossale violazione della costituzione americana in nome della “guerra al terrore”, specificatamente del Quinto Emendamento, il quale afferma come “nessuno debba essere… privato della vita, della libertà o delle proprietà senza un giusto processo di legge”.
Ugualmente allo scopo di pubblicizzare la presenza di un dibattito “trasparente” e di un processo “legale” relativamente ad assassini condotti dal governo, la stessa rivelazione della Associated Press di lunedì sembra essere stata promossa proprio dall’amministrazione Obama, da tempo impegnata a cercare di favorirne la normalizzazione e di neutralizzare le prevedibili critiche o condanne che essi suscitano.
In maniera se possibile ancora più inquietante, poi, anche se la discussione riguarda per il momento cittadini americani che si trovano all’estero, la definitiva istituzionalizzazione di questi assassini extra-legali potrebbe in un futuro forse non troppo lontano essere allargata fino a comprendere eventuali “minacce terroristiche” sul suolo domestico.
In ogni caso, se il presidente Obama dovesse alla fine accogliere le raccomandazioni del Pentagono si renderebbe responsabile del quinto assassinio di un cittadino americano con queste modalità, quanto meno in base al conteggio effettuato grazie alle informazioni di pubblico dominio
In precedenza, a finire sotto il fuoco dei droni erano stati nel settembre 2011 in Yemen il predicatore nato nel Nuovo Messico, Anwar al-Awlaki, e Samir Khan, presunto responsabile di una pubblicazione on-line in lingua inglese dell’organizzazione al-Qaeda nella Penisola Arabica. Pochi giorni più tardi, sempre in Yemen, sarebbe stato invece fatto a pezzi da un missile lanciato da un velivolo senza pilota il figlio 16enne di Awlaki, Abdulrahman, anch’egli con passaporto americano. Nel novembre del 2011, infine, fu la volta del 20enne Jude Kenan Mohammad, questa volta giustiziato in Pakistan.Secondo il governo americano, dei quattro assassini solo quello di Anwar al-Awlaki sarebbe stato ordinato esplicitamente, mentre gli altri tre sono stati “danni collaterali” di un programma che in oltre un decennio ha fatto centinaia o migliaia di vittime civili innocenti tra il Pakistan, l’Afghanistan, lo Yemen e la Somalia.
Del più recente sospettato, dietro richiesta dell’amministrazione Obama, la Associated Press non ha pubblicato il nome né il paese in cui egli si troverebbe. Il Washington Post ha però ipotizzato che il cittadino americano in questione potrebbe essere Adam Gadahn, nativo dell’Oregon e membro di al-Qaeda in Pakistan, da dove negli ultimi anni è apparso in svariati filmati di propaganda circolati in rete. Gadahn, tuttavia, secondo gli analisti non sembra avere incarichi operativi tali da renderlo una minaccia terroristica immediata per gli Stati Uniti.
In concomitanza con le rivelazioni della Associated Press, sempre questa settimana la nuova testata on-line The Intercept diretta dal giornalista americano Glenn Greenwald, autore per il britannico Guardian degli articoli basati sulle rivelazioni dell’ex contractor dell’NSA, Edward Snowden, ha mostrato il ruolo decisivo giocato dalla stessa Agenzia per la Sicurezza Nazionale USA nel programma di omicidi mirati operato con i droni.
Basandosi sulle testimonianze di ex agenti operativi dell’NSA e di ex membri dell’aeronautica militare americana, Greenwald ha rivelato come quest’ultima agenzia individui i sospettati di terrorismo da eliminare localizzando le SIM card dei loro telefoni cellulari.
Gli obiettivi vengono però spesso seguiti e selezionati senza verificare se i telefoni intercettati siano effettivamente utilizzati, nel momento dei bombardamenti, dai sospettati sulla lista nera della Casa Bianca. Questo modo di operare - ben lontano dalle rassicurazioni del governo USA circa la massima precisione impiegata prima di procedere con un assassinio mirato attraverso i droni - si risolve frequentemente e inevitabilmente nell’uccisione delle “persone sbagliate”, cioè di civili innocenti.