di Michele Paris

Con una decisione senza precedenti a livello nazionale, il Congresso degli Stati Uniti ha consentito qualche giorno fa la riduzione automatica dei fondi per il programma pubblico di aiuti alimentari (“food stamps”) destinati ad ampi strati della popolazione americana del tutto esclusi dalla “ripresa” economica teoricamente in atto. I tagli ammontano a ben 11 miliardi di dollari nei prossimi tre anni e sono scattati in seguito all’esaurimento dei fondi stanziati da Camera e Senato all’interno del pacchetto di stimolo all’economia approvato in seguito all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.

Il programma di assistenza alimentare - ufficialmente denominato Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP) - era nato durante la Grande Depressione e garantisce oggi la possibilità di acquistare cibo a qualcosa come 48 milioni di americani a basso reddito o senza alcuna entrata.

I “food stamps” erano stati originariamente introdotti dall’amministrazione Roosevelt per far fronte ad una situazione di povertà dilagante sul finire degli anni Trenta del Secolo scorso e, in questi anni, sono tornati ad essere per molti un mezzo di sussistenza fondamentale alla luce delle conseguenze della nuova gravissima crisi del capitalismo americano e internazionale.

Nel solo anno fiscale da poco terminato, il governo federale ha così distribuito aiuti alimentari per quasi 75 miliardi di dollari e ogni americano ha ricevuto in media poco più di 134 dollari al mese. A testimonianza delle drammatiche condizioni in cui versano milioni di persone a causa della crisi economica, a tutt’oggi più del 15% della popolazione degli Stati Uniti beneficia dei “food stamps”. Secondo i dati dello stesso governo di Washington, addirittura, circa 7 milioni di americani contano sui “food stamps” come unica fonte di entrate.

A causa dei tagli entrati in vigore nel fine settimana, nei prossimi tre anni una famiglia composta da tre persone perderà 300 dollari all’anno in buoni alimentari. Soprattutto, la ferocia della classe politica d’oltreoceano farà in modo che a breve verrà deciso un ulteriore ridimensionamento di questa voce di spesa. Infatti, nell’ambito della nuova legge relativa al settore agricolo USA - visto che i “food stamps” sono gestiti dal Dipartimento dell’Agricoltura - i due rami del Congresso hanno già approvato separatamente altrettante misure che contengono altri tagli.

Particolarmente dura appare la versione della Camera a maggioranza repubblicana, il cui provvedimento prevede una riduzione dei fondi per 40 miliardi di dollari in dieci anni, escludendo 2 milioni di americani a bassissimo reddito dall’accesso ai programmi alimentari. Il pacchetto votato dal Senato a maggioranza democratica, invece, di miliardi di dollari per i “food stamps” intende tagliarne 4.

La notizia del ridimensionamento dei buoni alimentari è passata sotto silenzio su quasi tutta la stampa americana, impegnata al contrario a celebrare la recente decisione della Federal Reserve di continuare ad immettere sui mercati finanziari 85 miliardi di dollari ogni mese.

Tra i pochi giornali a dare un qualche rilievo alla notizia è stato il News Tribune dello stato di Washington, il quale ha ricordato come, nelle probabili intenzioni del Congresso, la riduzione dei benefit alimentari dovrebbe essere la conseguenza di un’economia in ripresa. Ciò conferma ancora una volta il divario incolmabile esistente tra la classe politica e la grande maggioranza della popolazione, dal momento che la prima misura i progressi economici del paese unicamente con i dati relativi all’andamento della borsa e ai profitti delle corporations, entrambi a livelli da record.

Oltre a riportare le drammatiche testimonianze di coloro che, spesso assieme ai loro figli di pochi anni, vedranno minacciata la propria sicurezza alimentare nell’immediato futuro, i reporter del News Tribune hanno poi evidenziato la gravità della situazione in stati come California e Texas, dove in cinque anni i beneficiari di “food stamps” sono aumentati di 2,5 milioni, ricordando inoltre che le stesse statistiche governative avevano già rilevato come l’SNAP raramente garantiva valori nutrizionali adeguati anche prima dei tagli.

