di Michele Paris

Mentre la chiusura degli uffici governativi americani entra martedì nella seconda settimana, a Washington non sembra essere in vista nessun accordo tra democratici e repubblicani sull’approvazione del bilancio federale che metta fine al cosiddetto “shutdown”. Anzi, l’impasse attuale appare destinata sempre più a confluire in un’altra questione controversa e ancora più delicata, cioè quella dell’innalzamento del livello del debito pubblico che dovrà essere autorizzato poco dopo la metà di ottobre per evitare il primo clamoroso default della storia degli Stati Uniti.

A respingere ogni ipotesi di sbloccare la situazione con un pacchetto di emergenza per finanziare il governo almeno per alcune settimane è stato nel fine settimana lo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner. Apparso domenica sulla ABC, il leader repubblicano ha ribadito la posizione dell’ala più conservatrice del suo partito, la quale è disponibile a dare il via libera al bilancio 2013/2014 solo in cambio di consistenti concessioni da parte democratica che limitino l’entrata in vigore della “riforma” sanitaria di Obama.

La battaglia condotta dai deputati repubblicani vicini ai Tea Party non è in realtà condivisa da tutto il partito, all’interno del quale sono in molti a temere le ripercussioni politiche causate dalle responsabilità per la paralisi del governo iniziata ufficialmente alla mezzanotte di martedì scorso.

Non pochi tra gli stessi repubblicani, infatti, vorrebbero che Boehner mettesse in calendario un voto alla Camera per approvare il bilancio licenziato dal Senato senza emendamenti relativi alla “riforma” sanitaria, poiché certi che esista una maggioranza trasversale. Il deputato di New York, Peter King, lo ha ad esempio confermato domenica alla stampa USA, rivelando che i repubblicani disposti a rompere con i compagni di partito più intransigenti sarebbero tra i 50 e i 75, se non addirittura 150 in caso di voto segreto. Numeri simili, sommati ai deputati democratici, consentirebbero il passaggio senza difficoltà del nuovo bilancio secondo la versione già approvata dal Senato.

Boehner, tuttavia, continua ad affermare il contrario e, in ogni caso, ha ribadito di non volere portare in aula un provvedimento di questo genere, rimanendo per ora sulla linea dei suoi colleghi conservatori, verosimilmente per non danneggiare ulteriormente la sua leadership con nuovi attacchi dalla destra del partito.

Mostrando un ulteriore irrigidimento della propria posizione, Boehner ha inoltre confermato che la Camera non approverà nemmeno l’innalzamento del tetto del debito federale senza concessioni da parte della Casa Bianca e dei democratici al Congresso. Con un cambiamento di strategia estremamente significativo, lo speaker ha però lasciato intendere che l’obiettivo repubblicano in questo caso non sarà tanto la “riforma” sanitaria, bensì programmi pubblici come Medicare e Social Security.

Dal momento che l’amministrazione Obama ha mostrato una totale chiusura sulla legge del 2010 destinata a tagliare i costi, la quantità e la qualità dei servizi sanitari negli Stati Uniti, i due partiti potrebbero così accordarsi sulla riduzione della spesa pubblica, attorno alla quale i democratici continuano a mostrare più di un’apertura.

La necessità di intervenire per rendere “sostenibili” sia i programmi di assistenza sanitaria destinati agli americani più anziani che l’insieme di benefit di cui godono i pensionati, è stata perciò ripetuta da Boehner nella giornata di domenica, quando contemporaneamente il segretario al Tesoro, Jacob Lew, ha confermato la disponibilità del presidente democratico a trattare con i repubblicani su questi temi.

Nel linguaggio della politica di Washington, com’è ovvio, la garanzia della “sostenibilità” di questi popolari programmi pubblici nel lungo periodo si traduce in tagli sostanziali che ne alterino la natura stessa o nel restringerne drasticamente l’accesso. Il tutto, come ha tenuto a spiegare lo stesso Boehner, senza concedere in cambio alcun aumento del carico fiscale per i redditi più elevati.

Ciò che i democratici proporranno nelle trattative sul tetto del debito - il cui sforamento è previsto per il 17 ottobre - sarà invece una sorta di riforma fiscale, che dovrebbe concretizzarsi in una riduzione delle aliquote per i redditi più elevati da compensare con la cancellazione di trascurabili scappatoie legali che consentono alle corporation e ai più ricchi di abbattere le tasse da pagare.

