di Fabrizio Casari

La notizia delle intercettazioni da parte della NSA statunitense verso i paesi alleati fa il giro del mondo. Dal Messico alla Francia, dalla Germania all’Italia, non c’è praticamente nessun governo che possa dire di essere stato escluso dalla colossale opera di spionaggio statunitense. Trentacinque leader politici e militari europei hanno subìto le intercettazioni di Washington.

Puntuali, proprio perché inevitabili per non perdere la faccia, le reazioni: Francia e Germania convocano i rispettivi ambasciatori Usa, annunciano iniziative in sede nazionale ed europea a tutela dell’impenetrabilità dei loro dati.

In particolare, propongono la messa all’ordine del giorno di risoluzioni europee al riguardo e avvertono come il comportamento statunitense non potrà continuare, pena una severa incrinatura nelle relazioni bilaterali. Anche l’Italia, addirittura, annuncia proteste. Washington non si scusa, figuriamoci, annuncia solo una revisione del sistema. Legittimo pensare che si rileverà inevitabile, ma solo per aggirare le contromisure che gli europei prenderanno.

E se il Commissario europeo alla Giustizia, Vivian Reding, sostiene che “sul caso Datagate è arrivato il momento di dare una risposta forte e univoca dell'Europa agli americani", addirittura Martin Shultz, Presidente del Parlamento Europeo, propone di bloccare ogni trattato di collaborazione economica e commerciale con gli USA. Auspicabile, ma non avrà seguito: si deve infatti considerare che molti leader europei sono al loro posto anche per la fedeltà agli USA e che Londra, che è il bassotto di Washington, non esiterebbe a bloccare ogni risoluzione europea nel senso indicato dal dirigente socialdemocratico tedesco.

D’altra parte gli inglesi sono stati parte integrante del sistema di spionaggio statunitense; proprio agli spioni del MI5 è stato affidata una parte consistente dell’operazione spionistica su scala globale e sempre loro si sono occupati direttamente di spiare l’Italia, i suoi uomini politici e i suoi imprenditori.

Eppure quanto proposto da Shultz sarebbe una risposta dovuta, dal momento che il motivo per il quale l’Europa è spiata dagli USA non ha niente a che vedere con la lotta al terrorismo. E’ invece parte integrante del controllo statunitense sui paesi terzi, che oltre a individuare complicità ed ostilità nei diversi governi e apparati statali, è principalmente destinato ad accumulare un preziosissimo vantaggio nelle trattative commerciali bilaterali tra USA ed ogni altro paese con cui ntavolano negoziati.

Lo spionaggio di massa serve soprattutto a questo: sapere in anticipo strategie e tattiche, contenuti delle proposte, linee generali di accordi possibili e linee di demarcazioni oltre le quali ci sarebbero rotture, per presentarsi con le carte coperte su un tavolo dove gli interlocutori hanno invece le carte completamente scoperte.

Altro che compatibilità tra privacy e sicurezza, il claim preferito dal mainstream in ginocchio. E’ un sunto di pirateria e di truffa ai danni dei propri interlocutori, quint’essenza del modo con il quale Washington gestisce il rapporto con i suoi partner politici e commerciali.

C’è da aggiungere poi che la conoscenza delle conversazioni private dei politici e dei militari permette di conoscerne gli aspetti più riservati di costoro, decisivi nel caso i soggetti fossero non allineati ai desiderata statunitensi. Conoscerne i dettagli più intimi o i segreti serve, all’occorrenza, ad avviare operazioni di ricatti o corruzione al fine di ottenere cooptazioni forzate, ove utili al raggiungimento di accordi graditi.

C’è poi una parte dello scandalo del Datagate che ci riguarda direttamente. Come già in qualche modo riferito - sia pure in contesti diversi e per ambiti diversi - da Assange e da Snowden, il settimanale L’Espresso, in un’inchiesta sul numero oggi in edicola, sostiene che l'Italia non è stata soltanto nel mirino del sistema Prism creato dagli 007 statunitensi. Con un programma parallelo e convergente denominato Tempora, l'intelligence britannica ha spiato i cavi di fibre ottiche che veicolano telefonate, mail e traffico internet del nostro paese.

