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di Mario Lombardo
Con l’inizio della settimana ha preso il via in Thailandia il blocco della capitale, Bangkok, minacciato dall’opposizione anti-governativa che chiede da mesi le dimissioni immediate del primo ministro, Yingluck Shinawatra, per procedere con una serie di “riforme” del sistema politico. Alle prime manifestazioni di protesta nella giornata di lunedì hanno preso parte più di 100 mila manifestanti, mentre il governo e gli altri centri di potere thailandesi stanno cercando di trovare una soluzione alla crisi che eviti lo scivolamento nel caos di un paese sul quale continua a pesare la minaccia di un nuovo colpo di stato militare.
Il primo giorno della paralisi di Bangkok ha così costretto alla chiusura molte scuole, negozi ed uffici pubblici, alcuni dei quali hanno però riaperto già martedì. Svariate arterie stradali della capitale sono state inoltre occupate dalle manifestazioni, così che la metropoli di quasi 8 milioni di abitanti è apparsa insolitamente priva di traffico in alcune aree del centro.
Sempre martedì, poi, i partecipanti alle proteste, coordinate dal cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), hanno marciato verso i palazzi dei ministeri degli Esteri, del Lavoro e del Commercio, occupandoli simbolicamente ed evacuandoli poco dopo. Le proteste sono rimaste per ora pacifiche, anche se maggiori tensioni potrebbero causare nei prossimi giorni gli eventuali blocchi del quartier generale della compagnia Aerothai, che gestisce il traffico aereo nel paese, e della sede della Borsa, come minacciato da un gruppo allineato al PDRC, la Rete degli Studenti e del Popolo per la Riforma della Thailandia.
Per cercare di calmare gli animi, la premier Yingluck ha invece proposto un incontro tra le varie parti per discutere una recente proposta avanzata dalla Commissione Elettorale di rimandare di un mese le elezioni anticipate previste per il 2 febbraio, indette dallo stesso capo del governo dopo lo scioglimento del Parlamento seguito alle dimissioni di massa dei deputati del Partito Democratico di opposizione.
Il portavoce del PDRC, Akanat Promphan, ha però fatto sapere che la sua organizzazione non parteciperà alla riunione, così come in precedenza il leader dei manifestanti, l’ex vice-premier e già deputato del Partito Democratico, Suthep Thaugsuban, aveva assicurato i suoi sostenitori che non ci sarebbe stato alcun negoziato né compromesso con il governo.
Yingluck, perciò, dopo avere ribadito la sua intenzione di rimanere al proprio posto fino alla data del voto, mercoledì dovrebbe limitarsi ad incontrare i membri della Commissione Elettorale. Il vertice si terrà significativamente presso una base dell’aeronautica thailandese, a conferma del ruolo fondamentale delle forze armate. Queste ultime hanno finora ufficialmente appoggiato la soluzione elettorale pur essendo state protagoniste nel 2006 di un golpe che rimosse dalla guida del governo il fratello dell’attuale premier, Thaksin Shinawatra, al culmine di una crisi dai contorni simili a quella odierna.
A dimostrazione dei timori diffusi tra le forze di governo, un portavoce dell’esecutivo qualche giorno fa aveva parlato di un piano segreto dell’opposizione per provocare un colpo di stato militare tramite la messa in scena di un attacco violento contro gli stessi manifestanti. L’unico episodio riconducibile ad una possibile provocazione è stato per ora registrato nella mattinata di lunedì, quando alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi in un locale di fronte alla sede del Partito Democratico a Bangkok.Episodi simili potrebbero ripetersi in concomitanza con l’escalation della crisi e far scattare un qualche intervento dei militari. Tanto più che settimana scorsa il potente comandante delle forze armate, generale Prayuth Chan-ocha, aveva avvertito che l’esercito è pronto a intervenire per “proteggere il paese” nel caso una delle parti “violi la legge e l’altra risponda con la violenza”.
Rappresentando gli interessi dei tradizionali centri di potere thailandesi - di cui le forze armate fanno parte - gli organizzatori delle proteste di questi mesi hanno d’altra parte come obiettivo un colpo di mano dei militari per rimuovere l’attuale governo, quanto meno se non fosse possibile ottenere la loro principale richiesta.
Quest’ultima, come è ormai noto, è la creazione di un “consiglio del popolo” non eletto e formato da personalità legate agli ambienti reali, al potere giudiziario e agli stessi vertici militari, con il compito di implementare una serie di “riforme” che sradichino l’influenza della famiglia Shinawatra dal sistema politico thailandese e rendano impossibili anche future minacce agli equilibri di potere consolidati.
La colpa dell’ex premier in esilio Thaksin agli occhi dell’opposizione è sostanzialmente quella di avere emarginato i tradizionali detentori del potere in Thailandia, utilizzando metodi sempre più autoritari e al limite della legalità per prolungare la permanenza alla guida del paese e favorire i suoi enormi interessi economici.
