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di Michele Paris
A quasi un mese dal primo turno delle elezioni presidenziali in Afghanistan, la Commissione Elettorale Indipendente del paese tuttora sotto occupazione occidentale ha reso noti i risultati quasi definitivi che prospettano, come previsto, il ballottaggio tra i due candidati con il maggior numero di consensi. Il più votato sembra essere l’ex ministro degli Esteri fortemente gradito agli Stati Uniti, Abdullah Abdullah, con il 44,9%, seguito dall’economista Ashraf Ghani con il 31,5%.
Fuori dai giochi è rimasto invece il presunto favorito del presidente uscente Hamid Karzai, l’altro ex ministro degli Esteri Zalmay Rassoul (11,5%). Quest’ultimo, tuttavia, assieme al quarto classificato, l’islamista Abdul Rassoul Sayyaf (7,1%), potrebbe giocare ora un ruolo di primo piano nelle trattative già in corso per garantire il proprio blocco elettorale a uno dei due candidati qualificatisi per il secondo turno.
I risultati appena annunciati sono comunque considerati ancora provvisori, visto che che essi dovranno essere combinati con il responso della commissione incaricata di verificare le denunce di brogli che pesano su circa mezzo milione di voti sui 7 milioni espressi.
Secondo quanto comunicato ai media dalle autorità afgane, i dati definitivi dovrebbero essere diffusi il 14 maggio prossimo e la data del ballottaggio - nel caso quasi certo che Abdullah non riuscisse a superare la soglia del 50% anche dopo un’eventuale modifica dei risultati preliminari - potrebbe essere fissata al 7 giugno.
Come previsto dalla Costituzione, il presidente Karzai non ha potuto candidarsi per un terzo mandato alla guida del paese centro-asiatico dopo avere vinto tra pesanti accuse di brogli nel 2004 e nel 2009. Cinque anni fa, in particolare, lo stesso Abdullah si rifiutò di partecipare al ballottaggio dopo essere giunto dietro a Karzai nel primo turno.
Scrupolo principale degli Stati Uniti, in ogni caso, è quello di installare a Kabul un nuovo governo fantoccio con un leader che causi meno problemi di quelli sorti negli ultimi anni dell’amministrazione Karzai, durante i quali il presidente ha ripetutamente criticato gli occupanti, soprattutto per i raid notturni delle forze speciali USA nelle abitazioni private dei cittadini afgani che continuano a causare vittime civili.
Obiettivo americano è in primo luogo quello di giungere finalmente alla firma del sospirato “trattato bilaterale per la sicurezza” che consentirà a Washington di mantenere un significativo contingente militare in Afghanistan dopo il ritiro delle forze straniere di combattimento previsto per il 31 dicembre prossimo.Se Karzai si è ripetutamente rifiutato di sottoscrivere l’accordo a causa dell’impopolarità della presenza USA nel suo paese, tutti gli otto candidati alla carica di presidente hanno manifestato la loro intenzione di firmare il documento, negoziato da tempo con l’amministrazione Obama per assicurare la presenza indefinita in Afghanistan di circa dieci mila soldati in una manciata di basi militari.
D’altra parte, sia Abdullah che Ghani hanno avuto modo di mostrare la loro fedeltà all’autorità occupante negli anni successivi all’invasione. Il primo è stato il ministro degli Esteri di Karzai dal dicembre del 2001 al 2005 e, pur essendo di etnia mista Pashtun e Tagika, ottiene la gran parte dei consensi nel paese tra i membri della seconda. Inoltre, Abdullah è stato in grado di intercettare i voti dell’etnia Hazara grazie alla nomina a candidato alla vice-presidenza del “warlord” Mohammad Mohaqiq.
Ashraf Ghani, invece, ha vissuto a lungo negli Stati Uniti dove ha conseguito un master alla Columbia University e ha insegnato a Berkeley e alla Johns Hopkins. Di etnia Pashtun e ministro delle Finanze di Karzai tra il 2002 e il 2004, Ghani ha anche lavorato per la Banca Mondiale negli anni Novanta.
