di Michele Paris

Nonostante l’impegno messo in atto dall’amministrazione Obama e le fortissime pressioni provenienti da Washington, il colossale e minaccioso trattato di libero scambio trans-pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) fortemente voluto dagli Stati Uniti sta incontrando un’opposizione crescente non solo tra un’opinione pubblica che comincia solo ora a conoscere alcuni dei contenuti dell’accordo ma anche tra i governi che dovrebbero sottoscriverlo nelle prossime settimane.

La Casa Bianca aveva fissato la fine dell’anno come scadenza per l’approvazione del TPP ma le resistenze al Congresso e il mancato raggiungimento di un’intesa definitiva tra i paesi che ne dovrebbero far parte nel corso di un recente summit a Singapore hanno fatto allungare i tempi previsti.

I negoziati dovrebbero riprendere a gennaio, anche se il dibattito pubblico appena iniziato contro il volere del governo USA e delle parti che dovrebbero maggiormente beneficiarne - grandi banche e corporations, soprattutto americane - potrebbe complicare i piani di Obama di mandare in porto un trattato di ampio respiro dietro le spalle di centinaia di milioni di persone che, sulle due sponde del Pacifico, finiranno per pagarne interamente le conseguenze.

Il TPP era nato quasi un decennio fa come un progetto di trattato di libero scambio tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore, per poi allargarsi negli anni successivi ad altri otto paesi con i quali i primi quattro ne stanno appunto negoziando la versione definitiva (Stati Uniti, Canada, Messico, Perù, Australia, Giappone, Malaysia e Vietnam). Recentemente, anche Corea del Sud e Taiwan hanno manifestato il loro interesse a partecipare al trattato.

Se l’obiettivo ufficiale del TPP dovrebbe essere quello di creare una grande area di scambi commerciali priva di tariffe nazionali per dare un impulso alle economie dei paesi interessati, i veri scopi sono in realtà quelli di consegnare alle grandi compagnie trans-nazionali un altro strumento formidabile per superare qualsiasi autorità nell’ampliamento dei propri profitti e, per gli Stati Uniti, di provare a isolare Pechino rafforzando i legami commerciali con alcune delle principali economie asiatiche.

Il TPP, inoltre, in caso andasse a buon fine, servirebbe da modello per altri trattati simili - come quello in discussione tra USA e UE - destinati a smantellare le rimanenti protezioni contro lo strapotere del capitale privato.

Le questioni affrontate dal TPP, in ogni caso, vanno ben al di là degli scambi commerciali ed includono, tra l’altro, anche il delicato tema del diritto d’autore e della proprietà intellettuale. Quest’ultimo aspetto, assieme alle opinioni divergenti emerse nel corso dei negoziati tra i dodici paesi aderenti al trattato, era stato messo in luce lo scorso mese di novembre da alcuni documenti pubblicati da WikiLeaks.

Che all’organizzazione fondata da Julian Assange debba essere attribuito l’indubbio merito di avere rivelato una parte dei contenuti del TPP è dovuto al fatto che le trattative continuano a svolgersi in maniera segreta quasi unicamente tra i governi e i rappresentanti di banche e corporations, mentre le popolazioni e, spesso, gli stessi parlamenti nazionali ne sono tenuti all’oscuro.

Tra le misure previste sulla proprietà intellettuale, così, ce ne sono alcune che, ad esempio, garantirebbero alle grandi compagnie farmaceutiche una sorta di monopolio a lungo termine sui brevetti, limitando in maniera drastica la possibilità da parte dei governi di accedere ai medicinali generici.

Il TPP favorirebbe di fatto anche una sorta di censura del web, dal momento che, secondo le proposte di Stati Uniti e Australia, i provider di servizi internet dei vari paesi potrebbero essere costretti a bloccare o monitorare l’accesso alla rete su richiesta delle corporation in caso queste ultime dovessero individuare una violazione dei diritti d’autore sui propri prodotti.

Ugualmente inquietanti sono poi le disposizioni che permetterebbero alle multinazionali di avviare azioni legali contro leggi e regolamentazioni dei paesi in cui esse hanno investito e che in qualche modo minacciano i loro profitti. A sentenziare su tali casi non sarebbero i giudici di un determinato paese, bensì un organo internazionale che agirebbe al di fuori del sistema legale del paese stesso.

Come ha precisato l’economista Marc Weisbrot in un recente commento apparso sul Guardian, le corporation potranno denunciare direttamente i governi, come già è previsto attualmente dal Trattato di Libero Scambio Nord Americano (NAFTA) e al contrario invece delle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), secondo le quali deve essere obbligatoriamente un governo terzo ad intentare una causa di questo genere.

Tra le altre disposizioni previste dal TPP, vanno ricordate anche quelle che richiedono la sostanziale distruzione dei monopoli pubblici nei paesi firmatari dell’accordo, nonché l’allentamento delle protezioni per i lavoratoti e delle misure di regolamentazione ambientale e del settore finanziario. Il tutto, ancora una volta, per garantire mano libera alle grandi aziende private che aumenteranno il loro impegno nei paesi coperti dal trattato.

Queste ed altre misure controverse stanno però creando non poche frizioni tra gli Stati Uniti - definiti da alcuni negoziatori come “inflessibili” nel promuovere quelle condizioni che porterebbero vantaggi enormi per le proprie corporations - e gli altri paesi aderenti al TPP.