Nel mettere in atto questo progetto, il clan Shinawatra ha costruito una solida base elettorale soprattutto nelle aree rurali settentrionali, solitamente emarginate dal sistema e che hanno beneficiato di limitate politiche di riforma sociale, come la creazione di un sistema sanitario virtualmente gratuito.
Proprio il timore di una mobilitazione di queste forze e l’esplosione di uno scontro sociale di vaste proporzione sembra essere stato finora il deterrente di una possibile evoluzione della crisi thailandese verso la dittatura militare o l’imposizione di un governo non legittimato dal voto popolare. Lo stesso governo e i gruppi extra-parlamentari vicini alla famiglia Shinawatra, peraltro, stanno cercando di gettare acqua sul fuoco, così da evitare il ripetersi della crisi del 2010, quando a manifestare contro il governo del Partito Democratico imposto dai militari furono i sostenitori di Thaksin e la loro protesta fu repressa nel sangue.
In quell’occasione, come potrebbe accadere a breve, una parte delle centinaia di migliaia di manifestanti appartenenti alle classi più disagiate cominciò ad avanzare richieste di giustizia sociale che andavano ben al di là del programma politico di Thaksin e della sua cerchia. Anche per questa ragione, dunque, i leader delle cosiddette “camicie rosse” continuano ora ad escludere una mobilitazione contro il PDRC, augurandosi che siano le elezioni a riportare la calma nel paese sotto la guida di un nuovo governo dell’attuale premier.Anche nel caso le elezioni anticipate dovessero andare regolarmente in porto, però, il partito di governo - Pheu Thai - sarebbe con ogni probabilità esposto agli attacchi di un’opposizione che ha deciso di boicottare le urne. A causa delle manifestazioni di protesta, infatti, il processo di registrazione delle candidature per il Parlamento è risultato incompleto, visto che ne sono state presentate a sufficienza solo per coprire il 94 per cento dei seggi della Camera bassa. La costituzione thailandese richiede invece che la quota minima sia almeno del 95 per cento.
Con un simile scenario, la pressoché certa vittoria del partito Pheu Thai finirebbe al centro di una contesa legale che potrebbe stravolgere l’esito del voto, portando ad un nuovo colpo di stato giudiziario, come avvenne nel 2008 con la rimozione in un’aula di tribunale del governo guidato dai sostenitori di Thaksin.
I tentativi di percorrere questa strada sono d’altra parte già risultati evidenti qualche giorno fa, quando la Commissione Nazionale Anti-Corruzione ha aperto un procedimento legale contro oltre 300 parlamentari - quasi tutti del partito di governo - i quali rischiano il bando da qualsiasi attività politica per avere votato a favore di una modifica alla costituzione per rendere elettivi tutti i seggi del Senato thailandese.
Questa iniziativa, successivamente bocciata dalla Corte Costituzionale, era stata adottata dal governo e, assieme al tentativo di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito a Thaksin di rientrare in patria nonostante la condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, nel mese di novembre aveva innescato le proteste che stanno tuttora agitando il paese del sud-est asiatico.
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di Michele Paris
Nelle giornate di domenica e lunedì è andato in scena a Parigi un vertice preliminare per preparare il summit di Ginevra del prossimo 22 gennaio che dovrebbe aprire la strada ad una soluzione negoziata del conflitto in corso da quasi tre anni in Siria. Contestualmente, una riunione dei cosiddetti “amici della Siria” ha invitato i leader dell’opposizione “moderata” a sciogliere le riserve sulla partecipazione ai colloqui di pace, anche se l’inconsistenza di quest’ultima di fronte ai gruppi fondamentalisti e il totale disaccordo tra le parti sulla sorte del presidente Assad continuano a gettare una lunghissima ombra sull’esito di un difficile negoziato per il futuro del paese mediorientale.
La due giorni parigina ha soprattutto segnato l’avvio di una rinnovata offensiva per il cambio di regime a Damasco dopo che, nei mesi seguiti all’abortito tentativo di aggressione militare statunitense con il pretesto dell’uso di armi chimiche da parte del regime, in Occidente erano sembrati prevalere i timori per la crescente influenza delle formazioni integraliste sunnite tra le fila dell’opposizione armata.
Gli undici paesi “amici della Siria” hanno così emesso un comunicato ufficiale nel quale si afferma che “Assad e i membri del suo entourage con le mani insanguinate non avranno alcun ruolo” nel futuro del paese. L’opposizione, perciò, è stata sollecitata a “formare al più presto una delegazione… per partecipare al processo politico” che dovrebbe aprirsi la prossima settimana in Svizzera.
Un qualche ottimismo sulla partecipazione dell’opposizione siriana l’ha espresso il segretario di Stato americano, John Kerry, il quale dopo un faccia a faccia con il numero uno della Coalizione Nazionale appoggiata dall’Occidente, Ahmad Jarba, si è detto “fiducioso” circa la presenza di una qualche delegazione a Ginevra. Lo stesso ex senatore democratico ha poi riconosciuto che il regime di Assad aveva invece assicurato la propria presenza al tavolo dei negoziati “fin dall’inizio”.
