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di Michele Paris
La tanto attesa conferenza di pace sulla Siria si aprirà stamani a Montreux, in Svizzera, senza la controversa partecipazione di uno dei paesi maggiormente coinvolti nel conflitto, la Repubblica Islamica dell’Iran. L’assurda esclusione di Teheran dai negoziati dopo il veto degli Stati Uniti e della cosiddetta Coalizione Nazionale Siriana (CNS) ha suggellato in maniera imbarazzante la conclusione dei faticosissimi preparativi per un appuntamento atteso ormai quasi da un anno e che sembra già destinato a fallire ancor prima di avere inizio.
Alla base della gaffe che lunedì ha minacciato di far saltare l’incontro è stata un’apparentemente inspiegabile incomprensione tra il governo americano e il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon. Domenica scorsa, quest’ultimo aveva invitato ufficialmente l’Iran a partecipare a “Ginevra II” dopo che il ministro degli Esteri di questo paese, Mohammad Javad Zarif, sembrava avergli garantito l’accettazione dell’obiettivo dei negoziati, fissato nel giugno 2012 nella stessa località svizzera (“Ginevra I”), vale a dire “la creazione, di comune accordo, di un organo di governo transitorio con pieni poteri” in Siria.
Come è noto, l’iniziativa di Ban Ki-moon è stata duramente condannata dagli Stati Uniti, poiché l’Iran, a loro dire, non avrebbe mai accettato in maniera ufficiale quello che l’amministrazione Obama ritiene essere l’obiettivo principale dei negoziati, ovvero la rimozione di Bashar al-Assad e la nascita di un nuovo governo filo-occidentale.
I vertici del CNS, da parte loro, hanno addirittura minacciato di non partecipare a Ginevra II se non fosse stato ritirato l’invito all’Iran. Lunedì, infine, da Teheran è arrivata una provvidenziale smentita circa l’accettazione dei presunti obiettivi della conferenza, accompagnata dalla conferma che la partecipazione ai negoziati da parte dei rappresentanti della Repubblica Islamica sarebbe avvenuta solo se non fossero state fissate condizioni. Ban Ki-moon ha potuto così ritirare il proprio invito e la minaccia di boicottaggio da parte del CNS è definitivamente rientrata.
Politici e media iraniani nella giornata di martedì hanno criticato in particolare gli Stati Uniti per le pressioni fatte su Ban Ki-moon, anche se è apparsa evidente la volontà da parte del governo del presidente Rouhani di non agitare troppo le acque in concomitanza con l’entrata in vigore lunedì dell’accordo temporaneo di sei mesi sul nucleare con i P5+1 (USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania).
Dal momento che il segretario generale dell’ONU si era fino ad ora coordinato con gli USA sulla Siria, l’incomprensione è apparsa a molti difficile da spiegare. Sulla vicenda può avere influito però la sostanziale manipolazione da parte americana della dichiarazione di Ginevra del 2012 che dovrebbe servire da base per i colloqui. In essa, infatti, non vi è alcuna menzione delle dimissioni di Assad, così che il diplomatico sudcoreano potrebbe avere considerato sufficiente la posizione ufficiale dell’Iran, il quale da tempo ha manifestato il proprio desiderio di giungere ad una soluzione pacifica del conflitto in Siria.
Anche se gli USA continuano a ripetere che non c’è spazio per il presidente Assad nel futuro della Siria, il testo della dichiarazione del 2012 prevede soltanto “il lancio di un processo politico guidato dai siriani che porti ad una transizione in grado di rispondere alle legittime aspirazioni della popolazione e che consenta ad essa di decidere democraticamente del proprio futuro”. In riferimento al nuovo organo di governo, la stessa dichiarazione stabilisce che esso sia neutrale e “includa membri dell’attuale governo, dell’opposizione e di altri gruppi”.Per questa ragione, il recente annuncio di Assad, nel corso di un’intervista all’agenzia di stampa francese AFP, che egli stesso con ogni probabilità deciderà di candidarsi alle elezioni presidenziali di Aprile per ottenere un nuovo mandato non contraddice lo spirito di Ginevra I, visto che “tutte le parti della società siriana devono essere ascoltate nel modellare l’accordo politico per la transizione”.
Con una popolazione che desidera stabilità e la fine delle violenze dopo tre anni di guerra, nonché di fronte alla profonda impopolarità di gruppi “ribelli” armati in larga misura formati da fondamentalisti islamici stranieri, è d’altra parte più che probabile che Assad sia a tutt’oggi la figura più popolare tra le parti in lotta e che finirebbe per aggiudicarsi anche un’elezione organizzata secondo gli standard occidentali.
L’allontanamento di Assad - già di per sé assurdo se si considera che una delle parti al tavolo dei negoziati dovrebbe sottoscrivere a priori il proprio suicidio politico - sarebbe poi ancora più illogica alla luce della situazione sul campo in Siria, dove il regime ha fatto segnare sensibili progressi in questi ultimi mesi ed è tornato a controllare aree importanti nel paese.