Le informazioni rilevanti raccolte dal Gchq, il Government communications head quarter, venivano poi scambiate con l'Nsa americana. L'attività di spionaggio globale viene svolta attraverso l'intercettazione di tutti i dati trasferiti da tre cavi in fibre ottiche sottomarini che hanno terminali in Italia. Il primo è il SeaMeWe3, con "terminale" a Mazara del Vallo. Il secondo è il SeaMeWe4, con uno snodo a Palermo, città da cui transita anche il flusso di dati del Fea (Flag Europe Asia).

Sarebbero riusciti ad operare senza la collabrazione della nostra intelligence civile e militare? Secondo L’Espresso, i servizi segreti italiani erano perfettamente a conoscenza della perforazione continuata della segretezza delle conversazioni dell’intero governo italiano.

I servizi segreti italiani, stando al settimanale, avrebbero avuto un ruolo nella raccolta di metadati, dal momento che i nostri apparati di sicurezza avevano un "accordo di terzo livello" con l'ente britannico che si occupa di spiare le comunicazioni.

Atteggiamento proattivo o voluta mancata vigilanza sono le due possibilità allo studio per definire il comportamento delle nostre “barbe finte”, anche se dal Copasir smentiscono (e ti pareva). Si ripropone, come sempre, il tema della doppia obbedienza di strutture e uomini allocati nei posti strategici del nostro paese. Ove fossero però comprovate eventuali attività di sostegno diretto o indiretto da parte dei Servizi Italiani (il che sarebbe coerente con la loro storia) ci si troverebbe di fronte ad un comportamento che avrebbe ignorato e sbeffeggiato la stessa mission che li istituisce e che ne stabilisce ruolo, utilità e funzioni.

C’è poco da girarci intorno: i dirigenti dei Servizi Segreti italiani che avessero eventualmente collaborato allo spionaggio USA e GB a danno dell’Italia andrebbero rimossi, arrestati e processati per alto tradimento. Tranquilli, niente di questo succederà. I tarallucci e il vino sono già sul tavolo. Sotto allo stesso, invece, un paio di cimici.

di Michele Paris

Il rifiuto senza precedenti dell’Arabia Saudita ad occupare il seggio provvisorio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al quale la monarchia del Golfo Persico era stata eletta la scorsa settimana, continua a far interrogare i commentatori di mezzo mondo e ad essere oggetto di intense discussioni negli ambienti diplomatici internazionali. Come è noto, l’ambasciatore saudita presso l’ONU aveva inizialmente salutato con entusiasmo l’ottenimento di un seggio per il quale il suo governo lavorava da mesi.

Successivamente, però, nella giornata di venerdì una dichiarazione ufficiale del Ministero degli Esteri di Riyadh ha annunciato la clamorosa marcia indietro, denunciando le Nazioni Unite per utilizzare “due pesi e due misure” e per “l’incapacità a svolgere le proprie funzioni”, in particolare in relazione al conflitto in Siria.

L’Arabia Saudita ritiene cioè che la paralisi e i disaccordi all’interno del Consiglio di Sicurezza abbiano consentito al regime siriano di continuare ad “uccidere la propria gente” e ad utilizzare armi chimiche “di fronte al mondo intero senza alcun deterrente o punizione”.

Oltre alla falsità delle accuse rivolte contro Damasco circa un impiego di armi chimiche probabilmente attribuibile ai “ribelli” anti-Assad, che operano proprio grazie all’assistenza saudita, la dura presa di posizione di Riyadh è giunta oltretutto dopo che per la prima volta in oltre due anni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha trovato l’unanimità sulla Siria approvando la risoluzione 2118 per lo smantellamento dell’arsenale chimico del regime alauita.

In realtà, dunque, il rifiuto del seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza da parte dell’Arabia Saudita è dovuto se mai alla frustrazione diretta verso questo organismo per non essere stato in grado di autorizzare un intervento armato contro la Siria, come auspicato da Riyadh per rimuovere con la forza Bashar al-Assad.