Jarba, da parte sua, nonostante l’organizzazione di cui è alla guida abbia ben poca influenza sulle forze che si battono contro Assad, si è mostrato ottimista in vista del vertice battezzato “Ginevra II”, principalmente per la rinnovata attenzione posta dagli USA e dai loro alleati sulla possibile uscita di scena del presidente siriano.
Le dichiarazioni di Jarba hanno riflettuto quelle di Kerry, del ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, e di altri diplomatici presenti a Parigi, i quali sono appunto tornati a denunciare le violenze del regime ai danni della popolazione. Fabius, inoltre, ha attribuito ad Assad la responsabilità di alimentare il terrorismo in Siria, quando il proliferare di gruppi integralisti spesso legati ad al-Qaeda è esattamente il risultato del comportamento dei governi occidentali e dei loro partner in Medio Oriente.
Questi ultimi hanno infatti soffiato sul fuoco del settarismo in Siria per piegare il regime, sostenendo finanziariamente e militarmente formazioni islamiste relativamente efficaci sul campo di battaglia - a differenza delle brigate affiliate all’opposizione “secolare” o “moderata” - ma profondamente impopolari tra la popolazione locale.
Il timore che la situazione in Siria potesse sfuggire di mano e che i fondamentalisti sunniti finissero per minacciare i loro stessi sponsor aveva influito sulla già ricordata marcia indietro dell’amministrazione Obama lo scorso settembre, quando tutto sembrava dover portare ad un’aggressione contro Damasco.Nelle settimane successive, così, in molti avevano avvertito che la permanenza di Assad al potere era da considerare come un male minore di fronte al prevalere di organizzazioni come il Fronte al-Nusra o lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. Qualche voce isolata anche a Washington - come ad esempio quella dell’ex ambasciatore USA a Baghdad e a Kabul, Ryan Crocker - aveva addirittura prospettato la necessità di tornare a parlare con il regime, sia pure in maniera “sommessa”, verosimilmente per progettare un’azione comune contro l’estremismo islamico in Siria.
Le vicende interne al paese mediorientale negli ultimi tempi hanno però rilanciato la battaglia diplomatica in Occidente contro Assad, accompagnata sul campo dal recente annuncio americano di volere riprendere le forniture di aiuti “non letali” all’opposizione considerata affidabile.
Questo genere di aiuti era stato sospeso da USA e Gran Bretagna a inizio dicembre in seguito alla conquista da parte del Fronte Islamico di un deposito contenente materiale fornito all’opposizione secolare siriana. Il Fronte Islamico Siriano è uno dei vari gruppi che si battono per rovesciare il regime di Assad e raccoglie alcune formazioni islamiste che avevano rotto con l’opposizione armata filo-occidentale pur continuando ad opporsi anche allo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria e al Fonte al-Nusra, entrambi affiliati ad al-Qaeda.
Il Fronte Islamico è però tornato recentemente a collaborare sia con il Libero Esercito della Siria che con il Fronte al-Nusra per combattere lo Stato Islamico nel nord del paese, dando vita ad una durissima lotta intestina tra le forze di opposizione che ha fatto centinaia di morti. Questo riallineamento nella galassia delle formazioni che si oppongono al regime ha fornito l’occasione agli Stati Uniti non solo di riprendere gli aiuti materiali destinati ai “ribelli” ma anche e soprattutto di tornare a puntare senza riserve sul cambio di regime a Damasco, presentando i propri sforzi in questo senso come una lotta necessaria per limitare lo strapotere di al-Qaeda in Siria.
Come frequentemente sono costretti ad ammettere anche i media ufficiali in Occidente, tuttavia, i beneficiari di questa rinnovata iniziativa sono anche forze ultra-reazionarie come il Fronte Islamico, con cui gli Stati Uniti da tempo stanno cercando di dialogare, e il Fronte al-Nursa, già designato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato USA, i quali, pur giudicando controproducenti in questo frangente gli eccessi dello Stato Islamico, si battono anch’essi per la formazione di un emirato basato sulla legge islamica in Siria.
Come ha sottolineato nel fine settimana la corrispondente del New York Times da Beirut, Anne Barnard, la battaglia scatenata ad Aleppo, Raqqa e altrove contro lo Stato Islamico sarebbe stata incoraggiata dagli stessi leader dell’opposizione in esilio per cercare di rimediare alla perdita della loro influenza sia nel paese che di fronte ai sostenitori esteri. La coalizione moderata si augura, cioè, che “la guerra [contro i fondamentalisti dello Stato Islamico] convinca l’Occidente che i ribelli, e non Assad, offrano le migliori garanzie di impedire ad al-Qaeda di creare una base in Siria”.
La minaccia alla sicurezza dell’intera regione, ha aggiunto la giornalista del quotidiano newyorchese, aveva infatti spinto “alcune potenze straniere, per non parlare di molti siriani, ad ipotizzare la ricerca di un compromesso con il regime”.
