di Michele Paris

Ad aggiungere un nuovo capitolo allo scontro in corso negli Stati Uniti tra il Congresso e la CIA è stata la pubblicazione questa settimana sul Washington Post di alcune anticipazioni relative all’indagine condotta da una commissione del Senato sugli interrogatori con metodi di tortura di presunti terroristi durante l’amministrazione di George W. Bush.

Le rivelazioni, basate su fonti anomime che hanno avuto l’opportunità di leggere il rapporto classificato di oltre 6 mila pagine, rappresentano un’ulteriore devastante conferma del grado di criminalità dei vertici dell’agenzia di Langley e dello stesso governo americano, accusati di ricorrere in maniera ripetuta a pratiche illegali nell’ambito della “guerra al terrore” e di avere deliberatamente mentito sia sulla loro efficacia sia sull’entità stessa delle minacce alla sicurezza nazionale provenienti dal fondamentalismo islamico.

Secondo un esponente del governo USA citato dal Washington Post, “la CIA sosteneva sia con il Dipartimento di Giustizia sia con il Congresso che i programmi [di interrogatorio] consentivano di ottenere informazioni fondamentali e impossibili da ottenere in altra maniera per sventare trame terroristiche e salvare migliaia di vite”. Alla domanda se questa tesi corrispondesse al vero, la stessa fonte del quotidiano della capitale americana ha risposto con un secco “no”.

Uno degli aspetti sottolineati dal rapporto prodotto dalla Commissione sui Servizi Segreti del Senato sarebbe appunto l’intervento dei vertici della CIA per manipolare i risultati degli interrogatori, ingigantendone l’importanza.

Il materiale di intelligence più significativo nella lotta contro Al-Qaeda - incluse le informazioni che avrebbero portato all’assassinio di Osama bin Laden in Pakistan nel 2011 - non è stato però reperito grazie alle cosiddette “tecniche avanzate di interrogatorio”, vale a dire torturando i detenuti, ma con i metodi tradizionali.

Ad esempio, le informazioni rivelate da Abu Zubaydah - ritenuto dagli americani uno dei massimi esponenti di Al-Qaeda - sarebbero state ottenute durante normali interrogatori ad opera dell’agente dell’FBI Ali Soufan in un ospedale in Pakistan e non dopo che lo stesso sospettato era stato sottoposto a torture varie, tra cui il “waterboarding” per ben 83 volte.

Ciononostante, spiega il rapporto del Senato, il percorso delle informazioni raccolte dall’agente Soufan verso i vertici del governo era stato falsificato, in modo da dare l’impressione che esse fossero state il risultato dei durissimi interrogatori della CIA.

La stessa posizione ricoperta da Zubaydah all’interno di Al-Qaeda era stata esagerata, visto che in seguito molti esperti di terrorismo islamico avrebbero affermato che il ruolo nell’organizzazione del cittadino saudita ora detenuto nel lager di Guantanamo era soltanto quello di aiutante nelle operazioni di reclutamento.

Lo stesso schema fuorviante la CIA lo utilizzò anche nel caso di Hassan Ghul, la cui testimonianza sarebbe servita a identificare il corriere di bin Laden e a rivelare la residenza del leader di Al-Qaeda in Pakistan. Ghul aveva cioè detto quanto sapeva già alle autorità curde nel nord dell’Iraq, ma le informazioni di maggiore rilievo sarebbero state fatte successivamente confluire in quelle di minore importanza ottenute dalla CIA in una delle prigioni segrete gestite dall’agenzia, in questo caso in Romania, dove il detenuto è stato in seguito trasferito.

Nel rapporto del Congresso sono descritte nel dettaglio anche alcune delle pratiche criminali usate contro i detenuti nel corso degli interrogatori. Significativa in questo senso è la vicenda di Ammal al-Baluchi, nipote di Khalid Sheik Mohammed, autodefinitosi la “mente” degli attentati dell’11 settembre.

Dopo la cattura a fine aprile 2003 a Karachi, in Pakistan, Baluchi venne trasferito in una prigione segreta della CIA a Kabul, dove fu sottoposto a svariate torture. Tra di esse, il rapporto elenca una tecnica mai inclusa nella lista approvata dal Dipartimento di Giustizia, come l’immersione in una vasca di acqua gelata, nella quale inoltre gli agenti americani gli tenevano forzatamente la testa impedendogli di respirare.

Il trattamento riservato a Baluchi prevedeva poi regolari percosse con bastoni, mentre la sua testa veniva frequentemente sbattuta contro il muro. Ad assistere agli interrogatori vi era sempre un “medico” della CIA, con l’incarico di monitorare le funzioni vitali dei sospettati ed evitare che i maltrattamenti risultassero fatali.

Rendendo il tutto ancora più inquietante, le torture sarebbero continuate ad avvenire anche dopo che Baluchi, come molti altri detenuti, aveva deciso di collaborare con i propri torturatori. Ugualmente, i vertici dell’agenzia ordinavano spesso di proseguire con questi metodi anche quando veniva accertato che non era possibile estrarre ulteriori informazioni dai detenuti.

Quest’ultima rivelazione smentisce perciò clamorosamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei membri dell’amministrazione Bush e dello stesso ex presidente repubblicano, i quali avevano più volte sostenuto l’importanza delle informazioni raccolte con metodi di tortura per evitare un altro 11 settembre.

Allo stesso modo, lo smascheramento delle menzogne del governo USA - assieme alla conferma del ricorso a torture spesso nemmeno contemplate dai già vergognosi pareri legali del Dipartimento di Giustizia, redatti per giustificare le violenze commesse ai danni dei detenuti durante gli interrogatori - dovrebbe servire a mettere sotto accusa anche l’amministrazione Obama, colpevole fin dal suo insediamento di avere insabbiato qualsiasi procedimento giudiziario nei confronti dei responsabili.