Il Giappone, ad esempio, teme che la soppressione delle tariffe che applica sulle importazioni agricole possa mettere in crisi il proprio settore primario dove, oltretutto, il Partito Liberal Democratico al governo trova la sua principale base elettorale. Tokyo, infatti, nonostante l’insistenza americana, aveva deciso di partecipare ai negoziati per il TPP solo nel marzo di quest’anno, superando sia pure a stento le tradizionali preoccupazioni espresse dalla propria classe rurale nei confronti dei trattati di libero scambio.

La Malaysia e il Vietnam, a loro volta, non sembrano voler cedere sulle privatizzazioni, visto che le aziende pubbliche in entrambi i paesi svolgono un ruolo fondamentale nelle loro economie, rappresentando, rispettivamente, la metà della capitalizzazione di borsa e il 40 per cento del PIL nazionale. Quasi unica eccezione è invece l’Australia del neo premier conservatore Tony Abbott, il quale ha finora assecondato pressoché ogni condizione imposta da Washington.

Negli Stati Uniti, intanto, per evitare una sia pur minima discussione pubblica sul TPP e per limitare al massimo le fughe di notizie relative ai contenuti, l’amministrazione Obama ha chiesto al Congresso di mettere in atto una procedura definita “Fast Track”, la quale si usa da quasi quarant’anni per arrivare ad un’approvazione rapida e senza intoppi dei trattati commerciali negoziati dal governo e quasi sempre profondamente impopolari. Grazie a questo espediente, Camera e Senato sono chiamati ad approvare il trattato in questione senza possibilità di discutere emendamenti.

Tuttavia, alla luce della crescente opposizione popolare dopo le rivelazioni di WikiLeaks e di altre testate giornalistiche, ma anche del tradizionale scetticismo per questo genere di accordi dell’ala libertaria del Partito Repubblicano, la garanzia del “Fast Track” al Congresso appare oggi tutt’altro che scontata per la Casa Bianca.

Circa un mese fa, addirittura, 151 deputati democratici e 23 repubblicani avevano indirizzato una lettera ai negoziatori americani del TPP per manifestare la loro opposizione al “Fast Track” nel caso del TPP. Oltre alle ragioni di natura ideologica, molti parlamentari di entrambi gli schieramenti sono preoccupati per la più che probabile perdita di posti di lavoro nei loro distretti elettorali in seguito all’abbattimento delle tariffe doganali sui prodotti stranieri che entreranno negli USA dopo la firma del trattato.

Per il presidente Obama, perciò, sembra sempre più probabile il materializzarsi dell’incubo di una maggioranza trasversale alla Camera dei Rappresentanti tra democratici “liberal” e repubblicani vicini ai Tea Party, la quale potrebbe aprire un qualche dibattito sul TPP, portando a modifiche indesiderate se non addirittura all’arenarsi del trattato stesso, nonché, soprattutto, facendo finalmente conoscere agli americani e al resto del mondo le gravissime conseguenze che esso comporterebbe in caso di approvazione.

di Mario Lombardo

I punti di riferimento degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali nel conflitto in Siria continuano a crollare di fronte alla sempre più evidente avanzata delle formazioni di matrice integralista sunnita tra le fila dell’opposizione anti-Assad, nonostante l’impegno diplomatico in atto per mettere in piedi una conferenza di pace nelle prossime settimane.

Questa tendenza nel paese mediorientale nel caos ormai da quasi tre anni è apparsa chiara questa settimana in seguito alla decisione di Washington e Londra di sospendere la fornitura di aiuti “non letali” destinati da tempo ai “ribelli” moderati e organizzati nel cosiddetto Libero Esercito della Siria.

L’iniziativa americana e britannica è stata annunciata mercoledì ed è la conseguenza di un episodio accaduto lo scorso venerdì, quando un altro gruppo “ribelle”, il Fronte Islamico, si è impossessato di un deposito contenente materiale arrivato dagli Stati Uniti nell’ambito della politica di sostegno mirato a beneficio dell’opposizione secolare siriana.

Gli eventi che hanno portato alla decisione degli USA e della Gran Bretagna non appaiono del tutto chiari e la ricostruzione ufficiale conferma il groviglio di rivalità e alleanze che caratterizza la galassia dell’opposizione armata in Siria.

Secondo fonti americane e dell’opposizione, in ogni caso, i fatti sarebbero avvenuti nella località settentrionale di Atmeh, dove la diffusione della notizia che gli integralisti dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, una formazione affiliata ad al-Qaeda, stavano pianificando un attacco, per prendere il controllo del quartier generale del Consiglio Militare Supremo - l’organo di comando nominale del Libero Esercito della Siria - e di un deposito da esso controllato, ha spinto i militanti del Fronte Islamico a precipitarsi in quest’area per proteggere le strutture minacciate.

Un volta giunti sul posto, sono stati però questi ultimi ad occupare gli edifici, impadronendosi del materiale distribuito dagli americani, così come del valico di frontiera con la Turchia di Bab al-Hawa. Secondo svariati membri del Libero Esercito della Siria, la notizia dell’imminente operazione dello Stato Islamico era soltanto una voce senza fondamento diffusa per favorire l’intervento del Fronte Islamico.