L’affiancamento di gruppi come il Fronte Islamico al Libero Esercito della Siria contro lo Stato Islamico ha dunque fornito ai sostenitori irriducibili della rimozione di Assad a Washington e altrove più di un argomento per affermare che non tutte le formazioni di ispirazione islamista attive contro il regime rappresentano una minaccia terroristica a causa dei loro legami con al-Qaeda.Ciò è però quanto meno un’illusione, dal momento che il Fronte Islamico o il Fronte al-Nusra - responsabile nel recente passato di attentati suicidi contro civili, esecuzioni e persecuzioni ai danni delle minoranze religiose siriane - sembrano avere unito le proprie forze a quelle dell’opposizione filo-occidentale solo temporaneamente e per ragioni di opportunismo, condividendo entrambi in maniera sostanziale l’agenda fondamentalista dello Stato Islamico.
Da Parigi, intanto, gli Stati Uniti e la Russia hanno fatto sapere di avere discusso possibili “cessate il fuoco localizzati” in Siria per favorire l’avvio dei negoziati di Ginevra. Inoltre, il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, ha annunciato che il regime di Assad starebbe valutando la possibilità di concedere l’apertura di corridoi umanitari nelle aree sotto assedio controllate dai ribelli.
Una delle questioni più controverse rimane infine la partecipazione dell’Iran ai colloqui di pace. Gli USA, per bocca di Kerry, qualche giorno fa avevano ipotizzato un ruolo di Teheran soltanto “a margine” del vertice di Ginevra, un’idea però respinta come offensiva dal governo della Repubblica Islamica.
Nel fine settimana, il segretario di Stato USA è tornato ad escludere la partecipazione del principale alleato di Assad, almeno fino a quando non accetterà l’obiettivo del vertice stabilito dagli Stati Uniti, vale a dire preparare un governo di transizione in Siria senza l’attuale presidente. Quest’ultimo obiettivo non è però condiviso nemmeno dalla Russia, il cui rappresentante a Parigi ha puntato il dito contro gli americani per la loro inflessibilità, bollando come “ideologica” l’opposizione di Washington alla presenza iraniana al tavolo delle trattative.
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di Mario Lombardo
Il continuo precipitare dei rapporti bilaterali tra Cina e Giappone sull’onda del riassetto strategico degli Stati Uniti in Asia orientale ha fatto registrare nei primi giorni del nuovo anno una serie di iniziative e scambi di accuse reciproche che rischiano di far precipitare la situazione in qualsiasi momento. Questa settimana, ad esempio, il governo ultra-conservatore di Tokyo ha annunciato di volere registrare 280 isole al largo delle proprie coste come “proprietà dello stato”, ufficialmente per migliorarne la gestione.
Anche se l’elenco non è stato ancora reso noto, la mossa del premier Shinzo Abe solleverà probabilmente le ire almeno di Cina e Corea del Sud, due paesi che hanno una serie di dispute territoriali con il Giappone. Per cercare di gettare acqua sul fuoco, la segreteria per le Politiche Oceaniche e Territoriali nipponica ha fatto sapere che le isole in questione sono tutte all’interno delle acque territoriali del Giappone, mentre nessuna di esse rientrerebbe tra quelle al centro di dispute con altri paesi.
Tokyo e Pechino, in particolare, sono da tempo ai ferri corti circa la sovranità sulle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, già nazionalizzate dal precedente governo giapponese di centro sinistra nel settembre 2012 nonostante le proteste cinesi.
Proprio nei pressi delle isole Senkaku, martedì è stato sfiorato un grave scontro tra i due paesi, quando il governo giapponese ha fatto alzare in volo aerei da guerra in seguito all’ingresso nella propria “zona di identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) di un velivolo civile cinese. Quest’ultimo non aveva comunque sconfinato nello spazio aereo nipponico vero e proprio ed ha infine fatto rotta verso la Cina.
Un significativo innalzamento delle tensioni in Estremo Oriente era stato registrato nel mese di novembre, quando Pechino aveva deciso di creare una propria “zona di identificazione per la difesa aerea” nel Mar Cinese Orientale coprendo anche le isole contese al Giappone. In quell’occasione, erano stati i giapponesi, assieme agli Stati Uniti e alla Corea del Sud, a condannare la mossa della Cina e Washington, in segno di provocazione, aveva fatto volare dei B-52 con dotazioni nucleari all’interno della neonata ADIZ di Pechino senza darne notifica alle autorità.Gli episodi più recenti si inseriscono inoltre in una diatriba scatenata dalla visita avvenuta il 26 dicembre del premier Abe al santuario scintoista Yasukuni di Tokyo, dedicato ai soldati giapponesi morti “al servizio dell’imperatore”. Dal momento che qui sono sepolti anche svariati criminali di guerra, le visite dei politici giapponesi sono sempre molto controverse e suscitano puntualmente la condanna di Cina e Corea del Sud, le cui popolazioni hanno pagato il prezzo più alto per i crimini dell’imperialismo nipponico nella prima metà del secolo scorso.