Lo stesso rapporto del Senato, d’altra parte, non conterrebbe alcuna raccomandazione per punire o anche solo sottoporre a indagine coloro che hanno autorizzato e portato a termine questi crimini o che hanno mentito alla popolazioe americana per nascondere colossali violazioni dei diritti umani.

La rivelazione della sostanziale inutilità ai fini pratici delle torture impiegate dalla CIA con il consenso dell’intero governo solleva soprattutto inquietanti interrogativi legati alle reali finalità dell’intera “guerra al terrore”. In altre parole, come la costruzione di un apparato pseudo-legale contrario alle basilari norme democratiche e costituzionali è servito a gettare le fondamenta di un sistema autoritario dotato di strumenti da stato di polizia per contrastare qualsiasi minaccia derivante nel prossimo futuro dalle esplosive tensioni sociali interne agli Stati Uniti, così il ricorso alle torture avrebbe potuto anche avere l’obiettivo di legittimare o testare metodi estremi di interrogatorio da utilizzare in circostanze simili.

La pubblicazione dell’esclusiva del Washington Post si inserisce in ogni caso in un momento estremamente delicato nei rapporti tra la CIA e il Congresso. Poche settimane fa, infatti, la presidente della Commissione sui Servizi Segreti del Senato, la democratica Dianne Feinstein, era stata protagonista di un discorso senza precedenti, nel quale accusava la CIA di avere violato il principio costituzionale della separazione dei poteri.

L’agenzia di Langley aveva cioè spiato i computer dei membri della commissione deputata al suo controllo e dei loro collaboratori per scoprire a quali documenti segreti e non autorizzati questi ultimi avevano avuto accesso nella loro indagine sugli interrogatori post 11 settembre.

In particolare, i senatori erano riusciti a visionare un rapporto classificato nel quale la CIA sembrava appoggiare le conclusioni critiche nei suoi confronti espresse dal rapporto della commissione. Pubblicamente, al contrario, i vertici della principale agenzia di intelligence americana avevano invece respinto le accuse del Congresso.

Il rapporto della commissione del Senato rimane comunque segreto, anche se almeno una parte di esso potrebbe essere pubblicata nel prossimo futuro. Giovedì, infatti, nonostante la contrarietà di quasi tutti i suoi membri repubblicani, la Commissione sui Servizi Segreti ha approvato una risoluzione che intende sollecitare la Casa Bianca a declassificare qualche centinaio di pagine del rapporto stesso.

Il presidente Obama, da parte sua, ha più volte lanciato segnali positivi in questo senso, anche se la versione che sarà resa pubblica risulterà pesantemente oscurata e, oltretutto, i tempi della pubblicazione potrebbero essere molto lunghi.

L’amministrazione democratica, inoltre, pur cercando di apparire intenzionata a fare chiarezza sugli abusi della CIA, ha appoggiato nemmeno troppo velatamente l’attuale direttore dell’agenzia di intelligence, l’ex consigliere di Obama per l’anti-terrorismo, John Brennan, nella diatriba con il Congresso. Come è apparso di recente sui giornali americani, infine, la stessa Casa Bianca si era anche rifiutata di fornire alla Commissione del Senato più di 9 mila documenti utili all’indagine sui programmi illegali della CIA.

di Michele Paris

Dopo il tracollo elettorale registrato dal Partito Socialista (PS) nel voto amministrativo in Francia, il presidente François Hollande ha operato come previsto un immediato cambio di governo, liquidando il primo ministro Jean-Marc Ayrault. L’inquilino dell’Eliseo ha tratto però le conseguenze più nefaste possibili dall’appuntamento con le urne caratterizzato dall’ascesa del Fronte Nazionale, dal momento che le aspettative degli elettori per politiche progressiste mai materializzatesi in questi due anni sono state nuovamente ignorate con la promozione a premier di uno dei ministri più a destra del gabinetto uscente.

A determinare la perdita di ben 155 comuni francesi con più di 10 mila abitanti in mano ai socialisti è stata in larghissima misura l’adozione e la programmazione a livello nazionale di “riforme” che hanno gettato le basi per il drastico ridimensionamento del welfare relativamente generoso d’oltralpe. A ciò vanno aggiunte le decine di miliardi di euro in benefici fiscali offerti alle aziende francesi, da recuperare con ulteriori tagli alla spesa sociale, come fissato nel cosiddetto “Patto di Responsabilità” recentemente firmato dagli industriali e da alcune organizzazioni sindacali sotto gli auspici del presidente e del governo.

Dal momento che il non esattamente brillante candidato Hollande era stato premiato nelle presidenziali del 2012 grazie all’impopolarità di Nicolas Sarkozy e alla promessa di sia pure modeste iniziative di stampo progressista, il PS è stato inevitabilmente punito nelle elezioni conclusesi domenica scorsa per avere sostanzialmente proseguito il percorso della destra sotto la spinta dell’Unione Europea e degli ambienti finanziari internazionali.

Nella serata di lunedì, Hollande ha parlato in diretta TV, affermando di avere “personalmente ricevuto il messaggio degli elettori”, per poi annunciare la nomina a nuovo capo del governo del ministro dell’Interno, Manuel Valls, autentica incarnazione della deriva conservatrice degli ultimi decenni del Partito Socialista e delle formazioni socialdemocratiche occidentali.

Non conoscendo l’affiliazione politica di Valls, risulterebbe infatti difficile distinguere il neo-premier francese da un esponente della destra ultra-liberista con tendenze autoritarie se non addirittura razziste. Valls fa parte dell’ala destra del Partito Socialista e ammira apertamente la disastrosa esperienza politica del “New Labour” di Tony Blair, al quale viene spesso accostato.