In queste elezioni si è presentato al fianco del candidato vice-presidente Abdul Rashid Dostum, leader dell’etnia Uzbeka e discusso comandante militare di una milizia anti-talebana che nell’ottobre del 2001 massacrò oltre duemila prigionieri arresisi nella località di Kunduz, nell’Afghanistan settentrionale.
Nonostante il vantaggio di Abdullah dopo il primo turno, l’esito finale della corsa alla presidenza appare tutt’altro che scontato. Il terzo classificato, Abdul Rassoul Sayyaf, gode infatti del sostegno del potente clan Karzai, le cui risorse potrebbero risultare decisive per il candidato che eventualmente riuscirà ad assicurarsi il suo appoggio in vista del ballottaggio.
Sia Abdullah che Ghani hanno inoltre già promesso un qualche ruolo per Karzai all’interno della nuova amministrazione. Il presidente e il suo clan, da parte loro, sono fortemente interessati a mantenere gli appoggi necessari per conservare le ricchezze accumulate in questi anni e la loro posizione di potere in Afghanistan.Secondo i media occidentali, il primo turno delle presidenziali andate in scena il 5 aprile scorso sarebbe stato un successo inaspettato. Su 12 milioni di elettori registrati, 7 si sono recati alle urne, anche se più di un seggio su dieci è rimasto chiuso per il timore di possibili attacchi dei Talebani.
Questi ultimi, tuttavia, non sono stati protagonisti di incursioni su larga scala come nelle elezioni precedenti, secondo molti osservatori per risparmiare le forze in previsione della tradizionale offensiva di primavera che potrebbe essere scatenata nelle prossime settimane.
Pur in un clima relativamente normale, il voto si è tenuto alla presenza di centinaia di migliaia di soldati afgani dispiegati per il paese, mentre nelle città principali come Kabul o Kandahar la popolazione è stata sottoposta a numerosi blocchi stradali e a controlli pervasivi.
Gli Stati Uniti, infine, oltre ad avere finanziato con oltre 100 milioni di dollari la consultazione elettorale che dovrebbe segnare il primo passaggio di poteri pacifico nella storia dell’Afghanistan, continua ad avere 33 mila soldati nel paese sui 50 mila totali che compongono le forze di occupazione.
Un simile scenario, perciò, rende a dir poco assurde le congratulazioni espresse dall’amministrazione Obama per il processo “democratico” di un Afghanistan “sovrano”, rivelando ancora una volta l’ipocrisia della politica estera degli Stati Uniti, fortemente critici – ad esempio – nei confronti del presunto ruolo della Russia nel referendum, non riconosciuto, organizzato in Crimea nel mese di marzo.
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di Michele Paris
Barack Obama ha inaugurato una delicata trasferta in Asia che sarà caratterizzata dai tentativi di rassicurare i principali alleati di Washington circa l’impegno americano nel continente di fronte ad una Cina sempre più intraprendente. Il tono della visita del presidente degli Stati Uniti è stato fissato in un’intervista ad un quotidiano giapponese alla vigilia del suo arrivo a Tokyo, nella quale le minacce verso Pechino sono state a malapena celate dagli appelli a risolvere diplomaticamente le controversie che stanno agitando l’Estremo Oriente.
Dopo il Giappone, il presidente americano si recherà in Corea del Sud e successivamente in Malaysia e nelle Filippine. Il viaggio in corso è stato deciso dall’amministrazione democratica per rimediare a quello cancellato lo scorso ottobre nel pieno della crisi interna seguita alla mancata approvazione del bilancio federale USA.
La presenza in Asia e le parole di Obama sono state accolte con estrema diffidenza in Cina, dove l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha definito ad esempio la politica USA nel continente “uno schema calcolato per ingabbiare il gigante asiatico in rapida crescita”. Ancora, l’editoriale apparso mercoledì ha invitato Washington a “riconsiderare il proprio anacronistico sistema di alleanze” e a smettere di “assecondare gli alleati, come Giappone e Filippine, i quali hanno riacceso le tensioni nella regione con azioni provocatorie”.
