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di Mario Lombardo
Con la seconda migliore prestazione fatta segnare dal suo partito dal 1990, la cancelliera Angela Merkel si è garantita domenica un terzo mandato alla guida della Germania. I risultati non ancora ufficiali lasciano però in dubbio la composizione del prossimo governo che sarà determinata dal numero definitivo dei seggi conquistati dai Cristiano Democratici (CDU) e dall’Unione Cristiano Sociale (CSU), nonché dall’eventuale ingresso nel “Bundestag” del partito anti-europeista AfD (Alternative für Deutschland).
La CDU della Merkel e la CSU avrebbero dunque ottenuto circa il 42% dei consensi, con un guadagno superiore all’8% rispetto alle elezioni del 2008. Nonostante il modesto miglioramento dei Social Democratici (SPD), il principale partito di opposizione ha invece chiuso con un bilancio fallimentare, riuscendo a conquistare poco meno del 26% dei voti espressi.
In netto calo sono risultati anche i Verdi e Die Linke, incapaci di proporsi come alternativa convincente ai due principali partiti del panorama politico tedesco e fermatisi rispettivamente all’8,1% e all’8,5%.
Le uniche cattive notizie per la Merkel sono state rappresentate dal tracollo del proprio partner di governo, il partito Liberale Democratico (FDP) pro-business, fermatosi al 4,7%. Come previsto e già anticipato dai risultati delle recenti elezioni locali in Baviera, quest’ultimo partito per la prima volta dal dopoguerra non è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5% prevista per l’ingresso nella camera bassa del Parlamento tedesco, perdendo perciò tutti e 93 i seggi attualmente occupati grazie al 14,6% dei voti ottenuti cinque anni fa.
Senza la possibilità di contare sull’FDP e nel caso non riuscissero a garantirsi la maggioranza assoluta, la CDU e la CSU dovranno cercare altrove il sostegno necessario a formare un governo. L’ipotesi più probabile è quella della riproposizione della cosiddetta “Grosse Koalition” con l’SPD dopo quella guidata sempre dalla Merkel tra il 2005 e il 2009. Ugualmente percorribile, anche se meno probabile, potrebbe essere poi un’alleanza inedita della CDU e della CSU con i Verdi.
Il candidato alla cancelleria per l’SPD, Peer Steinbrück, è stato d’altra parte il Ministro delle Finanze nel governo Merkel sorto dopo le elezioni del 2009 e si trova su posizioni per certi versi molto vicine a quelle della leader dei conservatori tedeschi nonostante una campagna elettorale nella quale ha promesso di lavorare alla riduzione delle differenze di reddito e di aumentare il carico fiscale per i tedeschi più ricchi
Alla diffusione dei primi risultati nella serata di domenica, Steinbrück ha in sostanza confermato la disponibilità del suo partito per una Grande Coalizione, affermando che “la palla è ora nel campo della signora Merkel che ha la responsabilità di mettere assieme una maggioranza”.
Questa prospettiva di un nuovo governo CDU-CSU-SPD diventerebbe poi una certezza se gli anti-europeisti di AfD dovessero superare la soglia del 5% e ottenere una rappresentanza nel Bundestag, visto che i seggi da assegnare ai vari partiti dovrebbero essere riconteggiati. Le proiezioni indicano per questo partito, fondato solo lo scorso mese di febbraio, un risultato tra il 4,8 e il 4,9%.
La Grande Coalizione è in ogni caso la soluzione preferita da Bruxelles e dagli ambienti finanziari internazionali, certi che l’ingresso nel governo dei Social Democratici potrebbe garantire la copertura “progressista” necessaria per tenere a freno le tensioni sociali in vista delle misure impopolari che si prospettano anche per la Germania.
Infatti, al di là dei consueti resoconti giornalistici che esaltano le prestazioni economiche della Germania e il basso livello di disoccupazione, la crescita che questo paese è riuscito a mantenere durante questi anni di crisi ha prodotto risultati contraddittori.
