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di Fabrizio Casari
Il Senato uruguayano ha votato a maggioranza la legge che permette il consumo libero di marijuana e che, contestualmente, autorizza lo Stato a produrla e distribuirla. Stabilisce quote massime per la coltivazione privata e modalità della sua distribuzione attraverso la rete delle farmacie pubbliche e private, annunciando comunque la formazione di una autorità di controllo ad hoc e un registro dei consumatori con le più alte garanzie sul riserbo dei dati e l’osservanza rigida delle norme che tutelano la privacy già in vigore.
Il presidente José Mujica ha ribadito che l'obiettivo della riforma non è "diventare un Paese del fumo libero", ma piuttosto tentare un “esperimento al di fuori del proibizionismo, che è fallito". L’intenzione del governo di Montevideo, come più volte ripetuto dallo stesso Presidente Mujica, è quella di strappare al mercato illegale e, dunque, alle organizzazioni criminali che lo gestiscono, il traffico di sostanze stupefacenti a bassissimo rischio per la salute dei consumatori.
Proprio per sfidare le organizzazioni criminali, nell’intento evidente di affondarne il business, il prezzo pubblico della marijuana venduta legalmente nei circuiti farmaceutici sarà di un dollaro al grammo, concorrenziale quindi al prezzo richiesto dai venditori illegali. La destra si è opposta ed ha annunciato una raccolta di firme per indire un referendum abrogativo della legge appena votata, ma ad ogni modo l’impatto politico e culturale della legge è di assoluto spessore.
E’ infatti uno schiaffo violento alle politiche proibizioniste decise dagli Stati Uniti e inoculate via endovena al resto del mondo. In primo luogo sul piano culturale, perché riconosce il diritto individuale al consumo mentre colpisce lo spaccio illegale, con ciò evidenziando due profili antitetici che una scellerata concezione illiberale ha voluto ad ogni costo unificare. In secondo luogo perché chiude con la concezione del diritto all’uso del proprio corpo interpretata solo come una devianza sociale alla quale opporre repressione.
Sul piano politico l’importanza delle legge uruguayana è assoluta, giacché mette in discussione oltre vent’anni di concezione proibizionista che ha recato danni gravissimi. Il fallimento delle politiche proibizioniste, richieste manu militari proprio dal paese primo al mondo per consumo di oppiacei, è stato del resto lo sfondo ideologico e politico di una politica internazionale destinata alla riaffermazione del ruolo di gendarme mondiale statunitense. La loro attuazione ha tra l’altro permesso al governo USA di inserire la sua DEA in ogni paese e così controllare dall’interno e dall’esterno le attività di prevenzione e repressione delle diverse polizie internazionali.
L’incapacità di far rispettare le leggi proibizioniste all’interno degli Stati Uniti si è quindi trasformata nell’invasione delle legislazioni interne dei paesi dai quali le sostanze oppiacee arrivavano negli stessi USA. Nemmeno le prese di posizione di diversi economisti e sociologi, che hanno regolarmente evidenziato l’incongruenza delle politiche proibizioniste e il loro impatto economico negativo, sono servite ad aprire un dibattito approfondito sul tema, sempre più bandiera ideologica e sempre meno ragionamento politico.
Persino Milton Friedman, economista e fondatore della scuola dei Chicago Boys, icona liberista del turbo capitalismo finanziario, ricordava amaramente i drammatici costi sociali delle politiche proibizioniste, visto che, in conseguenza di questa guerra, gli Stati Uniti hanno moltiplicato per otto la propria popolazione carceraria, principalmente popolazione nera e latina con risorse economiche limitatissime. Lo stesso incremento di pene accessorie per consumatori e spacciatori, mentre non ha svolto nessuna funzione deterrente è servito a far lievitare verso l’alto il prezzo del prodotto e aumentando così ulteriormente il profitto della rete illegale che lo controlla.
Serve quindi una nuova linea di comprtamento. E’ chiaro infatti che un prodotto per il quale i consumatori sono centinaia e centinaia di milioni al giorno l’approccio non può essere repressivo e va invece affrontato con lucida laicità. E, in una lettura attenta del fenomeno, la questione della produzione e distribuzione dello stesso è questione primaria. Ove fosse garantita la vendita in forma legale, nessuno si rivolgerebbe alla micro o macro criminalità per procurarsela.
Tenendo invece il consumo di marijuana nell’area illegale, il prezzo del prodotto è cresciuto a dismisura e i proventi della filiera sono stati appannaggio esclusivo dei cartelli internazionali. Al punto che i profitti delle organizzazioni criminali sono spaventosamente cresciuti, rendendo possibili anche operazioni gigantesche di riciclaggio di denaro sporco, cui ogni struttura organizzata accede per costruire poderosi accantonamenti di denaro non tracciabile ma spendibile.