Le sue posizioni in ambito economico e sulle questioni della sicurezza interna erano emerse già nel corso delle primarie per le presidenziali francesi vinte da Hollande. Nonostante in quell’occasione giunse quinto su sei candidati alla nomination per l’Eliseo, raccogliendo un misero 6%, Valls utilizzò la vetrina come trampolino di lancio della sua carriera politica, ben consapevole dell’utilità di figure dalle credenziali reazionarie in un quadro politico sempre più spostato verso destra.

Valls fu ad esempio molto critico nei confronti della settimana lavorativa di 35 ore, introdotta anni prima sempre da un governo socialista, mentre più in generale manifestò la volontà di procedere con la “modernizzazione” del partito, esemplificata dalla sua proposta di cambiare il nome stesso, togliendo l’aggettivo “socialista” così da mettere fine alla pretesa puramente formale del riferimento al socialismo, definito dal neo-premier francese come un pensiero “obsoleto” e “da diciannovesimo secolo”.

Sul fronte delle politiche legate alla sicurezza, inoltre, nel corso del suo incarico a ministro dell’Interno Manuel Valls ha promosso un rafforzamento dei poteri degli organi di polizia, rispecchiando tra l’altro la parabola dell’ex presidente Sarkozy prima della sua elezione a Capo dello Stato. Particolarmente controverse sono state poi le sue posizioni sui Rom, i cui campi ha continuato a smantellare per poi dichiarare che i membri di questa minoranza etnica che vivono in Francia avrebbero dovuto essere deportati in massa perché “non assimilabili”.

Proprio l’atteggiamento dell’appena nominato primo ministro su tali questioni chiarisce ancora una volta la risposta del tradizionale establishment politico francese alla crescita dell’estrema destra, affrontata cioè incorporando nei propri programmi e nella propria retorica alcuni dei temi cari a quest’ultima, provocando inevitabilmente un ulteriore spostamento a destra del baricentro politico.

Non a caso, d’altra parte, uno dei dati più significativi delle amministrative secondo i media ufficiali francesi sarebbe lo scardinamento del sistema bipolare che vede alternarsi al potere i socialisti e i gollisti dell’UMP (Union pour un Mouvement Populaire), con l’irruzione a pieno titolo del Fronte Nazionale nel panorama politico transalpino.

Una simile evoluzione comporta tuttavia la legittimazione delle istanze neo-fasciste del movimento fondato da Jean-Marie Le Pen e, nuovamente, contribuisce allo spostamento verso destra dell’asse politico generale.

Sul fronte economico, la scelta di Valls dimostra invece quali siano i punti di riferimento di Hollande, vale a dire Bruxelles e i circoli finanziari piuttosto che gli elettori francesi. Il licenziamento del governo Ayrault e la nomina al suo posto di un ministro tra i più convinti sostenitori delle “riforme” di libero mercato intendono rispondere infatti ai malumori espressi per la mancanza di decisione con cui Parigi ha finora condotto gli attacchi alla spesa pubblica e alle condizioni di vita dei lavoratori.

Come ha spiegato il Financial Times, d’altra parte, la Francia è sotto pressione per rimettere in ordine le proprie finanze, visto oltretutto che ha già ottenuto dall’Unione Europea due anni di tempo in più - fino al 2015 - per ridurre il deficit di bilancio al 3% del PIL, attestato ora al 4,3%.

Prevedibilmente, la notizia dell’arrivo di Valls all’Hôtel Matignon ha suscitato le proteste dei partiti a sinistra del PS. Secondo Libération, ad esempio, Jean-Luc Mélenchon, Pierre Laurent e Olivier Besancenot - leader rispettivamente del Partito della Sinistra (Parti de Gauche, PG), del Partito Comunista Francese (PCF) e del Nuovo Partito Anticapitalista (Nouveau Parti Anticapitaliste, NPA) - hanno definito la nomina decisa da Hollande un “tradimento” e hanno poi fatto appello ai Verdi (Europe Écologie-Les Verts, EE-LV) ad abbandonare il governo per costruire insieme un’alleanza alternativa.

Il riferimento al “tradimento” è legato al fatto che queste formazioni avevano appoggiato nel 2012 la candidatura alla presidenza di Hollande, alimentando nell’elettorato l’illusione di potere esercitare pressioni sul governo socialista, così da convincerlo ad adottare una serie di politiche progressiste.

Due anni più tardi, con la scelta di Manuel Valls per guidare un governo nominalmente socialista e i successi elettorali del Fronte Nazionale, la realtà francese vede tuttavia un netto dominio delle forze di destra, con prospettive ancora più cupe in vista dell’imminente voto per il Parlamento europeo.

di Mario Lombardo

Nonostante gli scandali che negli ultimi mesi hanno messo seriamente in crisi il governo islamista turco, il partito del primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, ha incassato una netta vittoria nelle elezioni amministrative andate in scena nella giornata di domenica. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha addirittura incrementato la quota di consensi ottenuta nella precedente tornata elettorale del 2009, anche se ha ceduto terreno rispetto alle parlamentari di quattro anni fa, confermando un qualche riflesso negativo dovuto ai problemi del premier e al tempo stesso la sostanziale incapacità da parte dell’opposizione secolare di capitalizzare le tensioni che stanno attraversando il paese euro-asiatico.

L’AKP ha superato il 45% su scala nazionale, vale a dire più di 6 punti in più rispetto alle ultime amministrative, mentre quasi 5 punti sono stati invece persi dal partito di Erdogan dal 2011 a oggi. I due principali partiti di opposizione hanno fatto segnare solo modesti miglioramenti, con il CHP (Partito Popolare Repubblicano) che ha sfiorato il 28% (+ 2% rispetto al 2011) e la formazione di estrema destra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) che è salita al 15% (+2%).