La prima visita al santuario di un primo ministro giapponese dal 2005 ha così innescato una nuova polemica con Pechino, culminata in un singolare battibecco, ospitato dal quotidiano Daily Telegraph, tra gli ambasciatori dei due paesi in Gran Bretagna. Respingendo ogni responsabilità per avere causato il deterioramento dei rapporti bilaterali, i due diplomatici hanno entrambi paragonato il paese rivale a Lord Voldemort, il “cattivo” della saga di Harry Potter.
Lo scontro ha poi trovato eco mercoledì alle Nazioni Unite, con il rappresentante cinese al Palazzo di Vetro, Liu Jieyi, che ha ripreso pubblicamente il governo giapponese, invitando la “comunità internazionale a rimanere vigile” sulle conseguenze della piega ultra-nazionalista presa dal governo di Tokyo e chiedendo al premier Abe di “correggere il suo punto di vista errato sulla storia”.
Nella disputa si sono poi inevitabilmente inseriti gli Stati Uniti, con il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, che in una recente conversazione telefonica con il suo omologo nipponico, Itsunori Onodera, ha invitato il Giappone ad adoperarsi per migliorare i rapporti con i propri vicini. In precedenza, il Dipartimento di Stato aveva inoltre espresso il proprio disappunto per la visita di Abe al santuario Yasukuni.
I tentativi di calmare gli animi in Asia orientale da parte americana non possono però nascondere il ruolo giocato proprio da Washington nel far riesplodere le tensioni tra Cina e Giappone. L’amministrazione Obama ha infatti incoraggiato l’alleato giapponese ad assumere un atteggiamento più aggressivo nei confronti di Pechino, così da contribuire alla strategia americana di contenimento della seconda economia del pianeta.
Così facendo, tuttavia, gli USA hanno alimentato le tendenze militariste e nazionaliste all’interno della classe dirigente di Tokyo, causando l’effetto collaterale di complicare anche i rapporti tra il Giappone e l’altro principale alleato statunitense in quest’area del globo, la Corea del Sud. Da qui i malumori espressi a mezza voce da Washington per le provocazioni del gabinetto di estrema destra guidato da Shinzo Abe.
I governi di Cina e Giappone, da parte loro, stanno anch’essi sfruttando le tensioni diplomatiche in corso per incoraggiare i sentimenti nazionalisti al loro interno, in modo da giustificare i rispettivi programmi di riarmo e distogliere l’attenzione da problemi e conflitti sociali domestici.Il confronto tra Cina e Giappone non si sta giocando però soltanto nelle aree contese nei mari asiatici ma anche, ad esempio, nel continente africano, dove giovedì il premier Abe ha iniziato una trasferta di una settimana che lo porterà, dopo lo stop mediorientale in Oman, in Costa d’Avorio, Mozambico ed Etiopia.
Se nelle dichiarazioni pubbliche è stato escluso che la competizione con la Cina sia alla base del viaggio del primo ministro, ciò è invece e senza dubbio una delle ragioni principali della trasferta in corso. Pechino ha infatti allargato enormemente la propria influenza in Africa nell’ultimo decennio, stabilendo partnership commerciali con molti paesi che forniscono alla Cina le proprie risorse energetiche e spesso beneficiano di ingenti investimenti in infrastrutture e progetti di sviluppo.
Questo continente è poi da tempo nel mirino dei paesi occidentali, che stanno progressivamente aumentando la loro presenza soprattutto militare, giustificata da motivazioni “umanitarie” che hanno portato a numerosi interventi, tra cui in Libia, Costa d’Avorio, Mali e Repubblica Centroafricana.
Che l’Africa sia al centro dell’interesse del governo liberal democratico giapponese era già stato confermato la scorsa estate, quando Tokyo aveva ospitato una quarantina di capi di stato africani, ai quali erano stati promessi decine di miliardi di dollari in prestiti e investimenti privati.
Più in generale, la corsa all’accaparramento delle risorse e dei mercati spesso dominati dalla Cina da parte del Giappone di Abe appare evidente dalle 25 visite all’estero effettuale nel corso del solo 2013 dal premier conservatore, concentratosi, prima di passare al continente africano, su praticamente tutti i paesi del sud-est asiatico, protagonisti in questi anni di un sensibile rafforzamento dei legami commerciali e talvolta strategici con Pechino.
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di Michele Paris
Dimostrando un senso dell’umorismo probabilmente involontario, in una nota ufficiale inviata alla stampa nel fine settimana, l’ufficio per le pubbliche relazioni dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) ha affermato che “i membri del Congresso godono dello stesso diritto alla privacy di qualsiasi cittadino degli Stati Uniti”. La comunicazione è giunta in risposta ad una semplice domanda rivolta alla NSA dal senatore indipendente del Vermont, Bernie Sanders, per sapere se anche i rappresentanti del potere legislativo siano sotto sorveglianza dell’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland.