In definitiva, lo stallo sul bilancio federale e sul livello di indebitamento degli Stati Uniti viene nuovamente sfruttato ad arte dai due partiti di Washington per creare il consueto clima di crisi come è già stato fatto più volte negli ultimi tre anni, così da trasformare una situazione apparentemente di scontro in un esito condiviso che spiani la strada a nuovi attacchi a programmi pubblici essenziali da cui dipende la sopravvivenza di decine di milioni di persone.

Non a caso, infatti, nei corridoi di Washington comincia a circolare una nuova ipotesi relativa al cosiddetto “grande accordo” bipartisan, continuamente evocato nel recente passato e mai andato in porto. In uno scenario sufficientemente drammatico, questa opzione potrebbe essere presa finalmente in considerazione da entrambi gli schieramenti, in modo da combinare in un unico pacchetto il nuovo bilancio federale, l’innalzamento del tetto del debito, la “riforma” del fisco e, soprattutto, i tagli alla spesa pubblica che ridimensionerebbero i programmi destinati alle fasce più deboli della popolazione.

A riproporre il “grand bargain”, secondo quanto riportato dalla testata on-line Politico.com, sarebbe stato lo stesso John Boehner nel corso di un incontro con Obama alla Casa Bianca. Se l’idea sarebbe stata accolta con ironia dai presenti visto il fallimento nel raggiungere un accordo di questo genere in passato, essa starebbe raccogliendo sempre maggiore seguito sia tra i repubblicani che i democratici, entrambi intenzionati ad uscire quanto prima dallo stallo in corso e a far segnare passi avanti verso lo smantellamento di programmi pubblici che, dal loro punto di vista, non rappresentano altro che uno spreco di risorse da indirizzare piuttosto ai grandi interessi a cui fanno unicamente riferimento.

di Mario Lombardo

Con il presidente Obama costretto ad annullare almeno parzialmente il suo viaggio della settimana prossima in Asia sud-orientale, altri due membri di spicco dell’amministrazione democratica di Washington sono stati inviati in questi giorni in una regione fondamentale per gli interessi americani sempre più in competizione con quelli di Pechino.

Il segretario di Stato, John Kerry, e quello alla Difesa, Chuck Hagel, hanno così siglato nella giornata di giovedì il rinnovo della partnership militare che lega il loro paese al Giappone. I termini dell’alleanza tra Washington e Tokyo erano stati rivisti per l’ultima volta nel 1997 e il nuovo accordo - ufficializzato alla presenza del ministro degli Esteri nipponico, Fumio Kishida, e di quello della Difesa, Itsunori Onodera - contiene alcune disposizioni che produrranno più di un malumore tra i vertici cinesi.

In particolare, gli Stati Uniti il prossimo anno installeranno un nuovo sistema radar di difesa missilistica presso la base aerea giapponese di Kyogamisaki, nella prefettura di Kyoto, mentre per la prima volta in assoluto verranno impiegati dei droni a scopo di “sorveglianza” in territorio nipponico. Inoltre, i due paesi si sono accordati per incrementare la cooperazione al fine di combattere le crescenti minacce informatiche e gli americani condurranno ricognizioni con velivoli di ultima generazione nelle aree marittime contese tra Tokyo e Pechino.

Quasi tutte le nuove iniziative sono state presentate come necessarie per far fronte alla presunta minaccia per il Giappone e gli interessi americani proveniente dalla Corea del Nord. In realtà, tutto ciò rientra nella cosiddetta “svolta” asiatica lanciata da qualche anno dall’amministrazione Obama, il cui scopo centrale è quello di contenere l’espansionismo cinese.

In questo quadro si colloca anche l’impulso marcatamente militarista impresso dal governo conservatore di Tokyo guidato dal primo ministro, Shinzo Abe. Il tentativo di quest’ultimo di superare il carattere pacifista della Costituzione del Giappone, assegnando un ruolo più attivo alle forze armate, serve infatti alla promozione degli interessi del paese sullo scacchiere internazionale e va di pari passo con il rilancio della presenza statunitense in Estremo Oriente.

Questa evoluzione degli equilibri strategici in Asia ha già creato pericolose tensioni non solo tra la Cina da una parte e gli alleati degli Stati Uniti dall’altra (Giappone, Filippine), principalmente a causa di dispute territoriali relative ad una serie di isole rivendicate da più parti, ma anche tra governi allineati di Washington.