Sul voto di domenica, Erdogan aveva investito buona parte del proprio capitale politico e, pur non apparendo sulle liste elettorali, era stato protagonista della campagna del suo partito, chiedendo ai turchi di non lasciarsi influenzare da procedimenti giudiziari e rivelazioni della stampa, definiti come un tentativo di abbattere in maniera anti-democratica il governo in carica.

L’obiettivo della battaglia di Erdogan era e continua a rimanere il movimento islamista Hizmet del predicatore e accademico Fethullah Gülen, residente negli Stati Uniti da dove controlla un vasto numero di istituzioni scolastiche e, secondo molti, mantiene contatti molto stretti con ambienti della magistratura turca, responsabile dell’avvio di svariati procedimenti giudiziari per corruzione ai danni di membri del governo.

Contro l’ex alleato Gülen e i suoi fedeli il primo ministro ha tuonato nella serata di domenica nel corso di un discorso ad Ankara poco dopo la diffusione dei primi risultati. Con tono minaccioso che prospetta una resa dei conti nel prossimo futuro, Erdogan ha affermato che “domani ci saranno alcuni che fuggiranno”, ma “li seguiremo fin nelle loro caverne… ed essi pagheranno per le loro azioni”.

Un’ulteriore accelerazione autoritaria potrebbe così essere all’ordine del giorno in Turchia dopo la legittimazione elettorale ottenuta dall’AKP. Ciò farebbe seguito non solo alla repressione delle proteste anti-governative esplose fin dall’estate scorsa in molte parti del paese, ma, ad esempio, anche alla legislazione che assegna all’esecutivo maggiori poteri sulla magistratura e di controllo su internet, nonché alla più recente chiusura di Twitter e YouTube. Quest’ultimo sito è stato bloccato a causa della diffusione settimana scorsa di un filmato nel quale diplomatici e membri dell’intelligence discutono l’ipotesi di pianificare un finto attacco contro gli interessi turchi in Siria, così da giustificare un’aggressione militare contro Damasco.

La vittoria dell’AKP, in ogni caso, non ha potuto nascondere le tensioni nel paese, confermate dagli scontri in alcune province nel giorno del voto che hanno fatto addirittura una decina di morti. La Turchia d’altra parte rimane estremamente polarizzata, con ampi settori della popolazione sempre più ostili al governo di Ankara, soprattutto tra i più giovani e la borghesia urbana tradizionalmente secolare, risentita, tra l’altro, dall’ondata islamista che ha investito il paese da un decennio a questa parte.

L’AKP, infatti, utilizza l’arma della religione per mobilitare le classi tradizionalmente più emarginate nella storia della Turchia repubblicana, prospettando loro un’emancipazione che, in realtà, si è tradotta più che altro nell’arricchimento relativo di una nuova borghesia islamista e - smisurato - di una ristretta cerchia di imprenditori legati al partito, tra cui gli stessi membri della famiglia Erdogan.

I timori del governo per una batosta elettorale erano in ogni caso diffusi, come dimostra sia l’isteria del premier e dei suoi uomini alla vigilia del voto sia i probabili brogli che, pur non avendo alterato l’esito finale, sono stati segnalati in moltissimi seggi.

Ad Ankara, poi, l’esito della corsa per la carica di sindaco rimane in bilico, con i due principali candidati divisi da una manciata di voti che si sono dichiarati entrambi vincitori. Il CHP - il cui candidato, Mansur Yavas, sfidava il sindaco uscente dell’AKP, Melih Gökcek - ha annunciato un’azione legale per un riconteggio dei voti dopo che gli ultimi risultati avevano evidenziato un leggero margine di vantaggio per l’AKP.

La posta in gioco era molto alta anche a Istanbul, dove Erdogan stesso aveva ricoperto la carica di sindaco negli anni Novanta e il partito del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal “Atatürk”, cercava di dare una spallata all’AKP per gettare le basi di una riscossa nazionale. Anche qui i due candidati con il maggior numero di voti hanno rivendicato il successo alla chiusura delle urne ma nelle ore successive il margine a favore dell’AKP è andato allargandosi.

Il CHP, dunque, non è stato in grado di intercettare i sia pur presenti segnali di declino della popolarità di Erdogan e dell’AKP, continuando ad essere visto invece come il partito delle élite secolari turche ed una minaccia alla libera espressione della religione islamica tra la popolazione più osservante.

Il suo leader, Kemal Kiliçdaroglu, ha da parte sua escluso che la prestazione del partito sia stata un fallimento, ammettendo però in un’intervista rilasciata al quotidiano Hürriyet che gli sforzi fatti in campagna elettorale per fare in modo che “le masse non si sentissero alienate” sono stati tutt’altro che convincenti.

Le attenzioni dei media turchi ed occidentali si stanno comunque già concentrando sulle prossime mosse di Erdogan, il quale dovrà decidere se partecipare alle elezioni presidenziali della prossima estate oppure se intenderà candidarsi per un quarto mandato alla guida del governo nel voto per il rinnovo del parlamento nel 2015. Quest’ultima scelta appare a molti la più probabile alla luce dei risultati delle municipali di domenica, anche se una nuova candidatura di Erdogan a primo ministro dovrà essere preceduta da una modifica delle regole interne al partito che prevedono un massimo di tre incarichi per i propri membri.

Al di là dei risultati elettorali e dei toni trionfalistici di Erdogan, la posizione del governo continuerà con ogni probabilità ad essere precaria nei prossimi mesi, così come minaccia di protrarsi ulteriormente l’instabilità politica. Ciò è dovuto in primo luogo all’evolvere dei guai giudiziari di vari esponenti del governo ma anche al deteriorarsi di un’economia a lungo indicata come modello da seguire per i paesi emergenti e ora in evidente affanno anche a causa dell’altissimo livello di indebitamento del paese e del proprio settore privato.