Soprattutto, però, l’insolito gesto dei vertici sauditi, come avrebbe detto ad alcuni diplomatici occidentali lo stesso principe Bandar Bin Sultan, potente capo dell’intelligence di Riyadh e già ambasciatore a Washington per oltre due decenni, appare come “un messaggio diretto agli Stati Uniti”.

L’isteria saudita ha infatti raggiunto livelli inediti in seguito alle recenti iniziative dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, principalmente riguardo la Siria e l’Iran. L’abbandono almeno temporaneo dei piani di guerra contro Damasco e l’apertura di un confronto diretto con Teheran sul nucleare hanno suscitato le ire della casa regnante a Riyadh che ha visto seriamente minacciati i propri interessi e progetti egemonici nella regione dal comportamento del suo stesso alleato principale.

L’Arabia Saudita, d’altra parte, è uno dei paesi che ha investito maggiormente nel finanziamento e nella fornitura di armi alle milizie integraliste che si battono contro il regime di Assad in Siria. Questo sforzo rientra in una strategia più ampia volta a spezzare l’asse della resistenza sciita anti-americana e anti-saudita in Medio Oriente, al cui centro c’è precisamente la Repubblica Islamica, il cui eventuale riconoscimento come legittima potenza regionale da parte degli USA e dell’Occidente in generale rappresenta un vero e proprio incubo per Riyadh.

L’allarme suonato tra i vertici di uno dei regimi più retrogradi e anti-democratici del pianeta è apparso in tutta la sua evidenza in un dettagliato articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal, nel quale viene descritto come il principe Bandar Bin Sultan starebbe pianificando un certo ridimensionamento della collaborazione con gli Stati Uniti per addestrare e sostenere finanziariamente le formazioni “ribelli” in Siria.

Secondo il quotidiano newyorchese, l’aggravamento delle tensioni tra i due alleati era iniziato alcuni mesi fa e due episodi in particolare nelle ultime settimane hanno ulteriormente allarmato i sauditi. Nel primo caso, dopo che Riyadh aveva chiesto a Washington i piani dettagliati relativi alle navi da guerra USA da posizionare a difesa dei centri petroliferi sauditi in vista dell’aggressione contro la Siria, l’amministrazione Obama ha risposto che le proprie forze navali non sarebbero state in grado di difendere pienamente queste strutture situate nella provincia orientale del paese alleato.

Nel secondo caso, descritto da un anonimo diplomatico occidentale, l’Arabia Saudita avrebbe richiesto invece agli americani la lista degli obiettivi da colpire in Siria nel tentativo di avanzare la partnership militare con Washington, ma senza ottenere risposta.

In conseguenza di questi due incidenti diplomatici, i sauditi avrebbero così comunicato agli americani l’intenzione di valutare possibili alternative alla tradizionale collaborazione in materia di difesa, sottolineando il proposito di “cercare buoni armamenti a prezzi convenienti” da qualsiasi fornitore.

Lo stesso pezzo del Wall Street Journal è pervaso poi da commenti di svariati diplomatici europei e americani che, a conferma delle preoccupazioni ugualmente diffuse a Washington e a Bruxelles per le tensioni tra i due alleati, descrivono ad esempio i sauditi come “adirati” o “molto preoccupati per il fatto di non sapere dove vogliano andare gli Stati Uniti”.

Il deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita, in ogni caso, è un’altra delle conseguenze dell’interventismo di Washington in Medio Oriente per promuovere i propri interessi strategici e che, puntualmente, contribuisce ad alimentare le rivalità regionali. Il relativo raffreddamento dei rapporti tra i due alleati potrebbe così aggravare ulteriormente l’instabilità di tutta l’area, dal momento che Riyadh controlla e utilizza secondo le proprie necessità non solo l’arma del petrolio ma anche formazioni fondamentaliste violente, come sta accadendo in Siria.