La vicenda si è poi conclusa con un’autentica umiliazione per i ribelli sostenuti dall’Occidente, dal momento che l’azione del Fronte Islamico ha costretto il comandante del Consiglio Militare Supremo, generale Salim Idriss, a fuggire in Turchia.

L’ex alto ufficiale dell’esercito regolare di Damasco si sarebbe successivamente recato in Qatar per poi tornare in Turchia, dove è stato raggiunto dagli inviti americani di rientrare al più presto in Siria. Per i “ribelli”, invece, Idriss non sarebbe fuggito ma si troverebbe al confine meridionale turco trattando proprio con il Fronte Islamico.

Il Fronte Islamico Siriano è uno dei vari gruppi che si battono per rovesciare il regime di Assad e raccoglie alcune formazioni islamiste che hanno rotto con l’opposizione armata moderata filo-occidentale ma, allo stesso tempo, si oppone anche allo Stato Islamico e al Fonte al-Nusra, entrambi legati ad al-Qaeda.

Il materiale “non letale” di cui il Fronte Islamico è entrato in possesso nei giorni scorsi viene fornito regolarmente alle fazioni ritenute più moderate dal Dipartimento di Stato americano - mentre la CIA provvede alle armi e all’addestramento dei “ribelli” - e consiste in cibo, medicinali, strumentazioni elettroniche, veicoli ed equipaggiamenti vari. Gli aiuti umanitari diretti in Siria, ha fatto sapere il governo di Washington, non saranno invece interessati dall’annunciata sospensione.

Lo stop a queste forniture da parte degli Stati Uniti non dovrebbe avere un particolare impatto sulle vicende siriane ma è altamente significativo della situazione creatasi nel paese mediorientale, dove l’opposizione coltivata dall’Occidente appare sempre più debole e priva sia di un’efficace struttura militare che di un qualche seguito tra la popolazione. Per il Wall Street Journal, addirittura, il Libero Esercito della Siria starebbe letteralmente “collassando sotto la pressione degli islamisti che dominano tra i ribelli”.

Anche per queste ragioni, l’amministrazione Obama aveva recentemente approcciato proprio le formazioni che fanno parte del Fronte Islamico, così da convincere anche i suoi leader a partecipare al dialogo con il regime, da tenersi a Ginevra verosimilmente a fine gennaio, dopo avere incassato l’OK sia pure non troppo convinto del Consiglio Militare Supremo del generale Idriss.

Questa strategia era stata adottata sostanzialmente per dare qualche legittimità alla delegazione che dovrebbe prendere parte al summit battezzato “Ginevra II” di cui si parla fin dal maggio scorso e, parallelamente, rendere quanto meno ipotizzabile una qualche implementazione sul campo di un eventuale accordo di pace.

Dopo i fatti di venerdì, tuttavia, appaiono sempre più scarse le possibilità per gli Stati Uniti di includere alcune formazioni islamiste nel dialogo ancora da avviare con il regime. Tanto più che, secondo alcuni esponenti dell’opposizione filo-occidentale, l’obiettivo del Fronte Islamico nel nord della Siria sarebbe precisamente quello di ridurre ulteriormente l’influenza dei gruppi moderati. Il Fronte, d’altra parte, pur avendo collaborato in alcune occasioni con il Libero Esercito della Siria, mira apertamente alla creazione di uno stato islamico dopo la rimozione di Assad.

Come ha affermato al New York Times Andrew Tabler del Washington Institute for Near East Policy, l’amministrazione Obama si trova in definitiva a “dover scegliere tra il sostegno ai gruppi [dell’opposizione] moderati e quelli efficaci”. Mentre i primi garantiscono almeno apparentemente un’immagine secolare e democratica pur essendo sostanzialmente impotenti sul campo, le formazioni jihadiste sono le uniche a combattere con una qualche efficacia le forze del regime, anche se un loro successo finale nel conflitto finirebbe per creare più di un grattacapo all’Occidente.

Simili considerazioni sono con ogni probabilità all’esame del governo americano, da dove la retorica anti-Assad negli ultimi tempi sembra avere lasciato spazio ad una certa revisione della strategia relativa alla Siria e all’intero Medio Oriente.

Ciò risulta evidente anche dallo spazio relativamente inferiore dato nelle ultime settimane dai media “mainstream” americani alla crisi siriana, in concomitanza con la distensione dei rapporti tra USA e Iran, nonché forse con il prevalere di quelle sezioni all’interno dell’establishment governativo di Washington che ritengono fallimentare se non dannosa la politica finora perseguita nei confronti di Damasco.

L’appoggio garantito ai “ribelli” in oltre tre anni anche tramite le armi e il denaro fornito dalle monarchie del Golfo Persico ha infatti creato uno scenario a dir poco esplosivo in Siria, dove sono giunte migliaia o decine di migliaia di estremisti islamici con un’agenda prettamente settaria del tutto estranea alle aspirazioni della popolazione e minacciosa anche per gli interessi occidentali.

La resistenza inaspettata del regime anche grazie all’appoggio di Iran e Hezbollah ha fatto così scemare le speranze di quanti in Occidente auspicavano una caduta repentina di Assad, per poi concentrarsi sulla liquidazione di gruppi integralisti relativamente marginali attraverso la promozione a Damasco di una nuova classe dirigente docile e ben disposta verso Washington.

