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di Michele Paris
Tra i più accesi sostenitori della presunta battaglia per la democrazia in corso da oltre due anni in Siria spicca uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente: il regno Wahabita dell’Arabia Saudita. Se la monarchia assoluta del Golfo Persico continua ad operare attivamente per rimuovere un regime, come quello di Assad, da loro definito dittatoriale e intento a reprimere senza scrupoli la propria popolazione, le condizioni politiche, sociali e giudiziarie del regno non collocano certo il secondo produttore di petrolio del pianeta tra i modelli democratici. Ciononostante, il regime saudita continua ad essere tra i meno esposti alle pressioni internazionali per migliorare il rispetto dei diritti umani entro i propri confini.
A mettere in piazza una delle scomode realtà del sistema saudita, così come l’ipocrisia della retorica occidentale in merito alla promozione dei valori democratici, è stato un reportage pubblicato questa settimana dal quotidiano libanese Al Akhbar. Nel lungo articolo si cerca di fare luce su alcuni dei meccanismi repressivi del regime di Riyadh attraverso un’indagine sui detenuti politici che popolano le carceri del regno.
Le difficoltà incontrate dall’autore della ricerca sono state molteplici a causa della chiusura del paese mediorientale e dell’estrema segretezza con cui vengono attuate le politiche relative alla “sicurezza nazionale”. In primo luogo, è tutt’altro che certo il numero di prigionieri politici attualmente ospitati nelle carceri saudite. Svariati resoconti giornalistici indicano numeri estremamente diversi, che vanno dai duemila ai 40 mila detenuti, anche se alcuni attivisti locali stimano un totale di oltre 30 mila.
Waleed Abu al-Khair, fondatore dell’organizzazione indipendente Monitor of Human Rights in Saudi Arabia, afferma che è impossibile conoscere il numero esatto, poiché in questo paese esistono numerose carceri segrete. Inoltre, le informazioni sui detenuti vengono tenute nascoste non solo alle associazioni umanitarie ma spesso anche ai loro stessi familiari.
Secondo le autorità saudite, i detenuti politici sarebbero poco più di 2.300 e, ovviamente, essi non sono classificati come tali ma considerati indistintamente “terroristi”. Secondo al-Khair, coloro che effettivamente avrebbero legami con al-Qaeda o altre organizzazioni fondamentaliste violente sono solo una parte dei detenuti e nemmeno la più numerosa. Oltre a costoro ci sono infatti almeno altre due categorie di detenuti e cioè i “riformisti” - che si battono per la creazione di una monarchia costituzionale - e gli attivisti per i diritti umani. Le autorità, in definitiva, “non sostengono mai di avere arrestato riformatori o attivisti per i diritti umani, bensì sempre terroristi”.
Oltre a nascondere la costante repressione ai danni di chiunque venga percepito come una minaccia al regime, l’apparenza di una lotta condotta esclusivamente contro il terrorismo islamista serve anche ad occultare i legami quanto meno ambigui che Riyadh mantiene con i gruppi fondamentalisti stessi, di fatto appoggiati e finanziati nelle loro attività in paesi stranieri per promuovere gli interessi del regno, come in Cecenia o in Siria.
Nella ricostruzione fatta da Al Akhbar delle politiche per la “sicurezza nazionale” saudite emerge come una buona parte dell’attuale popolazione carceraria del paese sia stata arrestata un decennio fa, in particolare in seguito all’esplosione di una ribellione interna, mentre solo negli ultimi anni è stato creato un apposito apparato pseudo-legale culminato nelle recenti leggi “anti-terrorismo”.
La monarchia saudita deve fare i conti soprattutto con la persistente inquietudine che attraversa le proprie province orientali dove vive una consistente e repressa minoranza sciita e dove si trovano ingenti giacimenti petroliferi. Il timore del contagio a queste zone delle proteste scoppiate nel 2011 nel Bahrain spinse anche il governo di Riyadh a inviare le proprie forze armate nel paese vicino per reprimere nel sangue la ribellione contro la casa regnante sunnita.
Tra le poche notizie che filtrano dall’Arabia Saudita, negli ultimi mesi ce ne sono state alcune che hanno confermato come la repressione del dissenso prosegua senza soste. Solo nel corso dell’estate, ad esempio, sette attivisti locali sono stati condannati fino a dieci anni di carcere per avere espresso le proprie opinioni sui social media. Tra le vicende riportate dalla stampa, vanno ricordate anche quelle di alcuni noti difensori dei diritti umani finiti agli arresti, assieme a decine di manifestanti che lo scorso mese di luglio chiedevano notizie sui loro familiari in carcere, spesso senza processo o addirittura dopo avere già scontato la loro pena.
La mano pesante delle autorità saudite si è fatta sentire specialmente dopo la diffusione in molti paesi mediorientali e nordafricani della cosiddetta “Primavera araba” nei primi mesi del 2011. Per prevenire contestazioni sul proprio territorio, le forze di sicurezza hanno così intensificato la repressione, soffocando sul nascere e in maniera violenta qualsiasi manifestazione di protesta e arrestando chiunque fosse anche solo sospettato di avere criticato il regime o avesse chiesto pacificamente delle riforme per il paese.