Basti pensare a come i narcos colombiani prima e quelli messicani ora, ormai giunti alla vetta della piramide delle organizzazioni criminali mondiali, abbiano costruito proprio sul business degli oppiacei il retroterra organizzativo e finanziario che li ha progressivamente trasformati da bande criminali in vere e proprie organizzazioni statuali parallele, capaci di combattere armi alla mano contro lo Stato, ridimensionandone persino il monopolio della forza, per poi addirittura innescare un processo di sostituzione dello Stato stesso (vedi Messico). Come ha giustamente affermato lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, “nella guerra alla droga gli americani c’hanno messo le narici, l’America Latina i cadaveri”.Del resto, mantenere in piedi una legislazione proibizionista è un business enorme e non solo le organizzazioni criminali in senso stretto hanno tratto profitto dall’illegalità del mercato. Durante gli anni ’80 gli Stati Uniti finanziarono con i proventi del traffico di droga ed armi la guerra d’aggressione al Nicaragua, finanziando e armando i terroristi Contras pur con il voto del Congresso che limitava fortemente l’utilizzo dei fondi pubblici.
Idem dicasi per diverse altre operazioni, tutte “covert action” implementate senza apparentemente risultare contabilmente registrate nei bilanci ufficiali della CIA e del Pentagono. Chi finanziava e come le operazioni del valore di centinaia di milioni di dollari?
La fine della guerra fredda e della “minaccia comunista” aveva bisogno di nuovi nemici per continuare ad alimentare l’apparato militar-industriale e l’industria dello spionaggio internazionale con il quale gli Stati Uniti hanno voluto mantenere il controllo militare e politico sul pianeta. Sono nati così i nuovi fenomeni del terrore internazionale da vendere all’opinione pubblica: l’Islam radicale, il narcotraffico, la violazione dei diritti umani e via elencando. E' grazie alla presunta guerra al narcotraffico che la Colombia è oggi il Paese con il maggior numero di soldati USA nel mondo, presenza che si rivela strategica non certo per il controllo del mercato deglli oppiacei, bensì per il controllo politico-militare del Sud America. Il Plan Colombia, infatti, era ed é il caposaldo dell'intervento statunitense per il controllo militare del Cono Sud.
Quanto alle ripercussioni su scala globale delle politiche proibizioniste in merito alla diminuzione del traffico, esse sono fortemente negative: i consumatori si sono moltiplicati e, di contro, l’industria che vive sull’illegalità del fenomeno si è ingigantita. Gli stessi recenti conflitti in Africa, a detta di molti osservatori, hanno come obiettivo il controllo delle rotte di commercializzazione delle sostanze.
E, per fare un esempio illuminante, se si vuol ritenere che la presenza statunitense in Afghanistan sia destinata solo a combattere i Talebani in quanto entità politico-militare integralista, sarà comunque utile tenere a mente come il paese asiatico sia uno dei primi produttori al mondo di oppiacei e che, nonostante la presenza delle forze armate USA la produzione è enormemente aumentata.
Dal momento che la capacità operativa dei trafficanti non può essere rimasta immune dalla presenza di migliaia i soldati occidentali in uno scenario di guerra, due sono i casi allora: o la forza militare è impotente contro il fenomeno, o serve - tra e altre motivazioni - proprio a garantire la direzione precisa che i proventi devono prendere. E, come si dice, seguendo il denaro s’indovina il cammino.
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di Mario Lombardo
A pochi mesi dalle elezioni generali in India, il Partito del Congresso al potere guidato dalla presidente Sonia Gandhi ha subito una pesantissima sconfitta nelle consultazioni per il rinnovo di alcune assemblee statali del paese asiatico. Il partito di ispirazione social-democratica della dinastia Gandhi-Nehru ha pagato a caro prezzo sia una serie di scandali esplosi negli ultimi anni che l’avvio di impopolari politiche economiche di libero mercato, lasciando strada all’opposizione del Partito Popolare Indiano (Bharatiya Janata Party, BJP) ultra-nazionalista induista che appare ora il netto favorito per la formazione del prossimo governo centrale.
Il voto amministrativo in India è andato in scena domenica in quattro stati - Chhattisgarh, Madhya Pradesh, Mizoram e Rajasthan - più il Territorio Nazionale della Capitale di Delhi, interessando complessivamente oltre 180 milioni di abitanti.
I rovesci più pesanti per il Congresso sono stati registrati nel Rajasthan e a Delhi, dove ha dovuto cedere la maggioranza delle rispettive assemblee e il governo locale al BJP. Nello stato nord-occidentale del Rajasthan, il partito al potere ha ottenuto solo 21 seggi su 200, contro i 162 del BJP. Nella capitale, invece, il Congresso è passato da 43 seggi, conquistati nel 2008, ad appena 8 sui 70 totali, mentre i rivali di destra sono saliti a 31.