Il perdurare del conflitto si è invece risolto in un rafforzamento del regime e in un inevitabile indebolimento dell’opposizione armata, all’interno della quale però le fazioni più estreme hanno preso il sopravvento sui moderati, lasciando gli sponsor di questi ultimi senza interlocutori accettabili o presentabili all’opinione pubblica internazionale.

La soluzione ultima per evitare lo scivolamento definitivo della Siria in un baratro che farebbe impallidire i conflitti di Somalia o Afghanistan, perciò, secondo alcuni osservatori potrebbe per assurdo materializzarsi in un clamoroso voltafaccia, i cui contorni hanno preso forma nelle parole - finora senza molto seguito a livello ufficiale - pronunciate in un’intervista rilasciata al New York Times il 3 dicembre scorso dal diplomatico americano Ryan Crocker.

Secondo l’ex ambasciatore USA a Kabul e a Baghdad, ma anche a Damasco tra il 1998 e il 2001, “è necessario iniziare a discutere nuovamente con il regime di Assad… e ciò dovrà essere fatto in maniera molto molto sommessa”. D’altra parte, ha aggiunto Crocker, “per quanto sgradevole possa essere Assad non lo sarà mai quanto i jihadisti che minacciano di prendere il potere in caso di una sua caduta”.

di Michele Paris

Anche se gli Stati Uniti stanno cercando in queste settimane di far partire un faticoso processo diplomatico che porti ad una soluzione pacifica della crisi in Siria, non più di tre mesi fa l’amministrazione Obama sembrava essere sul punto di scatenare una nuova e ancora più rovinosa guerra in Medio Oriente basandosi su menzogne e manipolazioni della realtà sul campo.

Come è noto, il governo di Washington aveva accusato apertamente il regime di Bashar al-Assad di avere condotto un devastante attacco con armi chimiche nei pressi di Damasco pur sapendo, come ha dimostrato una recente indagine dell’autorevole giornalista americano Seymour Hersh, che le prove disponibili potevano indicare responsabili ben diversi.

Un lungo e dettagliato articolo (“Whose sarin ?”) del veterano giornalista premio Pulitzer che attualmente collabora soprattutto con il New Yorker è apparso qualche giorno fa sulla London Review of Books, sostenendo che il presidente Obama, nel descrivere l’episodio accaduto il 21 agosto a Ghouta, “aveva da un lato omesso importanti informazioni di intelligence e dall’altro presentato semplici congetture come fatti accertati”.

In particolare, Obama “aveva mancato di riconoscere… che l’esercito regolare siriano non era l’unica parte in lotta nella guerra civile ad avere accesso al gas sarin”. Infatti, continua Hersh, nei mesi precedenti l’attacco “le agenzie di intelligence americane avevano prodotto una serie di rapporti altamente classificati, culminati in un “Operations Order” - cioè un documento che pianifica e precede un’invasione di terra - contenente prove che il Fronte al-Nusra, un gruppo jihadista affiliato ad Al-Qaeda [e attivo tra le forze di opposizione in Siria], aveva acquisito le capacità di fabbricare sarin in grande quantità”.

Nonostante questo gruppo armato che si batte per rovesciare il regime di Assad avrebbe quanto meno dovuto essere preso in considerazione per avere condotto l’attacco, l’inquilino della Casa Bianca decise al contrario di basarsi unicamente e deliberatamente sul materiale di intelligence che avrebbe permesso di giustificare un’aggressione militare contro Damasco.

In un discorso pubblico tenuto il 10 settembre scorso, Obama ha così raccontato al mondo come Assad aveva senza dubbio portato a termine un attacco con armi chimiche facendo “più di mille vittime”, descrivendo le operazioni nel dettaglio, come la distribuzione di maschere anti-gas alle truppe del regime prima che i suoi uomini colpissero i quartieri controllati dall’opposizione.

Attraverso una serie di interviste con anonimi membri dell’intelligence e dell’apparato militare degli Stati Uniti, Hersh afferma però di avere riscontrato “forti preoccupazioni” e talvolta “rabbia” per quella che viene descritta come una “deliberata manipolazione” delle informazioni a disposizione del governo.

Secondo un ex agente dell’intelligence a stelle e strisce, ad esempio, l’amministrazione Obama avrebbe “alterato le informazioni - in relazione ai tempi e alla sequenza degli eventi - per consentire al presidente e ai suoi consiglieri di fare in modo che i dati raccolti svariati giorni dopo l’attacco apparissero ottenuti e analizzati in tempo reale”, così da dare l’impressione di avere monitorato le decisioni prese dal regime e di disporre di prove inconfutabili della sua responsabilità.

In realtà, Hersh ha potuto stabilire che tra il 20 e il 22 di agosto i consueti rapporti mattutini preparati per la Casa Bianca dai militari e dall’intelligence degli USA, nei quali vengono riassunti i principali eventi militari nel mondo per i quali si dispone di informazioni, non citavano in nessun modo l’attacco di Ghouta.

Inoltre, come reso noto da un articolo di qualche mese fa del Washington Post basato su documenti segreti forniti da Edward Snowden, gli Stati Uniti disponevano di sensori segreti sul terreno in Siria per monitorare e segnalare tempestivamente ogni movimento di armamenti chimici in questo paese.