Più in generale, come ha fatto notare una recente analisi del quotidiano libanese Al Akhbar, la crisi che deve fronteggiare l’Arabia Saudita dipende anche dalla diminuita dipendenza americana dal petrolio di questo paese rispetto a qualche anno fa, soprattutto dopo la scoperta e lo sfruttamento di giacimenti in territorio americano che stanno trasformando gli USA in un esportatore netto di greggio e gas naturale.

Il rapporto con l’Arabia, comunque, rimane per il momento di primaria importanza per gli Stati Uniti, come conferma il tentativo fatto dal Segretario di Stato americano, John Kerry, nella giornata di lunedì, quando ha incontrato a Parigi la sua controparte saudita, principe Saud al-Faisal, per confortare il regime e convincerlo ad accettare il seggio al Consiglio di Sicurezza.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha infine fatto sapere di non avere ancora ricevuto alcuna comunicazione formale da parte di Riyadh circa la rinuncia annunciata settimana scorsa, lasciando aperto uno spiraglio per un ripensamento. Uno scenario, quest’ultimo, tutt’altro che da escludere, soprattutto se la monarchia assoluta saudita dovesse essere sufficientemente rassicurata sulle intenzioni ultime degli Stati Uniti di mantenere alta la pressione sia su Damasco che su Teheran al di là dei modesti passi avanti sul fronte diplomatico compiuti nelle ultime settimane.

di Michele Paris

Mentre la diplomazia internazionale sta cercando di fissare una data definitiva per l’avvio di improbabili negoziati di pace che dovrebbero gettare le basi per il futuro della Siria, la violenza nel paese mediorientale continua ad essere alimentata da forze integraliste di matrice terroristica scatenate dalle politiche dei governi occidentali e dei loro alleati nel mondo arabo.

L’ennesimo episodio che conferma la vera faccia dell’opposizione più agguerrita nei confronti del regime di Bashar al-Assad, è stato registrato nella giornata di domenica, quando un attacco suicida con un’autobomba ha causato decine di morti, soprattutto civili, a Hama, città sotto il controllo governativo situata nella Siria centrale a poco meno di 200 km a nord di Damasco.

A riferire del sanguinoso attentato è stata non solo l’agenzia di stampa ufficiale, SANA, ma anche l’Osservatorio per il Diritti Umani in Siria, un’organizzazione con sede in Gran Bretagna che appoggia i “ribelli”. Secondo quest’ultimo, i morti causati dall’esplosione sarebbero stati 45, di cui 32 civili, e a condurre l’operazione il Fronte al-Nusra, uno dei gruppi armati affiliati ad Al-Qaeda che opera nel paese spesso a stretto contatto con le milizie “secolari” apertamente appoggiate dall’Occidente.

L’attentato di domenica era stato preceduto sabato da un’altra autobomba, esplosa nei pressi di un check-point delle forze di sicurezza nel quartiere Jaramana della capitale siriana, facendo svariate vittime e feriti.

Simili metodi sono da tempo utilizzati dalle brigate fondamentaliste che trovano molto più del tacito sostegno di paesi alleati dell’Occidente come Turchia o Arabia Saudita, i quali attraverso di esse avanzano i propri interessi strategici in Siria dissimulandoli dietro la retorica umanitaria.

Il prevalere delle formazioni terroriste tra la galassia dei “ribelli” in Siria getta dunque un’ombra sempre più cupa sul tavolo dei negoziati che dovrebbero aprirsi a Ginevra nelle prossime settimane. Infatti, i rappresentanti dell’opposizione promossi dall’Occidente riuniti nella cosiddetta Coalizione Nazionale Siriana che dovrebbero presentarsi nella località svizzera risultano sempre più screditati nel paese mediorientale e rappresentano un numero sempre più ristretto di gruppi armati operanti contro le forze di Assad.

Ciò è apparso ancora una volta evidente nei giorni scorsi, quando alcune milizie attive nel sud della Siria hanno annunciato il proprio sganciamento dalla Coalizione, così come avevano fatto in precedenza altre 13 formazioni armate, tra cui almeno tre considerate tra le meglio attrezzate sotto la diretta autorità del Consiglio Militare Supremo del Libero Esercito della Siria.