In Arabia Saudita è comunque la situazione generale dei diritti umani ad essere estremamente preoccupante. Svariati rapporti di organizzazioni internazionali hanno messo in luce in questi anni come nel regno siano diffuse, tra l’altro, violenze e discriminazioni contro le donne, traffico di persone, violazioni sistematiche dei diritti dei minori ma anche dei lavoratori e della libertà religiosa.
Di fronte all’evidenza di questa inquietante macchina della repressione, l’Arabia Saudita non viene punita in nessun modo dalla comunità internazionale. Al contrario, grazie soprattutto alle proprie riserve petrolifere e al ruolo di garante degli interessi occidentali in Medio Oriente, essa figura tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti e dei governi europei. Oltre a garantire a Riyadh puntuali forniture degli armamenti più sofisticati, Washington ostenta spesso la partnership con il regno nell’ambito delle proprie campagne imperialiste nascoste dietro la retorica umanitaria e dei diritti democratici, come è avvenuto in Libia e sta avvenendo in Siria.
Secondo l’autore dell’indagine di Al Akhbar, nonostante sia ampiamente nota la situazione delle libertà politiche e sociali nel regno Wahabita, quest’ultimo gode del raro privilegio di non ricevere praticamente alcuna critica da parte dei governi occidentali, potendo così non solo “violare impunemente norme e convenzioni internazionali”, ma anche “svolgere in maniera aggressiva un ruolo di spicco nel condannare altri paesi della regione per i loro abusi”.
Infatti, come ha spiegato alla stessa testata libanese il ricercatore di Human Rights Watch per l’Arabia Saudita e la Giordania, Adam Coogle, tutto quello che il Dipartimento di Stato americano o l’Unione Europea esprimono nei confronti delle pratiche repressive di Riyadh è al massimo “preoccupazione” ma mai un’esplicita condanna.
Per Sevag Kechichian di Amnesty International, infine, i motivi della “copertura” garantita dagli USA e dai loro alleati all’Arabia Saudita sono chiarissimi e hanno a che fare “con il petrolio, con l’influenza esercitata nella regione e con la stretta partnership che la lega all’Occidente fin dai tempi della Guerra Fredda”. Questi sono alcuni dei motivi principali per cui una monarchia assoluta e oscurantista come quella saudita, qualsiasi abuso commetta, continua ad essere a tutt’oggi “praticamente intoccabile”.
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di Mario Lombardo
Le rivelazioni legate alle attività incostituzionali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) stanno continuando incessantemente in queste settimane nonostante l’attenzione dei media di tutto il mondo sia concentrata sulla crisi in Siria. La più recente notizia relativa all’indifferenza dell’NSA per le più normali regole democratiche e della privacy è stata diffusa martedì e descrive come l’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, abbia avuto accesso alle informazioni telefoniche di migliaia di utenti in contravvenzione anche delle già deboli limitazioni imposte dalla legge degli Stati Uniti.
Grazie al "Freedom of Information Act", una serie di documenti riservati sono stati finalmente declassificati in seguito ad una richiesta presentata dall’American Civil Liberties Union e dall’Electronic Frontier Foundation, tra cui un atto ufficiale del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) - incaricato di valutare e autorizzare segretamente le richieste di intercettazione sottoposte dalle varie agenzie governative - insolitamente critico dell’operato dell’NSA.
Nel documento, il giudice del FISC Reggie Walton rimprovera l’agenzia per avere setacciato dati telefonici di migliaia di americani senza ragione e in violazione delle esili norme sulla privacy fissate dallo stesso tribunale. Il periodo di tempo entro il quale ciò è avvenuto va dal maggio del 2006 al gennaio del 2009.
La condotta illegale degli agenti dell’NSA sarebbe stata rilevata dal Dipartimento di Giustizia che ha poi segnalato i fatti al FISC. Come fa notare eufemisticamente il Washington Post, il fatto che i vertici dell’NSA non abbiano mosso un dito per impedire questa ennesima violazione della privacy dei cittadini contraddice le loro pretese di condurre scrupolosi controlli interni per garantire la messa in atto di operazioni esclusivamente “legali”.
Le anomalie riscontrate dal Dipartimento di Giustizia di Washington su cui si basa il documento firmato dal giudice Walton riguardano la compilazione da parte dell’NSA di una lista di quasi 18 mila numeri di telefono di individui potenzialmente collegati a minacce alla sicurezza nazionale che venivano confrontati con le conversazioni di praticamente tutti gli americani intercettate ogni giorno.
Secondo il FISC, l’NSA aveva creato la suddetta lista di numeri da tenere sotto osservazione senza prestare la dovuta attenzione ai limiti di legge, vale a dire senza che vi fosse un “ragionevole sospetto” che gli stessi numeri telefonici fossero collegati ad attività terroristiche.