Il BJP si è inoltre confermato negli stati di Chhattisgarh e Madhya Pradesh - piuttosto agevolmente nel primo e di misura nel secondo - dove già governava. Il Congresso è riuscito a riconfermarsi alla guida soltanto del piccolo stato orientale di Mizoram, dove vivono poco più di un milione di persone. Il bilancio finale del voto nel fine settimana è stato dunque disastroso per il Congresso, il quale ha visto quasi dimezzata la propria rappresentanza complessiva.
A Delhi, quanto meno, il BJP non è riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta, così che si renderà necessaria una coalizione per amministrare la metropoli di oltre 12 milioni di abitanti. Qui, ad ottenere un risultato inaspettato è stato il Partito dell’Uomo Comune (Aam Aadmi, AAP), creato poco più di un anno fa attorno ad un programma basato prevalentemente sulla lotta alla corruzione pressoché endemica nel paese.L’AAP ha chiuso con ben 27 seggi, sottraendo voti al Congresso tra gli elettori più poveri e della classe media di Delhi. Il leader della nuova formazione politica, Arvind Kejriwal, ha addirittura strappato il seggio di Sheila Dikshit, per 15 anni a capo del governo della capitale (“chief minister”) per il Partito del Congresso.
Le implicazioni dell’appuntamento elettorale appena concluso in India per il Partito del Congresso appaiono quindi chiare in vista delle elezioni nazionali previste per il mese di maggio. La batosta patita conferma infatti il profondo malcontento diffuso in tutto il paese per un governo centrale incapace far fronte al rallentamento dell’economia con misure in grado di rispondere alle aspettative della maggioranza della popolazione.
L’esecutivo della coalizione Alleanza Progressista Unita e presieduto dall’ultra-ottantenne primo ministro Manmohan Singh, su iniziativa del Partito del Congresso con a capo Sonia Gandhi, da qualche tempo si è mosso verso l’apertura del mercato indiano, dando il via libera a privatizzazioni e investimenti stranieri in svariati settori, nonché tagliando i sussidi per calmierare i prezzi dell’energia.
Oltre al contraccolpo elettorale di queste e altre “riforme” economiche impopolari - lanciate ufficialmente più di un anno fa al termine di un sofferto processo che portò anche alla perdita di alleati di governo - il Congresso ha patito vari scandali che hanno coinvolto numerosi suoi esponenti in casi di corruzione, evidenziando i discutibili legami del partito con gli ambienti del business indiano.
La crescente avversione nei confronti del governo Singh e del Partito del Congresso è stata sfruttata dal BJP all’opposizione, il quale tuttavia è il tradizionale punto di riferimento della borghesia indiana e promuove politiche ancor più di matrice liberista. Attorno al BJP si sono così stretti gli ambienti economici e finanziari del paese che giudicano troppo caute le iniziative del Congresso in ambito economico, lanciando come candidato alla guida del prossimo governo uno dei leader più controversi del partito, Narendra Modi.Capo del governo dello stato di Gujarat, quest’ultimo è noto, oltre che per una spiccata predisposizione verso politiche “business-friendly”, per la sua retorica incendiaria e le posizioni estreme riguardo la supremazia induista. La candidatura di Modi alla guida del suo partito, inoltre, era apparsa a molti improbabile alla vigilia della nomina ufficiale, visto il suo coinvolgimento nella sanguinosa persecuzione di indiani musulmani nel 2002 che nello stato di Gujarat fece più di mille morti.
Nonostante siano in molti ad avere visto le elezioni di domenica come un antipasto di quello che accadrà nel maggio prossimo, alcuni commentatori hanno messo in guardia dal trarre conclusioni affrettate, ricordando come il BJP anche nel 2003 fece segnare risultati eccellenti a livello locale per poi perdere la sfida nazionale l’anno successivo.
Le prospettive del Partito del Congresso, in ogni caso, appaiono ben poco rosee per l’immediato futuro. Il tentativo stesso di accelerare la candidatura del 43enne Rahul Gandhi per la guida del prossimo governo difficilmente riuscirà ad invertire la tendenza, soprattutto perché il figlio di Sonia e dell’ex premier assassinato Rajiv Gandhi ha condotto in prima persona la campagna elettorale del suo partito che è appunto culminata con la pesante sconfitta del fine settimana.
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di Michele Paris
Mentre i manifestanti dell’opposizione si stavano apprestando a marciare verso la sede del governo a Bangkok, il primo ministro thailandese, Yingluck Shinawatra, ha annunciato lunedì lo scioglimento del parlamento e nuove elezioni da tenersi al più presto per cercare di stabilizzare il paese del sud-est asiatico precipitato ancora una volta nel caos ormai da diverse settimane.
La ripresa delle proteste di piazza contro l’Esecutivo, per molti manovrato dall’estero dall’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, era avvenuta dopo una breve tregua decisa giovedì scorso in occasione dell’86esimo compleanno del sovrano thailandese, re Bhumibol Adulyadej. Nella giornata di domenica, inoltre, tutti e 153 i parlamentari del Partito Democratico all’opposizione avevano rassegnato le proprie dimissioni, dichiarando l’impossibilità di lavorare con l’esecutivo guidato dal partito pro-Thaksin, Pheu Thai (“Per i Thailandesi”).