Gli ultimi due decenni hanno cioè registrato anche qui un nettissimo aumento delle disuguaglianze sociali e dei livelli di povertà, dovuti in gran parte alle misure che, secondo la versione ufficiale, hanno garantito la crescita economica tedesca.
A tutt’oggi, infatti, quasi un quarto di tutti i lavoratori dipendenti in Germania ha un impiego sottopagato, una percentuale in Europa inferiore soltanto alla Lituania. Dei risultati della “locomotiva” tedesca, perciò, hanno beneficiato quasi esclusivamente i redditi più alti, grazie soprattutto alle “riforme” dello stato sociale e del mercato del lavoro implementate proprio dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder tra il 1998 e il 2005. Difficile che la musica cambi.
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di Mario Lombardo
L’assassinio premeditato avvenuto mercoledì ad Atene del rapper e attivista anti-fascista Pavlos Fyssas ad opera di un membro del partito di estrema destra Alba Dorata (Chrysi Avgi) ha messo in luce in maniera drammatica la crescente audacia di un movimento a lungo ai margini della società greca e oggi sempre più influente grazie a legami con organi dello stato e alla devastazione sociale del paese voluta dagli ambienti finanziari internazionali e dai loro rappresentanti di Bruxelles.
Il 34enne artista hip-hop, noto anche con il nome di Killah P, è stato accoltellato al petto mentre si trovava con un gruppo di amici nel quartiere popolare Keratsini poco dopo essere stato fermato all’uscita di un caffè da una trentina di affiliati ad Alba Dorata.
Secondo alcuni testimoni, dei poliziotti in motocicletta avrebbero assistito all’omicidio, intervenendo però solo dopo che Fyssas è stato colpito e alcuni dei suoi assalitori fuggiti. Questo resoconto dei fatti confermerebbe i rapporti molto stretti e ampiamente documentati tra il partito neo-fascista e le forze di polizia, le quali continuano a garantire una sorta di protezione ai suoi membri frequentemente impegnati in azioni violente. Come aveva rivelato un’indagine seguita alle ultime elezioni greche, oltre la metà degli agenti di polizia del paese ha votato a favore di Alba Dorata.
Gli imbarazzanti legami con Alba Dorata hanno anche probabilmente spinto la polizia a cercare di nascondere l’appartenenza a questo partito del presunto assassino di Fyssas. Alcuni media greci avevano infatti citato esponenti della polizia che sostenevano come l’accusato fosse soltanto un “simpatizzante” di Alba Dorata, anche se il 45enne già finito agli arresti avrebbe ammesso di far parte del movimento e di avere ordinato alla moglie di fare sparire la sua tessera del partito.
La notizia della morte di Fyssas ha scatenato una serie di proteste nelle principali città della Grecia, dove i manifestanti hanno cercato di raggiungere le sedi del partito Alba Dorata prima di essere fermati dalle forze di sicurezza.
I vertici del movimento neo-fascita hanno invece respinto ogni responsabilità, accusando coloro che puntano il dito contro il partito di volere “sfruttare un tragico evento per scopi politici, così da conquistare voti e dividere la società greca”.
Le principali forze politiche del paese, da parte loro, hanno rilasciato dure dichiarazioni di condanna nei confronti di Alba Dorata, mentre il ministro per l’Ordine Pubblico, Nikos Dendias, ha cancellato un viaggio all’estero per sottoporre al governo la proposta di una legge di emergenza che metterebbe fuori legge il partito entrato in Parlamento per la prima volta dopo le elezioni dello scorso mese di giugno.
Nella giornata di giovedì ha parlato pubblicamente anche il primo ministro conservatore, Antonis Samaras, il quale ha affermato che il suo governo “non permetterà agli eredi del nazismo di destabilizzare la Grecia”.
Con una buona dose di ipocrisia per un capo di governo che ha presieduto alla devastazione sociale del proprio paese imponendo misure semi-dittatoriali, il premier ha poi assicurato che “la democrazia è molto più forte di quanto credano i suoi nemici”.
Ancora più grottesca è stata la presa di posizione dell’Unione Europea, con il Consiglio d’Europa che, ad esempio, ha espresso la propria preoccupazione per l’avanzata dell’estremismo in Grecia e nel resto dell’Europa.