Ebbene, nelle settimane e nei giorni precedenti il 21 agosto, questo sistema di sensori non aveva prodotto alcuna allerta. Hersh spiega che ciò non escluderebbe, almeno in teoria, che le forze armate siriane abbiano potuto ottenere il sarin usato a Ghouta da altre fonti, ma dimostra in ogni caso come il governo americano non sia stato in grado di monitorare gli eventi secondo la ricostruzione fatta da Obama e dal suo entourage.

Tanto più che nel dicembre del 2012 questi sensori avevano fatto il loro lavoro, informando Washington che i militari siriani stavano producendo sarin in un deposito di armi chimiche. Successivamente sarebbe emerso che si trattava soltanto di un’esercitazione, ma gli Stati Uniti mandarono comunque un messaggio al regime per mezzo di canali diplomatici, avvertendo che l’uso del sarin sarebbe stato “del tutto inaccettabile”. Perciò, è più che legittimo chiedersi il motivo per cui l’amministrazione Obama non si era mossa anche lo scorso agosto per impedire il presunto attacco con armi chimiche da parte delle forze regolari nel caso fosse stata a conoscenza anticipatamente dell’operazione.

In ogni caso, alla Casa Bianca servirono nove giorni per mettere assieme un atto d’accusa formale contro Assad ed esso venne presentato a Washington di fronte ad un gruppo di giornalisti selezionati, da cui fu escluso, ricorda Hersh, il reporter Jonathan Landay dell’agenzia di stampa McClatchy perché frequentemente critico dell’amministrazione Obama.

Il rapporto presentato in questa occasione era significativamente attribuito al “governo” e non alla “comunità di intelligence”, dal momento che risultava essere un documento “essenzialmente politico” per supportare le accuse contro Assad. In esso si sosteneva appunto che gli USA sapevano che la Siria stava preparando armi chimiche tre giorni prima dell’attacco del 21 agosto, anche se, come si è visto, nessuno alla Casa Bianca sembrava essere stato informato in tempo reale né gli strumenti di monitoraggio del regime avevano segnalato situazioni meritevoli di attenzione.

I leader del cosiddetto Libero Esercito Siriano, dopo avere appreso che gli USA stavano monitorando i movimenti delle armi chimiche nel paese, si sarebbero in seguito lamentati con gli americani, colpevoli di non avere fatto nulla per avvertire i ribelli dell’imminente attacco o per fermare i piani del regime.

Le accuse rivolte da Obama ad Assad si basavano dunque su informazioni e intercettazioni acquisite in Siria anche molti mesi prima dell’attacco e analizzate solo nei giorni successivi al 21 agosto. In altre parole, spiega Hersh, “la valutazione fatta dalla Casa Bianca e il discorso di Obama [del 10 settembre] non riguardavano eventi specifici che hanno condotto all’attacco del 21 agosto, ma erano il resoconto della sequenza di comportamenti che l’esercito siriano avrebbe seguito in caso di una qualsiasi operazione con armi chimiche”.

Le accuse contro Damasco non era basate cioè sulla disponibilità e l’esame di informazioni relative ai fatti di Ghouta ma su una sorta di manuale di comportamento in dotazione all’esercito di Assad in caso di utilizzo di armi chimiche, nonché su frammenti di intelligence risalenti anche a più di otto mesi prima.

La ricostruzione fatta dal governo USA ha poi escluso scrupolosamente qualsiasi informazione che poteva contraddire la propria versione. In particolare, come già era accaduto per alcuni attacchi su piccola scala con armi chimiche segnalati tra marzo e aprile, l’amministrazione Obama ha ignorato dei rapporti della CIA risalenti almeno al mese di maggio nei quali si affermava come il Fronte al-Nusra e un altro gruppo fondamentalista sunnita attivo in Siria - al-Qaeda in Iraq - disponevano dei mezzi tecnici per produrre armi equipaggiate con il gas sarin. Il Fronte al-Nusra, inoltre, nella tarda primavera stava operando proprio in alcuni sobborghi di Damasco, tra cui Ghouta.

Un documento di intelligence dell’estate, inoltre, era dedicato a Ziyaad Tariq Ahmed, descritto come un esperto di armi chimiche iracheno trasferitosi in Siria e anch’egli in attività a Ghouta al servizio del Fronte al-Nusra. Tariq Ahmed era un ex membro dell’esercito iracheno, implicato proprio nella produzione di Sarin e per questo finito nel mirino degli Stati Uniti.

Nelle settimane successive all’attacco di Ghouta, l’amministrazione Obama mise comunque in atto un’offensiva pubblica per convincere sia i cittadini americani che i membri del Congresso - chiamati dal presidente stesso ad autorizzare un intervento militare in Siria - delle responsabilità di Assad. In ogni audizione, i membri del governo si erano impegnati ad assicurare come solo il regime avesse la disponibilità del sarin, escludendo invece i rapporti di intelligence che avevano mostrato l’accesso a questo gas letale da parte delle formazioni jihadiste anti-Assad.