In questo nuovo scenario, perciò, se anche un qualche accordo dovesse essere partorito durante il summit battezzato “Ginevra II”, i leader della Coalizione non avrebbero praticamente nessuna autorità per farne rispettare i termini e per far cessare le violenze.

Ciononostante, dopo avere contribuito all’afflusso di decine di migliaia di guerriglieri integralisti in uno dei paesi più secolari del Medio Oriente, gli Stati Uniti e i loro alleati stanno ora cercando di dare una qualche apparenza di legittimità agli esponenti filo-occidentali dell’opposizione, nel tentativo di limitare l’influenza del fondamentalismo sunnita e promuovere una nuova e docile classe dirigente per il dopo Assad.

I colloqui da tenersi a Ginevra continuano però a rimanere in forte dubbio, nonostante nella giornata di domenica il numero uno della Lega Araba, Nabil el-Araby, abbia affermato durante un incontro con i giornalisti al Cairo che la conferenza si aprirà il 23 novembre prossimo.

La stessa data era stata indicata settimana scorsa anche dal vice-primo ministro siriano, Qadri Jamil, nel corso di una visita a Mosca, a conferma della disponibilità del regime di Damasco ad aprire una qualche trattativa da una posizione di forza e con un’opposizione sempre più debole e frammentata.

Sia in quell’occasione che nel fine settimana, tuttavia, l’inviato speciale delle Nazioni Unite e della Lega Araba, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, ha smorzato i relativi entusiasmi, chiarendo che nessuna data certa è stata finora decisa e che i colloqui rimarranno in dubbio fino a che non ci sarà “un’opposizione credibile” disposta a prendervi parte. Lo stesso Brahimi ha in programma questa settimana visite in Turchia e in Qatar, i cui governi sono tra i principali sostenitori dei “ribelli”.

L’apertura di “Ginevra II”, infatti, dipende in gran parte dalla disponibilità dei leader della Coalizione Nazionale Siriana che dovrebbero incontrarsi tra pochi giorni per decidere se partecipare ai colloqui di pace.

I ministri degli Esteri dell’Unione Europea, intanto, si sono riuniti lunedì in Lussemburgo per discutere dei negoziati sulla Siria, mentre martedì sarà la volta degli “Amici della Siria” - o gruppo degli “11 di Londra” - che nella capitale britannica cercheranno di convincere i membri della Coalizione a partecipare alla discussione con i rappresentanti del presidente Assad.

Quest’ultimo, da parte sua, ha da tempo fatto sapere di volere far seguire l’accordo con Russia e Stati Uniti sullo smantellamento del proprio arsenale chimico con la partecipazione a “Ginevra II”. Il fermo rifiuto del presidente a farsi da parte e la più che comprensibile indisponibilità a trattare con i gruppi terroristi continua però a dividere l’opposizione appoggiata dall’Occidente, all’interno della quale in molti avevano posto come condizione imprescindibile proprio le dimissioni di Bashar al-Assad.

di Michele Paris

I problemi legali del colosso bancario americano JPMorgan Chase non sembrano avere fine. Come diretta conseguenza delle modalità con cui opera l’intera industria finananziaria d’oltreoceano, la principale banca d’investimenti degli Stati Uniti ha infatti collezionato l’ennesima indagine aperta dalle autorità federali, con le quali avrebbe però raggiunto un accordo di massima nel fine settimana per pagare ancora una volta una sorta di tassa sulle proprie attività illegali ed evitare in gran parte i guai giudiziari che ne dovrebbero conseguire.

Il Dipartimento di Giustizia aveva in questa occasione messo sotto accusa JPMorgan per la truffa dei titoli legati ai mutui “subprime”, venduti agli investitori senza informarli dei rischi connessi. Come è noto, questo genere di prodotti finanziari ad alto rischio fu al centro della crisi esplosa nell’autunno del 2008. Molti dei titoli in questione erano stati ereditati da altri due istituti bancari - Bear Stearns e Washington Mutual - acquistati da JPMorgan nel 2008 a condizioni estremamente favorevoli.