Una chiara provocazione è invece quella che è apparsa sulle pagine della testata nipponica Yomiuri Shimbun poco prima dell’atterraggio di Obama in Giappone. Il presidente democratico ha ribadito quanto avevano sostenuto alcuni esponenti della sua amministrazione nelle precedenti trasferte asiatiche, a cominciare dal numero uno del Pentagono Chuck Hagel lo scorso novembre, e cioè che gli Stati Uniti sono sostanzialmente pronti a dichiarare guerra alla Cina.
Ciò avverrebbe nel caso dovessero scoppiare le ostilità tra Pechino e Tokyo attorno alla sovranità sulle isole Senkaku (Diaoyu in cinese), la cui difesa rientrerebbe appunto nel dettato dell’articolo 5 del trattato di mutua cooperazione tra USA e Giappone, il quale prevede l’intervento militare in caso di aggressione ai danni di quest’ultimo. Queste isole nel Mar Cinese Orientale sono controllate da Tokyo ma rivendicate dalla Cina e negli ultimi anni sono state al centro di un’accesa disputa tra i due paesi soprattutto a causa di iniziative provocatorie da parte giapponese, come la nazionalizzazione decisa dal precedente governo Democratico nel settembre del 2012.L’arrivo di Obama, inoltre, era stato anticipato da un’altra provocazione giapponese. Lunedì il primo ministro, Shinzo Abe, aveva inviato un’offerta votiva al tempio shintoista Yasukuni, considerato una sorta di simbolo del militarismo del Giappone e dedicato ai caduti nei conflitti del passato, tra cui figurano svariati criminali di guerra. Abe aveva visitato di persona lo stesso tempio lo scorso dicembre, suscitando come di consueto le proteste di Cina e Corea del Sud.
Come se non bastasse, il giorno successivo il ministro dell’Interno di Tokyo, Yoshitaka Shindo, e circa 150 membri del P
arlamento si sono recati a Yasukuni, provocando nuovamente le reazioni di Pechino e Seoul proprio alla vigilia della visita di Obama.
Scopo dell’incontro con Abe dovrebbe essere anche quello di promuovere la firma della cosiddetta Partnership Trans-Pacifica (TPP), il mega-trattato di libero scambio in fase di negoziazione tra dodici paesi asiatici e del continente americano, di cui USA e Giappone sono i membri più importanti.
Se in molti soprattutto a Washington si aspettavano un annuncio sul raggiungimento di un accordo definitivo in concomitanza con la visita di Obama a Tokyo, le aspettative sono diminuite nelle ultime settimana, visto che permangono alcuni disaccordi tra la prima e la terza potenza economica del pianeta, in particolare attorno alle questione delle tariffe doganali sui prodotti agricoli.
Le divergenze sul TPP sono fortmente rivelatrici delle tensioni latenti tra USA e Giappone, conseguenza indesiderata della “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama, la quale al contrario aveva come obiettivo l’allineamento strategico totale con Tokyo in un frangente storico caratterizzato dalla crescente rivalità con la Cina.
In definitiva, il riorientamento strategico verso l’Asia degli Stati Uniti ha come obiettivo l’affermazione dell’egemonia americana assoluta nel continente, finendo per causare frizioni con un governo di estrema destra come quello giapponese, intenzionato a ritrovare un proprio spazio indipendente nel continente attraverso il riarmo e la promozione di sentimenti nazionalistici.Quest’ultima evoluzione con il gabinetto Abe e in concomitanza con il peggioramento dell’economia ha fatto emergere gli interessi talvolta divergenti tra Tokyo e Washington, resi evindenti non solo dalla questione del TPP ma anche dal persistente gelo tra Giappone e Corea del Sud, la cui partnership in funzione anti-cinese dovrebbe essere invece uno dei capisaldi della strategia americana in Asia orientale.
Le stesse complicazioni Obama le incontrerà anche durante la seconda tappa del suo tour asiatico, a Seoul. Qui, il presidente americano giunge inoltre nel pieno di un nuovo scontro tra Nord e Sud, con accuse nei confronti di Pyongyang per un ulteriore presunto test nucleare che il regime stalinista potrebbe mettere in atto nel prossimo futuro.