Il desiderio mostrato dall’amministrazione Obama di attaccare la Siria senza alcuna prova concreta della colpevolezza del regime aveva provocato parecchi malumori all’interno dell’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, tanto che un consigliere per le operazioni speciali degli Stati Uniti ha confidato a Hersh che intervenire militarmente sarebbe stato in sostanza come “fornire supporto aereo al Fronte al-Nusra”.

Queste divisioni all’interno del governo hanno alla fine contribuito - assieme alla profonda avversione dell’opinione pubblica mondiale per una nuova guerra illegale - a far naufragare i piani bellici e a costringere gli USA ad accettare la proposta russa di smantellare l’arsenale chimico di Assad, approvata infine dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite lo scorso 27 settembre.

Nonostante la serietà dell’analisi e l’autorevolezza di Seymour Hersh - Premio Pulitzer nel 1970 per avere rivelato il massacro di My Lai in Vietnam e i tentativi di occultare le responsabilità USA - la sua indagine sulla London Review of Books è stata ignorata dalla gran parte dei giornali negli Stati Uniti, tra cui i “liberal” New York Times e Washington Post, impegnati tra agosto e settembre a produrre editoriali che spingevano l’amministrazione Obama a dar seguito alle proprie minacce contro Assad.

Proprio al Washington Post, così come al New Yorker per cui scrive regolarmente, Hersh aveva proposto di pubblicare il suo pezzo sui fatti di Ghouta ma entrambi hanno preferito declinare. Secondo quanto riportato dall’Huffington Post, il materiale di Hersh sarebbe stato valutato dal direttore del Washington Post, Marty Baron, e bocciato perché “le fonti dell’articolo non corrispondevano agli standard” del giornale della capitale.

Un giornale che, va ricordato, senza alcuna seria indagine o verifica dei fatti, era stato in prima linea nell’appoggiare la tesi della Casa Bianca e a promuovere un’altra guerra imperialista in Medio Oriente dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per l’intero pianeta.

di Fabrizio Casari

Il Senato uruguayano ha votato a maggioranza la legge che permette il consumo libero di marijuana e che, contestualmente, autorizza lo Stato a produrla e distribuirla. Stabilisce quote massime per la coltivazione privata e modalità della sua distribuzione attraverso la rete delle farmacie pubbliche e private, annunciando comunque la formazione di una autorità di controllo ad hoc e un registro dei consumatori con le più alte garanzie sul riserbo dei dati e l’osservanza rigida delle norme che tutelano la privacy già in vigore.

Il presidente José Mujica ha ribadito che l'obiettivo della riforma non è "diventare un Paese del fumo libero", ma piuttosto tentare un “esperimento al di fuori del proibizionismo, che è fallito". L’intenzione del governo di Montevideo, come più volte ripetuto dallo stesso Presidente Mujica, è quella di strappare al mercato illegale e, dunque, alle organizzazioni criminali che lo gestiscono, il traffico di sostanze stupefacenti a bassissimo rischio per la salute dei consumatori.

Proprio per sfidare le organizzazioni criminali, nell’intento evidente di affondarne il business, il prezzo pubblico della marijuana venduta legalmente nei circuiti farmaceutici sarà di un dollaro al grammo, concorrenziale quindi al prezzo richiesto dai venditori illegali. La destra si è opposta ed ha annunciato una raccolta di firme per indire un referendum abrogativo della legge appena votata, ma ad ogni modo l’impatto politico e culturale della legge è di assoluto spessore.

E’ infatti uno schiaffo violento alle politiche proibizioniste decise dagli Stati Uniti e inoculate via endovena al resto del mondo. In primo luogo sul piano culturale, perché riconosce il diritto individuale al consumo mentre colpisce lo spaccio illegale, con ciò evidenziando due profili antitetici che una scellerata concezione illiberale ha voluto ad ogni costo unificare. In secondo luogo perché chiude con la concezione del diritto all’uso del proprio corpo interpretata solo come una devianza sociale alla quale opporre repressione.

Sul piano politico l’importanza delle legge uruguayana è assoluta, giacché mette in discussione oltre vent’anni di concezione proibizionista che ha recato danni gravissimi. Il fallimento delle politiche proibizioniste, richieste manu militari proprio dal paese primo al mondo per consumo di oppiacei, è stato del resto lo sfondo ideologico e politico di una politica internazionale destinata alla riaffermazione del ruolo di gendarme mondiale statunitense.  La loro attuazione ha tra l’altro permesso al governo USA di inserire la sua DEA in ogni paese e così controllare dall’interno e dall’esterno le attività di prevenzione e repressione delle diverse polizie internazionali.

L’incapacità di far rispettare le leggi proibizioniste all’interno degli Stati Uniti si è quindi trasformata nell’invasione delle legislazioni interne dei paesi dai quali le sostanze oppiacee arrivavano negli stessi USA. Nemmeno le prese di posizione di diversi economisti e sociologi, che hanno regolarmente evidenziato l’incongruenza delle politiche proibizioniste e il loro impatto economico negativo, sono servite ad aprire un dibattito approfondito sul tema, sempre più bandiera ideologica e sempre meno ragionamento politico.