L’atmosfera sociale esplosiva in cui versa la Grecia, nella quale l’estrema destra ha trovato terreno fertile per proporsi come una delle principali forze politiche del paese, è infatti la diretta conseguenza delle misure anti-sociali prescritte ad Atene.
Di fronte alla rabbia popolare esplosa per l’assassinio di Fyssas, in ogni caso, la polizia si è vista costretta a prendere provvedimenti. Alcuni uffici di Alba Dorata in varie località del paese sono stati così perquisiti, mentre giovedì il quotidiano Ekathimerini ha riportato l’arresto di un ex autista e guardia del corpo del leader del partito, Nikos Michaloliakos, il quale deteneva svariate armi nella propria abitazione di Atene.
Al di là delle dichiarazioni di questi giorni, qualsiasi misura dovesse essere adottata dal governo contro Alba Dorata, per quato auspicabile, servirebbe in primo luogo ad occultare le responsabilità dei principali partiti greci nella sua ascesa e, oltretutto, l’implementazione di un eventuale bando ai danni del partito di estrema destra sarebbe tutt’altro che garantita visto che spetterebbe ad una polizia che ha finora in buona parte appoggiato e, di fatto, protetto i suoi membri.
È inoltre tutt’altro che da escludere anche la possibilità che l’establishment politico di Atene possa usare nel prossimo futuro l’annunciata legge di emergenza per colpire movimenti e partiti di “estrema sinistra”, considerati come minacce alla stabilità dello stato in un frangente storico caratterizzato da crescenti tensioni sociali.
L’assassinio di Fyssas ha comunque rappresentato uno shock per la Grecia nonostante la risaputa aggressività e il ricorso alla violenza dei membri di Alba Dorata. Questo partito - che detiene attualmente 18 seggi in Parlamento - aveva finora preso di mira sia retoricamente che fisicamente soprattutto gli immigrati che vivono sul territorio greco, così che l’assassinio politico di mercoledì nella capitale è apparso come un preoccupante cambio di passo della strategia neo-fascista.
Oltre ad avere avuto la possibilità di proporsi come unica forza alternativa al servilismo mostrato dai principali partiti greci nei confronti delle istituzioni europee e delle grandi banche, l’avanzata negli ultimi anni di Alba Dorata - come ad esempio del Fronte Nazionale in Francia - è stata favorita anche dall’appello alle forze più retrograde e reazionarie della società greca da parte degli stessi leader politici impegnati nell’applicare rovinose e impopolari misure di austerity.
La promozione del razzismo e della xenofobia ha infatti trovato ampio spazio nel vocabolario politico degli ultimi governi di Atene, intenzionati come nel resto d’Europa a sfruttare questi sentimenti per distogliere l’attenzione della popolazione dalle politiche di classe ordinate da Bruxelles e per cercare di neutralizzare sul nascere qualsiasi reale opposizione organizzata nel paese.
In questo clima, l’intolleranza e l’estremismo fascista di Alba Dorata hanno perciò raccolto consensi tra una parte degli elettori più disorientanti, consentendo al partito di trovare spazio all’interno del panorama politico con conseguenze drammatiche come quelle a cui tutta la Grecia ha assistito nella giornata di mercoledì in seguito al brutale assassinio di Pavlos Fyssas nelle strade di Atene.
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di Michele Paris
La disputa attorno alle elezioni generali in Cambogia del 28 luglio scorso continua a pesare sulle sorti del paese del sud-est asiatico anche dopo i colloqui dei giorni scorsi tra il primo ministro, Hun Sen, e il leader dell’opposizione, Sam Rainsy. Pur avendo fatto segnare una netta flessione, il partito al potere - Partito Popolare Cambogiano (CPP) - è riuscito a conservare la maggioranza in Parlamento, ma le accuse di brogli e irregolarità hanno dato vita a manifestazioni di protesta e richieste di riforma in un paese ancora fermamente situato nell’orbita di Pechino ma sempre più esposto agli approcci degli Stati Uniti nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica pianificata dall’amministrazione Obama in funzione anti-cinese.