Inoltre, le sconsiderate scelte di politica estera di Erdogan e del suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, hanno messo la Turchia in una posizione delicata, in particolare riguardo la crisi in Siria. Ankara ha appoggiato infatti fin dall’inizio e in maniera decisa l’opposizioni anti-Assad, finendo per importare la minaccia fondamentalista alimentata oltre il confine meridionale e rischiando di entrare direttamente in un conflitto rovinoso contro la volontà della grande maggioranza della popolazione.

Il governo Erdogan, poi, aveva appoggiato in pieno il nuovo regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, subendo perciò una grave umiliazione in seguito al colpo di stato militare che nel luglio scorso al Cairo depose il presidente Mohamed Mursi e diede vita al riallineamento strategico nella regione.

A ciò deve aggiungersi infine la posizione di relativa indipendenza mostrata dalla Turchia riguardo le relazioni con l’Iran, mantenute in buona parte sia a livello diplomatico che economico. Il rapporto con Teheran ha contribuito ad alterare almeno in parte i rapporti con gli Stati Uniti, tanto che in molti ritengono che a Washington ci sia ben poca opposizione alla campagna di destabilizzazione condotta dal movimento di Fethullah Gülen ai danni del governo dell’AKP in questi mesi.

di Michele Paris

A quasi un anno di distanza dalle bombe alla maratona di Boston, che fecero tre morti e centinaia di feriti, i punti oscuri e gli interrogativi circa i responsabili, i testimoni e l’eventuale coinvolgimento del governo americano rimangono tuttora irrisolti. In particolare, la morte per mano dell’FBI del 27enne ceceno Ibragim Todashev, amico dei fratelli Tsarnaev, accusati di essere i responsabili dell’attentato, continua a rimanere avvolta nel mistero anche dopo le recenti indagini giornalistiche e la pubblicazione di due rapporti ufficiali da parte delle autorità americane.

Immigrato dalla Russia ed appassionato di arti marziali, Todashev è stato assassinato al termine di un interrogatorio di quasi cinque ore nella notte tra il 21 e il 22 maggio dello scorso anno nel suo appartamento di Orlando, in Florida. Il giovane era finito al centro delle indagini sugli attentati di Boston a causa dei suoi legami con Tamerlan Tsarnaev, il maggiore dei due fratelli ceceni, ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia pochi giorni dopo le esplosioni.

Secondo la ricostruzione ufficiale, Todashev aveva confessato agli agenti che lo stavano interrogando di essere coinvolto nell’omicidio di tre spacciatori, avvenuto l’11 settembre 2011 a Waltham, nel Massachusetts. In questo crimine sembrava avere avuto un ruolo lo stesso Tamerlan Tsarnaev, anche se le autorità, per ragioni tutt’altro che chiare, non avevano indagato a fondo, nonostante i legami molto stretti di quest’ultimo con gli assassinati.

In ogni caso, l’interrogatorio sarebbe ad un certo punto degenerato e l’unico agente dell’FBI presente nell’appartamento, per evitare di essere aggredito da Todashev, ha sparato sette volte con la sua pistola senza lasciargli scampo.

Dopo dieci mesi di indagini, questa settimana un procuratore dello stato della Florida, Jeffrey Ashton, ha finalmente reso pubbliche le sue conclusioni. Oltre a scagionare l’agente dell’FBI che ha ucciso Todashev, il rapporto mostra una serie di contraddizioni che si scontrano sia con i risultati di un’altra indagine del Dipartimento di Giustizia, sia con le ricerche estremamente approfondite condotte dal giornalista americano Dave Lindorff per il magazine on-line Counterpunch.

Innanzitutto, il procuratore Ashton sembra essere giunto a conclusioni diverse da quelle suggerite dalle informazioni raccolte dagli stessi investigatori del suo ufficio e da quelle fornite dal coroner di Orlando, il cui rapporto è stato peraltro tenuto nascosto al pubblico dietro richiesta dell’FBI.

Le dichiarazioni seguite alla morte di Todashev delle due persone che erano nella stanza con l’interrogato - il già ricordato agente speciale dell’FBI di Boston e un agente della polizia dello stato del Massachusetts - sono ad esempio contrastanti in svariati punti. Secondo l’agente della polizia statale, attorno alla mezzanotte, Todashev avrebbe acconsentito a rilasciare una deposizione per confessare il suo coinvolgimento nel triplice omicidio del 2011, quando improvvisamente si sarebbe messo a gridare, avrebbe ribaltato il tavolo del soggiorno sul quale l’uomo dell’FBI stava scrivendo, per poi correre verso il breve corridoio che conduce alla porta d’ingresso.

Qui, Todashev avrebbe impugnato un bastone della lunghezza di un metro e mezzo che si trovava contro il muro vicino alla porta, scagliandosi poi contro lo stesso agente di polizia. A quel punto, il collega dell’FBI avrebbe sparato a Todashev, il quale è dapprima caduto sulle ginocchia e poi si è rialzato caricando nuovamente. Altri spari sono subito seguiti, finché il sospettato è crollato senza vita sul pavimento.

La versione dell’agente dell’FBI presentava invece i fatti in maniera parzialmente diversa su alcuni particolari cruciali. L’agente speciale sostenne cioè che, mentre stava scrivendo la deposizione, si è sentito colpire nella parte posteriore della testa da Todashev, il quale subito dopo è corso verso la cucina cercando in maniera concitata un’arma o un qualche strumento nei vari cassetti.

Nel frattempo, l’agente dell’FBI aveva estratto la sua pistola e intimato inutilmente a Todashev di alzare le mani. Il ceceno, verosimilmente con un coltello, è poi tornato nel soggiorno per aggredire gli agenti e quello dell’FBI ha sparato tre o quattro colpi mandandolo a terra. Todashev si è però rialzato e i colpi successivi lo hanno messo definitivamente fuori gioco.