Importante sarà infine anche la sosta nelle Filippine, il cui governo del presidente Benigno Aquino ha anch’esso assunto negli ultimi anni un atteggiamento di sfida nei confronti di Pechino fino a sfiorare in più occasioni lo scontro aperto a causa di alcune isole contese nel Mar Cinese Meridionale.
Manila rappresenta d’altra parte un altro alleato cruciale per gli Stati Uniti nel tentativo di accerchiamento della Cina, in questo caso sul fianco meridionale. Nelle Filippine, infatti, Obama discuterà gli ultimi dettagli di un accordo bilaterale che dovrebbe garantire una presenza fissa di un contingente militare americano nelle basi del paese del sud-est asiatico.
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di Michele Paris
Nel fine settimana di Pasqua, gli Stati Uniti hanno letteralmente scatenato l’inferno sullo Yemen, operando una serie di incursioni con i droni che hanno causato la morte di decine di persone, per i governi di Washington e Sanaa quasi tutti militanti di Al-Qaeda nella Penisola Araba. L’orrore nel paese arabo era iniziato nella giornata di sabato e, in meno di 48 ore, i decessi causati dai bombardamenti con velivoli senza pilota sono stati almeno 55. A dare l’annuncio del bilancio definitivo è stato il ministero dell’Interno yemenita, il quale ha anche riconosciuto la morte di 3 civili e il ferimento di altri 5.
Tra gli obiettivi degli attacchi ci sono stati un convoglio di automobili sulle quali viaggiavano presunti leader dell’organizzazione terroristica e un campo di addestramento per militanti fondamentalisti. I media americani hanno citato fonti governative che hanno fornito versioni contrastanti sulle responsabilità delle operazioni, attribuite alternativamente alla CIA e alle Forze Speciali sotto l’autorità del Pentagono.
Sia l’agenzia di Langley che il Dipartimento della Difesa e la Casa Bianca, come di consueto, non hanno però commentato e il portavoce di Obama, Jay Carney, si è limitato a ribadire la stretta collaborazione in materia di antiterrorismo tra USA e Yemen, riferendo ogni chiarimento sui fatti del fine settimana al governo di quest’ultimo paese.
Tradizionalmente, d’altra parte, gli Stati Uniti cercano di ingigantire il ruolo dello Yemen negli assalti con i droni, così da provare a contenere il forte antiamericanismo diffuso tra la popolazione locale.
In ogni caso, la portata dei più recenti attacchi ha pochi precedenti in questo paese e le notizie che sono filtrate anche attraverso testimoni sentiti dalle agenzie di stampa internazionali suggeriscono una chiara violazione dei principi fissati lo scorso maggio dal presidente Obama per rendere le incursioni con i droni più “precise” e aderenti al diritto internazionale.
In uno dei rari discorsi pubblici sulle campagne con i droni, Obama aveva cioè affermato che, “prima di ogni attacco, deve esserci la quasi completa certezza che nessun civile possa essere ucciso o ferito”. Inoltre, ogni incursione dovrebbe avvenire solo ai danni di presunti militanti che rappresentano “una minaccia continua e immediata per gli americani”.
Secondo il governo yemenita, i membri di Al-Qaeda uccisi nel fine settimana stavano preparando attacchi terroristici contro installazioni militari e civili, anche se l’eventuale minaccia agli Stati Uniti non è stata chiarita.
La campagna di assassini mirati degli USA in Yemen si intreccia alla guerra che il governo del presidente Abdu Rabbu Mansour Hadi sta conducendo contro organizzazioni armate che si battono contro il potere centrale, rendendo quanto meno dubbia la minaccia posta da queste ultime agli Stati Uniti o ad altri paesi al di fuori dei confini del paese della penisola arabica.
Gli ultimi attacchi americani hanno portato a 11 il totale per quest’anno nello Yemen, in concomitanza con un certo rallentamento delle operazioni con i droni in Pakistan, dove Washington starebbe attendendo gli sviluppi dei tentativi di negoziato in corso tra il governo di Islamabad e la leadership talebana.Il bilancio complessivo delle vittime civili dei droni a stelle e strisce è molto difficile da valutare, soprattutto perché gli USA considerano come militanti tutti gli individui maschi in età adulta e armati colpiti dai bombardamenti. Alcune organizzazioni a difesa dei diritti umani, tuttavia, hanno provato a tenere un conteggio dei decessi, mostrando come il numero di vittime civili sia decisamente superiore a quello dichiarato dai governi americano e yemenita.