Per la testata con sede a Tacoma, l’impatto della riduzione dei “food stamps” non si farà sentire soltanto su coloro che ne beneficiano, visto che alcuni studi hanno dimostrato come ogni 5 dollari spesi in buoni alimentari ne vengano generati 9 in attività economiche collegate.

La classe dirigente americana, dunque, non solo è del tutto insensibile ai bisogni elementari della popolazione americana in difficoltà ma ad essi risulta addirittura ostile, togliendo letteralmente il pane di bocca a milioni di poveri, disoccupati, madri single e disabili, mentre continua ad assicurare un flusso di denaro ininterrotto ai colossi dell’industria finanziaria.

I tagli ai “food stamps”, come è noto, giungono nel pieno di un vero e proprio assalto alla spesa pubblica destinata ai programmi sociali negli Stati Uniti. Proprio la settimana scorsa, tra l’altro, ha tenuto la prima seduta una speciale commissione del Congresso che ha l’incarico di trovare un accordo bipartisan sul debito federale e che potrebbe di fatto gettare le basi per lo smantellamento dei programmi pubblici di assistenza Medicare, Medicaid e Social Security.

Il 31 dicembre prossimo, infine, sempre tra l’indifferenza di politici e media ufficiali, cesseranno definitivamente anche i sussidi di disoccupazione addizionali stanziati a livello federale per far fronte all’interruzione avvenuta già da tempo in molti stati di questo genere di aiuti, gettando nella povertà altri milioni di americani senza la minima speranza di trovare un lavoro ben retribuito.

di Mario Lombardo

Come ha ricordato in una recente intervista il presidente siriano, Bashar al-Assad, il principale ostacolo ad una risoluzione pacifica della crisi nel paese mediorientale rimane il continuo sostegno fornito da potenze regionali come l’Arabia Saudita alle formazioni ribelli anti-regime dominate da forze integraliste violente. Con l’accordo russo-americano sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco (processo ben avviato) gli sforzi della diplomazia internazionale si stanno concentrando da settimane su una possibile conferenza di pace da tenersi a Ginevra (“Ginevra II”) e che viene puntualmente rimandata dal mese di maggio scorso.

A boicottare di fatto un percorso di questo genere sono però soprattutto quei paesi mediorientali che, per ragioni legate ai propri interessi strategici, hanno manifestato reazioni al limite dell’isteria alla marcia indietro decisa a settembre dall’amministrazione Obama sull’aggressione militare contro la Siria.

Da allora, l’Arabia Saudita ha in particolare espresso il proprio malcontento in maniera insolita verso Washington, giungendo addirittura a rifiutare un seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il quale si era battuta da oltre un anno.

Oltre alle apprensioni suscitate dall’ammorbidimento forzato della Casa Bianca sulla Siria, Riyadh teme ancora di più un eventuale accordo tra gli Stati Uniti e l’Iran sul nucleare di Teheran, dal momento che il riconoscimento delle legittime aspirazioni regionali della Repubblica Islamica rappresenterebbe un autentico incubo per la monarchia saudita.

Di fronte al nuovo scenario che si sta sia pure a fatica delineando in Medio Oriente dopo il sostanziale fallimento di quanti intendevano provocare il cambio di regime con la foza a Damasco, i regimi del Golfo Persico, con l’Arabia Saudita in prima linea, stanno perciò cercando di portare avanti il proprio disegno indipendentemente dagli USA o, quanto meno, stanno cercando in tutti i modi di mandare un chiaro messaggio della propria frustrazione a Washington.

Alcuni esponenti di questi governi nel fine settimana hanno così rivelato in forma anonima ai media americani l’intenzione di intensificare i propri sforzi per sostenere finanziariamente e militarmente i “ribelli” siriani, svincolandosi almeno in parte dalla collaborazione con l’amministrazione Obama.

Questa iniziativa era già stata prospettata un paio di settimane fa da una rivelazione del Wall Sreet Journal, basata sulla nuova strategia saudita modellata dal numero uno dell’intelligence di Riyadh, principe Bandar bin Sultan, all’indomani del rifiuto del seggio elettivo al Consiglio di Sicurezza ONU.