I dati ufficiali resi noti solo l’8 settembre scorso dalla Commissione Elettorale Nazionale hanno sostanzialmente confermato quelli provvisori diffusi nel mese di agosto. Il CPP ha cioè conquistato 68 dei 123 seggi dell’Assemblea Nazionale cambogiana, mentre il Partito della Salvezza Nazionale (CNRP) dell’ex ministro delle Finanze Rainsy si sarebbe fermato a 55.
Quest’ultimo e i suoi sostenitori avevano subito contestato i risultati, affermando che le urne, se le operazioni di voto fossero state regolari, avrebbero dovuto premiare il CNRP con almeno 63 seggi, sufficienti a conquistare la maggioranza assoluta e a rimuovere dal potere il CPP - o il suo predecessore, il Partito Rivoluzionario del Popolo Kampucheano - per la prima volta dalla fine del regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi.
I ricorsi presentati da Rainsy, tuttavia, sono stati respinti sia dalla Commissione Elettorale che dalla Corte Costituzionale, due organi peraltro composti da fedelissimi del premier. Irregolarità nelle operazioni di voto sono state in realtà riscontrate ma non tali da giustificare l’annullamento del voto o da confermare i risultati proposti dall’opposizione.
Le proteste di piazza scoppiate dopo il voto si sono così intensificate nei giorni scorsi fino a sfociare in scontri violenti tra i manifestanti e la polizia. Nella giornata di domenica, si sono contati cinque feriti e un morto nella capitale, Phnom Penh, mentre le manifestazioni sono proseguite in maniera relativamente pacifica fino a martedì.
Già sabato scorso, tuttavia, Hun Sen e Sam Rainsy erano stati ricevuti dal capo nominale dello stato cambogiano, il re Norodom Sihamoni, il quale aveva invitato i due leader politici a superare i propri disaccordi e i deputati dell’opposizione a lasciar cadere la loro minaccia di boicottare l’inaugurazione dei lavori della nuova Assemblea Nazionale prevista per il 23 settembre prossimo.
Come già anticipato, Hun Sen e Rainsy si sono poi incontrati lunedì e martedì ma senza risultati significativi se non il raggiungimento di un vago accordo per riformare la Commissione Elettorale. Il primo ministro, invece, non ha accolto la richiesta principale dell’opposizione, cioè l’avvio di un’inchiesta indipendente - oppure condotta dalle Nazioni Unite - sulla regolarità delle elezioni di fine luglio.
Presentatosi martedì di fronte a circa 20 mila sostenitori a Phnom Penh, Rainsy ha ammesso che le trattative si sono risolte in un nulla di fatto ma ha minacciato nuove manifestazioni nel caso il Parlamento venisse convocato senza un accordo sulle discusse elezioni. Sempre possibile sarebbe infine anche il boicottaggio dell’Assemblea Nazionale, nonostante i tentativi di sventare questa ipotesi da parte del sovrano.
Se Hun Sen non sembra finora intenzionato a cedere terreno e continua così a dare l’impressione di volere trattare da una posizione di forza, sono in molti a pensare che il premier finirà per fare più di una concessione all’opposizione, soprattutto nel caso le proteste di piazza dovessero riprendere o diffondersi dalla capitale al resto del paese.
Già l’avere accettato di trattare con i leader dell’opposizione rappresenta d’altra parte una sorta di novità per lo stile di governo autoritario dell’ex ufficiale dei Khmer Rossi, fuggito in Vietnam nel 1977 per sottrarsi ad una purga interna al regime e successivamente installato al potere dall’esercito di quest’ultimo paese dopo l’invasione della Cambogia nel 1979 che pose fine alla dittatura di Pol Pot.
Il risultato della quinta elezione multipartitica in Cambogia dal 1993 è stato comunque estremamente negativo per il CPP, il quale ha perso ben 22 seggi rispetto al voto del 2008, vinto a valanga contro un’opposizione frammentata.