Per il giudice Walton, infatti, solo il 10% di queste utenze sollevavano dubbi legittimi di terrorismo, mentre gli altri erano finiti sotto la lente d’ingrandimento dell’NSA senza ragione o, più probabilmente, perché relativi a persone considerate una “minaccia” per la sicurezza del paese a causa di attività non legate al terrorismo e quindi intercettate in maniera illegittima anche secondo gli standard del governo americano.
Le critiche del giudice del FISC rivelano un sistematico superamento dei limiti imposti all’NSA, tanto che “le procedure per la difesa della privacy non hanno mai funzionato pienamente”, così che gli agenti hanno avuto regolarmente accesso ai dati telefonici “in violazione degli ordini del Tribunale”. Questa considerazione smentisce clamorosamente le dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti nelle quali è stato più volte assicurato lo scrupoloso rispetto dei limiti fissati dal governo e dal Congresso nella raccolta di informazioni sensibili.
Le irregolarità, come è facile prevedere, non hanno riguardato solo la questione sollevata dal giudice Walton, visto che un’indagine interna dell’NSA iniziata nel febbraio del 2009 e condotta in collaborazione con il Dipartimento di Stato aveva rilevato svariate altre infrazioni alle norme.
Le regole violate in questa circostanza dall’NSA, oltretutto, risultano esse stesse quanto meno discutibili e sono state al centro di accese polemiche nei mesi scorsi in quanto autorizzano la raccolta e la conservazione di “metadati” telefonici di qualsiasi utente americano o straniero.
La giustificazione addotta per queste attività illegali dal direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, risulta a dir poco assurda, come scrisse lo stesso giudice Walton, e cioè che il personale dell’agenzia riteneva che gli svariati database dei numeri telefonici a loro disposizione non fossero coperti dalle stesse norme della privacy e, quindi, quello contenente i già ricordati 18 mila numeri poteva essere consultato liberamente.
Un esponente dell’intelligence americana sentito nei giorni scorsi dal New York Times ha affermato invece, altrettanto assurdamente, che il comportamento illegale dell’NSA condannato nei documenti del FISC appena pubblicati non sarebbe stato intenzionale, bensì conseguenza soltanto di incomprensioni dovute a complesse problematiche di natura tecnica.
Come ha confermato in questi mesi una lunga serie di rivelazioni emerse grazie all’ex contractor Edward Snowden, L’NSA opera in realtà pressoché integralmente al di fuori non solo di qualsiasi principio democratico ma anche delle stesse norme di legge create appositamente dal Congresso americano per legittimare il calpestamento delle garanzie costituzionali in nome della “guerra al terrore”.
A mettere in luce l’aspetto più inquietante della vicenda è stato lo stesso giudice del FISC, Reggie Walton, il quale nel suo parere del marzo 2009 esprimeva un profondo scetticismo circa l’utilità del programma di sorveglianza dell’NSA, sottolineando come simili operazioni fossero sfociate in appena tre “indagini preliminari” dell’FBI basate su intercettazioni raccolte nei modi descritti.
Quest’ultimo commento conferma dunque ancora una volta come l’apparato degno di uno stato di polizia creato da oltre un decennio negli Stati Uniti non abbia come scopo principale quello di combattere o prevenire minacce terroristiche, ma di esercitare un controllo pervasivo sulla popolazione per contrastare qualsiasi minaccia ad un governo sempre più screditato.
Le più recenti rivelazioni diffuse martedì seguono di meno di un mese la pubblicazione di un altro parere del Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera, questa volta risalente al 2011 e nel quale veniva nuovamente criticata l’NSA per ulteriori violazioni della legge in relazione ad un diverso programma di sorveglianza.
La settimana scorsa, infine, il britannico Guardian e il New York Times avevano pubblicato alcuni documenti ottenuti da Snowden che dimostravano come l’NSA abbia la facoltà di abbattere ogni protezione della privacy teoricamente garantita nelle comunicazioni Internet, essendo riuscita da tempo a neutralizzare i sistemi di crittografia comunemente usati sia negli USA che a livello internazionale.
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di Michele Paris
A seguito della proposta lanciata dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare di fermare l’aggressione militare americana contro la Siria, il governo francese ha annunciato martedì di volere trasformare l’ipotesi di porre l’arsenale chimico di Damasco sotto il controllo internazionale in una risoluzione da presentare al Consiglio di Sicurezza ONU. Le intenzioni di Parigi, però, non sono dirette ad evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente, bensì a gettare basi teoricamente più solide per un intervento armato contro il regime di Assad, legittimato in apparenza da un mandato autorevole come quello delle Nazioni Unite.
A dare notizia del proposito della Francia è stato martedì il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, il quale ha fatto sapere che il governo Socialista redigerà un testo che, a suo dire, dovrebbe servire a “misurare le intenzioni” di Russia e Cina che, dopo avere finora impedito l’approvazione di qualsiasi misura per facilitare la rimozione di Assad, hanno dato la loro approvazione al piano sul monitoraggio delle armi chimiche siriane.