Lo scioglimento anticipato del Parlamento, però, è stato definito dagli oppositori del governo tutt’al più come il primo passo verso la risoluzione della crisi. Infatti, come ha ribadito lunedì il leader dei manifestanti, l’ex vice-primo ministro e già parlamentare del Partito Democratico Suthep Thaugsuban, il loro obiettivo rimarrebbe lo “sradicamento del Thaksinismo” dalla Thailandia.
Come accaduto puntualmente nell’ultimo decennio, d’altra parte, anche le nuove elezioni assegneranno probabilmente la vittoria al partito attualmente al potere, così che Suthep e gli altri leader dell’opposizione chiedono da tempo, assieme alle dimissioni di Yingluck, non un voto anticipato bensì la creazione di un cosiddetto “Consiglio del popolo” non elettivo con il compito di scegliere il successore di quest’ultima a capo del governo.
Questa proposta anti-democratica sarebbe in sostanza uno strumento per fare intervenire nella crisi i tradizionali ambienti di potere thailandese, a cominciare dalle Forze Armate e dalla casa regnante, per portare a termine un nuovo colpo di stato dopo quello militare del 2006 che depose Thaksin e quello giudiziario del 2008 che mise fine ad un altro governo legittimamente eletto e guidato ancora dai sostenitori dell’ex premier.
Quella del primo ministro Yingluck sembra essere stata così una mossa decisa per neutralizzare le proteste o, quanto meno, per evitare una loro escalation che, oltre a installare un nuovo governo senza il consenso degli elettori, potrebbe paralizzare ulteriormente il paese di fronte ad una netta frenata dell’economia e ai timori espressi dal business locale per un possibile rallentamento degli investimenti internazionali.
L’annuncio fatto lunedì in diretta televisiva da Yingluck potrebbe essere stato deciso nei giorni scorsi assieme ai militari e al sovrano, nonché in seguito all’incontro dell’ambasciatore americano a Bangkok, Kristie Kenney, e del numero uno del Comando USA nel Pacifico, ammiraglio Samuel Locklear, con la stessa premier e i vertici militari thailandesi.
Le Forze Armate e gli ambienti reali, pur osteggiando il governo, temono che il confronto in atto nel paese possa sfociare in una crisi ancora più grave, soprattutto alla luce della mobilitazione nelle fasi iniziali dei sostenitori del governo e di Thaksin - definiti “Camicie rosse” e facenti parte in gran parte delle classi più povere nelle aree rurali del nord del paese - presenti da qualche giorno nella capitale e già protagonisti di alcuni scontri con i manifestanti dell’opposizione. Per gli Stati Uniti, invece, lo scivolamento nel caos del tradizionale alleato metterebbe a rischio uno dei pilastri della propria strategia asiatica in chiave anti-cinese proprio in un momento di gravi tensioni con Pechino.
La minaccia di uno scenario di questo genere aveva già spinto l’establishment tradizionale thailandese a stipulare un tacito accordo con Yingluck in seguito alle elezioni del 2011 che permise alla sorella di Thaksin di insediare il proprio governo in cambio della non interferenza nelle questioni militari e reali. Un eventuale intervento dei militari in quell’occasione per cancellare nuovamente il risultato elettorale avrebbe infatti con ogni probabilità fatto riesplodere drammaticamente le tensioni nel paese, già provato dalla durissima repressione ordinata dal governo del Partito Democratico nel 2010 contro le proteste dei sostenitori di Thaksin che fece più di 90 morti.
Come è noto, da alcune settimane l’equilibrio che aveva caratterizzato gli ultimi due anni della vita politica thailandese si è spezzato in seguito al fallito tentativo del governo di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito al discusso Thaksin il ritorno in patria - dove è stato condannato a due anni di carcere per corruzione - e modificato la Costituzione per rendere il Senato interamente elettivo.
Che la fine anticipata della legislatura possa far cessare le proteste in corso non è comunque chiaro, anche se alcuni leader dell’opposizione stanno iniziando a manifestare più di una preoccupazione per la prosecuzione delle manifestazioni. Altri, al contrario, hanno minacciato un boicottaggio del voto, che finirebbe però per emarginare ulteriormente un Partito Democratico che non raccoglie un successo elettorale da oltre un decennio. Allo stesso tempo, le Forze Armate - protagoniste negli ultimi 80 anni di 18 colpi di stato portati a termine o falliti in Thailandia - continuano a mantenersi ufficialmente neutrali e a sollecitare una soluzione pacifica della crisi.