Il procedimento ai danni di JPMorgan era scaturito, tra l’altro, dalla denuncia presentata dai giganti dei mutui controllati dal governo federale - Fannie Mae e Freddie Mac - e da un’indagine proprio su Bear Stearns del procuratore generale dello Stato di New York, Eric Schneiderman.

Per risolvere la questione che, assieme agli altri guai giudiziari, rappresenta un ostacolo alla conduzione degli affari di JPMorgan, la banca di Wall Street è in trattativa da tempo con le autorità del Dipartimento di Giustizia. Secondo i giornali americani, a sbloccare la situazione sarebbe stata una telefonata avvenuta nella serata di venerdì tra il Ministro della Giustizia, Eric Holder, e il presidente e amministratore delegato di JPMorgan, Jamie Dimon.

L’accordo con il governo dovrebbe così risolversi in una sanzione-record da 13 miliardi di dollari che, pur essendo la cifra più alta mai pagata da un’azienda privata, ammonta solo a poco più della metà dei profitti raccolti da JPMorgan nel solo 2012.

Secondo il New York Times, l’accordo potrebbe ancora saltare completamente e la sua finalizzazione dipende soprattutto da quanto i vertici di JPMorgan saranno disposti ad ammettere circa le proprie responsabilità sulla truffa dei mutui “subprime”. Se dovesse infatti riconoscere il comportamento illegale di dirigenti e dipendenti, la banca potrebbe assistere ad una valanga di cause legali ai propri danni da parte degli investitori truffati.

La questione più problematica sarebbe legata ad un procedimento criminale parallelo aperto dalle autorità federali della California che, secondo i termini dell’accordo, non verrebbe fermato dalla chiusura della causa civile con il pagamento della sanzione.

Lo stesso Dimon avrebbe insistito in prima persona con Holder al fine di far chiudere il caso aperto a Sacramento, ma il ministro di Obama, almeno per il momento, continua a ritenere necessaria una simile azione legale di fronte all’estrema impopolarità di JPMorgan.

Le prime pagine dei giornali americani usciti nella giornata di domenica hanno sottolineato l’eccezionalità della multa, così come la presunta ritrovata fermezza del Dipartimento di Giustizia nel punire gli eccessi di Wall Street. In realtà, tutte le sanzioni pagate finora e quelle a cui dovrà far fronte JPMorgan non hanno alterato significativamente la condotta della banca e, soprattutto, hanno fatto in modo che i suoi massimi dirigenti venissero risparmiati da qualsiasi procedimento penale.

Per stessa ammissione delle autorità di governo, d’altra parte, istituti come JPMorgan sono considerati di fatto al di sopra della legge e l’eventuale processo o arresto dei loro top manager produrrebbe pericolose scosse per l’intero sistema finanziario.

Con la connivenza dello stesso Dipartimento di Giustizia, perciò, JPMorgan e altre grandi compagnie private operanti in svariati settori utilizzano le sanzioni economiche emesse nei loro confronti come un contributo necessario da assolvere per continuare a fare affari spesso al di fuori della legalità.

La sola JPMorgan si è trovata implicata in questi anni in numerose indagini non solo negli Stati Uniti ma anche oltreoceano, come in Gran Bretagna, dove è in corso un’indagine relativa ad una perdita da 6 miliardi di dollari della propria filiale di Londra. Per far fronte a questi fastidi, la banca con sede su Park Avenue, a Manhattan, ha appena stanziato qualcosa come 9,2 miliardi di dollari per coprire le proprie spese legali. Ciò ha determinato il primo trimestre in rosso da quando alla sua guida è stato nominato Jamie Dimon alla fine del 2006.

Dei 13 miliardi di dollari che JPMorgan potrebbe pagare, 9 consisterebbero in sanzioni, mentre 4 andrebbero a risarcire sottoscrittori di mutui in difficoltà. Se confermata, la multa sarebbe di gran lunga la più pesante mai concordata con una singola azienda privata negli Stati Uniti, superando quella da 4,5 miliardi ai danni della compagnia petrolifera BP per il disatro nel Golfo del Messico nell’aprile del 2010.