Human Rights Watch, ad esempio, qualche mese fa aveva pubblicato un rapporto nel quale sosteneva che in 80 incursioni con i droni analizzate, circa il 70% delle vittime erano civili. A far lievitare il conteggio dei morti innocenti in Yemen, nonostante le rassicurazioni dell’amministrazione Obama, è soprattutto la cosiddetta politica delle “signature strikes”, secondo la quale la CIA e le Forze Speciali hanno facoltà di colpire singoli individui dei quali non si conosce nemmeno l’identità ma semplicemente in base al loro comportamento o a una serie di attività sospette.
I bombardamenti americani con i droni, e soprattutto quelli in Yemen, sono stati inoltre al centro questa settimana di una sentenza d’appello di un tribunale di New York. Quest’ultimo ha imposto all’amministrazione Obama di rendere pubblico il parere legale redatto dal Dipartimento di Giustizia, sul quale si basa la presunta autorità del presidente di ordinare assassini mirati all’estero di cittadini degli Stati Uniti con i droni.
Il verdetto ha ribaltato l’opinione di un giudice federale che nel gennaio 2013 aveva assecondato la richiesta dello stesso Dipartimento di Giustizia di tenere segreto il memorandum in questione di fronte alle istanze avviate dal New York Times e dall’American Civil Liberties Union in base al dettato del Freedom of Information Act.
Il documento era stato preparato dall’Ufficio Legale del Dipartimento di Giustizia nel 2010 e consente appunto al presidente di decidere della vita e della morte di presunti accusati di terrorismo, cittadini americani compresi. L’Ufficio Legale, composto ora da esperti nominati da Obama, è lo stesso che durante l’amministrazione Bush aveva redatto i famigerati pareri che avrebbero consentito il ricorso alle torture negli interrogatori della CIA dopo l’11 settembre.
Il documento oggetto della sentenza di lunedì era stato utilizzato dall’amministrazione Obama nel settembre 2011 per assassinare con un drone il predicatore Anwar al-Awlaki, cittadino americano originario dello Yemen, accusato di essere un leader di Al-Qaeda e di avere contribuito ad organizzare vari attentati terroristici sul suolo americano.
Nella stessa incursione perse la vita anche un altro cittadino americano, Samir Khan, mentre successivamente il figlio 16enne di Awlaki, Abdulrahman, sarebbe risultato uno dei “danni collaterali” delle operazioni USA in Yemen.Il tribunale di New York, in ogni caso, non ha contestato l’appello del governo alle necessità della sicurezza nazionale per non rivelare il documento legale, ma ha bensì citato le contraddizioni dell’amministrazione Obama nel dichiararne la segretezza.
Infatti, poco dopo la sentenza del gennaio 2013 e in seguito ad una rivelazione della NBC, il Dipartimento di Giustizia aveva diffuso un documento che riassumeva le ragioni pseudo-legali alla base dell’autorità attribuita al presidente di assassinare chiunque fosse sospettato di terrorismo senza passare attraverso i normali procedimenti garantiti dalla legge USA.
Inoltre, secondo i giudici la necessità di tenere segreto il parere legale in questione era stata smentita anche dal fatto che il ministro della Giustizia Eric Holder e l’allora consigliere per l’antiterroriso di Obama, l’attuale direttore della CIA John Brennan, ne avevano discusso pubblicamente in più di un’occasione.
La sentenza, dunque, pur senza smontare come sarebbe stato opportuno i meccanismi costruiti dall’amministrazione Obama per giustificare assassini extra-giudiziari, rappresenta comunque uno schiaffo per la Casa Bianca, la quale potrà ora chiedere un nuovo parere ad una commissione composta da tutti i giudici del tribunale d’appello di New York o riferire la questione direttamente alla Corte Suprema.