Come è noto, quest’ultimo era scaturito lunedì da una frase del segretario di Stato americano, John Kerry, che ha avuto conseguenze inaspettate. Rispondendo alla domanda di un reporter nel corso di una conferenza stampa a Londra, il capo della diplomazia USA aveva cioè affermato, con ogni probabilità in maniera retorica, che per evitare un attacco contro il proprio paese, Assad avrebbe dovuto “consegnare ogni sua arma chimica alla comunità internazionale entro la prossima settimana”.
Sul volo di ritorno dalla Gran Bretagna, Kerry è stato poi raggiunto telefonicamente dal suo omologo russo Lavrov che gli ha comunicato la nuova proposta, rivelata pubblicamente ancora prima dell’arrivo dell’ex senatore democratico negli Stati Uniti.
Con una mossa che ha allo stesso tempo messo in imbarazzo un governo di Washington sempre più in confusione e offerto una via d’uscita alla Casa Bianca quanto meno per ritardare un’operazione militare profondamente impopolare, Lavrov ha annunciato di volere lavorare con Damasco per studiare un meccanismo che porti l’arsenale siriano sotto la supervisione ONU, nonché alla sua distruzione finale.
Il piano russo è stato immediatamente accettato dal ministro degli Esteri di Assad, Walid al-Moallem, e poco dopo ha ricevuto da più parti una sostanziale approvazione, a cominciare da Teheran e Pechino ma anche da svariati governi occidentali dimostratisi molto cauti nei giorni scorsi nei confronti delle mire belliche statunitensi.
Le diverse motivazioni dietro l’accettazione della proposta Lavrov da parte di sostenitori e oppositori di Assad sono apparse però quasi subito evidenti, gettando più di un’ombra sulle probabilità di riuscita del piano.
Ciò è risultato chiaro proprio dalla presa di posizione di martedì del ministro degli Esteri francese Fabius, il cui proposito di ratificare con spirito bipartisan un piano apparentemente condiviso da tutte le parti in causa attraverso un voto ONU è stato contraddetto dal probabile contenuto che avrà la risoluzione a cui si sta lavorando a Parigi.
Il testo prefigurato da Fabius, infatti, dovrebbe finire per condannare ugualmente il “massacro del 21 agosto [a Ghouta, presso Damasco, con armi chimiche] commesso dal regime siriano” anche senza prove concrete della responsabilità di quest’ultimo.
Inoltre, se Assad non dovesse adeguarsi alle indicazioni contenute nella risoluzione, sarebbero previste “serie conseguenze”, cioè verrebbe giustificato l’uso della forza, come accadde al regime di Saddam Hussein nonostante la collaborazione mostrata con gli ispettori ONU alla ricerca di armi di distruzione di massa in Iraq.
In sostanza, la Francia e l’Occidente in generale sarebbero pronti a sfruttare ogni possibile controversia o incertezza nel processo di smantellamento dell’arsenale bellico siriano per puntare il dito contro un regime non disposto a collaborare con la comunità internazionale, così da avere la copertura necessaria per condurre un’operazione militare volta al cambio di regime che Parigi e Washington stanno faticando in questi giorni a giustificare.
Tale eventualità, anche dando per scontato che Damasco e i vari governi coinvolti riescano a raggiungere un difficile accordo, sembra tanto più probabile quanto appare complesso e pieno di ostacoli il processo di individuazione, catalogazione e trasferimento delle armi chimiche in possesso di Assad.
Se, inoltre, le condizioni imposte dall’Occidente per intraprendere un percorso di questo genere dovessero prevedere il passaggio attraverso una risoluzione ONU come quella prospettata dal ministro francese Fabius, Russia e Cina ricorrerebbero con ogni probabilità al loro diritto di veto, facendo naufragare l’intero progetto.
L’obiettivo immediato dell’amministrazione Obama, in ogni caso, sembra essere quello di impedire che il processo messo in moto dalle parole incaute di Kerry finisca per togliere l’opzione militare dal dibattito in corso sulla Siria. Inizialmente, addirittura, dal Dipartimento di Stato erano giunte tempestive rettifiche alla frase del Segretario per chiarire come l’ipotesi che Assad consegni le proprie armi chimiche per evitare la guerra fosse puramente “retorica”.
In seguito alla mossa di Lavrov, tuttavia, questa proposta è diventata in fretta la notizia del giorno, con politici ed esponenti di governi di mezzo mondo che hanno espresso almeno la loro disponibilità a valutare un accordo con Damasco negoziato dal Cremlino.
Numerosi membri del Congresso americano, ad esempio, hanno preso la palla al balzo manifestando il loro ottimismo per una soluzione pacifica, soprattutto coloro che sembravano intenzionati a votare contro la richiesta di autorizzazione all’uso della forza in Siria e che temevano di essere criticati dalla Casa Bianca per non avere saputo rispondere in maniera ferma ad un presunto attacco con armi chimiche.