Quest’ultima, nella tornata elettorale di luglio ha invece beneficiato della fusione tra il Partito dei Diritti Umani dell’attivista Kem Sokha e del Partito Sam Rainsy, ma soprattutto ha cavalcato sapientemente il malcontento ampiamente diffuso in Cambogia per gli elevati livelli di povertà e disoccupazione, le crescenti disparità sociali, la corruzione endemica e, negli ultimi tempi, le sempre più frequenti concessioni terriere garantite spesso arbitrariamente agli investitori stranieri.
Sam Rainsy, inoltre, ha goduto di una certa popolarità dopo essere stato accolto trionfalmente dai suoi sostenitori quando lo scorso mese di luglio era tornato in patria grazie ad un provvedimento di clemenza del re cambogiano. Questa misura del sovrano aveva messo fine ad un esilio volontario per sfuggire ad una serie di condanne, a detta di Rainsy, politicamente motivate. La grazia nei suoi confronti era stata con ogni probabilità decisa dallo stesso premier Hun Sen il quale, per il timore delle crescente tensioni sociali, aveva acconsentito al suo ritorno nel paese alla vigilia delle elezioni.
Già dirigente di svariati istituti finanziari in Francia prima del suo ritorno in Cambogia nel 1992, Rainsy non ha però potuto candidarsi per le elezioni concluse qualche settimana fa ma ha comunque condotto una breve e aggressiva campagna elettorale, fatta spesso di invettive anti-cinesi e anti-vietnamite.
Se il suo partito ha saputo trovare il gradimento soprattutto di buona parte degli elettori più giovani e sfiduciati, le politiche economiche proposte da Rainsy non si discostano particolarmente da quelle di Hun Sen. Per entrambi, infatti, la Cambogia deve continuare ad attrarre il capitale straniero attraverso la messa a disposizione di manodopera indigena a costi irrisori.
Se, però, Hun Sen e il CPP sono stati finora fedeli alleati della Cina, le inclinazioni di Rainsy e del CNRP risultano essere decisamente filo-occidentali, come dimostrano gli appelli lanciati agli Stati Uniti e all’Europa per sostenere la loro battaglia volta a ribaltare l’esito del voto di luglio.
Gli Stati Uniti, da parte loro, non hanno nascosto negli ultimi anni la volontà di stabilire rapporti cordiali con il governo di Phnom Penh e Washington ha trovato in Hun Sen un interlocutore disponibile a valutare un possibile graduale sganciamento da Pechino, così da bilanciare la propria politica estera tra le prime due economie del pianeta, secondo alcuni sull’esempio del percorso intrapreso dalla ex Birmania (Myanmar).
L’amministrazione Obama, in particolare, nel quadro della nuova strategia asiatica messa in atto per contenere l’espansionismo di Pechino, ha rivolto la propria attenzione anche alla Cambogia, con cui la cooperazione militare era stata avviata già nel 2006. Gli aiuti economici destinati a questo paese sono così aumentati sensibilmente negli ultimi anni, mentre a suggellare la fase ascendente dei rapporti diplomatici bilaterali nel novembre del 2012 Barack Obama è diventato il primo presidente americano in carica a recarsi in visita ufficiale in Cambogia.
Sul fronte delle elezioni, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno per ora mantenuto una posizione cauta, verosimilmente in attesa di verificare gli sviluppi della situazione. La settimana scorsa, ad esempio, una portavoce del Dipartimento di Stato si era limitata a chiedere una “revisione trasparente” delle presunte irregolarità del voto, senza però appoggiare le proteste dell’opposizione.
La circospezione dell’amministrazione Obama non esclude in ogni caso il favore di Washington per un rafforzamento del partito filo-occidentale di Rainsy, anche se il sostanziale silenzio in relazione ai presunti brogli rivela allo stesso tempo una certa soddisfazione per i rapporti stabiliti con l’attuale regime, nonché la fiducia nella possibilità di allentare comunque il legame tra la Cambogia e la Cina in un futuro non troppo lontano.