In ogni caso, ciò che al momento fa apparire fondamentalmente impraticabile un qualsiasi negoziato di pace a Ginevra sono, in primo luogo, le differenti aspettative del regime da una parte e, dall’altra, dei governi occidentali e dei loro alleati in Medio Oriente e in Siria. Mentre questi ultimi, come già spiegato, si attendono la formazione di un governo di transizione possibilmente senza Assad, il regime intende utilizzare i colloqui per focalizzare l’attenzione della comunità internazionale sulla lotta al terrorismo nel suo paese.
Ciò permetterebbe al regime di recuperare una qualche credibilità tra i partecipanti alla conferenza ed è quanto ha ripetuto lo stesso presidente nella già citata intervista alla AFP, durante la quale ha anche definito l’ipotesi di formare un governo con esponenti del CNS nient’altro che uno “scherzo”.
In questo quadro, è più che comprensibile che i media occidentali continuino a ripetere come l’unico punto di incontro quanto meno per le fasi iniziali dei negoziati sembri essere un possibile accordo sull’apertura di corridoi umanitari per accedere alle località sotto assedio oppure lo scambio di prigionieri o ancora delle tregue localizzate, mentre una qualche intesa politica sarebbe da rimandare ad un futuro che potrebbe non materializzarsi mai.
Un’altra complicazione è rappresentata poi dalla divergenza di vedute tra gli Stati Uniti e l’altro sponsor della conferenza, la Russia. Mosca, infatti, ritiene correttamente che Ginevra I non includa le dimissioni del proprio alleato Assad e ha avuto perciò parole di condanna verso Washington in seguito al mancato coinvolgimento dell’Iran, un paese che “potrebbe influenzare direttamente la situazione” in Siria.
Tanto più che a Montreux e, da giovedì a Ginevra, tra gli oltre 30 paesi presenti ci saranno anche Arabia Saudita, Qatar e Turchia, responsabili in varia misura del finanziamento e della fornitura di armi ai gruppi armati jihadisti anti-Assad. La responsabilità di questi governi nella devastazione della società siriana per i propri interessi strategici appare di gran lunga superiore a quella dell’Iran, così che la loro presenza al tavolo delle trattative testimonia a sufficienza dell’ipocrisia degli Stati Uniti, i quali intendono giungere al cambio di regime a Damasco per via diplomatica dopo avere fallito con la forza.
Un anonimo funzionario del Dipartimento di Stato americano, d’altra parte, lunedì ha ammesso candidamente al New York Times che uno degli scopi della conferenza di Ginevra sarà quello di “incoraggiare defezioni tra i sostenitori di Assad”, in particolare di fede alauita come il presidente, in modo da dare ad un’eventuale nuovo governo un’immagine di inclusività nonostante il settarismo che sta caratterizzando il conflitto in Siria.Qualsiasi accordo anche minimo dovesse essere raggiunto nel corso dei negoziati avrebbe comunque ben poche possibilità di essere implementato da parte dei “ribelli”, visto che il CNS risulta ampiamente screditato in Siria e ha un controllo pressoché inesistente sui gruppi armati che si battono contro il regime.
Oltretutto, il voto del fine settimana all’interno del CNS per approvare la partecipazione a Ginevra II è stato estremamente sofferto e ha rischiato di spaccare l’organo appoggiato dall’Occidente, per non parlare dei toni minacciosi usati dalle formazioni islamiste che dominano l’opposizione armata sul campo nei confronti del CNS in seguito alla decisione di partecipare ai colloqui.
La convocazione della conferenza di Ginevra, infine, ha lasciato fuori anche voci importanti dell’opposizione siriana moderata, spesso con un peso decisamente superiore a quello del CNS. Come ha messo in luce lunedì un’indagine del quotidiano libanese Al Akhbar, i governi occidentali hanno di fatto spinto per la partecipazione ai colloqui con il regime solo dell’opposizione più malleabile e disposta a rappresentare i loro interessi, dimostrando ben poca attenzione alle aspirazioni della popolazione in Siria.
Lontani dal tavolo rimarranno così, ad esempio, sia il Consiglio per il Coordinamento Nazionale Siriano che il Partito dell’Unione Democratica curdo (PYD). Il primo è composto da 13 partiti di sinistra e svariati gruppi studenteschi e si batte da tempo per l’avvio di un dialogo pacifico e senza interferenze esterne con il regime. Il secondo, a differenza dell’altro partito curdo siriano (Consiglio Nazionale Curdo, KNC), ha deciso invece di disertare Ginevra in seguito al rifiuto degli USA, della Turchia e dei regimi del Golfo Persico di riconoscere la questione curda come uno dei punti da trattare nel corso della conferenza.