La richiesta del senatore autodefinitosi “socialista” e che si schiera generalmente con i colleghi democratici al Senato era scaturita dalla recente sentenza di un giudice federale del District of Columbia che aveva giudicato incostituzionali i programmi di intercettazione di massa dei metadati telefonici condotti dalla NSA.
Riferendosi direttamente al direttore di questa agenzia, generale Keith Alexander, il senatore Sanders chiedeva rassicurazioni sull’eventuale attività di spionaggio ai danni del Congresso, definendo come spionaggio la “raccolta di metadati relativi alle conversazioni effettuate da telefoni ufficiali o personali, al contenuto dei siti web visitati o alle e-mail inviate”.
La NSA ha atteso un giorno per fornire una risposta preliminare che ha di fatto eluso la domanda, ricordando che l’autorità di “raccogliere dati relativi ai ‘segnali di intelligence’ prevede procedure volte a proteggere la privacy dei cittadini americani”. Inoltre, prosegue il comunicato ufficiale, “la NSA collabora nella piena trasparenza con il Congresso”, con il quale “l’interazione è stata estensiva prima e dopo le rivelazioni [di Edward Snowden] apparse sulla stampa a partire dallo scorso mese di giugno”.
La NSA, senza rispondere dunque alla domanda di Sanders, ha poi fatto sapere che la lettera è in fase di valutazione, aggiungendo infine l’affermazione citata in precedenza, cioè che i membri del Congresso possono contare sullo stesso livello di privacy garantito al resto della popolazione.
Dal momento che le rivelazioni di questi mesi hanno mostrato come ogni telefonata o comunicazione elettronica negli Stati Uniti sia virtualmente intercettata, è praticamente certo che deputati e senatori americani siano anch’essi costantemente sorvegliati.
Sul blog on-line The Switch del Washington Post, il giornalista Brian Fung ha tratto le dovute conclusioni dalla risposta “rivelatrice” dell’agenzia di Fort Meade. Visto cioè che “i membri del Congresso sono trattati allo stesso modo degli altri americani, allora la NSA tiene sotto controllo anche ogni singola chiamata che essi effettuano”. I motivi della sorveglianza dei politici possono essere molteplici, a cominciare dal ricatto e l’intimidazione verso deputati o senatori che appoggiano misure per limitare l’onnipotenza della NSA.
Lo stesso atteggiamento evasivo nei confronti del Congresso qualche mese fa lo aveva tenuto, tra gli altri, anche il ministro della Giustizia, Eric Holder, il quale durante un’audizione aveva risposto ad una domanda simile a quella del senatore Sanders, in quell’occasione posta dal collega repubblicano Mark Kirk, affermando soltanto che la NSA “non aveva tra i suoi fini” quello di spiare i membri dell’organo legislativo statunitense.
Nella sua lettera, Sanders intendeva ricevere rassicurazioni non solo sui colleghi parlamentari ma anche su tutti gli altri rappresentanti eletti dagli americani. La mancata risposta della NSA appare dunque particolarmente inquietante, soprattutto alla luce di alcune dichiarazioni rilasciate mesi fa da Snowden, nelle quali ipotizzava che l’agenzia per cui aveva lavorato era in grado, ad esempio, di intercettare e leggere le e-mail personali dello stesso presidente Obama se avesse disposto del suo indirizzo di posta elettronica.
Come hanno ricordato alcuni siti di informazione alternativa negli Stati Uniti, molti membri del Congresso denunciarono duramente nel 2006 come una violazione della separazione dei poteri prevista dalla Costituzione una vicenda che aveva sollevato interrogativi simili a quelli odierni, vale a dire la perquisizione da parte dell’FBI dell’ufficio del deputato democratico della Louisiana, William Jefferson. Quest’ultimo era al centro di un’indagine di corruzione e si era visto sequestrare dagli agenti federali svariati documenti senza l’emissione di un mandato di un tribunale.
Nel caso di Sanders e dell’indiretta ammissione della NSA che l’intero Congresso, così come il resto degli americani, è tenuto sotto sorveglianza in violazione del Quarto Emendamento alla Costituzione, non è finora giunta alcuna reazione sdegnata da Washington.Anzi, il deputato repubblicano di New York, Peter King, in un’apparizione televisiva su Fox News nel fine settimana ha addirittura rimproverato il senatore Sanders per avere osato chiedere rassicurazioni alla NSA. Per il deputato King, inoltre, quest’ultima agenzia sarebbe tenuta a spiare i membri del Congresso, “nel caso comunicassero con un leader di al-Qaeda in Iraq o in Afganistan”.
Le rivelazioni dei programmi di sorveglianza della NSA, in ogni caso, stanno spingendo il governo americano a valutare alcuni provvedimenti di facciata per placare il malcontento diffuso tra la popolazione nei confronti di strumenti da autentico stato di polizia.