Come ha scritto domenica il Washington Post citando come di consueto fonti anonime all’interno dei regimi del Golfo Persico, i sauditi e i loro vicini sarebbero d’altra parte ormai convinti dell’intenzione americana di raggiungere un accomodamento con il nuovo governo iraniano nonostante le resistenze manifestate non solo da Riyadh ma anche da Israele.

Per questa ragione, le iniziative saudite sembrano già ben avviate, non solo relativamente alla Siria con la conseguenza più che probabile dell’intensificazione delle azioni terroristiche da parte delle formazioni estremiste che si battono contro Assad, ma anche riguardo, ad esempio, all’Egitto, il cui regime militare è stato l’obiettivo di critiche relativamente modeste da parte degli USA dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.

Al paese nordafricano, infatti, l’Arabia Saudita si è impegnata a versare svariati miliardi di dollari in aiuti assieme a Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, in seguito alla recente decisione di Washington di sospendere alcune forniture militari al Cairo.

Se l’Arabia Saudita risulta oggi decisamente meno influente sullo scacchiere internazionale rispetto a qualche decennio fa, le inquietudini manifestate nelle ultime settimane non hanno lasciato indifferente il governo americano, tanto che alcuni esponenti dell’amministrazione Obama hanno recentemente incontrato membri della famiglia reale per cercare di rassicurare l’alleato mediorientale.

In questo quadro rientra anche la visita in Arabia Saudita di domenica del Segretario di Stato, John Kerry, nell’ambito di una trasferta di nove giorni che lo porterà, oltre che a Riyadh, negli Emirati Arabi, in Giordania, Israele, Cisgiordania, Polonia, Algeria e Marocco.

Come ha affermato la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, l’importanza della visita è confermata dal fatto che l’ex senatore democratico incontrerà per la prima volta il sovrano saudita, Abdullah, con il quale “discuterà una vasta gamma di questioni bilaterali e di importanza regionale”.

Soprattutto, Kerry proverà a tranquillizzare un regime in piena crisi a causa sia della situazione internazionale che dei consueti problemi legati alla complicata successione interna, così da “riaffermare la natura strategica delle relazioni tra USA e Arabia Saudita, alla luce dell’importanza della collaborazione tra i nostri due paesi, delle sfide condivise e della leadership che Riyadh continua a garantire in Medio Oriente”.

di Michele Paris

Le più recenti rivelazioni delle attività spionistiche illegali dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) ai danni dei leader di molti paesi alleati, stanno provocando tensioni senza precedenti nei rapporti bilaterali con Washington, tanto da spingere in questi giorni l’amministrazione Obama e i leader del Congresso a promettere una qualche “revisione” delle pratiche rivelate da Edward Snowden.

Il compito di attaccare l’NSA dopo la pubblicazione dei programmi di intercettazione ai danni della cancelliera tedesca, Angela Merkel, e delle linee telefoniche francesi e spagnole è stato affidato questa settimana alla numero uno della commissione per i servizi segreti del Senato USA, Dianne Feinstein.

La senatrice democratica della California è stata nei mesi scorsi una delle più convinte sostenitrici degli abusi dell’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, e le sue critiche nei confronti dell’NSA servono perciò a dare l’impressione di una classe politica impegnata ad evitare o quanto meno a limitare la violazione dei diritti democratici da parte dell’apparato della sicurezza nazionale statunitense.

La Feinstein ha perciò annunciato una “revisione totale” dei programmi di sorveglianza del governo da parte della sua commissione, aggiungendo che la Casa Bianca potrebbe decidere a breve lo stop alle intercettazioni dei leader di paesi alleati.

Dalla cerchia del presidente, tuttavia, quest’ultima notizia è stata già smentita, visto che non sarebbero ancora in vista cambiamenti significativi delle pratiche spionistiche dell’NSA. In un’intervista al Wall Street Journal, un anonimo esponente dell’amministrazione democratica ha ipotizzato, tutt’al più, possibili modifiche caso per caso.

La finta indignazione della senatrice Feinstein di fronte alle rivelazioni sulle intercettazioni della Merkel e di altri leader, inoltre, si scontra col fatto che essa stessa, in quanto presidente della commissione per i servizi segreti della Camera alta del Congresso, riceve briefing in maniera regolare sulle attività dell’NSA.