Giappone e Corea del Sud si sono così scontrati più volte nei mesi scorsi, soprattutto a causa dell’eredità tossica lasciata dal periodo coloniale nipponico nella penisola di Corea ma anche, come è successo proprio questa settimana, per un’altra disputa territoriale non risolta tra Tokyo e Seoul. Queste frizioni sono viste con estrema preoccupazione a Washington, da dove l’unità degli alleati in Asia orientale viene considerata come una condizione indispensabile per la creazione di un fronte anti-cinese sufficientemente compatto.

Oltre a far riemergere vecchi dissapori tra paesi schierati sullo stesso fronte internazionale, il cosiddetto “pivot” degli Stati Uniti in Asia suscita spesso l’opposizione delle popolazioni interessate, anche perché si concretizza quasi sempre con una maggiore presenza di forze americane nel continente.

In Giappone, ad esempio, il riallineamento del governo conservatore agli interessi di Washington dopo le incertezze del gabinetto guidato dal Partito Democratico (DPJ) risulta tutt’altro che popolare, specialmente in quelle località che da decenni devono convivere con le basi militari americane, come Okinawa. Proprio qui, infatti, le proteste degli abitanti si sono moltiplicate, tanto che i due paesi hanno finito per includere nell’accordo firmato giovedì una clausola che prevede il trasferimento di 9 mila marines americani, 5 mila dei quali destinati all’isola di Guam, nell’Oceano Pacifico, a spese dei contribuenti giapponesi.

In ogni caso, a dare un potente segnale della volontà degli Stati Uniti di rafforzare la propria presenza in Asia orientale avrebbe dovuto essere la trasferta di Barack Obama. In seguito alla chiusura parziale iniziata martedì degli uffici governativi americani, tuttavia, la Casa Bianca ha annunciato la cancellazione delle visite in Malaysia e nelle Filippine.

Il presidente democratico dovrebbe invece prendere parte regolarmente a due summit regionali previsti per la settimana prossima, il primo a Bali (Cooperazione Economica dell’Asia e del Pacifico, APEC) e il secondo in Brunei (Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico, ASEAN). Con lo scontro che prosegue al Congresso tra democratici e repubblicani sul bilancio federale, anche questa seconda parte del viaggio inizialmente programmato da Obama risulta però in forte dubbio.

L’assenza di Obama rischia così di assestare un colpo molto pesante alla credibilità americana in quest’area del pianeta, dove svariati governi - a cominciare da quello filippino del presidente Benigno Aquino - si aspettavano una dichiarazione senza riserve dell’appoggio degli Stati Uniti nell’ambito delle dispute e delle tensioni esplose negli ultimi anni con la Cina.

Proprio la finalizzazione dei preparativi per la presenza di un contingente militare americano nelle Filippine - in contravvenzione con quanto stipulato dalla Costituzione di questo paese - doveva essere uno dei punti centrali del viaggio di Obama per promuovere la “svolta” asiatica della sua amministrazione.

Le altre questioni in agenda che verranno comunque discusse da Kerry, oltre al già concluso rinnovo della partnership militare con il Giappone, saranno almeno la promozione della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), cioè il controverso trattato di libero scambio tra alcuni paesi di Asia, Americhe e Oceania da cui sarà esclusa la Cina, e l’ennesimo tentativo di “mediare” una soluzione multilaterale delle dispute territoriali che oppongo Pechino ad alcuni paesi membri dell’ASEAN.

Nonostante le rassicurazioni degli esponenti del governo americano che le intenzioni dietro alla “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama sono pacifiche, questa strategia passa principalmente attraverso un’aumentata presenza militare, come confermano, tra gli altri, l’accordo siglato lo scorso anno con l’Australia e quello già ricordato con le Filippine, ma anche, più in generale, la decisione di Washington di dispiegare entro il 2020 ben il 60 per cento delle proprie forze navali nell’area Estremo Oriente/Oceano Pacifico.

I piani degli Stati Uniti, però, come dimostra la parziale cancellazione della visita di Obama, troveranno sempre maggiori ostacoli nel prossimo futuro, specialmente di fronte alla pressoché inarrestabile avanzata di una Cina che continua a far registrare sensibili progressi nei rapporti commerciali con quasi tutti i paesi del sud-est asiatico.

Proprio mentre Obama viene costretto a Washington dallo scontro sul bilancio USA, infatti, il presidente cinese, Xi Jinping, sta preparando i summit di APEC e ASEAN con una trasferta che lo ha portato in Indonesia e in Malaysia, dove, tra l’altro, il primo ministro Najib Razak è alla ricerca di legittimazioni internazionali per rafforzare la sua posizione interna dopo la deludente prestazione elettorale della sua coalizione qualche mese fa.