Secondo un rappresentate del PYD, infatti, al suo partito, così come ad altre formazioni di opposizione, sarebbe stato chiesto di delegare le proprie istanze ai membri della Coalizione Nazionale Siriana inviati a Ginevra, privando in sostanza di una loro voce i rappresentanti di una minoranza che si è ricavata in questi tre anni spazi significativi nel paese e che rappresenta quasi il dieci per cento della popolazione complessiva.
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di Mario Lombardo
Il dibattito attorno alla pena di morte negli Stati Uniti è tornato a riaccendersi in questi giorni in seguito alla raccapricciante esecuzione di un condannato a morte in un carcere dell’Ohio, ucciso da un’iniezione letale dopo quasi mezz’ora di agonia. L’atroce spettacolo andato in scena la settimana scorsa in un braccio della morte nello stato del Midwest è stato dovuto con ogni probabilità all’utilizzo di un nuovo mix di farmaci mai testato in precedenza e a cui le autorità hanno fatto ricorso per ovviare all’indisponibilità delle sostanze comunemente usate fino a poco tempo fa.
L’esecuzione del 53enne Dennis McGuire - condannato per lo stupro e l’assassinio di una donna incinta nel 1989 - era stata autorizzata in maniera definitiva dopo che un giudice distrettuale aveva respinto un ultimo ricorso dei suoi avvocati, preoccupati per i possibili effetti delle nuove sostanze da utilizzare nel caso del loro cliente.
Il via libera del tribunale è avvenuto nonostante la mancanza di certezze sull’efficacia del nuovo metodo che, come previsto da vari esperti, ha infatti causato enormi sofferenze al condannato, risolvendosi di fatto in una “punizione crudele e inusuale” in violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. In precedenza, anche il governatore dell’Ohio, il repubblicano John Kasich, aveva negato una sospensione della condanna, bocciando un’altra richiesta della difesa, la quale aveva sostenuto che McGuire soffriva di disturbi mentali essendo stato vittima di abusi sessuali da bambino.
Secondo i testimoni presenti, in ogni caso, all’inizio la sua esecuzione era sembrata procedere senza problemi. Dopo alcuni minuti, tuttavia, il condannato ha cominciato a respirare rumorosamente e in maniera affannosa, agitandosi convulsamente e aprendo e chiudendo la bocca in continuazione. Dalle descrizioni non è stato possibile accertare se McGuire fosse cosciente o meno durante la procedura.
Di fronte all’orrore dei suoi familiari, McGuire è stato dichiarato morto dopo ben 26 minuti in un’esecuzione che è risultata la più lunga tra quelle portate a termine in Ohio da 15 anni a questa parte, da quando cioè lo stato ha reintrodotto la pena di morte. Secondo un’esperta legale della Fordham University sentita da Al Jazeera, una normale esecuzione tramite iniezione letale dovrebbe durare dai 2 ai 3 minuti, anche se le condanne eseguite nell’ultimo decennio in Ohio hanno talvolta richiesto fino a 10 minuti.
Ad uccidere Dennis McGuire è stata l’introduzione nel suo corpo di due sostanze, un potente sedativo (midazolam) e un antidolorifico (hydromorphone), in sostituzione dei tre farmaci utilizzati nella procedura standard di quasi tutte le esecuzioni avvenute negli USA in questi ultimi anni (cloruro di potassio, pancuronio e pentobarbital).
Come già anticipato, gli effetti della combinazione dei due nuovi farmaci non sono mai stati testati sull’uomo, mentre i medici avevano ipotizzato proprio il genere di sofferenze patite dal detenuto giustiziato giovedì scorso in Ohio.
Il mix dei tre farmaci era stato abbandonato in alcuni stati dopo che le case produttrici ne avevano interrotto le forniture destinate agli USA perché i loro prodotti erano appunto usati nelle procedure di esecuzione capitale.
Le autorità statali, a cominciare proprio dall’Ohio, avevano allora sperimentato nuovi metodi, ricorrendo in particolare ad un singolo farmaco, come l’anestetico tiopental sodico. L’azienda Hospira, che produceva quest’ultima sostanza in un impianto in Italia, ha però ben presto interrotto le forniture a causa delle normative che in Europa impediscono la vendita di farmaci utilizzati per le condanne a morte.
Successivamente, gli stati americani a corto di farmaci letali hanno optato per il solo pentobarbital, ma anche in questo caso la compagnia produttrice - questa volta danese - ha bloccato le vendite alle autorità degli Stati Uniti. I singoli stati, perciò, hanno iniziato una ricerca affannosa di sostanze legali ed efficaci per giustiziare i loro condannati a morte.
Lo stato del Missouri, ad esempio, ha studiato l’ipotesi di ricorrere al propofol, un altro potente e popolare anestetico, anche se la proposta è stata subito abbandonata per il timore che questa sostanza potesse essere boicottata dai produttori europei, causando problemi di approvvigionamento anche per gli ospedali americani.La selezione di sostanze adatte alle esecuzioni negli USA è complicata poi dal fatto che qualsiasi cambiamento delle procedure stabilite deve passare attraverso lunghi procedimenti legali e di approvazione, dovendo rispettare la già ricordata norma costituzionale che vieta punizioni crudeli e inusuali.