Persino Milton Friedman, economista e fondatore della scuola dei Chicago Boys, icona liberista del turbo capitalismo finanziario, ricordava amaramente i drammatici costi sociali delle politiche proibizioniste, visto che, in conseguenza di questa guerra, gli Stati Uniti hanno moltiplicato per otto la propria popolazione carceraria, principalmente popolazione nera e latina con risorse economiche limitatissime. Lo stesso incremento di pene accessorie per consumatori e spacciatori, mentre non ha svolto nessuna funzione deterrente è servito a far lievitare verso l’alto il prezzo del prodotto e aumentando così ulteriormente il profitto della rete illegale che lo controlla.

Serve quindi una nuova linea di comprtamento. E’ chiaro infatti che un prodotto per il quale i consumatori sono centinaia e centinaia di milioni al giorno l’approccio non può essere repressivo e va invece affrontato con lucida laicità. E, in una lettura attenta del fenomeno, la questione della produzione e distribuzione dello stesso è questione primaria. Ove fosse garantita la vendita in forma legale, nessuno si rivolgerebbe alla micro o macro criminalità per procurarsela.

Tenendo invece il consumo di marijuana nell’area illegale, il prezzo del prodotto è cresciuto a dismisura e i proventi della filiera sono stati appannaggio esclusivo dei cartelli internazionali. Al punto che i profitti delle organizzazioni criminali sono spaventosamente cresciuti, rendendo possibili anche operazioni gigantesche di riciclaggio di denaro sporco, cui ogni struttura organizzata accede per costruire poderosi accantonamenti di denaro non tracciabile ma spendibile.

Basti pensare a come i narcos colombiani prima e quelli messicani ora, ormai giunti alla vetta della piramide delle organizzazioni criminali mondiali, abbiano costruito proprio sul business degli oppiacei il retroterra organizzativo e finanziario che li ha progressivamente trasformati da bande criminali in vere e proprie organizzazioni statuali parallele, capaci di combattere armi alla mano contro lo Stato, ridimensionandone persino il monopolio della forza, per poi addirittura innescare un processo di sostituzione dello Stato stesso (vedi Messico). Come ha giustamente affermato lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano, “nella guerra alla droga gli americani c’hanno messo le narici, l’America Latina i cadaveri”.

Del resto, mantenere in piedi una legislazione proibizionista è un business enorme e non solo le organizzazioni criminali in senso stretto hanno tratto profitto dall’illegalità del mercato. Durante gli anni ’80 gli Stati Uniti finanziarono con i proventi del traffico di droga ed armi la guerra d’aggressione al Nicaragua, finanziando e armando i terroristi Contras pur con il voto del Congresso che limitava fortemente l’utilizzo dei fondi pubblici.

Idem dicasi per diverse altre operazioni, tutte “covert action” implementate senza apparentemente risultare contabilmente registrate nei bilanci ufficiali della CIA e del Pentagono. Chi finanziava e come le operazioni del valore di centinaia di milioni di dollari?

La fine della guerra fredda e della “minaccia comunista” aveva bisogno di nuovi nemici per continuare ad alimentare l’apparato militar-industriale e l’industria dello spionaggio internazionale con il quale gli Stati Uniti hanno voluto mantenere il controllo militare e politico sul pianeta. Sono nati così i nuovi fenomeni del terrore internazionale da vendere all’opinione pubblica: l’Islam radicale, il narcotraffico, la violazione dei diritti umani e via elencando. E' grazie alla presunta guerra al narcotraffico che la Colombia è oggi il Paese con il maggior numero di soldati USA nel mondo, presenza che si rivela strategica non certo per il controllo del mercato deglli oppiacei, bensì per il controllo politico-militare del Sud America. Il Plan Colombia, infatti, era ed é il caposaldo dell'intervento statunitense per il controllo militare del Cono Sud.

Quanto alle ripercussioni su scala globale delle politiche proibizioniste in merito alla diminuzione del traffico, esse sono fortemente negative: i consumatori si sono moltiplicati e, di contro, l’industria che vive sull’illegalità del fenomeno si è ingigantita. Gli stessi recenti conflitti in Africa, a detta di molti osservatori, hanno come obiettivo il controllo delle rotte di commercializzazione delle sostanze.

E, per fare un esempio illuminante, se si vuol ritenere che la presenza statunitense in Afghanistan sia destinata solo a combattere i Talebani in quanto entità politico-militare integralista, sarà comunque utile tenere a mente come il paese asiatico sia uno dei primi produttori al mondo di oppiacei e che, nonostante la presenza delle forze armate USA la produzione è enormemente aumentata.

Dal momento che la capacità operativa dei trafficanti non può essere rimasta immune dalla presenza di migliaia i soldati occidentali in uno scenario di guerra, due sono i casi allora: o la forza militare è impotente contro il fenomeno, o serve - tra e altre motivazioni - proprio a garantire la direzione precisa che i proventi devono prendere. E, come si dice, seguendo il denaro s’indovina il cammino.


di Mario Lombardo

A pochi mesi dalle elezioni generali in India, il Partito del Congresso al potere guidato dalla presidente Sonia Gandhi ha subito una pesantissima sconfitta nelle consultazioni per il rinnovo di alcune assemblee statali del paese asiatico. Il partito di ispirazione social-democratica della dinastia Gandhi-Nehru ha pagato a caro prezzo sia una serie di scandali esplosi negli ultimi anni che l’avvio di impopolari politiche economiche di libero mercato, lasciando strada all’opposizione del Partito Popolare Indiano (Bharatiya Janata Party, BJP) ultra-nazionalista induista che appare ora il netto favorito per la formazione del prossimo governo centrale.