In Indonesia, invece, Xi ha finalizzato una serie di accordi commerciali per il valore di oltre 30 miliardi di dollari, mentre nella giornata di giovedì ha tenuto un discorso al parlamento di Jakarta, significativamente il primo in assoluto di un leader straniero di fronte ai membri dell’assemblea legislativa di questo paese.

di Michele Paris

Con il discorso del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si è chiusa martedì a New York un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dominata dall’offensiva diplomatica dell’Iran, culminata con lo storico colloquio telefonico della scorsa settimana tra Barack Obama e il nuovo presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani.

Le fondamenta appena gettate di un dialogo diretto tra Washington e Teheran per una possibile risoluzione dell’annosa questione del nucleare iraniano hanno scatenato una valanga di commenti e interrogativi tra i commentatori di tutto il mondo, mentre gli alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente non hanno tardato a manifestare tutta la loro opposizione ad una soluzione pacifica della crisi, a cominciare dal governo di Tel Aviv che ha salutato le prove di distensione con reazioni al limite dell’isteria.

Come era ampiamente prevedibile, al Palazzo di Vetro Netanyahu ha sostanzialmente ribadito le dichiarazioni allarmate degli scorsi anni sull’avanzamento del programma nucleare iraniano che, a suo dire e senza nessuna prova, starebbe procedendo verso la costruzione di armi atomiche. Secondo il premier ultra-conservatore israeliano, anzi, l’atteggiamento conciliante della delegazione di Teheran a New York sarebbe servito proprio a fuorviare la comunità internazionale per guadagnare tempo ed evitare attacchi militari contro le proprie installazioni nucleari.

Il giorno precedente l’intervento all’Onu, inoltre, lo stesso Netanyahu aveva incontrato Obama alla Casa Bianca, al quale aveva chiesto di mantenere ferma la minaccia militare e di non abolire le sanzioni economiche contro l’Iran. Da parte sua, il presidente democratico aveva cercato di dare un’immagine di unità con l’alleato, così da non allarmare ulteriormente i sostenitori dello Stato ebraico a Washington, sui quali Tel Aviv conta per far naufragare i negoziati che stanno per aprirsi.

Obama ha così ripetuto il consueto ritornello che accompagna praticamente ogni dichiarazione ufficiale americana sull’Iran e cioè che “tutte le opzioni rimangono sul tavolo” in relazione alla Repubblica Islamica, compresa quella militare, aggiungendo poi che la disponibilità mostrata nei giorni scorsi da Rouhani e dal suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, dovrà essere seguita da atti concreti.

Nonostante le difficoltà e le forti pressioni a non abbandonare la linea dura nei confronti di Teheran sia da parte degli ambienti filo-israeliani che dei falchi “neo-con”, l’amministrazione Obama sembra intenzionata a proseguire sul cammino del dialogo con l’Iran, cogliendo l’occasione scaturita dall’elezione a giugno del moderato Rouhani e, soprattutto, dalla necessità di questo paese di allentare al più presto la morsa delle sanzioni che ne stanno strozzando l’economia.

La decisione di Washington, tuttavia, non è scaturita da un’improvvisa volontà di riconoscere i diritti e le legittime aspirazioni iraniane, ma è piuttosto la conseguenza di una scelta strategica obbligata seguita al fallimento del progetto bellico preparato per la Siria. In altre parole, l’impossibilità di risolvere con un’aggressione militare la crisi siriana, a causa di una fortissima opposizione popolare e della fermezza degli alleati di Damasco - a cominciare dalla Russia - nel non lasciare mano libera alla macchina da guerra USA, ha spinto gli Stati Uniti dapprima ad accettare la proposta di Mosca sullo smantellamento delle armi chimiche di Assad e successivamente a rispondere positivamente alle aperture iraniane.

La battaglia condotta per procura contro il regime siriano rientra d’altra parte in un disegno più ampio per il Medio Oriente che ha appunto al centro la Repubblica Islamica e il tentativo ultimo di forzare un cambio di regime a Teheran. Se, dunque, gli USA fossero riusciti nello scatenare l’ennesima “guerra umanitaria” rimuovendo Assad in Siria, la loro attenzione si sarebbe inevitabilmente rivolta all’altro caposaldo della “resistenza” nella regione, vale a dire l’Iran.