Lo stesso presidente Obama, alla fine, ha preso atto della nuova situazione e nella serata di lunedì ha anch’egli definito “fattibile” la proposta Lavrov. L’inversione di marcia del presidente è giunta significativamente al termine di una giornata trascorsa nel tentativo di convincere i “congressmen” americani ad approvare l’aggressione contro la Siria e alla sua frenata deve avere contribuito anche la pubblicazione di ulteriori sondaggi sui media americani che hanno evidenziato nuovamente la freddezza della popolazione per un’altra guerra imperialista nascosta dietro motivazioni umanitarie.
Obama ha comunque tutt’altro che abbandonato i propositi di guerra, tanto che alla CNN ha chiarito come un accordo accettabile sulle armi chimiche di Assad possa essere raggiunto solo mantenendo viva la “minaccia militare” contro Damasco.
Il primo effetto concreto dell’ipotesi circolata lunedì è stato così il rinvio del voto previsto per mercoledì al Senato americano sull’autorizzazione all’uso della forza in Siria secondo il testo approvato settimana scorsa dalla commissione Esteri.
Ad annunciarlo è stato il leader democratico di maggioranza, Harry Reid, dopo avere incassato nel corso della giornata alcune defezioni di compagni di partito contrari alla guerra e in previsione di una umiliante sconfitta per Obama nel ramo del Congresso dove i numeri sembravano essere più favorevoli alla Casa Bianca.
Gli sforzi del governo americano per giungere ad un intervento militare non saranno comunque interrotti nei prossimi giorni, durante i quali è facile prevedere l’insorgere di “complicazioni” al piano Lavrov o di novità sul campo che accelererebbero nuovamente i preparativi di guerra.
La propaganda di Washington, perciò, non sembra dover cessare in seguito ai nuovi sviluppi favoriti dalla Russia, come ha confermato lunedì la consigliera per la sicurezza nazionale di Obama, il falco degli interventi umanitari Susan Rice. In un intervento presso il think tank "New America Foundation", quest’ultima ha infatti ribadito la necessità di un’aggressione militare contro la Siria facendo riferimento cinicamente ai bambini morti nell’attacco a Ghouta del 21 agosto condotto con buone probabilità proprio dai “ribelli” appoggiati dall’Occidente.
Nella stessa uscita pubblica, l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite ha inoltre affermato che l’uso di armi chimiche deve essere punito anche perché potrebbe diventare “una minaccia diretta per il nostro principale alleato nella regione”, vale a dire Israele.
Curiosamente, queste ultime parole della Rice sono giunte poco dopo la rivelazione da parte del network Russia Today di una possibile nuova provocazione dei “ribelli” siriani, i quali starebbero valutando l’ipotesi di lanciare un attacco con armi chimiche contro Israele da località sotto il controllo del regime, così da far ricadere ancora una volta la colpa su Assad e spianare definitivamente la strada verso una guerra totale nel paese mediorientale.
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di Michele Paris
Le sempre più inconsistenti basi su cui si fondano le accuse degli Stati Uniti contro il regime siriano di avere utilizzato armi chimiche in un attacco contro i “ribelli” il 21 agosto scorso nei pressi di Damasco, sono state ulteriormente screditate nella giornata di lunedì dalle dichiarazioni dell’insegnate belga Pierre Piccinin, compagno di prigionia per cinque mesi del reporter della Stampa, Domenico Quirico, nel paese mediorientale.
Poco prima dell’arrivo di quest’ultimo in Procura a Roma, Piccinin ha rilasciato un’intervista alla radio belga RTL nella quale, oltre a raccontare alcuni episodi del loro sequestro nelle mani degli integralisti islamici che compongono gran parte dell’opposizione al regime appoggiata dall’Occidente, ha sostenuto di essere certo del fatto che non siano state le forze di Bashar al-Assad ad avere fatto ricorso “al gas sarin o a un altro gas nella periferia di Damasco”.
Piccinin afferma di averne la certezza, dal momento che lui e Quirico hanno avuto modo di ascoltare direttamente una conversazione dei ribelli su questo argomento. La testimonianza dello storico belga appare estremamente rilevante, dal momento che egli, così come l’inviato della stampa, aveva manifestato un entusiasmo iniziale per i “ribelli” siriani. Piccinin ha evitato di fornire ulteriori dettagli in attesa degli interrogatori della Procura ma ha definito la sua presa di posizione sull’innocenza di Assad come “un dovere morale”.
Dopo essere venuti a conoscenza delle responsabilità dei “ribelli” nei fatti di Ghouta, serviti a Washington per scatenare una campagna propagandistica volta a legittimare un intervento armato in Siria, il 31 agosto Piccinin e Quirico hanno appreso dei piani di guerra dell’amministrazione Obama. I due, perciò, avevano “la testa in fiamme”, perché “prigionieri laggiù con questa informazione [dell’innocenza del regime] senza la possibilità di diffonderla”.