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di Fabrizio Casari
Le rivelazioni fornite da Edward Snowden circa l’intesa ed estesa attività di spionaggio degli Stati Uniti a danno tanto dei paesi ritenuti “ostili” come di quelli “amici”, ha procurato un deciso smacco diplomatico per Barak Obama, che si è visto rifiutare con nettezza dal Brasile l’unico incontro fino ad ora programmato nell’agenda di Obama entro la fine del 2013. La data fissata era quella del prossimo 23 Ottobre. Era prevista una visita di Stato, cioè il massimo livello che gli Stati Uniti offrono ai loro ospiti stranieri. Ma Dijlma Roussef, energica ed orgogliosa Presidente del Brasile, ha rifiutato l’invito.
Poteva annullare l’incontro attraverso le sole vie diplomatiche e poteva farlo scegliendo una motivazione qualunque e già la cosa in sé avrebbe destato scalpore, non essendo certo una consuetudine quella di rifiutare una visita di Stato a Washington. Ma Dijlma ha invece scelto di rendere pubblico il gran rifiuto, facendolo accompagnare da un comunicato breve ma durissimo nel quale spiega le ragioni del rifiuto all’invito alla Casa Bianca. “Le pratiche illegali delle intercettazioni delle comunicazioni e dati dei cittadini, aziende e membri del governo brasiliano costituiscono un fatto grave, un attentato alla sovranità nazionale e sono incompatibili con la convivenza democratica tra paesi amici”.
Le rivelazioni di Snowden, pubblicate con particolare evidenza dal The Guardian e, successivamente, dal gigante televisivo brasiliano Rede Globo, dimostrano come la NSA si sia dedicata a spiare soprattutto la presidenza e la principale azienda petrolifera pubblica, la Petrobras, e le rivelazioni erano state oggetto di una presa di posizione durissima sia da parte della Presidente Roussef che del suo predecessore Lula Da Silva. Proprio la scorsa settimana, i due avevano sostenuto un incontro ed entrambi avevano convenuto come fossero indispensabili le scuse formali da parte di Obama.
Il Presidente statunitense, però, non ha ritenuto di pronunciarsi nei termini richiesti dal Brasile e si è limitato ad affidare ad una nota diffusa dalla Casa Bianca la sua “comprensione e dispiacere per le preoccupazioni che le rivelazioni di presunte attività di intelligence degli USA generino in Brasile”. Ma rifiutandosi di assumersi le proprie responsabilità e di indicare le misure che dovrebbe prendere al riguardo, si limita ad annunciare che “cercherà di superare questa fonte di tensioni bilaterali per le vie diplomatiche”. Riguardo il cosa fare e quando, il comunicato della Casa Bianca informa che Obama ha chiesto un’ampia revisione delle attività d’intelligence statunitensi, ma che il processo richiede "tempi lunghi”.
Non poteva bastare e non è bastato. Il Brasile non è disponibile a recitare la parte della zolla d’erba nel "giardino di casa" e fa capire come il rifiuto da parte di Dijlma potrebbe essere solo l’inizio di una fase di rivisitazione dei rapporti politici e commerciali con gli Stati Uniti, benché da Washington si sarebbe fatta trapelare la disponibilità statunitense ad appoggiare la candidatura del Brasile ad un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Disponibilità difficile da credere e comunque tutta da verificare.
Brasilia ritiene però che l'eventuale disponibilità USA, ancorchè dubbia, non andrebbe sopravvalutata, giacchè un seggio gli spetterebbe di diritto non solo vista la sua dimensione ed il rilievo internazionale, ma anche perché sarebbe una posizione dalla quale parlerebbe l’intera comunità latinoamericana. Ed é proprio qui, infatti, che risiede la diffidenza di Washington, che vorrebbe utilizzare il Brasile come contraltare parziale alla Cina ma che teme che dare voce e rappresentanza formale in sede Onu alla nuova America Latina possa rappresentare un boomerang per i suoi disegni imperiali. Inoltre, la diplomazia brasiliana ha una storia di grande rilevanza e prestigio e già in diverse occasioni ha rappresentato un ostacolo ai piani di Washington.