Con i piani di guerra almeno momentaneamente frustrati, invece, l’amministrazione democratica di Washington si è vista pressoché costretta ad optare per la diplomazia e a trattare con un governo da poco insediato e ben intenzionato ad ottenere un rilassamento delle sanzioni in cambio di concessioni non ancora messe sul tavolo.

Viste poi le disastrose conseguenze di un eventuale conflitto diretto con l’Iran, gli Stati Uniti hanno con ogni probabilità ritenuto di potere ottenere maggiori vantaggi attraverso un qualche dialogo con Teheran, dove a condurre i giochi è oggi una leadership pragmatica e moderata. Sul medio o lungo periodo, infine, il ristabilimento di relazioni normali con un paese che dispone di ingenti risorse energetiche potrebbe servire anche a limitare la partnership che lo lega ai rivali degli USA in Medio Oriente: Cina e, soprattutto, Russia.

In ogni caso, nonostante i rapporti tra i due rivali storici abbiano raggiunto in queste settimane livelli mai visti negli ultimi tre decenni, la delegazione americana che si appresta a recarsi a Ginevra a metà ottobre per il nuovo round dei colloqui sul nucleare sarà ancora una volta ben decisa ad estrarre dagli iraniani le condizioni più favorevoli possibili per Washington e i suoi alleati.

Come sanno bene a Teheran, la necessità degli Stati Uniti di far prevalere i propri interessi su qualsiasi ambizione iraniana e le resistenze ad ogni forma di distensione manifestate da più parti rendono comunque particolarmente accidentato il percorso che potrebbe portare ad un accordo diplomatico in tempi brevi.

Se il Senato di Washington ha infatti deciso di attendere dopo l’incontro tra i P5+1 e i rappresentanti iraniani a Ginevra per discutere in aula il nuovo pesantissimo pacchetto di sanzioni economiche contro Teheran approvato a larghissima maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti a fine luglio, queste stesse misure continuano ad essere minacciosamente presenti nel dibattito sull’Iran e, come ha scritto mercoledì la Associated Press citando alcuni membri del Congresso, la loro implementazione sembra “probabile nonostante il disgelo tra i due paesi”.

Sul Congresso confida anche il governo israeliano per ostacolare il processo distensivo in atto, in particolare utilizzando l’attività delle lobbies che rappresentano gli interessi di Tel Aviv a Washington. Proprio il ruolo del Congresso risulterà decisivo, visto che la Camera e il Senato hanno approvato in questi anni le sanzioni economiche in vigore ai danni di Teheran e un’eventuale soppressione dovrà passare nuovamente da un voto dei due rami del parlamento americano. I poteri del presidente, in questo ambito, sono invece limitati alla possibilità di sospendere temporaneamente le sanzioni già esistenti.

Israele stesso, inoltre, nel suo intento di impedire in tutti i modi non tanto l’avanzata di un inesistente programma nucleare a scopi militari quanto l’emergere dell’Iran come legittima potenza regionale che minacci la propria supremazia in Medio Oriente, potrebbe mettere in atto provocazioni per boicottare il dialogo, come conferma il più che sospetto arresto annunciato domenica scorsa di una presunta spia iraniana, guarda caso in possesso di immagini dell’ambasciata statunitense a Tel Aviv.

Da parte della Repubblica Islamica, infine, il mandato di Rouhani per trovare un accordo con gli Stati Uniti e l’Occidente appare sempre più legittimato dall’establishment conservatore che fa capo alla Guida Suprema, ayatollah Ali Khamenei.

Dagli ambienti più intransigenti stanno in realtà giungendo alcune critiche nei confronti di qualsiasi apertura agli USA ma, per il momento, i vari centri del potere in Iran sembrano approvare, o quanto meno tollerare, il tentativo del neo-presidente, a riprova delle profonde apprensioni create dalle sanzioni per una possibile esplosione delle tensioni sociali nel paese.

Un attestato della fiducia riposta in Rouhani è giunta così questa settimana al suo rientro da New York, quando 230 dei 290 membri del parlamento iraniano - dominato da fedelissimi di Khamenei - ha firmato una dichiarazione nella quale viene espressa completa approvazione per il tentativo di “discutere e stabilire contatti allo scopo di risolvere le questioni regionali e internazionali”.