Le dichiarazioni di Piccinin non devono essere state particolarmente gradite dal direttore della Stampa, Mario Calabresi, né dallo stesso Quirico, il quale è successivamente intervenuto cercando di gettare acqua sul fuoco pur confermando le parole del compagno di prigionia. Il giornalista del quotidiano torinese ha ribadito di avere ascoltato la conversazione sull’attacco con armi chimiche nella quale si diceva chiaramente come l’operazione fosse stata condotta dai “ribelli come provocazione per indurre l’Occidente a intervenire militarmente”. Allo stesso tempo, Quirico ha affermato di non avere elementi per giudicare o appurare la veridicità di quanto ascoltato, aggiungendo che sarebbe “folle dire che io sappia che non è stato Assad a usare i gas”.
Se gli scrupoli di Quirico appaiono legittimi, la sua testimonianza diretta rimane un elemento di estrema rilevanza, soprattutto alla luce delle “prove” presentate dagli Stati Uniti e dai loro alleati a sostegno della tesi opposta e che consistono, tra l’altro, in filmati realizzati dai “ribelli” e in dubbie intercettazioni telefoniche frutto degli sforzi dell’intelligence israeliana.
La liberazione di Quirico e Piccinin è stata poi commentata dai vertici del cosiddetto Esercito Libero della Siria (ELS) che ha scaricato le responsabilità del rapimento sul Fronte al-Nusra, una delle principali formazioni integraliste affiliata ad al-Qaeda che compongono la galassia dell’opposizione anti-Assad. Il portavoce dell’ELS, secondo il quale anche il gesuita sostenitore del regime Paolo Dall’Oglio sarebbe nelle mani di al-Nusra, ha poi cercato di confondere le idee all’opinione pubblica internazionale, sostenendo che questo gruppo fondamentalista sarebbe “estraneo alla rivoluzione”, in quanto “più vicino al regime che alle opposizioni che combattono Assad”.
I tentativi di ripulire la propria immagine da parte dell’ELS sono però quanto meno patetici, visto che questa organizzazione screditata opera a fianco dei raggruppamenti affiliati al terrorismo internazionale sunnita, di fatto sfruttati anche dall’Occidente, dalla Turchia e dalle monarchie assolute del Golfo Persico come avanguardia nella lotta per la rimozione di Assad.
In maniera ancora più assurda e nel tentativo disperato di occultare quella che appare come una vera e propria alleanza tra, da una parte, i “ribelli” secolari e l’Occidente e, dall’altra, guerriglieri gravitanti nell’orbita di al-Qaeda, il portavoce dell’ELS ha infine sostenuto che padre Dall’Oglio sarebbe stato catturato “per assecondare una richiesta da parte di Damasco finalizzata a screditare la rivoluzione”.
Ciò che appare inesorabilmente screditata, in realtà, non è solo la stessa presunta “rivoluzione” in corso in Siria ma anche e sempre più la pretesa degli Stati Uniti sia di essere in possesso di prove certe della responsabilità di Assad nell’attacco con armi chimiche a Ghouta sia di volere condurre un’operazione militare contro la Siria di portata limitata.
Sulla base delle false accuse denunciate anche da Pierre Piccinin, infatti, l’amministrazione Obama sta cercando un’autorizzazione formale del Congresso di Washington per portare a termine un’aggressione militare a tutto campo che ben poco ha a che vedere con l’uso di armi chimiche e che mira invece a provocare un cambio di regime a Damasco.
Come ha confermato un articolo pubblicato domenica dal Los Angeles Times, il Pentagono starebbe ultimando i preparativi per uno sforzo bellico di ampia portata, con bombardamenti previsti per un periodo di tempo più lungo rispetto a quanto affermato pubblicamente dal governo statunitense.
A parlare al quotidiano californiano sono stati anonimi ufficiali dell’esercito, secondo i quali la Casa Bianca avrebbe inoltre chiesto al Dipartimento della Difesa di “espandere la lista degli obiettivi da colpire”, oltre ai 50 inizialmente selezionati.
I piani del Pentagono confermano l’imminenza di una guerra dalle conseguenze rovinose e con un numero elevatissimo di vittime. In particolare, la forza di fuoco americana si baserebbe sull’uso di missili Tomahawk lanciati da cinque navi da guerra già posizionate nel Mediterraneo e su possibili incursioni di aerei militari. Lo scopo della guerra, in definitiva, risulta essere quello di “degradare” le possibilità di difesa del regime di Damasco, in preparazione di ulteriori iniziative tutt’altro che da escludere come l’imposizione di una no-fly zone o, addirittura, un’invasione con truppe di terra.
Secondo i media americani, la decisione di utilizzare maggiore forza rispetto ai piani originari servirebbe ad assicurare agli USA l’effettiva distruzione dei bersagli eventualmente mancati nella prima fase delle operazioni e a punire possibili ritorsioni da parte delle forze regolari siriane. In altre parole, la più che legittima difesa di Assad contro un’aggressione criminale verrebbe utilizzata da Washington per infliggere una nuova e ancora più dura punizione all’esercito e alla popolazione della Siria.