In ogni caso, un membro della commissione elettorale della Thailandia ha fatto sapere lunedì che la data più probabile per il voto sarà attorno al 2 febbraio prossimo, come aveva suggerito in precedenza anche un portavoce del governo. Con il voto per il rinnovo dell’intero parlamento ormai certo, la stessa commissione ha poi dovuto cancellare le elezioni speciali che erano in programma il 22 dicembre per scegliere i sostituti di una decina di parlamentari del Partito Democratico, tra cui Suthep, che a novembre si erano dimessi per guidare le proteste contro il governo.
Dopo qualche esitazione, alcuni leader del Pheu Thai hanno confermato sempre lunedì al quotidiano in lingua inglese Bangkok Post che la loro candidata alla carica di primo ministro rimarrà quasi certamente Yingluck Shinawatra, come dovrebbe stabilire in maniera formale un vertice del partito pro-Thaksin fissata per mercoledì 11 dicembre.
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di Fabrizio Casari
Si annuncia una calata di big di proporzioni stellari per i funerali di Nelson Mandela. Da ogni dove del pianeta giungono infatti conferme alla presenza di potenti o presunti tali che andranno ad omaggiare il loro bisogno di apparire più che l’eroe del Sudafrica appena deceduto. Sfileranno in favore di telecamere, distribuendo dosi massicce di melassa e frasi di circostanza ipocrite e sapientemente costruite dai loro uffici e impavidamente pubblicate dai taccuini squadernati nell’opera quotidiana di vassallaggio.
Una sola cosa ci sarà sapientemente evitata: la verità storica, cioè i rispettivi ruoli e le rispettive responsabilità che molti degli invitati hanno avuto nella vicenda politica di Nelson Mandela, nella storia dunque del Sudafrica.
Se la presenza cotonata dovrà testimoniare la vicinanza in morte dei potenti al guerriero indomabile della causa del suo popolo, sarà però opportunamente soppressa dai discorsi e dai titoli di coda la distanza abissale da Madiba di molti dei paesi i cui rappresentanti calcheranno il carpet solenne dell’ultimo addio.
Perché Nelson Mandela, che da Presidente prima e in morte ora annovera il mondo intero nella lista degli amici e degli ammiratori, da guerrigliero e da prigioniero, da leader dell’African National Congress ebbe in molti dei paesi che oggi gli rendono il tributo dovuto, avversari implacabili, nemici decisi. Inserito ora nel pantheon dei migliori, fino agli anni ’90 si trovava nella lista dei “terroristi comunisti” stilata dai governi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Israele e altri paesi europei che appoggiavano apertamente il Sudafrica di Botha, putrida enclave razzista e fascistoide che aveva nell’apartheid l’elemento caratterizzante del suo dominio di classe.
Ai funerali di Mandela sarà presente, tra gli altri, anche George W. Bush, il cui padre, vicepresidente degli Stati Uniti nell’Amministrazione guidata da Ronald Reagan, si adoperò in ogni modo per fornire assistenza ai mercenari africani e sostenne oltre ogni decenza il regime dell’apartheid. Solo dopo la sua uscita dalla Casa Bianca, nel 1988, Mandela uscì dalla lista dei “terroristi” stilata dagli USA.
Il Sudafrica che imprigionò per 27 anni Nelson Mandela era infatti sostenuto politicamente, finanziariamente, diplomaticamente e militarmente da uno schieramento di potenze occidentali che cercava di limitare in ogni modo l’ormai inevitabile avanzata della democrazia in Africa, tentando di limitare il processo di decolonizzazione.
Erano gli stessi governi che non solo appoggiavano il regime razzista di Pretoria, ma che affidavano alle cure degli specialisti israeliani e sudafricani le guerriglie filo-occidentali dell’Unita e della Renamo, finanziati ed aiutati contro i legittimi governi di Agostino Neto in Angola e Samora Machel in Mozambico. Nell’indifferenza generale da parte delle socialdemocrazie e nel sostegno diretto o indiretto al regime segregazionista da parte degli USA e dei suoi alleati europei, le nuove democrazie africane vennero attaccate da terroristi e mercenari.A difendere l’Angola liberatasi grazie alla guerriglia vincitrice contro i regimi locali e alla rivoluzione dei garofani, che nel 1974 cambiò il regime portoghese, chiudendo l’epoca della dittatura salazarista, furono però solo i cubani.
L’impegno di Fidel Castro fu infatti decisivo per sostenere Luanda contro le organizzazioni terroristiche etero dirette da Pretoria. Fu l’intervento davvero eroico dei combattenti cubani, culminato nella storica battaglia di Cuito Canavale, a far indietreggiare una volta e per sempre il poderoso esercito sudafricano, giustamente considerato rilevante nelle elites castrensi internazionali.
Le truppe segregazioniste, insieme all’esercito dell’allora Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo) e di altre due bande mercenarie (la più importante era l’Unita di Jonas Savimbi), avevano infatti sferrato una offensiva militare enorme, condotta con 100.000 uomini ed erano riusciti a isolare e circondare le truppe angolane, aiutate dai cubani. L’intento era quello di sfondare le linee angolane e poi procedere verso Luanda per rovesciare l governo del MPLA.