In ogni caso, i contraccolpi delle rivelazioni di Snowden stanno creando non pochi imbarazzi a Washington, così come risultano ormai diffuse tra la classe politica americana forti preoccupazioni per la crescente impopolarità di agenzie governative fuori controllo responsabili di pratiche chiaramente illegali. La “revisione” dell’attività dell’intelligence annunciata dalla senatrice Feinstein, infatti, è del tutto inedita negli ultimi quattro decenni a Washington, dal momento che l’ultima volta che una simile iniziativa venne adottata dal Congresso fu negli anni Settanta, quando la “commissione Church” indagò sulla guerra in Vietnam e sullo scandalo Watergate.

Dalle parole di Dianne Feinstein appare comunque evidente l’intento di consentire all’NSA di proseguire con le proprie attività illegali, limitando se mai qualche eccesso. La senatrice democratica continua d’altra parte a ritenere del tutto legittimi i programmi di intercettazione di massa ai danni dei cittadini americani e stranieri, poiché messi in atto dopo che il governo ne ha messo al corrente il Congresso e in seguito all’approvazione del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale asseconda segretamente ogni richiesta delle agenzie governative.

Non una parola sul calpestamento dei diritti costituzionali è stata così pronunciata dalla Feinstein, la quale ha soltanto chiesto di rafforzare i poteri di controllo sull’NSA della commissione di cui è alla guida. Inoltre, il processo di “revisione” appena annunciato sulle attività dei servizi segreti avverrà dietro le spalle degli americani, come conferma il fatto che le conclusioni finali attese tra alcuni mesi rimarranno classificate.

Le proteste di paesi alleati come Germania, Francia o Spagna in questi giorni sono alla base anche di altre iniziative al Congresso, dove starebbero per essere presentati due disegni di legge che riguardano l’NSA. Uno dei due, tuttavia, non scalfirebbe per nulla le attività illegali di quest’ultima agenzia, celando dietro vaghe misure volte a “rafforzare” la privacy dei cittadini la possibilità di continuare a raccogliere informazioni elettroniche riservate.

L’altro provvedimento - preparato da parlamentari libertari e teoricamente progressisti - intenderebbe invece porre fine alla raccolta di massa dei dati informatici e telefonici degli utenti senza il sospetto di attività legate al terrorismo. Una misura simile, già sconfitta di misura alla Camera dei Rappresentanti nel mese di luglio, secondo i giornali d’oltreoceano avrebbe ora buone possibilità di essere approvata, anche se difficilmente potrà superare l’ostacolo del Senato e l’eventuale veto presidenziale.

L’apertura del dibattito legislativo è stata preceduta martedì dall’audizione al Congresso dei due maggiori responsabili delle pratiche dell’NSA, il direttore della stessa agenzia, generale Keith Alexander, e il suo superiore nominale, il direttore dell’Intelligence Nazionale, James Clapper. Le dichiarazioni pubbliche del generale Alexander, in particolare, si sono fatte sempre più inquietanti negli ultimi giorni, fino a giungere alla velata minaccia nei confronti di media e “whistleblowers” come Snowden per interrompere la diffusione di rivelazioni sui crimini dell’intelligence a stelle e strisce.

Tra i paesi bersaglio delle intercettazioni americane continua invece a crescere il malcontento, non tanto per la sorveglianza dei propri cittadini - i quali sono quasi sempre esposti al controllo segreto dei loro stessi governi con metodi simili a quelli degli Stati Uniti - quanto per il timore che Washington sia in grado di ottenere vantaggi diplomatici ed economici in maniera illegale.

Nonostante a Berlino come a Parigi o Madrid le proteste ufficiali nascondano un sostanziale intento di evitare un’escalation dello scontro con il governo americano, alcune iniziative sono già state messe in atto o sono in fase di studio. Lunedì, ad esempio, nove parlamentari europei hanno incontrato a Washington alcuni membri del Congresso ed esponenti dell’amministrazione Obama per esprimere i malumori dei rispettivi governi.

Lo stesso Parlamento Europeo ha poi ipotizzato “conseguenze”, tra l’altro, sulla condivisione con le autorità USA delle informazioni sui passeggeri dei voli internazionali nell’ambito della partnership anti-terrorismo, mentre le preoccupazioni maggiori riguardano possibili intralci alle trattative in corso sul colossale trattato di libero scambio tra Washington e Bruxelles.