Assieme al procedere della macchina della propaganda americana continuano in ogni caso ad emergere anche le contraddizioni di un’operazione che viola ogni norma del diritto internazionale. Se il governo americano nel fine settimana ha diffuso una serie di filmati di dubbia autenticità che mostrano alcune vittime delle armi chimiche a Ghouta senza provare minimamente chi siano i responsabili dell’accaduto, gli stessi vertici dell’amministrazione Obama hanno nuovamente dovuto ammettere di non avere alcuna certezza circa la colpevolezza di Assad.
In un blitz nei talk show trasmessi dalle principali reti televisive USA nella giornata di domenica, ad esempio, il capo di gabinetto della Casa Bianca, Denis McDonough, ha riconosciuto che il suo governo non dispone di “prove irrefutabili che vadano al di là di ogni ragionevole dubbio” sui fatti di Ghouta.
Anche all’interno della comunità dell’intelligence a stelle e strisce, d’altra parte, non sembra esserci stata alcuna unanimità di giudizio sull’attacco del 21 agosto con gas sarin o altri agenti chimici letali. La versione propagandata dalla Casa Bianca e dagli uomini di Obama alla stampa e nelle varie audizioni al Congresso nei giorni scorsi, come ha rivelato un’indagine del giornalista americano Gareth Porter uscita lunedì sul sito web dell’agenzia di stampa IPS News, non è infatti basata sulla effettiva valutazione dei servizi segreti ma riflette piuttosto una decisione presa in maniera unilaterale dall’amministrazione democratica.
In sostanza, scrive Porter, “la Casa Bianca ha selezionato quegli elementi delle analisi dell’intelligence che supportavano i piani dell’amministrazione di colpire militarmente il governo siriano e ha escluso invece quelli andavano contro questi stessi piani”.
L’amministrazione Obama, in definitiva, aveva da tempo programmato un’aggressione contro la Siria in attesa di un’occasione propizia, come lo è stato appunto il presunto attacco con armi chimiche a Ghouta con ogni probabilità opera dei “ribelli” stessi, in seguito alla quale ha presentato una propria valutazione basata sulla manipolazione degli stessi rapporti delle agenzie di intelligence americane.
Ancora più delle manovre che portarono all’invasione e alla devastazione dell’Iraq nel 2003, dunque, un’amministrazione Obama sempre più isolata e screditata sta procedendo in maniera spedita verso un’altra guerra criminale dalle conseguenze incalcolabili esclusivamente sulla base di menzogne e prove senza fondamento, così da abbattere un regime sgradito ed espandere la propria influenza nella regione mediorientale.
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di Mario Lombardo
Le manovre e i discutibili colpi di mano messi disperatamente in atto alla vigilia delle elezioni generali di sabato scorso non sono servite al Partito Laburista australiano ad evitare una chiara sconfitta e il ritorno al potere del Partito Liberale in una coalizione di centro-destra. I risultati ufficiali hanno così decretato il netto successo di quest’ultima che potrà contare alla Camera bassa su una maggioranza di 85 seggi sui 150 totali contro i circa 54 ottenuti dai laburisti.
Negli ultimi tre anni il “Labor” è stato segnato da conflitti intestini che hanno prodotto due cambi al vertice del partito e del governo in seguito ad altrettanti golpe interni. Dapprima, nel 2010 Julia Gillard era riuscita ad estromettere l’allora primo ministro Kevin Rudd in un’operazione appoggiata da Washington per bloccare sul nascere i timidi sforzi del leader laburista di favorire una convivenza pacifica tra Stati Uniti e Cina in Estremo Oriente.
Successivamente, lo scorso mese di giugno lo stesso Rudd era stato clamorosamente riportato alla guida del partito di centro-sinistra e del governo di Canberra nell’estremo tentativo di evitare la prevedibile batosta alle urne. L’impopolare Gillard era stata così rimossa e sostituita con un leader che manteneva un qualche favore tra gli elettori soprattutto per le modalità anti-democratiche con cui era stato messo da parte tre anni prima.
Il crollo dei consensi per il Partito Laburista non è comunque legato esclusivamente agli eventi di questi ultimi anni. Come buona parte dei partiti di sinistra o centro-sinistra europei e nordamericani, anche il Labor australiano aveva visto crollare la propria credibilità tra la tradizionale base elettorale - lavoratori e classi più disagiate - già tra gli anni Ottanta e Novanta, con governi che avevano abbandonato i programmi di riforma sociale per mettere in atto politiche di liberalizzazione dell’economia.
Il ritorno al potere nel 2007 era stato dovuto perciò in gran parte alla profonda impopolarità del governo liberale-nazionale del premier John Howard, in particolare per il suo entusiastico appoggio alla “guerra al terrore” ideata dall’amministrazione Bush e la partecipazione alle invasioni di Afghanistan e Iraq. Nelle elezioni del 2010, infine, il Partito Laburista era riuscito a rimanere al potere creando un governo di minoranza la cui sopravvivenza è stata finora garantita da una manciata di parlamentari indipendenti.