Il ricorso ai due farmaci che hanno ucciso settimana scorsa Dennis McGuire aveva ottenuto infine l’approvazione dei tribunali, così che le prime esecuzioni del 2014 sono state portate a termine con modalità mai testate in precedenza e con drammatiche conseguenze. Già nel corso della procedura di condanna a morte eseguita un paio di settimane fa in Oklahoma, infatti, il detenuto Michael Lee Wilson, poco dopo la somministrazione dell’iniezione letale, aveva esclamato di sentire il proprio corpo “bruciare”.
Nel solo Ohio, invece, ci sono attualmente 138 detenuti nel braccio della morte e questo stato è uno dei pochi ad avere visto aumentare negli ultimi anni il numero di condannati alla pena capitale. Nel 2013, l’Ohio ha giustiziato 6 detenuti e 5 verranno messi a morte nel 2014, un numero superiore soltanto a Texas e Florida. Già in passato, inoltre, questo stato ha avuto problemi con le esecuzioni, come nel settembre del 2009, quando la condanna di Romell Broom venne interrotta dopo due ore e decine di tentativi di individuare una vena per iniettargli il cocktail letale.
Mentre i familiari di Dennis McGuire hanno fatto sapere di volere denunciare le autorità dello stato dell’Ohio per la disastrosa procedura di esecuzione di giovedì scorso, la ricerca di metodi alternativi ed economici per giustiziare i condannati ha fatto già emergere tendenze fascistoidi negli Stati Uniti.
In particolare, due deputati repubblicani delle assemblee statali di Missouri e Wyoming nei giorni scorsi hanno annunciato la prossima presentazione di leggi per autorizzare le esecuzioni capitali tramite fucilazione. Questo metodo è d’altra parte ancora contemplato in alcuni stati americani, tra cui lo Utah, dove dal 1977 a oggi sono stati fucilati tre detenuti, di cui l’ultimo meno di quattro anni fa.
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di Michele Paris
Quella che è stata definita come una significativa proposta di riforma dei programmi di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) da parte del presidente Obama si è in realtà risolta venerdì scorso in una strenua difesa degli stessi metodi da stato di polizia rivelati in questi mesi da Edward Snowden. Ciò che l’inquilino della Casa Bianca ha proposto sono infatti modifche puramente cosmetiche che, in ogni caso, troveranno ostacoli probabilmente insormontabili per esssere implementate.
Nella difesa della NSA e delle persone che vi operano, Obama ha ripetutamente falsificato la realtà dei fatti, ricorrendo talvolta ad una rivoltante retorica patriottica per nascondere il quotidiano calpestamento della privacy dei cittadini di virtualmente tutto il pianeta e la sistematica violazione del Quarto Emendamento della Costituzione americana.
Il presidente democratico ha dato l’impressione di parlare ad un pubblico privo di memoria o di conoscenza dei fatti messi in mostra dalla stampa a partire dalla scorsa estate, ricalcando i comunicati ufficiali della NSA per respingere la tesi che l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, ha esaminato i dati telefonici di ogni americano, ripetendo al contrario la pretesa che essa ha operato esclusivamente per difendere il paese da attacchi terroristici.
Cercando di dare una qualche risposta al crescente disgusto nei confronti del governo degli Stati Uniti, Obama ha poi ostentato una certa preoccupazione per la possibile deriva di programmi di sorveglianza senza precedenti, senza però ricordare come il coordinamento e l’approvazione di essi siano da far risalire, in ultima analisi, alla sua stessa persona e che, senza il contributo di inestimabile valore di Snowden, sarebbero rimasti nascosti al pubblico ancora a lungo.
Le cosiddette proposte scaturite dal discorso tenuto presso il Dipartimento di Giustizia prevedono principalmente il trasferimento dell’archivio contenente i dati telefonici dalla NSA alle compagnie di telecomunicazioni private e la necessità di ottenere un’ingiunzione di un tribunale prima di analizzare le informazioni collegate ad un numero di telefono contenute nel database governativo. Inclusa nelle riforme sarebbe anche la proibizione di spiare i leader di paesi alleati.In relazione al primo punto - opposto dalle stesse compagnie private - Obama avrebbe dato l’incarico al ministro della Giustizia, Eric Holder, di preparare un piano per il trasferimento dei dati telefonici attualmente nelle mani del governo entro il 28 marzo, data in cui l’autorizzazione della NSA di raccogliere informazioni indiscriminate tramite i programmi di intercettazione dovrà essere rinnovata dal Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC).