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di Carlo Musilli
Se fosse in vita, qualcuno dovrebbe intervistare George Orwell. Al suo Grande Fratello simbolico, quello del romanzo 1984, nessuno poteva sfuggire. Oggi invece, a oltre 60 anni da quel capolavoro visionario, l'occhio che tutto vede e tutto controlla esiste davvero, ma non fa che prodursi in brutte figure. Prima si fa beccare mentre spia la cancelliera tedesca, poi si lascia sfuggire "il più vasto e apparentemente pericoloso assembramento di terroristi islamici degli ultimi anni".
La definizione è della Cnn, che la settimana scorsa ha mandato in onda un video a dir poco imbarazzante per l'intelligence degli Stati Uniti. Secondo fonti citate dalla rete americana, il filmato è di recente produzione: le immagini sono state girate nello Yemen e mostrano un centinaio jihadisti riuniti in un summit en plein air. Ad arringarli c'è Al-Wuhayshi, numero due di al Qaida nel mondo e capo di al Qaida nella penisola arabica, la divisione più pericolosa dell'intera organizzazione terroristica.
"Dobbiamo eliminare la croce....Chi porta la croce è l'America", dice il leader islamista ai guerrieri raccolti intorno a lui, alcuni dei quali hanno il volto coperto, mentre altri si mostrano senza alcuna preoccupazione all'occhio della telecamera. Già in passato Al-Wuhayshi aveva detto di voler attaccare nuovamente gli Stati Uniti e la scena riprodotta nel video ricorda un famoso filmato di Osama Bin Laden attorniato dai fedelissimi in Afghanistan.
Quello che colpisce, al di là del contenuto del nuovo messaggio, è la scelta di organizzare la riunione di massa non in un posto segreto, non in una grotta sperduta del Pakistan, ma all'aria aperta, in pieno giorno, in un punto qualsiasi del Paese che tutti sanno essere la culla di al Qaida nella penisola arabica. Le interpretazioni possibili, a quanto pare, sono solo due: o i jihadisti hanno inventato una nuova forma di roulette russa su larga scala, oppure semplicemente non avevano alcun timore di essere bersagliati da un drone americano. Per quanto affascinante sia la prima ipotesi, la seconda è senz'altro più realistica. Eppure è strano, visto che proprio in questo periodo la Cia sta intensificando le operazioni dei velivoli senza pilota nello Yemen. Dal punto di vista degli Usa, si potrebbe dare la colpa ai droni stessi, perché per coprire l'intero territorio yemenita sarebbe necessario un gran numero di aeromobili. Oppure si potrebbe puntare il dito contro il meccanismo delle autorizzazioni, che a volte (ma solo a volte) pone dei limiti alle incursioni aeree.
Il punto però non è questo. Le immagini diffuse la settimana scorsa hanno preoccupato non poco i cittadini americani perché è assolutamente evidente che né la Cia né il Pentagono avevano alcuna informazione sulla kermesse organizzata nel deserto dai terroristi. Vuoto totale anche negli uffici della Nsa, l'agenzia finita in un mare di guai per i suoi metodi alla Big Brother.
Peter Bergen, un analista di geostrategia citato da Federico Rampini su La Repubblica, ha definito "sconcertante che l'intelligence non sapesse nulla di un assembramento così ampio". Milioni di americani che non hanno mai sentito la parola "geostrategia" sono d'accordo con Bergen, per cui non sorprendono le polemiche sull' "occasione mancata" di far fuori in un colpo solo un bel manipolo di nemici qaedisti.
Insomma, per quanta tecnologia sovrumana gli statunitensi possano vantare, stavolta hanno scontato un deficit a livello d'intelligence, ovvero a livello umano, visto che gran parte degli attacchi aerei made in Usa sono favoriti, di solito, dalle cimici piazzate dagli informatori sul posto. Morale: se nessuno spiffera niente, anche i droni possono rivelarsi inutili. E al Grande Fratello si appannano gli occhiali.