Ma Fidel Castro decise di ribaltare la situazione e organizzò un poderoso ponte aereo da Cuba fino a Cuito Canavale, nel nord-est dell’Angola, a più di 1000 chilometri dalla capitale. Le truppe cubane, con artiglieria e carri armati, appoggiate dall’aviazione, riuscirono a rompere l’assedio e diedero il via alla controffensiva che non solo ripulì l’Angola, ma liberò la Namibia, fino a quel momento sotto il dominio militare del Sudafrica, che l’utilizzava come retroterra logistico per l’aggressione all’Angola.
Cuba pagò un prezzo significativo scegliendo di appoggiare i rivoluzionari angolani nella guerra contro il regime di Pretoria e i suoi alleati. Lo fece in nome di una concezione dell’internazionalismo che non lasciava dubbi quanto a coerenza e determinazione e che, dall’Africa all’America latina, ha sempre rappresentato una delle caratteristiche fondamentali della rivoluzione cubana. A Cuito Canavale cominciò la fine del regime sudafricano, sconfitto per la prima volta sul terreno militare. Fu l’esito di quella battaglia e della controffensiva cubana e angolana che obbligò il regime segregazionista a sedersi al tavolo degli accordi di pace privo di ogni baldanza.
Come riportano i documenti storici, il capo negoziatore cubano, Jorge Risquet, rivolgendosi alla delegazione di Pretoria disse: “Dovete capire che l’epoca delle avventure militari, delle aggressioni impunite, dei massacri dei rifugiati, è finita per sempre. Il Sudafrica attua come se fosse un esercito vincitore, invece di quello che in realtà è: un esercito aggressore colpito e in discreta ritirata. Il Sudafrica deve capire che non otterrà a questo tavolo di negoziati quello che non ha potuto ottenere sul campo di battaglia”.
Illuminanti furono le parole di Chester Crocker, sottosegretario statunitense per gli affari africani, quando si rivolse al Segretario di Stato Usa George Shultz per informarlo della situazione: “Scoprire cosa pensino i cubani è una forma d’arte. Sono preparati tanto per la guerra come per la pace. Siamo stati testimoni di una raffinata tattica e una vera creatività al tavolo dei negoziati. Lo sfondo è quello di idee fulminanti di Castro e nello schieramento senza precedenti dei suoi soldati sul terreno”. Insomma, nonostante gli sforzi di Washington e dei suoi alleati europei, Cuba aveva cambiato la storia dell’Africa australe.Fu proprio Nelson Mandela che volle sottolineare come l’esito della battaglia di Cuito Canavale fu decisivo per la ritirata delle truppe segregazioniste e per l’apertura del serraglio attraverso il quale poterono cominciare i negoziati che portarono alla fine del regime di Pretoria. E, ricordarlo non fa male, lo stesso Mandela ebbe a scontrarsi con la Casa Bianca, rappresentata da Al Gore e Hillary Clinton, al suo insediamento come Presidente del Sudafrica, quando il presidente statunitense fece presente la difficoltà di trovarsi nel corso della cerimonia vicino a Fidel Castro, visto il clima tra Washington e L’Avana, velatamente minacciando che la presenza di Castro poteva rendere difficile la sua.
Madiba, che considerava Castro come un suo fratello e i cubani come gli unici amici che ebbe quando l’Occidente appoggiava il regime segregazionista di Botha mentre definiva lui e la sua ANC come terroristi, rispose che il Sudafrica era libero anche grazie a loro, che considerava i cubani come fratelli di sangue e riteneva ogni segno di ostilità nei loro confronti una manifestazione di ostilità nei confronti del Sudafrica. Al Gore dovette abbassare la testa e preparasi alle foto di rito alla presenza di Fidel Castro.
D’altra parte, nel 1995, Mandela precisò bene il suo sentimento verso Cuba: “I cubani vennero nella nostra regione come dottori, maestri, soldati, esperti di agricoltura, ma mai come colonizzatori. Divisero le stesse trincee nella lotta contro il colonialismo, sottosviluppo e apartheid. Non dimenticheremo mai questo imparagonabile esempio di disinteressato internazionalismo”.
Lo ricordava nel 2005 Thenijwe Mtintso, ambasciatrice sudafricana a Cuba, nel corso di una celebrazione per il ventennale della battaglia di Cuito Canavale: “Oggi il Sudafrica ha molti nuovi amici. Ieri, questi amici definivano i nostri leader e i nostri combattenti come terroristi e ci perseguitavano dai loro paesi mentre aiutavano il regime dell’apartheid. Questi stessi amici oggi vorrebbero che denunciassimo ed isolassimo Cuba. La nostra risposta è molto semplice: è il sangue dei nostri martiri cubani e non quello dei nostri nuovi amici quello che scorre profondamente nella terra africana e nutre l’albero della libertà nella nostra patria”.