All’unilateralità e assoluta segretezza con cui quest’ultimo approva le richieste di intercettazione delle agenzie governative dovrebbe essere messo un rimedio con la nomina di un rappresentante legale teoricamente deputato alla difesa degli individui obiettivo della sorveglianza. Attualmente, questi ultimi non sono messi nemmeno al corrente dei provvedimenti ai loro danni e, se anche ne vengono a conoscenza, non hanno facoltà di renderli pubblici.
Questa iniziativa, come le altre proposte, dovrà comunque essere approvata dal Congresso dove le resistenze risultano enormi. Oltretutto, proprio qualche giorno fa un giudice americano in rappresentanza del circuito dei tribunali federali aveva inviato una lettera aperta al Congresso e alla Casa Bianca, bocciando categoricamente l’eventuale nomina di un “public advocate” di fronte al FISC.
Nel suo discorso Obama non ha poi proposto, come chiedevano in molti, la subordinazione delle cosiddette “lettere per la sicurezza nazionale” all’approvazione di un tribunale. Queste lettere vengono generalmente emesse da agenzie come l’FBI e sono indirizzate alle compagnie telefoniche, le quali sono obbligate a fornire le informazioni richieste sui loro clienti. L’unica modifica avanzata dal presidente sarebbe limitata alla rimozione della proibizione indefinita di parlare pubblicamente delle lettere stesse.
In definitiva, come hanno dovuto ammettere anche i media ufficiali d’oltreoceano, la grandissima maggioranza dei programmi di intelligence gestiti dalla NSA e le facoltà di questa e altre agenzie governative rimarranno inalterati.Il grado di disponibilità a collaborare da parte del Congresso nell’attuare le modestissime proposte del presidente è stato poi messo in chiaro già nel fine settimana. I presidenti delle commissioni per i servizi segreti di Camera e Senato - rispettivamente il repubblicano Mike Rogers e la democratica Dianne Feinstein - hanno emesso un comunicato congiunto per ribadire l’importanza della raccolta di massa dei metadati telefonici “per identificare rapidamente possibili minacce terroristiche”. A loro dire, inoltre, questi stessi programmi di raccolta dati della NSA risultano “legali ed efficaci” nella loro forma attuale.
L’apparizione di Obama al Dipartimento di Giustizia è stata perciò una semplice operazione di pubbliche relazioni, richiesta da alcuni settori della classe dirigente americana preoccupati per l’impatto negativo sulla popolazione delle rivelazioni di Snowden. Come ha ammesso lo stesso presidente, d’altra parte, le “riforme” proposte servono unicamente a “mantenere la fiducia degli americani e del resto del mondo” nei metodi di sorveglianza del governo di Washington.
Dalle parole pronunciate venerdì, infine, non poteva non trasparire tutto il risentimento del governo USA nei confronti di Snowden per avere rivelato le attività illegali di sorveglianza della popolazione e le menzogne utilizzate per nasconderne la portata e i veri scopi. Obama ha infatti lasciato intendere la sua approvazione per le accuse di tradimento sollevate contro l’ex contractor della NSA, le cui azioni sono state definite come quelle di “un individuo qualsiasi che non approva la politica del governo e che rivela informazioni classificate”, mettendo a rischio “la sicurezza del nostro popolo”.
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di Michele Paris
Il referendum-farsa andato in scena questa settimana in Egitto si è risolto, come ampiamente previsto, con una schiacciante approvazione della nuova carta costituzionale scritta dalla giunta militare al potere. Il voto si è tenuto in un clima di intimidazione e repressione del dissenso, risultando in un esercizio che servirà soprattutto a sanzionare in maniera definitiva il ritorno delle forze armate ad una posizione dominante nel paese nord-africano, nonché a lanciare la candidatura alla presidenza del generale Abdel Fattah al-Sisi.
I due giorni di consultazioni nelle giornate di martedì e mercoledì sono stati caratterizzati da una massiccia mobilitazione delle forze di sicurezza del regime, spesso impegnate a convincere gli elettori recatisi ai seggi a votare a favore della costituzione. Durante le operazioni di voto, svariati scontri e proteste animate dai sostenitori dei Fratelli Musulmani sono stati registrati nel paese, con un bilancio complessivo di almeno una decina di morti e oltre 400 arresti.
L’imponente dispiegamento di polizia ed esercito ha confermato le preoccupazioni all’interno del regime per il possibile riesplodere delle proteste nel paese, dove un certo senso di sollievo e gratitudine per i militari dopo la rimozione dell’impopolare Mursi l’estate scorsa aveva lasciato ben presto il posto al malcontento per il ritorno ai metodi dittatoriali dell’era Mubarak.
Dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani seguita alla deposizione di Mursi, la giunta militare un paio di mesi fa aveva approvato un nuovo provvedimento per mettere fuori legge qualsiasi manifestazione di protesta organizzata senza l’approvazione delle autorità. Inoltre, durante le settimane precedenti al referendum è stata di fatto impedita la possibilità di fare una qualche campagna per il “No”, tanto che, secondo i media internazionali, sette persone sono state arrestate solo per avere cercato di appendere manifesti elettorali che invitavano a votare contro la costituzione. I media nazionali, inoltre, avevano tutti indistintamente appoggiato il documento voluto dai militari, aggiungendo così la loro voce alla campagna del regime.