L’Iran, in definitiva, sembra unito nella ricerca di un dialogo con i propri rivali storici e toccherà perciò ora a questi ultimi accettare la sfida e trattare finalmente con i leader di questo paese su un piano di uguaglianza.

di Michele Paris

L’ennesima crisi costruita attorno alla spesa pubblica negli Stati Uniti che sta mettendo di fronte in questi giorni democratici e repubblicani al Congresso ha alla fine determinato il temuto “shutdown” del governo e la chiusura di buona parte degli uffici governativi per la prima volta da 17 anni a questa parte. La definitiva rottura è avvenuta sulla controversa “riforma” del sistema sanitario di Obama del 2010, la cui entrata in vigore l’ala conservatrice dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti voleva bloccare o quanto meno rimandare in cambio del via libera al bilancio federale per il nuovo anno fiscale iniziato alla mezzanotte di martedì 1° ottobre.

La minaccia di svariate decine di deputati repubblicani legati ai “Tea Party” di bloccare i fondi federali era apparsa in tutta la sua evidenza già un paio di settimane fa, quando la Camera aveva sì approvato il bilancio 2013-2014 aggiungendo però una clausola che avrebbe privato la riforma sanitaria dei fondi necessari per la sua implementazione. Per tutta risposta, la settimana scorsa la maggioranza democratica al Senato aveva tolto dal testo del provvedimento la parte relativa alla riforma sanitaria, nonostante i tentativi di impedire questa mossa da parte soprattutto del repubblicano del Texas Ted Cruz, licenziando a propria volta il bilancio per il nuovo anno finanziario e rimandando il pacchetto legislativo alla Camera.

Nella mattinata di domenica, la leadership repubblicana di quest’ultimo ramo del Congresso aveva rilanciato, approvando nuovamente il bilancio - sia pure provvisorio, così da tenere aperti gli uffici governativi fino a metà dicembre - ma aggiungendo una serie di provvedimenti per colpire la riforma definita “Obamacare” che riassumono quasi tutte le critiche ad essa rivolte dagli ambienti conservatori americani. In particolare, i repubblicani alla Camera avevano chiesto il già ricordato rinvio dell’entrata in vigore previsto sempre per martedì di uno dei punti centrali della riforma sanitaria - l’obbligo di acquisto di una polizza assicurativa privata da parte di quasi tutti gli americani - approvando allo stesso tempo la soppressione di una tassa sui dispositivi medici che dovrebbe generare quasi 30 miliardi di dollari per contribuire a finanziare la riforma stessa.

Di fronte alla linea dura della destra repubblicana, accettata in maniera riluttante dallo “speaker” John Boehner per cercare di evitare ulteriori attacchi alla sua leadership dagli ambienti vicini ai “Tea Party”, il numero uno dei democratici, Harry Reid, si era rifiutato di convocare il Senato nella giornata di domenica per provare a stringere i tempi e trovare una soluzione all’impasse.

Così, il tira e molla al Congresso si è concluso come previsto lunedì, con il Senato che ha dato l’OK al bilancio provvisorio stralciando ancora una volta gli emendamenti repubblicani relativi alla riforma sanitaria. Successivamente, la Camera ha passato un ulteriore piano di finanziamento del governo con una proposta per ritardare l’inizio della riforma sanitaria, iniziativa arenatasi meno di un’ora dopo al Senato. La mancanza di un accordo dell’ultimo minuto ha fatto scattare così lo “shutdown”, ordinato ufficialmente poco dopo la mezzanotte dall’Office for Management and Budget.

Le ipotesi circolate nelle ore precedenti di possibili compromessi se i democratici avessero accettato di inserire nel bilancio almeno una delle richieste repubblicane relative alla riforma sanitaria – come la cancellazione della tassa del 2,3% sui dispositivi medici o la fissazione di un limite ai sussidi pubblici previsti per l’acquisto di una polizza sanitaria da parte degli stessi parlamentari e dei membri dei loro staff – sono invece andate a vuoto, rimandando alle prossime ore una possibile misura di emergenza da negoziare però in un’atmosfera avvelenata.

La mancata approvazione del nuovo bilancio ha in ogni caso gravi conseguenze soprattutto per i dipendenti pubblici, dal momento che almeno 825 mila di questi ultimi verranno messi subito in congedo senza stipendio, mentre a un altro milione verrà chiesto di lavorare ugualmente senza retribuzione. I servizi pubblici essenziali continueranno invece ad essere garantiti, così come non verranno intaccate le operazioni dell’apparato della “sicurezza nazionale”, anche se la riduzione del personale di molti uffici governativi potrebbe avere conseguenze sgradite, come ad esempio la sostanziale sospensione delle attività di controllo e regolamentazione dell’Agenzia per la Protezione Ambientale (EPA) e della Food and Drug Administration nell’ambito della sicurezza alimentare.