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di Mario Lombardo
La campagna elettorale per la rielezione del tre volte presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, è consistita esclusivamente in due incerte apparizioni televisive e un lettera aperta indirizzata ad una popolazione fortemente allarmata per le condizioni di salute del 77enne leader nordafricano. Ciononostante, nel voto della settimana scorsa, l’ex eroe della rivoluzione anti-coloniale contro la Francia è riuscito a conquistare una nuova maggioranza schiacciante nei confronti dei suoi presunti rivali, garantendo forse un altro periodo di relativa stabilità ad uno dei paesi strategicamente più rilevanti dell’intero continente.
L’unica uscita pubblica di Bouteflika da oltre un anno a questa parte era stata invece in un seggio nel corso delle consultazioni per l’assegnazione del nuovo incarico di presidente nella giornata di giovedì, quando su una sedia a rotelle ha infilato personalmente la propria scheda elettorale nell’urna.
La lunghissima assenza di Bouteflika dalla scena pubblica algerina è stata dovuta ad un aggravamento della sua salute, soprattutto dopo che lo scorso anno era stato colpito da un “mini ictus”. Il presidente aveva così trascorso tre mesi di convalescenza in un ospedale parigino, tornando in patria solo nel mese di giugno per cercare di consolidare la propria posizione di potere, minacciata dalle divisioni all’interno del regime guidato dal Fronte di Liberazione Nazionale (FLN).
A dare i risultati ufficiali delle presidenziali è stato nel fine settimana il ministro dell’Interno, Tayeb Belaïz. Il presidente Bouteflika ha conquistato ben l’81,5% dei consensi espressi, mentre gli altri candidati hanno raccolto le briciole. L’ex primo ministro, Ali Benflis, ha superato di poco il 12%, l’ex deputato dell’FLN, Abdelaziz Belaïd, ha ottenuto invece il 3,4%, l’unica donna in corsa, la leader del Partio dei Lavoratori Louisa Hanoun, l’1,4% e nemmeno l’1% i due candidati minori rimanenti.
L’affluenza alle urne è risultata molto bassa anche secondo i dati forniti dalle autorità: 51,7% contro più del 74% delle presidenziali del 2009. Ad influire su questi numeri è stato in primo luogo il senso di scoraggiamento ampiamente diffuso nei confronti di un sistema senza grandi alternative politiche o prospettive di cambiamento.
Allo stesso tempo, i più importanti partiti secolari e islamici dell’opposizione avevano annunciato il boicottaggio delle elezioni, sia in segno di protesta contro la nuova candidatura di Bouteflika sia, soprattutto i secondi, per evitare di fare i conti con una modesta performance elettorale sull’onda delle scarse fortune degli ultimi tempi delle altre formazioni nordafricane di ispirazione religiosa.Al di là della percentuale bulgara del successo di Bouteflika, a favore del presidente in carica hanno votato poco più di 8,3 milioni di elettori, vale a dire solo il 36% degli aventi diritto e appena un quinto dell’intera popolazione dell’Algeria. I numeri accreditati al presidente, inoltre, sono inferiori rispetto a quelli fatti registrare nelle precedenti elezioni - 90% nel 2009 e 85% nel 2004 - e, soprattutto, devono essere letti alla luce dei più che probabili brogli e manipolazioni del regime in almeno una parte dei circa 60 mila seggi del paese.
L’ex premier Benflis, infatti, dopo l’annuncio dei risultati ufficiali ha parlato di irregolarità diffuse, senza peraltro fornire particolari prove concrete e venendo smentito seccamente dal governo di Algeri.
La candidatura di Benflis, peraltro, non poteva suscitare particolare entusiasmo tra gli algerini, visto il suo passato. Prima di rompere con Bouteflika, Benflis aveva diretto la sua campagna elettorale nel 1999, diventando subito dopo il suo primo capo di governo. Per il regime, perciò, Benflis rappresentava una sorta di “alternativa sicura” ed egli stesso in campagna elettorale aveva manifestato chiaramente la volontà di garantire una certa continuità al sistema in caso di successo alle urne.
L’apparenza del consenso interno attorno all’FLN e al suo leader nasconde una realtà ben più complessa e contraddittoria in Algeria. Innanzitutto, negli ultimi anni anche in questo paese arabo non sono mancate le proteste popolari contro il regime, riesplose recentemente con la nascita del movimento “Barakat” (“Basta!”). Esse, almeno finora, sono apparse però meno intense e numerose rispetto a paesi vicini come Tunisia ed Egitto.