In un clima simile, l’unico modo per esprimere l’opposizione alla nuova carta costituzionale è sembrato essere l’astensione. L’affluenza alle urne, nonostante la mancanza di dati ufficiali, è apparsa infatti estremamente debole. Secondo l’inviato al Cairo del New York Times, ad esempio, in molti seggi della capitale la folla di votanti è sembrata nettamente inferiore rispetto al referendum del 2012, così che soldati e agenti di polizia sono stati spesso più numerosi degli elettori stessi.
Il regime aveva sollecitato gli egiziani a recarsi in massa ai seggi elettorali, in modo da ottenere una qualche legittimazione per le proprie azioni dei mesi scorsi. In particolare, i militari intendevano mostrare al paese e alla comunità internazionale che il numero dei votanti in questa occasione sarebbe stato molto più alto rispetto alla consultazione del dicembre 2012, quando per il referendum sulla costituzione voluta dal governo Mursi votò appena un terzo degli aventi diritto. Per la sola giornata di martedì, secondo quanto affermato da un ministro del governo, l’affluenza sarebbe stata del 28 per cento, mentre fonti del ministero dell’Interno hanno stimato quella complessiva attorno al 55%.Questi numeri, quasi certamente gonfiati, indicano comunque una diffusa insofferenza o, quanto meno, apatia nei confronti della giunta militare al potere. Inoltre, per spiegare il voto di molti che hanno dato parere favorevole alla nuova costituzione, è necessario tenere in considerazione la persistente avversione verso il precedente governo dei Fratelli Musulmani - oltretutto continuamente denigrato dai militari - e il desiderio di ritrovare stabilità nel paese dopo tre anni di caos e tensioni.
In ogni caso, i dati provvisori del voto sono stati pubblicati giovedì dall’organo di stampa del regime Al Ahram, secondo il quale i “sì” avrebbero sfiorato addirittura il 98%. I numeri risultano particolarmente eccezionali in alcuni dei 27 governatorati egiziani, come quello di Luxor, dove i “sì” sarebbero stati oltre 2 milioni contro poco più di 3.500 “no”. I dati definitivi saranno diffusi sabato prossimo, mentre a breve dovrebbe essere emesso un decreto che annuncia le elezioni presidenziali e parlamentari.
La nuova costituzione era stata redatta da una speciale commissione di 50 membri, nominata anch’essa per decreto dal regime. Gli autori della carta appena approvata avevano rimosso alcuni discussi articoli ispirati alla legge islamica voluti dai Fratelli Musulmani, aggiungendo a loro volta delle norme che intendono rafforzare sensibilmente l’influenza di due istituzioni sulle quali si era basato anche il precedente regime di Mubarak: il potere giudiziario e, appunto, le forze armate.
A queste ultime, soprattutto, verrà assegnato uno status del tutto privilegiato e poteri eccezionali per reprimere qualsiasi forma di opposizione o aperto dissenso. Tra gli articoli più inquietanti spiccano quelli che consentono processi di fronte a tribunali militari per i civili e che creano un Consiglio Nazionale per la Difesa dominato dai militari, con il controllo assoluto sui bilanci delle forze armate e a cui spetteranno le decisioni in materia di sicurezza nazionale. Inoltre, i vertici militari avranno facoltà di nominare il ministro della Difesa nei prossimi governi.
Sul referendum di martedì e mercoledì ha così puntato tutto il comandante delle forze armate, generale Sisi, il quale ha poi anticipato la sua candidatura alla presidenza dell’Egitto riferendosi al presunto mandato popolare ottenuto con il voto a favore della costituzione.
L’operazione referendaria fa parte della cosiddetta “road map” appoggiata anche dall’Occidente per ristabilire la “democrazia” nel paese ma, in realtà, consente al regime militare solo di provare a legittimare il sanguinoso colpo di stato del luglio scorso ai anni del presidente Mursi. In quell’occasione, i militari avevano agito sull’onda delle crescenti manifestazioni contro il governo islamista, sostanzialmente per bloccare sul nascere una seconda rivoluzione dopo quella del 2011 contro Mubarak.Da allora, la giunta militare guidata da Sisi ha fatto più di mille morti tra i Fratelli Musulmani e altri oppositori, appropriandosi nondimeno della retorica rivoluzionaria dei movimenti che avevano dato la spallata all’ex dittatore e presentandosi come l’unica istituzione in grado di garantire la soddisfazione delle aspirazioni democratiche della popolazione.