Lo scandalo intercettazioni, intanto, continua a coinvolgere direttamente lo stesso presidente Obama, il quale, secondo alcune rivelazioni giornalistiche del fine settimana era perfettamente al corrente delle intercettazioni delle comunicazioni telefoniche di leader come Angela Merkel.

Le reazioni della Casa Bianca sono andate finora dal rifiuto delle accuse al no-comment, mentre proprio lunedì il Los Angeles Times ha citato fonti interne all’NSA che assicurano che la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato avevano dato la loro approvazione alle intercettazioni dei leader stranieri.

Dopo mesi di rivelazioni sulle intercettazioni delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutti gli abitanti del pianeta, una crisi sempre più grave sta ora colpendo il governo americano, le cui pretese di mettere in atto programmi di sorveglianza unicamente per combattere la minaccia del terrorismo sono state definitivamente e clamorosamente smentite da quelle più recenti che riguardano i leader di paesi considerati fedeli alleati degli Stati Uniti.

di Mario Lombardo

Nel fine settimana appena trascorso, il livello di discredito raggiunto dal sistema politico della Repubblica Ceca è apparso in tutta la sua evidenza dal fatto che il partito teoricamente vincitore delle elezioni di sabato ha incassato il suo peggiore risultato dalla divisione del paese centro-europeo dalla Slovacchia nel 1993.

A conquistare il maggior numero di seggi è stato il Partito Social Democratico Ceco (CSSD), il quale con il 20,6% dei consensi ha fatto registrare una flessione superiore al punto e mezzo percentuale rispetto al precedente appuntamento con le urne.

Il suo leader, il 42enne Bohuslav Sobotka, dovrebbe comunque ricevere l’incarico di formare un nuovo governo, anche se i 50 seggi conquistati dal suo partito sui 200 totali della Camera bassa del Parlamento di Praga renderà necessaria un’alleanza con almeno altri due partiti.

L’ago della bilancia potrebbe essere così l’Azione dei Cittadini Insoddisfatti (ANO), fondato soltanto nel 2011 dal secondo uomo più ricco della Repubblica Ceca, l’imprenditore Andrej Babis. Questo partito di ispirazione populista ha saputo capitalizzare la profonda ostilità diffusa tra la popolazione per l’intera classe politica del paese, diventando il secondo partito ceco con il 18,7% e 47 seggi.

Il più probabile partner di governo dei Social Democratici rimane però il Partito Comunista di Boemia e Moravia (KSCM) che potrebbe entrare per la prima volta al governo dopo la caduta del regime stalinista nel 1989 e due decenni di isolamento politico. Il KSCM ha sfiorato il 15%, assicurandosi 33 seggi e la seconda migliore prestazione elettorale dal 1990.

A complicare gli scenari post-elettorali c’è il dichiarato rifiuto da parte dell’ultramiliardario Babis ad entrare in un esecutivo con partiti di sinistra, così che Sobotka potrebbe optare per la formazione di un governo di minoranza assieme ai Comunisti. Dopo il voto, tuttavia, Babis ha in quache modo ammorbidito i toni, affermando di essere intenzionato ad aprire ad un’iniziativa politica di Sobotka se dovesse essere rispettato il programma del suo partito.

Secondo gli osservatori, in ogni caso, la frammentazione del panorama politico ceco evidenziata dai risultati delle elezioni di sabato non farà altro che prolungare l’instabilità a Praga dopo mesi di tensioni e scandali che hanno scosso l’intero sistema.

Il voto del fine settimana, infatti, era stato indetto con svariati mesi di anticipo rispetto alla normale scadenza in seguito alla caduta nel giugno scorso del governo di centro-destra dell’ex premier, Petr Necas, coinvolto in un clamoroso caso di corruzione e intercettazioni illegali.

L’impopolarità del gabinetto guidato da quest’ultimo era però già risultata chiara nelle elezioni presidenziali del mese di febbraio, quando a imporsi sui cadidati di centro-destra era stato l’ex comunista ed ex socialdemocratico Milos Zeman.