Il voto amministrativo in India è andato in scena domenica in quattro stati - Chhattisgarh, Madhya Pradesh, Mizoram e Rajasthan - più il Territorio Nazionale della Capitale di Delhi, interessando complessivamente oltre 180 milioni di abitanti.

I rovesci più pesanti per il Congresso sono stati registrati nel Rajasthan e a Delhi, dove ha dovuto cedere la maggioranza delle rispettive assemblee e il governo locale al BJP. Nello stato nord-occidentale del Rajasthan, il partito al potere ha ottenuto solo 21 seggi su 200, contro i 162 del BJP. Nella capitale, invece, il Congresso è passato da 43 seggi, conquistati nel 2008, ad appena 8 sui 70 totali, mentre i rivali di destra sono saliti a 31.

Il BJP si è inoltre confermato negli stati di Chhattisgarh e Madhya Pradesh - piuttosto agevolmente nel primo e di misura nel secondo - dove già governava. Il Congresso è riuscito a riconfermarsi alla guida soltanto del piccolo stato orientale di Mizoram, dove vivono poco più di un milione di persone. Il bilancio finale del voto nel fine settimana è stato dunque disastroso per il Congresso, il quale ha visto quasi dimezzata la propria rappresentanza complessiva.

A Delhi, quanto meno, il BJP non è riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta, così che si renderà necessaria una coalizione per amministrare la metropoli di oltre 12 milioni di abitanti. Qui, ad ottenere un risultato inaspettato è stato il Partito dell’Uomo Comune (Aam Aadmi, AAP), creato poco più di un anno fa attorno ad un programma basato prevalentemente sulla lotta alla corruzione pressoché endemica nel paese.

L’AAP ha chiuso con ben 27 seggi, sottraendo voti al Congresso tra gli elettori più poveri e della classe media di Delhi. Il leader della nuova formazione politica, Arvind Kejriwal, ha addirittura strappato il seggio di Sheila Dikshit, per 15 anni a capo del governo della capitale (“chief minister”) per il Partito del Congresso.

Le implicazioni dell’appuntamento elettorale appena concluso in India per il Partito del Congresso appaiono quindi chiare in vista delle elezioni nazionali previste per il mese di maggio. La batosta patita conferma infatti il profondo malcontento diffuso in tutto il paese per un governo centrale incapace far fronte al rallentamento dell’economia con misure in grado di rispondere alle aspettative della maggioranza della popolazione.

L’esecutivo della coalizione Alleanza Progressista Unita e presieduto dall’ultra-ottantenne primo ministro Manmohan Singh, su iniziativa del Partito del Congresso con a capo Sonia Gandhi, da qualche tempo si è mosso verso l’apertura del mercato indiano, dando il via libera a privatizzazioni e investimenti stranieri in svariati settori, nonché tagliando i sussidi per calmierare i prezzi dell’energia.

Oltre al contraccolpo elettorale di queste e altre “riforme” economiche impopolari - lanciate ufficialmente più di un anno fa al termine di un sofferto processo che portò anche alla perdita di alleati di governo - il Congresso ha patito vari scandali che hanno coinvolto numerosi suoi esponenti in casi di corruzione, evidenziando i discutibili legami del partito con gli ambienti del business indiano.

La crescente avversione nei confronti del governo Singh e del Partito del Congresso è stata sfruttata dal BJP all’opposizione, il quale tuttavia è il tradizionale punto di riferimento della borghesia indiana e promuove politiche ancor più di matrice liberista. Attorno al BJP si sono così stretti gli ambienti economici e finanziari del paese che giudicano troppo caute le iniziative del Congresso in ambito economico, lanciando come candidato alla guida del prossimo governo uno dei leader più controversi del partito, Narendra Modi.

Capo del governo dello stato di Gujarat, quest’ultimo è noto, oltre che per una spiccata predisposizione verso politiche “business-friendly”, per la sua retorica incendiaria e le posizioni estreme riguardo la supremazia induista. La candidatura di Modi alla guida del suo partito, inoltre, era apparsa a molti improbabile alla vigilia della nomina ufficiale, visto il suo coinvolgimento nella sanguinosa persecuzione di indiani musulmani nel 2002 che nello stato di Gujarat fece più di mille morti.

Nonostante siano in molti ad avere visto le elezioni di domenica come un antipasto di quello che accadrà nel maggio prossimo, alcuni commentatori hanno messo in guardia dal trarre conclusioni affrettate, ricordando come il BJP anche nel 2003 fece segnare risultati eccellenti a livello locale per poi perdere la sfida nazionale l’anno successivo.

Le prospettive del Partito del Congresso, in ogni caso, appaiono ben poco rosee per l’immediato futuro. Il tentativo stesso di accelerare la candidatura del 43enne Rahul Gandhi per la guida del prossimo governo difficilmente riuscirà ad invertire la tendenza, soprattutto perché il figlio di Sonia e dell’ex premier assassinato Rajiv Gandhi ha condotto in prima persona la campagna elettorale del suo partito che è appunto culminata con la pesante sconfitta del fine settimana.


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