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di Mario Lombardo
Con la situazione nella Repubblica Centrafricana (CAR) in rapido deterioramento, il governo francese e l’Unione Africana hanno deciso nel fine settimana di aumentare il proprio contingente militare in uno dei paesi più poveri dell’intero pianeta. Le violenze hanno fatto registrare una drammatica escalation negli ultimi giorni dopo mesi di instabilità seguita all’avanzata dei ribelli musulmani che, lo scorso mese di marzo, avevano deposto il presidente, François Bozizé.
Operazione avvenuta con la tacita approvazione della Francia, impegnata a portare a termine un riallineamento strategico nel continente africano per riaffermare i propri interessi economici, minacciati soprattutto dalla crescente influenza cinese in molte ex colonie africane di Parigi.
Il livello di atrocità raggiunto nella Repubblica Centrafricana è apparso in questi giorni in tutta la sua evidenza da una serie di resoconti apparsi sui media di mezzo mondo che hanno descritto massacri indiscriminati compiuti sia dagli ex-ribelli ora al potere sia dai gruppi armati a maggioranza cristiana e dalle forze fedeli al presidente in esilio.
Dopo che giovedì scorso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva approvato una risoluzione a favore di un intervento militare più massiccio nel paese situato nel cuore dell’Africa (MISCA, Mission Internationale de Soutien à la Centrafrique), il presidente francese, François Hollande, al termine di una conferenza sulla sicurezza del continente a Parigi nella giornata di sabato, ha annunciato che il suo paese aumenterà il numero di truppe da 1.200 a 1.600. Allo stesso modo, l’Unione Africana porterà il numero di soldati provenienti dai paesi vicini dai 2.500 attuali a circa 6.000.
Le forze francesi, peraltro, sembrano avere già intensificato il proprio impegno in questo paese, con pattuglie di soldati che stanno presidiando le strade della capitale, Bangui, e le regioni nord-occidentali. Lo stesso Hollande ha poi affermato che la situazione di estrema crisi richiederà un drastico anticipo delle elezioni, inizialmente previste per il 2015 quando dovrebbe scadere il mandato del presidente ad interim, il leader dei ribelli Michel Djotodia.
Come ha già fatto in altri paesi africani negli ultimi anni, la Francia sta dunque sfruttando caos e violenze anche nella Repubblica Centrafricana per legittimare una maggiore presenza nel continente. Tutti i precedenti interventi - in Costa d’Avorio, Mali e Libia - così come quest’ultimo, vengono puntualmente presentati come necessari per “salvare vite umane” o per promuovere i progressi verso la democrazia dei vari paesi interessati, quasi sempre dotati di risorse del sottosuolo tutt’altro che trascurabili.
Nel caso della Repubblica Centrafricana, inoltre, alla destabilizzazione del paese ha contribuito in maniera decisivia proprio il governo di Parigi. Dopo l’inizio dell’offensiva dei ribelli Seleka (“Alleanza”) nel dicembre 2012, la Francia aveva favorito nel gennaio successivo la firma di un accordo di pace in Gabon tra il presidente Bozizé e i ribelli stessi. Bozizé aveva così acconsentito ad una serie di concessioni, nominando un primo ministro scelto dai ribelli e accettando di non ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali.
Poche settimane più tardi, tuttavia, i ribelli avrebbero denunciato la mancata implementazione dell’accordo da parte di un presidente che doveva sentirsi erroneamente indispensabile per la Francia, lanciando l’attacco decisivo nella capitale e costringendo Bozizé a riparare nel vicino Camerun. L’ingresso dei ribelli musulmani Seleka a Bangui è avvenuto senza che le centinaia di soldati francesi dispiegati nella Repubblica Centrafricana muovessero un dito per l’ormai ex uomo di Parigi.
L’atteggiamento di Parigi, assurdamente giustificato a livello ufficiale con la volontà di non interferire nelle vicende interne di un paese sovrano, è apparso relativamente sorprendente, visto che Bozizé si era auto-nominato presidente nel 2003 dopo avere guidato un colpo di stato proprio con l’appoggio francese. La Francia stessa aveva poi permesso all’ex generale di rimanere al potere per un decennio, contribuendo a far fallire due tentativi da parte dei ribelli di rovesciare il suo governo nel 2006 e nel 2007.A rivelare indirettamente le responsabilià dietro al golpe era stato tra l’altro lo stesso Bozizé in un’intervista rilasciata lo scorso mese di agosto al Sunday Times sudafricano. In quell’occasione, il deposto presidente in esilio a Parigi aveva spiegato come il suo omologo sudafricano, Jacob Zuma, avesse mancato di implementare un accordo siglato a Pretoria nel dicembre 2012 per garantire rinforzi militari al leader centrafricano in caso di avanzata dei ribelli Seleka.