Ciò è stato possibile soltanto grazie all’appoggio assicurato al golpe militare e alla repressione ai danni dei Fratelli Musulmani da parte delle varie formazioni giovanili, liberali e “di sinistra” che si opponevano al governo Mursi, anch’esse maggiormente spaventate da una mobilitazione popolare contro il sistema che dal ritorno della dittatura.
Nonostante qualche timida critica nei confronti dei metodi sempre più autoritari del regime, infine, gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali hanno in larga misura approvato il referendum per la nuova costituzione, assurdamente salutato come l’inizio di un’era di democrazia in Egitto.
Particolarmente significativo appare proprio l’atteggiamento di Washington, dove, in concomitanza con il voto in Egitto, il Congresso ha approvato, all’interno del bilancio federale per l’anno in corso, lo stanziamento di oltre 1,5 miliardi di dollari a favore delle forze armate del paese nordafricano.
Questo finanziamento - erogato annualmente dagli USA al Cairo in cambio dell’allineamento agli interessi americani e israeliani in Medio Oriente - era stato a lungo in dubbio dopo la deposizione di Mursi, poiché una legge degli Stati Uniti proibisce lo stanziamento di fondi a favore di regimi dittatoriali o golpisti.
Per non perdere un alleato fondamentale in un’area cruciale del pianeta, tuttavia, il Congresso americano e la Casa Bianca hanno finito per ignorare le loro stesse leggi, stabilendo che la giunta militare egiziana dovrà soltanto dar prova di seguire la propria “road map verso la democrazia”, di cui il referendum di questa settimana rappresenta appunto una tappa fondamentale.
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di Michele Paris
Proprio mentre gli Stati Uniti e i loro alleati stavano terminando un incontro a Parigi per rilanciare la campagna per il rovesciamento del regime in Siria, sulla stampa internazionale è apparsa la notizia che membri dei servizi segreti di alcuni paesi europei si sono recati a Damasco nei mesi scorsi per incontrare esponenti del governo Assad, con i quali avrebbero scambiato informazioni sui guerriglieri jihadisti attivi nel paese mediorientale.
Basandosi su rivelazioni di anonimi funzionari europei e mediorientali, il Wall Street Journal ha pubblicato mercoledì un articolo che conferma ancora una volta l’apparente schizofrenia delle politiche occidentali nei confronti della crisi siriana, divise tra l’appoggio a formazioni fondamentaliste, utilizzate per dare la spallata al regime, e i timori degli effetti collaterali prodotti dal proliferare di gruppi estremisti che potrebbero minacciare gli stessi interessi occidentali.
In particolare, gli incontri andati un scena a Damasco sarebbero serviti alle agenzie di intelligence occidentali per raccogliere informazioni su circa 1.200 jihadisti residenti in Europa e trasferitisi in Siria in questi tre anni per unirsi ai “ribelli” che si battono contro Assad. Le preoccupazioni che hanno spinto i governi di Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna ad intraprendere una simile iniziativa sarebbero legate al possibile ritorno di questi estremisti in patria per organizzare attentati terroristici.
La notizia era stata anticipata martedì da un’intervista rilasciata alla BBC dal vice primo ministro siriano, Faisal Mekdad, il quale aveva rivelato le visite di membri dei servizi segreti occidentali a Damasco ma senza elencare i paesi coinvolti nel dialogo con il regime.
Secondo Mekdad, addirittura, questi incontri sarebbero la prova delle divisioni esistenti tra i rappresentanti politici e i servizi di sicurezza in alcuni paesi che appoggiano l’opposizione anti-Assad. “Francamente”, ha poi affermato il numero due della diplomazia siriana, “la disposizione [di questi paesi] sembra essere cambiata” nei confronti del regime.
All’interno dei governi che avevano puntato tutto sulla rimozione di Assad, infatti, circolano da tempo molti dubbi su una strategia che ha alimentato gravissime violenze settarie con il rischio di destabilizzare l’intera regione e creare un nuovo serbatoio di terrorismo nel cuore del Medio Oriente.
La rivelazione delle visite dell’intelligence europea a Damasco è perciò la conferma dell’esistenza almeno di alcune sezioni delle classi dirigenti occidentali che ritengono i gruppi integralisti dell’opposizione siriana più pericolosi dello stesso regime, in alcuni casi fino a prospettare la riapertura di un qualche dialogo con Assad e la sua cerchia di potere.Questo ripensamento, inoltre, sembra riguardare ormai anche alcuni paesi mediorientali che avevano appoggiato senza riserve l’opposizione, comprese le formazioni islamiste.
È il caso della Turchia, da dove il presidente, Abdullah Gül, nel corso di un’apparizione di fronte agli ambasciatori accreditati ad Ankara, martedì ha fatto appello al governo del premier Erdogan a ricalibrare la propria strategia siriana, evidenziando la necessità di cercare una strada diplomatica per risolvere la crisi nel vicino meridionale.