Le due versioni riportano comportamenti diversi da parte di Todashev, ma quella finale dell’FBI le combina entrambe in maniera sospetta e tutt’altro che trascurabile vista la rilevanza del caso, descrivendo il sospettato intento a cercare un’arma dei cassetti della cucina per poi lanciarsi sugli agenti in soggiorno con un bastone di metallo che, tuttavia, secondo la testimonianza del poliziotto si trovava nel corridoio.

Ancora più controversa appare la ricostruzione relativa alla sequenza dei colpi esplosi. Todashev è stato colpito sette volte, di cui tre alla schiena. Se, perciò, almeno uno dei due resoconti degli agenti dovesse corrispondere al vero, Todashev deve essere stato colpito di fronte, così che i primi quattro colpi, come spiega il rapporto del medico legale, hanno perforato l’aorta e il ventricolo sinistro. In questo caso, se anche il 27enne ceceno avesse trovato la forza di rialzarsi per tornare ad attaccare gli agenti, è estremamente improbabile che possa essersi diretto verso la porta d’ingresso, come suggeriscono gli spari alla schiena.

Uno dei sette spari, come appare dalle immagini dell’autopsia, ha inoltre colpito Todashev nella parte superiore della testa. Questo sparo, vista l’ovvia letalità, deve essere stato necessariamente l’ultimo e difficilmente può essere giustificato con le ricostruzioni delle versioni ufficiali, sembrando piuttosto un colpo finale per assicurarsi della morte del sospettato quando era già a terra agonizzante.

Dalle immagini scattate nell’appartamento dopo le analisi dell’FBI e fornite a Lindorff dalla suocera di Todashev, si nota poi come le uniche macchie di sangue visibili siano lontane dal tavolo del soggiorno dove l’interrogatorio e il tentativo di aggressione ai danni dell’agente dell’FBI avrebbero avuto luogo. Il sangue si trova invece all’inizio del corridoio che conduce all’ingresso e anche i muri risultano privi di macchie, rendendo verosimile concludere che Todashev sia stato colpito solo quando si trovava in quella zona dell’appartamento e, forse, quando già era a terra.

Secondo l’investigatore privato assunto dalla famiglia Todashev per indagare sull’assassinio ci sarebbe un altro fatto inquietante. Il muro al di sopra delle macchie di sangue presentava cioè una parte dalla quale sembrava essere stata rimossa una pallottola. Se ciò fosse vero, l’FBI avrebbe chiaramente manomesso la scena del crimine. I sospetti in questo senso sono supportati dal fatto che lo stesso “Bureau” giunse nell’appartamento di Orlando poco dopo la sparatoria - attorno alla mezzanotte e mezza del 22 maggio - e consentì l’ingresso per i rilievi all’ufficio del medico legale solo attorno alle due del mattino.

Queste circostanze hanno spinto la suocera di Todashev a sostenere apertamente che il genero è stato assassinato in maniera deliberata mentre stava cercando di fuggire dall’appartamento e non in prossimità del tavolo del soggiorno dove stava avvenendo l’interrogatorio.

Lindorff spiega inoltre un’altra incongruenza delle versioni ufficiali, questa volta in relazione ai metodi di indagine dell’FBI. Dal momento che la procedura comune della polizia federale nel corso degli interrogatori prevede la presenza di almeno due agenti, appare insolito che il sospettato di un triplice omicidio che stava per confessare le sue responsabilità fosse lasciato con un solo agente (oltre al poliziotto del Massachusetts). Questa pratica è dovuta al fatto che l’FBI non registra i propri interrogatori e, quindi, un secondo agente deve confermarne il corretto svolgimento.

Nella serata del 21 maggio scorso, in realtà, era presente un secondo agente dell’FBI, ma quest’ultimo si era assentato dall’appartamento e si trovava all’esterno dell’edificio con il compito di intercettare e bloccare l’ingresso di un amico di Todashev, Khusen Tamarov. Tamarov, come avrebbe egli stesso spiegato successivamente in varie interviste, era stato chiamato dall’amico per assistere all’interrogatorio dell’FBI perché Todashev temeva che “qualcosa di brutto stava per succedergli”.

Quando Tamarov arrivò presso l’abitazione di Todashev, l’agente che lo attendeva in strada lo invitò ad andarsene, accompagnandolo anzi ad un ristorante lontano dall’appartamento che era solito frequentare. Successivamente, non avendo ottenuto risposta ad alcuni SMS inviati all’amico, Tamarov tornò verso la casa di Todashev, ormai presidiata dalle auto della polizia.

La testimonianza di Tamarov non è comunque rientrata nelle indagini del procuratore Ashton perché all’amico di Todashev, dopo essersi recato in Russia per assistere al suo funerale, è stato impedito di rientrare negli Stati Uniti nonostante in possesso di regolare Carta Verde e senza alcun precedente penale.

Altri amici e membri della famiglia di Todashev hanno subito lo stesso trattamento nei mesi scorsi, deportati cioè nei loro paesi di origine o infastiditi dall’FBI. La fidanzata e convivente di Todashev, Tatiana Gruzdeva, venne ad esempio arrestata lo scorso ottobre in seguito ad una sua visita all’ufficio immigrazione di Orlando, dove intendeva chiedere i documenti necessari per lavorare negli USA.

La giovane moldava è stata poi sommariamente deportata in Russia malgrado il suo permesso per rimanere negli Stati Uniti sarebbe scaduto di lì a dieci mesi. Secondo la stessa Gruzdeva e i suoi legali, le autorità americane avrebbero motivato l’espulsione con i contatti che quest’ultima ha intrattenuto con la stampa dopo i fatti di Boston e la morte di Todashev.

Alla luce delle circostanze relative ai fatti descritti, nonché dei silenzi e dei tentativi di insabbiamento della verità da parte dell’FBI, del Dipartimento di Giustizia e dell’ufficio del procuratore della Florida, è più che legittimo sospettare che dietro alla morte di Todashev e agli stessi eventi legati alle bombe di Boston ci siano questioni a dir poco esplosive.