Implicazioni ancora più preoccupanti, secondo gli osservatori, potrebbe avere poi quella che già si preannuncia come la prossima battaglia al Congresso, quella cioè sull’innalzamento del tetto del debito USA. Se il livello di indebitamento del governo federale non verrà aumentato entro il 17 ottobre, infatti, gli Stati Uniti rischieranno il default per la prima volta nella loro storia e, prevedibilmente, anche in occasione di questa scadenza i repubblicani cercheranno di ottenere concessioni per ridurre la spesa pubblica e riproporranno i loro attacchi alla riforma sanitaria.

Una parte del Partito Repubblicano, peraltro, non condivide la battaglia condotta dai loro colleghi più conservatori su “Obamacare”, poiché teme che l’intransigenza di questi ultimi possa trasformarsi in un boomerang e consentire ai democratici di incolpare il partito stesso per l’eventuale paralisi del governo.

I deputati legati ai “Tea Party” continuano però nel tentativo di avvantaggiarsi della più che legittima ostilità diffusa tra gli americani per la riforma sanitaria voluta da Obama, correttamente vista come una legge che produrrà una riduzione delle prestazioni e un aumento dei costi, anche se i loro attacchi ad essa vengono in realtà portati da destra, visto che essi vorrebbero un sistema sanitario ancora più deregolamentato.

Più in generale, nonostante il livello apparente dello scontro al Congresso, il clima apocalittico che viene creato ad arte da media e politici americani in occasione delle varie scadenze relative al finanziamento del governo o al debito federale finisce puntualmente per risolversi in nuovi e pesantissimi tagli alla spesa pubblica che entrambi i partiti in larga misura condividono.

Come già accaduto in almeno quattro occasioni negli ultimi tre anni - tra cui in occasione del dibattito sul cosiddetto “fiscal cliff” o precipizio fiscale alla fine del 2012 - il teatrino di Washington prevede appunto che i repubblicani propongano misure di austerity estremamente drastiche da implementare il prima possibile. Successivamente, i democratici si atteggiano a difensori delle classi più disagiate che da quei tagli sarebbero maggiormente colpite per poi accettare tagli alla spesa solo leggermente meno devastanti e, se possibile, raccogliere i benefici politici per avere magari salvato qualche simbolico programma pubblico di assistenza.

Nel frattempo, il baricentro politico negli Stati Uniti si è spostato sempre più a destra e durante l’amministrazione Obama non solo sono spariti dal bilancio federale svariate migliaia di miliardi di dollari destinati alla spesa pubblica ma anche programmi come Medicare, Medicaid e Social Security, tradizionalmente considerati intoccabili, sono finiti o finiranno sotto la scure bipartisan.

Tutto ciò proprio mentre gli effetti della crisi economica renderebbero ancora più necessario il sostegno alle fasce più deboli della popolazione e, soprattutto, dopo che la Fed e il governo americano continuano a mettere a disposizione una quantità di denaro virtualmente illimitata alla speculazione di Wall Street.

di Emanuela Muzzi

Londra. Approvata la risoluzione ONU che obbliga Assad a distruggere il suo arsenale chimico la domanda di fondo resta: chi ha venduto i prodotti chimici usati dal regime siriano per costruire le armi al gas sarino usate lo scorso 21 agosto nella strage di Ghouta? C’è tempo fino al 4 Ottobre per sapere il nome del "chemical brand" che avrebbe esportato materiali precursori per il gas sarino al paese in rivolta grazie a licenze export "made in Britain".

Se le nazioni sono il soggetto della questione, i composti chimici, i prodotti e le multinazionali sono l’oggetto da definire. Le armi chimiche in sé non esistono se non nel momento in cui due "precursori" reagiscono e si trasformano in gas letale. Di qui il nome: armi binarie.

Dunque anche la risposta potrebbe essere "binaria": Germania e Gran Bretagna. Due nazioni che hanno appena votato la risoluzione ONU sulle armi chimiche sabato 27 settembre, ma che sono sotto accusa per aver munito Bashar al Assad di gas letale sparato contro i civili. Resta il fatto che gli osservatori ONU non hanno prove che il gas sarino che a Ghouta ha ucciso circa 1500 persone, inclusi 426 bambini, sia di provenienza inglese o tedesca.