I partiti di destra sono stati così puniti in maniera severa dagli elettori. In particolare, il Partito Democratico Civico (ODS) di Necas è passato dal 20,2% del 2010 al 7,7% di sabato, con un’emoraggia di 37 seggi. Sia pure anch’esso in netta flessione, meglio dell’ODS ha fatto il partito TOP09 dell’ex ministro degli Esteri Karel Schwarzenberg con quasi il 12% dei consensi e 26 seggi. Quest’ultimo partito conservatore, secondo alcuni, potrebbe anche diventare un possibile interlocutore di governo del CSSD, visto che i due partiti hanno recentemente dato vita all’amministrazione della città di Praga.

Oltre agli scandali in cui è stato coinvolto, il governo uscente - sostituito da un gabinetto provvisorio nel mese di luglio - e i partiti che lo componevano sono stati penalizzati anche e soprattutto per l’impopolarità delle misure di austerity messe in atto negli ultimi anni in concomitanza con il deteriorarsi della situazione economica della Repubblica Ceca.

Parallelamente, i socialdemocratici e i comunisti, anche se incapaci di suscitare particolari entusiasmi, hanno potuto limitare i danni grazie ad una campagna elettorale nella quale hanno proposto, tra l’altro, un improbabile aumento della spesa pubblica e delle tasse per i redditi più elevati.

Questi due partiti, in definitiva, hanno però ampiamente deluso le aspettative della vigilia, dal momento che i sondaggi pubblicati dopo la caduta del governo Necas avevano a lungo indicato per loro la più che concreta possibilità di ottenere una comoda maggioranza nella camera bassa del Parlamento ceco.

di Michele Paris

In concomitanza con la timida denuncia degli attacchi con i droni nel proprio paese da parte del primo ministro pakistano Nawaz Sharif nel corso di un vertice con Barack Obama alla Casa Bianca, sulle pagine del Washington Post è apparsa mercoledì un’esclusiva che ha documentato la stretta collaborazione tra i governi di Washington e Islamabad nella messa in atto di una campagna militare definita sostanzialmente criminale da due rapporti di altrettante organizzazioni a difesa dei diritti umani pubblicate questa settimana.

Se il tacito consenso del Pakistan alle incursioni dei velivoli senza pilota della CIA nelle aree tribali del nord-ovest è cosa nota, le rivelazioni del giornale della capitale americana presentano per la prima volta il contenuto degli accordi tra i due paesi su una questione a dir poco esplosiva.

I documenti in questione riguardano decine di attacchi avvenuti tra la fine del 2007 e la fine del 2011 e la maggior parte di essi sono stati redatti dalla sezione della CIA denominata Centro per l’Antiterrorismo appositamente per essere condivisi con le autorità pakistane.

Secondo il Post, la consegna dei documenti relativi ai droni al governo di Islamabad faceva parte di una vera e propria “routine diplomatica”. Tra il materiale scambiato vi erano mappe e immagini fotografiche relative alle località colpite dai missili, mentre alcuni documenti riportano esplicitamente la richiesta del governo pakistano di agire con i droni sul proprio territorio. In un documento del 2010, invece, vengono descritti una serie di obiettivi identificati in seguito ad un’operazione congiunta della CIA e dei servizi segreti pakistani (ISI).

I contatti tra le autorità americane e quelle del Pakistan avvenivano anche a Washington, dove l’ex vice-direttore della CIA, Michael Morell, era solito fare rapporto all’allora ambasciatore di Islamabad negli USA, Husain Haqqani, sullo svolgimento del programma con i droni nel suo paese.

Queste rivelazioni rappresentano un motivo di imbarazzo per il governo pakistano, il quale esprime frequentemente la propria condanna per operazioni militari profondamente impopolari tra la popolazione. Anche lo stesso Sharif, nonostante fosse all’opposizione durante il periodo coperto dai documenti pubblicati dal Washington Post, deve avere provato un certo disagio durante la conferenza stampa di mercoledì seguita al faccia a faccia con il presidente Obama.