Per cominciare, la pericolosità di Tamerlan Tsarnaev era stata segnalata più volte dai servizi segreti russi e sauditi, i quali avevano messo in evidenza come il più vecchio dei due fratelli accusati dell’attentato avesse legami con i fondamentalisti islamici attivi in Cecenia e nel Daghestan.

Ciononostante, gli americani non fecero nulla per impedire nel 2012 un viaggio di Tsarnaev proprio nel Caucaso, dove con ogni probabilità ebbe contatti con questi ambienti estremisti. L’FBI, oltretutto, aveva già indagato Tsarnaev in relazione agli omicidi del 2011 a Waltham, nel Massachusetts, ed era anche finito su una lista di osservati speciali per possibili legami con il terrorismo internazionale. Di tutto ciò, però, la polizia di Boston non è mai stata messa al corrente, anche se nelle settimane precedenti il 15 aprile 2013 erano circolati avvertimenti di possibili attentati in occasione della importante maratona.

Un altro punto poco o per nulla indagato dai media potrebbe risultare rivelatore. Uno zio dei fratelli Tsarnaev, Ruslan Tsarni, è stato cioè il fondatore del Congresso delle Organizzazioni Internazionali Cecene (CCIO), nient’altro che una copertura della CIA per fornire armi ai ribelli della repubblica autonoma russa nel Caucaso.

La sede del CCIO risultava essere presso un indirizzo di Rockville, nel Maryland, corrispondente all’abitazione di Graham Fuller, vice-direttore del Consiglio per l’Intelligence Nazionale della CIA durante la presidenza Reagan e agente segreto operativo in molti paesi, tra cui Afghanistan, Yemen e Arabia Saudita, prima di lasciare ufficialmente l’agenzia nel 1988 a causa del suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contras. A conferma dei legami tra Tsarni e Fuller, entrambi hanno poi confermato che la figlia di quest’ultimo era stata sposata con lo zio dei fratelli Tsarnaev negli anni Novanta.

Come è quasi sempre accaduto in occasione di minacce di terrorismo sventate o portate a termine negli Stati Uniti nell’ultimo decennio, anche le bombe di Boston sono state dunque opera di individui che il governo conosceva molto bene.

Ciò spinge a pensare che l’attentato possa essere il risultato di un’operazione sfuggita di mano all’FBI e che i rapporti dei fratelli Tsarnaev o dello stesso Todashev con il fondamentalismo ceceno siano stati utilizzati dal governo USA per i propri obiettivi strategici, verosimilmente in funzione anti-russa. Tanto più che i tre ceceni avevano ottenuto asilo in America senza particolari prove di persecuzioni o minacce ricevute in patria nei loro confronti.

Per i complottisti, addirittura, le esplosioni di Boston potrebbero essere state favorite dalla CIA o dall’FBI, non necessariamente prevedendo gli esiti letali che sono seguiti, magari per fornire l’occasione all’apparato della sicurezza nazionale di mettere in atto quella che è sembrata una vera e propria esercitazione sul campo nella gestione di crisi o rivolte. La metropoli del Massachusetts è stata infatti virtualmente paralizzata per parecchie ore mentre i due fratelli Tsarnaev venivano inseguiti dalle forze di polizia, in una situazione di effettiva sospensione delle libertà democratiche.

In questo quadro, l’assassinio di stato di Ibragim Todashev appare chiaramente come un tentativo di togliere di mezzo uno scomodo testimone, messo a tacere, come sostiene la combattiva suocera del giovane ceceno, per impedire che venissero rese pubbliche informazioni scottanti sul coinvolgimento del governo in un atto di terrorismo sul suolo americano.

di Mario Lombardo

Una recente sentenza della Corte Costituzionale thailandese, assieme all’aggravamento dei guai giudiziari del primo ministro Yingluck Shinawatra e ad un imminente appuntamento elettorale, ha contribuito in questi giorni a rianimare le proteste di piazza contro il governo di Bangkok, riesplose ormai dallo scorso novembre dopo due anni di relativa pace nel paese dell’Asia sud-orientale.

A riportare i sostenitori dell’opposizione, della monarchia e dell’esercito nelle strade della capitale è stata innanzitutto la decisione del più alto tribunale della Thailandia di annullare le elezioni per la camera bassa del Parlamento, tenute il 2 febbraio scorso e vinte nettamente dal partito di governo (Pheu Thai). L’annullamento non è stato dovuto a brogli o irregolarità, bensì al fatto che le operazioni non sono avvenute in un unico giorno, rendendo il procedimento incostituzionale.

In effetti, 28 distretti del paese non avevano potuto votare, a causa però del blocco degli uffici elettorali proprio da parte dei manifestanti anti-governativi organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), i quali avevano impedito la registrazione dei candidati. In altri 5 distretti elettorali, poi, le urne sono rimaste chiuse in seguito ai disordini causati sempre dall’opposizione il giorno del voto.

Di fronte a questi ostacoli, la Commissione Elettorale si era rifiutata di registrare i candidati in sedi alternative, giudicando più opportuno rimandare la consultazione nei distretti in questione pur sapendo di mettere a rischio la costituzionalità dell’intera operazione di voto.

Sia la Corte Costituzionale che la Commissione Elettorale, d’altra parte, sono considerate vicine all’opposizione. La prima, in particolare, dopo essere stata trasformata dai militari in seguito al colpo di stato del 2006 che depose l’allora premier, Thaksin Shinawatra, ha vari precedenti nei quali ha favorito politicamente i rivali di quest’ultimo.