L’ultima fu nel 2010, quando insieme alla Turchia il Brasile riuscì a proporre una via d’uscita diplomatica alla tensione crescente tra Occidente e Teheran sul nucleare iraniano. Gli Usa dovettero fare buon viso a cattiva sorte e Lula vide accrescere il suo prestigio internazionale. Ne seguì un significativo incremento del suo scambio commerciale tra Brasile e Iran, cosa certamente poco gradita a Washington.
Ed ora, una delle conseguenze possibili nell’immediato, almeno sul piano della cooperazione commerciale a fini militari, potrebbe essere la sospensione della commessa per i caccia F16 che Brasilia avrebbe dovuto acquistare dagli Stati Uniti. Che senso avrebbe, affermano a Brasilia, fare affari sul terreno strategico con chi ci spia per controllarci e per procurarsi vantaggi illegittimi nelle trattative commerciali?
L’affaire Snowden, così, rallenta inevitabilmente la marcia di riavvicinamento di Washington verso il Cono Sud dell’America Latina. Nel Vertice delle Americhe del 2009, Obama aveva promesso “un nuovo inizio” ai governi latinoamericani, ma non sembra esserci niente di nuovo nelle sue politiche, che anzi uniscono sinistramente identici metodi per “nemici” e “amici”.
Se per i paesi ostili restano in piedi le vecchie fobìe (come il blocco contro Cuba, rinnovato per un altro anno tre giorni orsono in quanto utile per “gli interessi nazionali” ) per quelli che si vorrebbero “amici” si montano nuove intromissioni tramite le agenzie di spionaggio.
Al punto che persino due amici storici come Messico e Colombia hanno preso posizioni durissime circa le prove che hanno dimostrato come i loro rispettivi governi siano stati spiati dalla NSA. Ma se per la Colombia risultano ipocrite le proteste, viste le basi militari e la sovranità politica da tempo consegnate a Washington e per il Messico di Pena Nieto, ultimo dei burattini del circo di Salinas De Gortari, il rischio è quello che la DEA possa decidere di non chiudere tutti e due gli occhi sul matrimonio tra narcos, forze armate e governo, nel caso del Brasile le cose sono decisamente diverse. La dignità e la sovranità del gigante carioca non sembrano acquistabili con una manciata di parole e qualche commessa industriale.
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di Michele Paris
Nella giornata di sabato, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il Segretario di Stato americano, John Kerry, hanno annunciato il raggiungimento di un accordo sullo smantellamento delle armi chimiche in possesso del regime siriano. I progressi diplomatici registrati a Ginevra faranno comunque ben poco per ridurre il livello di violenza nel paese mediorientale e, nel prossimo futuro, potrebbero anzi essere sfruttati dall’amministrazione Obama proprio per giustificare un intervento militare volto a rimuovere il governo di Bashar al-Assad.
Dopo intensi colloqui portati avanti fin da venerdì nella città svizzera, Lavrov e Kerry hanno tenuto una conferenza stampa congiunta per rendere noti i punti principali di un accordo che dovrebbe ora essere seguito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
A favorire un esito per il momento favorevole era stata la rinuncia da parte della delegazione statunitense alla richiesta di includere nel testo della risoluzione l’uso della forza in caso di mancato rispetto da parte della Siria delle condizioni poste per la consegna del proprio arsenale. Vista l’impossibilità di ottenere l’approvazione di Russia e Cina per un’eventuale operazione militare, la risoluzione da presentare all’ONU dovrebbe contenere un riferimento soltanto a possibili sanzioni nei confronti di Damasco.
Secondo quanto affermato da Kerry, la prima ispezione internazionale delle armi chimiche di Assad è prevista per il mese di novembre e l’intero arsenale dovrebbe essere distrutto entro la metà del 2014. Già la prossima settimana, il governo di Damasco dovrà fornire una lista delle proprie armi chimiche, comprese le località in cui esse vengono conservate e i siti di ricerca e produzione. Alle Nazioni Unite, intanto, il segretario generale Ban Ki-moon ha fatto sapere che la Siria ha formalmente aderito alla Convenzione sulle Armi Chimiche ed entrerà a farne parte in maniera definitiva il 14 ottobre.