La Casa Bianca in questi giorni ha fatto ad esempio sapere che il presidente Obama intende consultarsi con i vertici dell’intelligence e i leader del Congresso per avviare un processo di “revisione” delle prerogative della NSA, con l’obiettivo dichiarato di “rassicurare gli americani che la loro privacy non viene violata”. In altre parole, i programmi di sorveglianza illegali e incostituzionali non verranno aboliti, bensì saranno tutt’al più implementate lievi modifiche per dare l’impressione che le procedure di controllo sulle attività di intelligence rispettano le formalità democratiche.
Il presidente starebbe infatti studiando le raccomandazioni appena espresse da una speciale commissione “indipendente” da egli stesso nominata per porre un freno alla NSA. Tra le iniziative allo studio, che nulla farebbero per ristabilire la pienezza dei diritti costituzionali, c’è la conservazione e l’analisi dei metadati telefonici da parte delle compagnie di telecomunicazioni private e non più da parte dell’NSA, nonché la nomina di un rappresentante teorico della difesa durante i procedimenti di fronte al Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), l’organo che autorizza in segreto le richieste di intercettazione delle agenzie governative.
A spiegare meglio le intenzioni del governo nel gestire questo processo di “revisione” è però un’altra raccomandazione della già citata commissione, da tempo fatta propria dagli stessi vertici dell’intelligence a stelle strisce. Essa consiste cioè in una “riforma” del sistema con cui viene stabilito l’accesso al materiale top secret da parte dei dipendenti delle agenzie federali e dei loro contractor, così da impedire in futuro altre fughe di notizie o sottrazioni di documenti che mostrino la virtuale abrogazione dei più fondamentali diritti democratici negli Stati Uniti.
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di Michele Paris
Affrontando pubblicamente la crisi in Iraq, dove il governo centrale del premier Maliki sta combattendo milizie integraliste sunnite nella provincia occidentale di Anbar, qualche giorno fa il segretario di Stato americano, John Kerry, oltre ad escludere il ritorno nel paese mediorientale di soldati USA, ha definito quella in corso come una battaglia che appartiene esclusivamente agli iracheni.
Il riesplodere del caos in Iraq, tuttavia, è precisamente il risultato nefasto delle politiche statunitensi in Medio Oriente, dove il riallineamento strategico perseguito da Washington in seguito all’esplosione della cosiddetta “Primavera araba” è stato caratterizzato da confusione e cambi di alleanze, producendo tensioni e instabilità che rischiano di incendiare ulteriormente l’intera regione.
In maniera singolare, la lettura dei fatti di questi mesi in Medio Oriente da parte di media e commentatori ufficiali in Occidente ha messo l’accento su un presunto “disimpegno” degli Stati Uniti da quest’area del globo che avrebbe favorito forze centrifughe, principalmente tramite il propagarsi dell’influenza di formazioni fondamentaliste, i cui effetti si possono osservare in Siria così come in Libano e, appunto, in Iraq.
Il New York Times, ad esempio, nei primi giorni dell’anno ha attribuito ad un “vuoto di potere” in Medio Oriente il dilagare di gruppi integralisti, mentre in modo relativamente più velato il Financial Times ha lasciato intendere che la mancata aggressione americana ai danni del regime di Bashar al-Assad ha favorito il prevalere delle milizie sunnite in Siria e la conseguente emarginazione delle forze di opposizione secolari o moderate, contribuendo ad allargare il conflitto.
Per altri, ancora, la spirale di violenza che sta attraversano il Medio Oriente sarebbe invece dovuta soprattutto allo scontro tra Iran e Arabia Saudita, la cui tradizionale rivalità è stata inasprita dalla marcia indietro dell’amministrazione Obama sulla Siria e dall’accordo temporaneo sul nucleare di Teheran siglato a fine novembre. Il ricorso da parte di ognuno di questi due paesi ad un’agenda settaria per destabilizzare le zone di influenza del rispettivo rivale si innesterebbe poi sulle secolari divisioni che caratterizzano l’universo musulmano, principalmente tra sciiti e sunniti.A ben vedere, in realtà, le ragioni delle varie crisi in atto sono in larghissima misura riconducibili ad una spiegazione che ha a che fare con i tentativi da parte degli Stati Uniti di esercitare la propria egemonia su tutta la regione, alleandosi di volta in volta con forze e regimi che garantiscano i loro interessi ed aiutino a mettere all’angolo i rivali di turno. Un’eventuale intervento militare in Siria, poi, avrebbe fatto ben poco per stabilizzare il Medio Oriente, mentre avrebbe al contrario contribuito ad aggravare notevolmente la situazione, trascinando con ogni probabilità nel conflitto le altre potenze regionali.
Almeno da un decennio a questa parte, tutte le scelte fatte allo scopo di allargare la propria influenza in Medio Oriente si sono in ogni caso mostrate fallimentari per gli USA e i risultati attribuibili sia all’amministrazione repubblicana “neo-con” di George W. Bush che a quella teoricamente “liberal” di Barack Obama sono oggi sotto gli occhi di tutti.