La condotta di JPMorgan, in ogni caso, è tutt’altro che un’eccezione per Wall Street, anche se le vicende ad essa legate hanno puntualmente maggiore risalto viste le dimesioni e l’influenza dell’istituto. Le autorità federali americane sono infatte impegante in una lunga serie di indagini contro i giganti finanziari responsabili della crisi del 2008 e di molti altri crimini.

Meno di tre mesi fa, ad esempio, l’FBI e la procura federale di Manhattan avevano annunciato l’apertura di un procedimento penale ai danni dell’hedge fund SAC Capital, accusato di avere operato un sistematico schema di “insider-trading” tra il 1999 e il 2010. Anche in questo caso, però, i suoi vertici verrano risparmiati, come conferma la trattativa già in corso con il governo per il pagamento di una sanzione da oltre un miliardo di dollari.

di Michele Paris

L’ennesima crisi andata in scena per oltre due settimane nell’organo legislativo virtualmente più impopolare del pianeta si è conclusa come previsto nella nottata di mercoledì con un voto dell’ultimo minuto per scongiurare il temuto default del governo americano e riaprire gli uffici federali chiusi ormai da 16 giorni. Come raccontano le ricostruzioni ufficiali, il fallimento della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti nell’estrarre concessioni sulla “riforma” sanitaria di Obama in cambio del via libera al bilancio federale per l’anno 2013/2014 e dell’innalzamento del tetto del debito pubblico ha fatto in modo che l’iniziativa passasse nella giornata di mercoledì ai leader del Senato.

Qui, i numeri uno dei democratici, Harry Reid, e dei repubblicani, Mitch McConnell, si sono alla fine accordati su un pacchetto provvisorio che, senza emendamenti significativi relativi ad altri ambiti, sblocca i finanziamenti per le attività di governo fino al 15 gennaio e assegna al Dipartimento del Tesoro la facoltà di aumentare il livello di indebitamento fino al 7 febbraio. In prossimità di queste date, quindi, non è da escludere che gli americani saranno costretti ad assistere ad un nuovo scontro tra i due partiti.

Le misure trasformate in legge poco dopo la mezzanotte di giovedì dalla firma del presidente avrebbero perciò rappresentato una chiara sconfitta politica per l’ala destra repubblicana che, dopo giorni di battaglia, non ha ottenuto nulla se non il precipitare del proprio indice di gradimento tra la popolazione americana.

L’avvicinarsi della scadenza che avrebbe decretato il primo clamoroso default della storia degli Stati Uniti ha alla fine convinto lo speaker della Camera, John Boehner, a fare ciò che si era rifiutato per due settimane, vale a dire portare in aula un provvedimento su bilancio e debito pubblico privo di elementi che ostacolassero l’implementazione della “riforma” sanitaria. Così, nella serata di mercoledì a Washington la Camera ha finito per approvare con una maggioranza di 285 a 144 il provvedimento licenziato poche ore prima dal Senato, dove i favorevoli erano stati 81 e 18 i contrari, tutti repubblicani.

Alla Camera, tuttavia, sono serviti i voti dell’intera delegazione democratica (198) per garantire l’approvazione del bilancio e l’aumento del debito federale, mentre 144 repubblicani su 231 hanno espresso voto contrario.

Nei giorni successivi all’inizio del cosiddetto “shutdown” del governo federale, in ogni caso, i repubblicani al Congresso avevano progressivamente fatto passare in secondo piano le loro richieste relative alla “riforma” sanitaria, sottolineando invece la necessità di tagli drastici alla spesa, in particolare quella che finanzia programmi di assistenza popolari come Medicare, Medicaid e Social Security, ritenuti “insostenibili” nel lungo periodo.