I dubbi sull’effettiva implementazione dell’accordo di Ginevra alle condizioni decise da Washington e Mosca sono comunque parecchi e legati in primo luogo ai tempi estremamente accelerati che sono stati previsti per un processo che, come risulta chiaro dai precedenti, in condizioni normali dovrebbe durare svariati anni.
Come ha spiegato domenica al New York Times l’esperta di armi chimiche, Amy Smithson, la situazione è “senza precedenti”, visto che si vorrebbe mandare in porto in pochi mesi un procedimento per il quale “servono probabilmente cinque o sei anni”, oltretutto in un paese dove è in corso una sanguinosa guerra civile.
Proprio le difficoltà e gli ostacoli facilmente prevedibili lasciano intravedere la possibilità da parte americana di utilizzare l’accordo sulle armi chimiche di Assad come un nuovo strumento per giungere ad un’aggressione contro la Siria. L’entusiasmo con cui Kerry ha dato l’annuncio dell’intesa nella giornata di sabato e la responsabilità conferita in gran parte alla Russia per la sua implementazione sembrano rispondere perciò ad una strategia ben precisa.
In caso di rallentamento o stallo nello smantellamento dell’arsenale siriano, cioè, gli Stati Uniti potrebbero giustificare la necessità di attaccare il governo di Assad poiché la strada diplomatica sarebbe già stata battuta senza successo nonostante il pieno appoggio dato ad essa dal governo di Washington.
La possibilità dell’uso della forza, d’altra parte, non è svanita nonostante le richieste di Damasco e Mosca di negoziare senza la minaccia di un attacco. Subito dopo le parole di Kerry e Lavrov, infatti, il presidente Obama ha tenuto a precisare che gli USA continueranno a valutare l’ipotesi di agire militarmente in Siria anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Se, infine, l’accordo sulle armi chimiche di Assad dovrebbe servire, secondo alcuni osservatori, a facilitare l’avvio di negoziati di pace attraverso la convocazione di una conferenza a Ginevra più volte rimandata negli ultimi mesi, gli Stati Uniti e i loro alleati non sembrano ancora impegnati seriamente per questo fine.
Ben lontani dal tentare di convincere i “ribelli” a sedersi al tavolo delle trattative con un regime che sta prevalendo dal punto di vista militare, così come dall’interrompere forniture di armi e finanziamenti destinati a formazioni in buona parte affiliate al terrorismo internazionale, i governi che li sostengono hanno lanciato segnali tutt’altro che pacifici in questi giorni.
La scorsa settimana, ad esempio, è stata diffusa la notizia non solo che l’Arabia Saudita avrebbe incrementato il proprio impegno nel sostenere l’opposizione armata, ma che gli stessi Stati Uniti in concomitanza con il faccia a faccia Kerry-Lavrov hanno iniziato a trasferire armi direttamente ai “ribelli” dopo la promessa fatta pubblicamente qualche mese fa dal presidente Obama.
Washington, inoltre, continuerà a subire le pressioni sia dei “ribelli” che di paesi come Turchia o la stessa Arabia Saudita - per non parlare degli ambienti interni che da tempo vogliono una resa dei conti con il regime di Damasco - per decidere di intervenire militarmente in Siria e rimuovere Assad.
I vertici dell’opposizione sostenuta dall’Occidente non hanno infatti atteso a lungo per manifestare la loro contrarietà all’accordo di Ginevra, con i media di tutto il mondo che nel fine settimana hanno ampiamente riportato i malumori del presunto comandante delle forze “ribelli” secolari, generale Salim Idriss.
Gli Stati Uniti, in definitiva, saranno esposti a enormi pressioni nei prossimi mesi per sganciarsi dall’accordo con la Russia e tornare ai preparativi di un’aggressione militare che essi stessi hanno fin dall’inizio auspicato non tanto per punire Assad di un attacco con armi chimiche condotto con ogni probabilità proprio dai “ribelli”, bensì per determinare quel cambio di regime a Damasco che rimane in cima agli obiettivi americani per il Medio Oriente.