Il premier uscente Rudd, in ogni caso, è riuscito a mantenere il suo seggio in Parlamento per lo stato del Queensland ma ha rapidamente riconosciuto la sconfitta a livello nazionale, sia pure meno pesante del previsto, e consegnato di fatto le redini del governo al leader del Partito Liberale, Tony Abbott.
Gli equilibri al Senato, invece, sono ancora tutti da verificare anche a causa di un complesso sistema elettorale. Il centro-destra australiano, però, dovrebbe avere una maggioranza meno netta nella Camera alta, dove oltretutto i nuovi eletti verranno insediati solo nel luglio del 2014.
Noto per le proprie posizioni estremamente conservatrici sulle questioni sociali, Abbott è stato per due volte ministro nei governi Howard e le descrizioni a lui riservate dai media internazionali non mancano di ricordare la sua ossessione per la forma fisica e gli studi in un seminario cattolico.
A dare una spinta decisiva alla sua candidatura è stata anche l’incessante campagna a suo favore e contro il Labor condotta dai giornali australiani facenti parte dell’impero mediatico di Rupert Murdoch. L’entusiasmo popolare per Abbott, d’altra parte, risulta estremamente limitato, come conferma il fatto che quasi tutti i sondaggi fino a pochi giorni dal voto indicavano livelli di gradimento superiori per Kevin Rudd nonostante l’avversione generale per il Partito Laburista.
In campagna elettorale, Abbott e il partner di coalizione dei liberali - il Partito Nazionale, tradizionalmente espressione dei proprietari terrieri - hanno promosso soprattutto due iniziative per la soppressione di altrettante misure adottate dal governo Gillard, la prima delle quali costantemente definita come “impopolare” dalla stampa ufficiale: una modesta quanto inefficace “super-tassa” sui profitti dei colossi estrattivi australiani e il mercato delle emissioni dei gas serra, ritenuto il più vasto al mondo dopo quello europeo.
Tra i punti centrali del suo programma elettorale, oltre alla riduzione del carico fiscale per la maggior parte delle imprese, c’è poi un costoso e controverso piano pubblico per finanziare permessi retribuiti dei genitori australiani fino ad un periodo di sei mesi e destinato ai redditi inferiori ai 135 mila dollari l’anno. Questo progetto è già stato fortemente criticato sia dalla comunità degli affari che da molti all’interno della coalizione di Abbott e finirà con ogni probabilità per essere messo rapidamente da parte.
Il già scarso appeal di Abbott tra la popolazione australiana fa prevedere infine una luna di miele particolarmente breve con gli elettori. Nelle scorse settimane, infatti, la pubblicazione di una serie di dati statistici ha prospettato un brusco rallentamento dell’economia del paese, scampata in gran parte alla crisi di questi anni grazie ad un vero e proprio boom estrattivo.
Quest’ultimo settore contribuisce per circa il 20% al prodotto interno lordo complessivo dell’Australia, impiega il 10% della forza lavoro e ammonta a oltre il 70% delle esportazioni. Il rallentamento della domanda cinese per le risorse del sottosuolo australiano ha già ridotto la crescita dell’economia al 2,6% su base annua nel mese di giugno, contro una crescita trimestrale media del 4% registrata nel corso del 2012.
Le previsioni indicano perciò una possibile recessione nel 2014, mentre la disoccupazione - attualmente al 5,7% - è destinata a salire in maniera significativa. Con queste prospettive, le voci che chiedono “riforme” per salvare i profitti delle grandi compagnie australiane si stanno moltiplicando e si tradurranno soprattutto in ulteriori misure di riduzione della spesa pubblica e di liberalizzazione del mercato del lavoro.
Sul fronte della politica estera, Abbott dovrà infine continuare a fare i conti con la contraddizione che ha caratterizzato gli anni del governo laburista, vale a dire la crescente dipendenza del business australiano dalla Cina e l’allineamento strategico del paese al tradizionale alleato americano.
Ad indicare possibili future tensioni con Washington è stata in questi giorni la presa di posizione del premier in pectore sull’imminente intervento militare in Siria, verso il quale Abbott ha mostrato maggiore freddezza rispetto a Rudd.
A livello generale, questa tornata elettorale in Australia è stata segnata dal continuo declino dei tradizionali partiti dell’establishment, evidenziato anche dal numero record di formazioni che hanno preso parte al voto. Secondo i dati della Commissione Elettorale, alla competizione di sabato hanno partecipato 54 partiti, contro i 24 del 2010, nonostante le complicate procedure fissate per la registrazione di un nuovo movimento politico.
Tra di essi, nelle elezioni federali era in corsa anche il Partito di WikiLeaks, costruito attorno alla popolarità del suo fondatore, Julian Assange, candidato per un seggio al Senato australiano. Il nuovo partito, anche a causa di scontri interni alla propria dirigenza, ha deluso le aspettative, ottenendo poco più dell’1% dei consensi su base nazionale. Lo stesso Assange, sempre costretto a rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra, a conteggi ufficiali ultimati dovrebbe rimanere escluso da uno dei sei seggi in palio nello stato di Victoria dove aveva deciso di candidarsi.