La risposta del regime è stata in ogni caso molto dura, anche se riserve finanziarie pari a circa 200 miliardi di dollari, provenienti dalle esportazioni di petrolio e gas naturale, hanno consentito al governo anche di attuare piani di spesa per sussidi, edilizia popolare e crediti superagevolati che hanno contribuito a contenere le tensioni sociali.
I media internazionali, infine, sono stati concordi nell’attribuire la scarsa mobilitazione popolare contro il regime anche ai ricordi degli orrori della guerra civile che negli anni Novanta fece centinaia di migliaia di morti dopo che, in seguito ai risultati del primo turno, quest’ultimo aveva cancellato le prime elezioni multipartitiche favorevoli al Fronte Islamico di Salvezza (FIS).
In questo scenario, comunque, sarà tutt’altro che semplice per un regime che controlla il potere fin dall’indipendenza far fronte alle sfide che si presenteranno nel prossimo futuro. La disoccupazione reale, ad esempio, colpisce quasi un algerino su tre e i servizi pubblici basilari continuano a far segnare gravi carenze. L’industria estrattiva, inoltre, nonostante rappresenti il cuore stesso dell’economia dell’Algeria, mostra evidenti segnali di rallentamento, anche se lo scontro in corso tra l’Occidente e la Russia potrebbe riportare l’attenzione delle grandi multinazionali su questo paese nordafricano.
Nell’immediato, Bouteflika e i suoi fedelissimi nell’FLN dovranno fare i conti con le fazioni dell’esercito e delle forze di sicurezza che nei mesi scorsi si erano mostrate ben poco entusiaste per una nuova candidatura dell’anziano leader.Già nel corso del 2013, il presidente aveva operato una serie di cambi ai vertici del governo e delle più potenti agenzie dello stato, così da sostituire i rivali con uomini fidati. Il cosiddetto scandalo “Sonatrach II”, dal nome della compagnia estrattiva pubblica, lo scorso anno aveva coinvolto alcuni uomini molto vicini al presidente, fornendo l’occasione per un rimpasto di gabinetto generale che ha portato vari alleati di Bouteflika alla guida dei più importanti ministeri.
Allo stesso modo, pensionamenti forzati e modifiche organizzative hanno ridimensionato le attribuzioni del potente e famigerato servizio segreto algerino (DRS, Département du Renseignement et de la Sécurité), al cui controllo sono state sottratte anche alcune agenzie con compiti di supervisione sulle forze armate e di polizia per essere trasferite sotto l’autorità del capo di Stato Maggiore, generale Ahmed Gaid Salah, fedelissimo di Bouteflika.
Tra queste agenzie è incluso anche il Servizio Centrale di Polizia Giudiziaria, incaricato di indagare sulle accuse di corruzione all’interno delle istituzioni dello stato e che il numero uno del DRS, generale Mohamed Mediène, pare avesse utilizzato per cercare di liquidare gli uomini del regime vicini a Bouteflika.
Queste rivalità, se anche proseguiranno nei prossimi mesi, secondo gli osservatori andranno in scena dietro le quinte, dal momento che a prevalere saranno gli interessi del regime di mantenere una certa stabilità e il controllo sul paese. Ciò appare tanto più importante alla luce della possibile questione del trasferimento di poteri che potrebbe presentarsi a breve, nel caso Bouteflika dovesse mostrarsi incapace di governare a causa delle sue condizioni di salute.
Ciò si intreccerà anche con il ruolo giocato dall’Algeria sullo scacchiere internazionale, indiscutibilmente di primo piano sia sul fronte della sicurezza energetica sia su quello dell’anti-terrorismo. Anche per questo, d’altra parte, la reazione della comunità internazionale alle recenti elezioni presidenziali tutt’altro che democratiche è stata praticamente inesistente, così come era già accaduto dopo quelle parlamentari del 2012, ugualmente segnate da diffuse irregolarità a favore del regime.