Nell’incontro con i giornalisti e in un intervento presso lo US Institute of Peace, il premier pakistano si è sentito in obbligo di sollevare i gravi disagi provocati dai droni tra la popolazione colpita, chiedendo all’amministrazione Obama di porre fine agli attacchi. La richiesta di Sharif, tuttavia, è apparsa chiaramente come un tentativo di mostrare una certa fermezza di fronte alle proteste di una parte della classe dirigente e della popolazione pakistana nei confronti delle operazioni della CIA, visto che il suo governo, come quello precedente, è ben consapevole che le incursioni non cesseranno nel prossimo futuro.

Secondo il reporter del New York Times presente alla Casa Bianca mercoledì, infatti, Sharif avrebbe espresso le proprie “critiche” alle operazioni americane con i droni “in un tono talmente sommesso da essere sentito a malapena dai giornalisti”. Inoltre, per rassicurare Obama della continua collaborazione pakistana, il premier ha subito assunto un tono più conciliante, affermando che la minaccia del terrorismo richiede “sforzi seri senza indulgere in scambi di accuse”.

L’atteggiamento ambiguo mostrato da Nawaz Sharif a Washington è rivelatore delle pressioni in cui si trova ad operare l’intera classe politica pakistana, stretta tra una popolazione visceralmente ostile agli Stati Uniti e la necessità di conservare una partnership militare con questi ultimi che si traduce in consistenti aiuti finanziari.

Sharif, oltretutto, aveva condotto una campagna elettorale all’insegna di un moderato anti-americanismo e denunciando i droni, capitalizzando l’impopolarità del partito di governo dell’ex presidente, Asif Ali Zardari, considerato troppo remissivo di fronte alle richieste degli Stati Uniti.

L’inversione di rotta del nuovo premier nei rapporti con Washington è apparsa chiara dalla relativa riconciliazione in corso con l’amministrazione Obama annunciata dai principali media d’oltreoceano. A conferma di ciò vi sarebbe il recente sblocco di oltre 1,5 miliardi di dollari in aiuti destinati al Pakistan e congelati fin dal 2011 in seguito alle tensioni con gli USA provocate dal blitz che portò all’assassinio di Osama bin Laden e ad altri episodi che hanno rappresentato chiare violazioni della sovranità del paese centro-asiatico.

Le relazioni tra i governi di Pakistan e Stati Uniti rimangono comunque problematiche, sia perché, come già accennato, Islamabad deve assecondare almeno formalmente l’ostilità diffusa nel paese verso Washington sia perché alcune delle organizzazioni fondamentaliste che operano in Afghanistan sono tradizionalmente legate alle proprie forze di sicurezza nonostante le pressioni americane per contrastarne le attività.

A questo proposito, i documenti riservati pubblicati dal Washington Post mercoledì rivelano anche come alcuni esponenti di vertice dell’amministrazione Obama - tra cui l’ex segretario di Stato, Hillary Clinton - abbiano avuto scontri accesi con le autorità pakistane dopo aver presentato loro le prove della collaborazione dei servizi segreti di questo paese con gruppi estremisti coinvolti in attacchi contro le forze di occupazione statunitensi in Afghanistan.

Negli stessi documenti, infine, emergono i tentativi da parte della CIA di minimizzare i “danni collaterali” delle incursioni con i droni in Pakistan, anche se gli attacchi vengono condotti sempre più soltanto sulla base di comportamenti dei bersagli ritenuti “sospetti”, spesso senza nemmeno conoscere l’identità dei presunti militanti assassinati.

Ciò ha provocato ripetute stragi di civili innocenti nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan, messe in luce da svariate indagini sul campo. Tra di esse, spicca quella resa nota proprio questa settimana da Amnesty International, diffusa in contemporanea con uno studio simile di Human Rights Watch relativo allo Yemen e basata sugli attacchi americani in Pakistan tra il maggio del 2012 e il luglio di quest’anno.

Quelle presentate dall’organizzazione britannica - supportate anche dal relatore speciale per i diritti umani e le attività anti-terrorismo dell’ONU, Ben Emmerson - appaiono come vere e proprie prove di crimini di guerra commessi dal governo americano attraverso l’uso dei droni, strumenti di morte impiegati non tanto per eliminare sommariamente presunti terroristi ma soprattutto per terrorizzare intere popolazioni, costrette ad accettare la presenza e la dominazione degli Stati Uniti in un’area del pianeta cruciale per i loro interessi strategici.


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