Le fonti del Wall Street Journal, come è ovvio, hanno tenuto a sottolineare che lo scambio di informazioni rivelato mercoledì riguarda soltanto la questione degli estremisti legati ad al-Qaeda e “non rappresenta un’apertura diplomatica più ampia”.
Queste rassicurazioni sono rivolte soprattutto all’opposizione “moderata” appoggiata dall’Occidente che sta decidendo se inviare una propria delegazione a Ginevra la prossima settimana per l’apertura dei negoziati di pace con il regime.
I “ribelli” filo-occidentali temono infatti che i loro sponsor stiano preparando una svolta strategica in Siria, basata sull’accettazione della permanenza al potere del presidente Assad nel prossimo futuro, perché considerato come il partner più affidabile per combattere l’estremismo sunnita. Un simile riallineamento trarrebbe origine dalla collaborazione del regime nella distruzione del proprio arsenale di armi chimiche, seguita all’accordo tra USA e Russia del settembre scorso dopo il fallito tentativo americano di scatenare un’aggressione militare contro la Siria.
Anche se le rivelazioni del Journal indicano come i contatti tra il regime e le agenzie di intelligence europee siano recenti, essendo avvenuti tra novembre e dicembre, è difficile stabilire se quella che può essere considerata un modesta apertura verso Assad sia da considerarsi come il percorso che i governi occidentali intendono perseguire nell’immediato futuro.
Infatti, l’inizio del nuovo anno è stato segnato, almeno pubblicamente, da una rinnovata offensiva contro il regime, suggellata ad esempio dai toni minacciosi espressi dagli “amici della Siria” nel fine settimana a Parigi e dall’annuncio americano di volere riprendere la fornitura di aiuti “non letali” all’opposizione siriana. Ciò è coinciso con la guerra scatenata dall’opposizione armata “moderata”, in collaborazione con milizie fondamentaliste, contro un’altra fazione ribelle, l’organizzazione legata ad al-Qaeda denominata Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.
La strada dello scontro e quella dell’apertura sembrano in realtà essere seguite parallelamente dai governi occidentali, in modo da scegliere la più opportuna una volta chiarite le potenzialità del vertice “Ginevra II” che dovrebbe partire il 22 gennaio. Un diplomatico occidentale di stanza in Medio Oriente ha infatti confermato al Wall Street Journal che “dopo Ginevra potrebbero esserci delle aperture” verso il regime, sempre che quest’ultimo si mostri disponibile a qualche concessione.Gli incontri di Damasco, oltre a raccogliere informazioni sul jihadismo esportato in Siria dall’Europa, potrebbero essere serviti anche ad un altro scopo ed esso è legato, come spiega lo stesso articolo del Journal, al tentativo da parte degli “USA e dei loro alleati di creare un governo provvisorio accettabile sia per Damasco che per l’opposizione”.
In questo quadro, l’intelligence europea può avere sondato il terreno in Siria per trovare elementi all’interno del regime disponibili ad un accordo con i “ribelli”, a cominciare dal consigliere speciale per la sicurezza di Assad, Ali Mamlouk, protagonista degli incontri con i rappresentanti dei servizi segreti europei e indicato da un diplomatico occidentale, sentito dallo stesso quotidiano newyorchese, come un “importante candidato di compromesso” per guidare un eventuale governo di transizione.
I governi occidentali citati dall’articolo del Wall Street Journal, in ogni caso, si sono quasi tutti rifiutati di commentare le rivelazioni. Solo un portavoce dell’agenzia per la sicurezza interna spagnola ha confermato che Madrid ha condiviso informazioni con Damasco circa cittadini spagnoli trasferitisi in Siria per unirsi ai gruppi jihadisti.
Anche senza conferme da Londra, Parigi o Berlino, in ogni caso, questi governi - come quello di Washington, che non avrebbe però inviato i propri agenti a Damasco - stanno discutendo da tempo dei pericoli legati ad una delle conseguenze dirette delle loro manovre, vale a dire il ritorno in patria di guerriglieri passati attraverso un processo di radicalizzazione in Siria.
Reclutati nelle moschee delle città europee o americane, i jihadisti con passaporti occidentali raggiungono solitamente il sud della Turchia e, facendo lo stesso percorso delle armi e del denaro destinato ai “ribelli”, oltrepassano il confine siriano per raggiungere gruppi armati che sono stati spesso protagonisti di violenze e soprusi ai danni della popolazioni civile.
Secondo i dati del governo britannico, Londra avrebbe finora privato della cittadinanza una ventina di persone che hanno preso parte al conflitto in Siria. Da Parigi, invece, il presidente Hollande ha affermato proprio martedì che almeno 700 cittadini francesi hanno già lasciato il paese per raggiungere i “ribelli” siriani, mentre un pubblico ministero transalpino ha aggiunto che altre centinaia di persone sarebbero pronte a partire, tutte per combattere una battaglia che ha sostanzialmente lo stesso obiettivo perseguito dai governi dei loro paesi di origine in Occidente.