A scatenare il conflitto in Siria è stato così l’appoggio a forze ultra-reazionarie spesso affiliate al terrorismo internazionale, utilizzate dagli USA e dai loro alleati come avanguardie per la rimozione di un regime la cui importanza strategica è legata al rapporto privilegiato che conserva con l’Iran.
Come già accaduto nel 2011 in Libia, il calcolo statunitense di puntare su gruppi integralisti altrove denunciati come nemici giurati ha prodotto conseguenze disastrose. In Siria sono infatti giunti guerriglieri provenienti da tutto il Medio Oriente e dall’Europa che hanno devastato il paese per poi esportare il conflitto nei vicini Libano e Iraq, trasformandosi un una minaccia anche per coloro che avevano inizialmente promosso la rivolta.
L’organizzazione legata al al-Qaeda che in questi giorni sta combattendo contro l’esercito di Baghdad in località come Falluja o Ramadi - lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria - è un prodotto indigeno iracheno, imbaldanzito però dai successi raccolti oltre il confine occidentale grazie soprattutto al sostegno più o meno diretto ricevuto dagli stessi Stati Uniti e dai loro partner mediorientali.
Sempre nel caso dell’Iraq, inoltre, il malcontento che si traduce talvolta in aperta simpatia per la ribellione armata contro il governo centrale sciita è il prodotto dei metodi sempre più autoritari volti a discriminare la minoranza sunnita messi in atto da un regime installatosi al potere proprio grazie all’invasione americana e alla deposizione di Saddam Hussein.Il caso dell’Iraq offre poi l’opportunità di evidenziare ancora una volta l’apparente schizofrenia e pericolosità della politica estera di Washington in relazione al Medio Oriente. Mentre, da un lato, il segretario di Stato Kerry sta offrendo l’aiuto americano al governo iracheno del premier Maliki per reprimere una rivolta guidata da gruppi terroristi sunniti da egli stesso definiti come “gli attori più pericolosi della regione”, questi ultimi sono di fatto difesi dagli Stati Uniti in Siria, dove al regime di Assad viene chiesto di mettere fine ai bombardamenti in corso contro i “ribelli” nella città di Aleppo.
Gli effetti collaterali delle manovre statunitensi in Medio Oriente sono evidenti infine anche dalla crescente diffidenza di alleati tradizionali come Arabia Saudita e Turchia, le cui reazioni stanno producendo ulteriori tensioni. L’attacco militare abortito contro la Siria nel mese di settembre e il successivo riavvicinamento di Washington a Teheran sono stati accolti duramente a Riyadh, dove i timori per un’emarginazione nella regione e la perdita di influenza a tutto favore dell’Iran si sono espressi in una serie di dichiarazioni a dir poco polemiche nei confronti dell’amministrazione Obama, nonché nel gesto clamoroso di rifiutare un seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il governo islamista del premier Erdogan in Turchia, invece, è stato fortemente penalizzato dalla decisione americana sia di rallentare il processo di destabilizzazione di Assad in Siria - che Ankara appoggiava entusiasticamente - sia di ritirare il proprio appoggio al nuovo governo dei Fratelli Musulmani in Egitto. Nel paese nord-africano, infatti, dopo essere stati costretti a liquidare Mubarak di fronte alle oceaniche manifestazioni di piazza del 2011, gli americani avevano finito per trovare un partner relativamente affidabile nel presidente Mohamed Mursi e nel movimento a cui egli appartiene.
Questa svolta degli USA era stata gradita dalla Turchia - al cui sistema il nuovo regime egiziano si ispirava - ma aveva sollevato le ire saudite, anche se le parti sono poi tornate ad invertirsi quando Washington nel luglio scorso ha avallato il colpo di stato al Cairo delle forze armate per bloccare sul nascere una seconda rivoluzione scatenata dalle politiche sempre più impopolari del presidente Mursi.
I conflitti riesplosi nell’area mediorientale non possono quindi essere ricondotti ad un fantomatico “disimpegno” degli Stati Uniti o al loro “abbandono” di una regione tuttora strategicamente fondamentale. A produrre instabilità e violenze sono piuttosto le manovre imperialiste di una leadership, come quella attuale a Washington, del tutto inadeguata a far fronte al proprio inevitabile declino sullo scacchiere internazionale e a costruire un modello stabile di governance in Medio Oriente che salvaguardi i propri interessi in presenza di mutate condizioni socio-economiche e di nuovi attori che minacciano gli equilibri consolidati.
In questa prospettiva, il vero banco di prova di una politica mediorientale finora quasi del tutto fallimentare sarà l’Iran, oggetto dell’ennesima inversione di rotta della diplomazia USA in questi anni. Un’eventuale pacificazione con Teheran testerebbe definitivamente i rapporti più profondi di Washington con i suoi principali punti di riferimento nella regione - Israele e Arabia Saudita - rappresentando, in caso di successo, un passo avanti decisivo nel tentativo di stabilizzare il Medio Oriente, a sua volta requisito fondamentale perché gli Stati Uniti possano finalmente concentrarsi sulla cosiddetta “svolta” asiatica e la crescente rivalità planetaria con la Cina.