Nel difendere il governo tedesco dalle accuse di aver venduto tra il 2002 e il 2006 oltre 100 tonnellate di "dual-use" chemicals, la cancelliera Angela Merkel ha dichiarato lo scorso 18 Settembre alla tv pubblica ARD che non c’è alcuna prova che i materiali in questione fossero utilizzati a scopi militari. In questo caso si trattava di fluoruro e cloruro di idrogeno.

Il secondo "agente fumogeno" è il Regno Unito. LIndependent lo scorso 2 Settembre ha rivelato che il ministro per il commercio, Vince Cable, oltre un anno fa (il 17 e 18 gennaio dl 2012) aveva approvato due licenze per l’export di precursori chimici alla Siria quando nel paese era già in corso la guerra civile. Le licenze in questione erano state revocate in seguito al bando sull’export e alle sanzioni alla Siria varate dall’UE nel maggio 2012.

A beneficiare delle licenze valide sei mesi è stata una compagnia che il ministro non ha voluto nominare “perché - ha spiegato un portavoce del ministero - violerebbe il vincolo di confidenzialità con la compagnia responsabile dell’export”. Ma la commissione parlamentare della Camera dei Comuni per il controllo sull’export delle armi lo ha obbligato a rendere noto il nome del ‘brand’ responsabile entro il prossimo 4 ottobre.

Omertà a parte, le dichiarazioni rese del ministro sono state definite “contraddittorie” dagli MPs della House of Commons. Nell’aprile scorso Cable aveva indicato che “una parte” del carico di fluoruro di potassio e di fluoruro di sodio era stata esportata e che c’erano “ancora rimanenze da esportare” sotto la garanzia delle due licenze, chiarendo di non avere dati sulla quantità della merce già sdoganata.

In seguito, dopo che la storia delle licenze è esplosa sulle prime pagine dei giornali, sia il ministero dell’Industria e del Commercio che Downing Street hanno ufficialmente dichiarato che il carico in questione non è mai stato esportato verso un paese mediorientale in rivolta.

Mentre in questi giorni la diplomazia in doppiopetto si specchia nello schermo dei media, le compagnie chimiche lavorano, producono, esportano. Ma si tratta di un export che non si può controllare con facilità.
Le multinazionali chimiche nel Regno Unito non sono migliaia, sono poche e ben note. Solo alcune: Basf Chemicals, Dow Chemicals, Bayer, Shell Chemicals, DuPont, ExxonMobil, accompagnate dalle relative controllate e firme minori.

Sebbene operino su scala industriale globale, non si può dire che producano armi chimiche, ovviamente. Ad esempio, un quintale di fluoruro di sodio non è un’arma chimica in sé e questo rende la questione dell’uso e dell’export di questi materiali molto fumosa perché vengono utilizzati su scala industriale come gas tossici anti-parassitari per l’agricoltura o come solventi per l’alluminio per costruzioni.

Certo qualche quintale di Fluoruro di sodio in viaggio verso la Siria avrebbe dovuto destare i sospetti di qualcuno, ma non degli ispettori della Customs & Excise, l’ufficio centrale della dogana britannica (organo governativo che controlla ed amministra le licenze export) il quali hanno dichiarato che nessuno dei materiali in questione ha lasciato la Gran Bretagna sotto le "licenze Cable".

Resta la "deadline" del 4 Ottobre. Le vie d’uscita per il ministro sono tre: fare il nome della compagnia, negare che l’export sotto le due licenze sia mai avvenuto, oppure usare armi di distrazione di massa perché il ‘chemical gate’ evapori tra le daily news.

Nelle ultime settimane il Business Secretary offre pane per i denti affilati dei giornalisti all’inseguimento delle breaking news: il ministro attacca "l’orribile" governo Tory al congresso del Liberal Democratici; si schiera in favore degli immigrati “una risorsa economica per il paese”, poi sostiene la land tax per i proprietari d’immobili: notizie fresche, altro che export illegale di armi chimiche alla Siria e Commissioni parlamentari...

Adesso è di come Vincent tenta di rubare la poltrona a leader dei Lib Dem Nick Clegg, che bisogna parlare, un nuovo rush della carriera del Business Secretary passata anche per la Shell dove dal 1995 al ‘97 ha ricoperto la carica di Chief Economist: che sia stato il caso, oppure l’anello di congiunzione tra politica e cattive compagnie. Entrambi vendono fumo; e in grandi quantità.


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