La resistenza della Casa Bianca e dei democratici al Congresso su “Obamacare”, così come l’inevitabile cedimento repubblicano su tale questione, è stata in gran parte determinata dal sostanziale appoggio garantito sia dalle compagnie di assicurazione sanitaria sia dal mondo imprenditoriale americano ad una “riforma” che consentirà ingenti risparmi sulla spesa sanitaria e porterà decine di milioni di nuovi clienti, obbligati per legge a stipulare una polizza privata.

Parallelamente, la fermezza repubblicana ha cominciato a venire meno e la risoluzione della crisi si è iniziata ad intravedere quando l’industria finanziaria americana ha mostrato tutta la propria apprensione per le conseguenze potenzialmente catastrofiche di un possibile default. Nei giorni scorsi, infatti, gli indici di borsa erano crollati significativamente in assenza di un accordo e l’agenzia di rating Fitch aveva minacciato il “downgrade” del debito USA in mancanza di un’azione del Congresso.

Come le precedenti crisi degli ultimi tre anni, anche quest’ultima risoltasi in extremis spianerà ora la strada ad un nuovo drastico ridimensionamento della spesa pubblica negli Stati Uniti, con attacchi senza precedenti che colpiranno ancora una volta le classi più disagiate.

L’accordo negoziato da Reid e McConnell prevede infatti la formazione di un gruppo di lavoro presieduto dalla senatrice democratica Patty Murray e dal deputato repubblicano Paul Ryan -presidenti rispettivamente delle commissioni Bilancio di Senato e Camera - che avrà il compito di trovare un’intesa entro il 15 dicembre per ridurre il deficit federale con severi tagli alla spesa pubblica.

Al centro dei negoziati ci saranno appunto i programmi frutto delle politiche progressiste del New Deal e delle riforme degli anni Sessanta del secolo scorso, considerati fino a poco tempo fa intoccabili per entrambi gli schieramenti politici di Washington. Sotto la scure finiranno inoltre molti altri capitoli di spesa - ad esclusione di quelli relativi all’apparato della sicurezza nazionale - con pesanti tagli, tra gli altri, nel campo dell’edilizia pubblica, dell’assistenza e della sicurezza alimentare, del rispetto delle norme ambientali, dell’educazione e delle infrastrutture.

La disponibilità dei democratici a valutare misure per garantire la “sostenibilità” dei programmi di assistenza pubblici era stata d’altra parte manifestata più volte nelle ultime due settimane anche dallo stesso presidente Obama, il quale aveva chiesto ripetutamente quanto ha alla fine ottenuto mercoledì, cioè l’approvazione incondizionata del bilancio federale e dell’innalzamento del tetto del debito come condizione per aprire un negoziato sui tagli a tutto campo con i repubblicani.

Inoltre, come ha spiegato nell’annunciare l’accordo di mercoledì il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, le misure provvisorie approvate dal Congresso faranno proseguire il cosiddetto “sequester”, ovvero i tagli automatici alla spesa scattati nel mese di marzo e che per il solo anno in corso ammontano a 85 miliardi di dollari.

Il punto di partenza delle trattative che si svolgeranno nelle prossime settimane comprenderà poi con ogni probabilità sia gli ulteriori mille miliardi di dollari di tagli alla spesa previsti dal “sequester” per i prossimi otto anni sia una qualche “riforma” del sistema fiscale degli Stati Uniti che, per stessa ammissione di Obama, vedrà una riduzione delle aliquote sulle grandi aziende che già stanno facendo registrare profitti da record.

In definitiva, l’apparente muro contro muro tra democratici e repubblicani propagandato dai media ufficiali in questi giorni è servito a creare un clima da catastrofe imminente, così da giustificare i nuovi assalti che già si annunciano alla spesa pubblica e su cui entrambi i partiti concordano ampiamente.

Le uniche differenze, in realtà, risultano essere di natura tattica, con il partito Repubblicano apertamente schierato contro lavoratori e classe media, mentre quello Democratico, sebbene ugualmente espressione delle élite economiche e finanziarie d’oltreoceano, costretto a cercare di presentarsi come difensore dei programmi pubblici di assistenza per salvaguardare ciò che resta della propria tradizionale base elettorale.


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