Bozizé, tuttavia, non condannava il mancato intervento a suo favore di Zuma, giustificando la decisione di quest’ultimo con le pressioni interne per evitare un maggiore impegno del suo governo nella Repubblica Centrafricana. Bozizé, piuttosto, puntava il dito contro il presidente del Ciad, Idriss Déby, definito un suo “ex amico” e considerato “personalmente responsabile” della morte di 15 soldati sudafricani avvenuta in seguito all’ingresso dei ribelli a Bangui.
Il contingente di “pace” inviato in Repubblica Centrafricana dal Ciad aveva infatti consentito ai gruppi armati anti-Bozizé di marciare indisturbati verso la capitale, mentre successivamente è stata rivelata la protezione garantita al nuovo presidente Djotodia di alti ufficiali con stretti legami al vicino settentrionale. Secondo quanto riportato dalla Reuters lo scorso mese di maggio, il capo delle operazioni militari in Repubblica Centrafricana nominato da Djotodia sarebbe addirittura un ex componente della guardia presidenziale di Déby.
La posizione assunta dal leader del Ciad è estremamente rivelatrice delle decisioni prese a Parigi in relazione alla ex colonia, dal momento che Déby è uno dei partner più importanti della Francia in Africa centrale. Il Ciad ha ad esempio partecipato attivamente alla recente campagna francese in Mali, ufficialmente per liberare il nord di questo paese dai ribelli islamisti, e l’attivismo nella regione del suo presidente, intensificatosi parallelamente alla scomparsa di Gheddafi in Libia e al disimpegno di Sudafrica e Nigeria, rappresenta un punto di riferimento cruciale per gli interessi francesi.
A spiegare la mutata sorte di Bozizé da semi-fantoccio di Parigi a leader da liquidare può contribuire soprattutto la sua apertura alla Cina e la firma di svariati accordi economici con Pechino. Le apprensioni occidentali per questi sviluppi erano state rivelate da svariati documenti diplomatici pubblicati da WikiLeaks, tra cui alcuni cablo inviati a Washington nel 2009 dall’ambasciatore statunitense a Bangui. In essi non solo venivano sottolineati gli ostacoli posti dal governo di Bozizé alle corporation francesi attive nella Repubblica Centrafricana, come il colosso dell’energia nucleare Areva, ma anche le relazioni sempre più difficili tra il presidente e Parigi.
Inoltre, gli americani vedevano con preoccupazione l’intensificata cooperazione di Bozizé con la Cina in ambito militare, diplomatico ed economico. Una situazione resa evidente dalla presenza all’ambasciata cinese di Bangui di circa 40 dipendenti contro appena 4 in quella americana.
La Cina, quindi, stava ottenendo accesso alle risorse della ex colonia francese, estremamente ricca di uranio, oro, diamanti, ferro, legname e, potenzialmente, petrolio, ai danni della Francia e delle altre potenze occidentali. Lo stesso Bozizé nel dicembre 2012 affermò pubblicamente che nel suo paese non c’era stato alcun problema - almeno per il regime - fino a quando il petrolio era messo a disposizione delle compagnie francesi, mentre il caos è iniziato quando lo ha offerto ai cinesi.Gli scrupoli “umanitari” francesi sono emersi anche in una conferenza promossa dall’organizzazione degli industriali d’oltralpe che settimana scorsa ha preceduto il summit sulla sicurezza in Africa. In essa il presidente Hollande ha reso noto il lancio di un piano per raddoppiare gli investimenti francesi nel continente nel prossimo futuro, mentre il suo ministro delle Finanze, Pierre Moscovici, ha lamentato la mancata percezione della nuova accesa competizione nelle ex colonie, ricordando che qui la posizione di Parigi “non è più esclusiva né garantita”.
Nel primo decennio del 21esimo secolo, infatti, la fetta di mercato della Francia nell’Africa sub-sahariana è scesa da oltre il 10% a meno del 5%, mentre quella cinese è passata da nemmeno il 2% a inizio anni Novanta al 16% nel 2011. Non a caso, perciò, il nuovo regime degli ex ribelli con alla guida Michel Djotodia, subito dopo la presa del potere nel mese di marzo grazie all’assenso francese, si è affrettato ad annunciare una revisione integrale degli accordi siglati dal regime di Bozizé con il governo e le compagnie cinesi.
L’ennesima crisi africana, in definitiva, dietro la retorica umanitaria servirà ancora una volta alle potenze occidentali per aumentare la propria presenza strategica in questo continente in un frangente storico caratterizzato dall’inasprirsi della competizione internazionale per assicurarsi risorse naturali in gran parte ancora da sfruttare.
L’impegno francese nella Repubblica Centrafricana rientra perciò in questa dinamica e, invece di pacificare il paese, rischia di fare esplodere ancor più le tensioni etniche e settarie che in questi mesi hanno già fatto migliaia di morti.