Nel 2007, ad esempio, il tribunale sciolse il partito di Thaksin - Thai Rak Thai - e l’anno successivo avrebbe fatto lo stesso con il suo successore – Partito del Potere Popolare – basando la propria sentenza su accuse di frode elettorale.

L’annullamento delle elezioni, perciò, è l’ennesimo tentativo del potere giudiziario thailandese di estromettere dal governo i sostenitori di Thaksin, spianando di fatto la strada ad un regime non eletto per salvaguardare gli interessi delle élite minacciate dall’evoluzione del quadro politico dell’ultimo decennio.

Intanto, i manifestanti guidati dall’ex vice-primo ministro e già deputato del Partito Democratico di opposizione, Suthep Thaugsuban, nella giornata di mercoledì hanno marciato a Bangkok per il terzo giorno consecutivo. Queste manifestazioni, secondo gli organizzatori, dovrebbero servire a raccogliere partecipanti ad una protesta ancora più massiccia in programma sabato prossimo per promuovere nuovamente la “riforma” del sistema thailandese prima di procedere con nuove elezioni.

La protesta anticiperà di un solo giorno il voto per il rinnovo di poco più della metà del Senato e che l’opposizione non ha alcuna intenzione di boicottare. Anzi, in questo caso i militanti anti-governativi intendono utilizzare l’appuntamento elettorale a loro favore per esercitare ancora maggiori pressioni sul governo.

Secondo l’ordinamento thailandese, solo 77 membri del Senato su 150 vengono scelti dagli elettori, mentre i rimanenti seggi sono assegnati da una speciale commissione formata da alcuni dei più importanti esponenti del potere giudiziario, tra cui i presidenti della Corte Costituzionale e della Commissione Elettorale.

Potendo contare dunque sulla nomina di senatori ben disposti verso la causa dell’opposizione, a quest’ultima basterà conquistare una manciata di seggi nel voto popolare di domenica per avere la maggioranza dei tre quinti nella Camera alta, necessari per rimuovere dal proprio incarico la premier Yingluck.

Inoltre, il presidente del Senato Nikom Wairatpanich, considerato vicino al governo, è stato sospeso dal suo incarico in attesa di una decisione dell’organo legislativo thailandese sulla possibilità di sottoporlo ad impeachment per avere abusato delle proprie funzioni. Al suo posto è stato nominato il vice, Surachai Liengboonlertchai, decisamente meglio disposto verso l’opposizione se dovesse essere chiamato, come prevede la costituzione, a scegliere un primo ministro ad interim nelle prossime settimane.

Ciò potrebbe essere la conseguenza di un procedimento di impeachment che minaccia di essere aperto a breve anche nei confronti della sorella dell’ex primo ministro in esilio Thaksin. Yingluck è infatti indagata dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione - anch’essa schierata a fianco dell’establishment thailandese - per avere gestito in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato. Questo progetto, che contribuì al successo elettorale del partito di governo, ha causato gravi perdite per le casse pubbliche, con tonnellate di riso invenduto e decine di migliaia di contadini tuttora senza compenso.

Yingluck avrà tempo fino al 31 marzo per presentare la propria difesa e, nel caso dovesse essere ritenuta colpevole, verrebbe con ogni probabilità rimossa dalla carica di primo ministro e bandita almeno per alcuni anni dall’attività politica.

In questo scenario sempre più teso potrebbe inserirsi anche l’intervento dei sostenitori del governo, le cosiddette “Camicie Rosse”, i cui leader negli ultimi giorni hanno rilasciato dichiarazioni minacciose. Questi gruppi filo-governativi formati in gran parte da contadini e membri delle classi più disagiate del nord del paese, che hanno beneficato maggiormente delle limitate politiche di riforma sociale dei fratelli Shinawatra, hanno già manifestato qualche giorno fa contro la sentenza della Corte Costituzionale e hanno annunciato una nuova manifestazione per il 5 aprile, possibilmente a Bangkok, facendo aumentare il rischio di scontri violenti con l’opposizione del PDRC.

Secondo alcuni osservatori, al contrario, la sentenza di annullamento delle elezioni del 2 febbraio potrebbe essere l’occasione per superare lo stallo nel paese. Se il Partito Democratico, che aveva boicottato il voto, dovesse decidere di partecipare alle prossime consultazione, si potrebbe aprire infatti un percorso condiviso verso la risoluzione della crisi all’interno del quadro costituzionale.

I segnali provenienti dall’opposizione politica e di piazza, tuttavia, sembrano andare nella direzione opposta, con il leader del PDRC che ha ad esempio già minacciato nuovi disordini se venisse indetta un’altra elezione a breve.

Per Suthep e i suoi seguaci, l’obiettivo rimane quello di creare un “consiglio del popolo” non elettivo che nomini un nuovo esecutivo per “riformare” il sistema politico.

Il numero uno del Partito Democratico, l’ex primo ministro Abhisit Vejjajiva, ha anch’egli lasciato poche speranze, dichiarando martedì che la sua formazione non parteciperà al voto finché “le regole continueranno a risultare inaccettabili per la popolazione”. Il riferimento di Abhisit alla popolazione thailandese appare però assurda, visto che il suo partito e i gruppi di protesta anti-governativi rappresentano in larga misura le tradizionali strutture di potere del paese del sud-est asiatico.

In ogni caso, i vertici del Partito Democratico si riuniranno nel fine settimana per stabilire la propria posizione ufficiale in relazione alla questione elettorale, così come i membri della Commissione Elettorale si incontreranno nei prossimi giorni con i rappresentanti dei vari partiti per discutere del voto.

Il clima generale appare però sempre più cupo per il governo, già privato dei pieni poteri fin dallo scioglimento della precedente legislatura, costretto a fare i conti con un’economia in rapido deterioramento e assediato dai tradizionali poteri forti thailandesi, ben intenzionati a mettere fine una volta per tutte alla lunga parentesi di potere del clan Shinawatra.


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