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di Michele Paris
L’attacco al Parlamento libico di domenica scorsa e la sospensione della stessa assemblea legislativa dietro decisione di un ex generale dell’esercito ha gettato il paese nordafricano ancora più nel caos e reso sempre più concreto lo spettro della guerra civile dopo quasi tre anni dalla “liberazione” dal regime di Gheddafi favorita dalle bombe della NATO.
Dopo l’operazione contro il Parlamento per mano di alcune milizie fedeli al generale Khalifa Hifter, un altro generale alleato con quest’ultimo ha annunciato in diretta televisiva che i 60 membri dell’assemblea costituente libica verranno investiti del potere legislativo, mentre l’attuale governo funzionerà come esecutivo di emergenza.
Lo stesso portavoce delle forze protagoniste dell’assalto al Parlamento, generale Mokhtar Farnana, ha poi negato che quello andato in scena domenica sia un colpo di stato, ma ha affermato che la decisione è stata presa per evitare che la Libia diventi “un incubatore del terrorismo”. Bersaglio dell’operazione sono stati in particolare i parlamentari islamisti, accusati di avere favorito il proliferare di milizie estremiste nel paese.
Nella giornata di lunedì, il governo libico uscente ha però respinto le direttive provenienti dal generale Hifter, condannando l’attacco al Parlamento che avrebbe fatto 2 morti e più di 50 feriti. Inoltre, il comandante delle forze armate regolari ha chiesto ad altre milizie - questa volta di ispirazione islamista - di dispiegare i propri uomini a Tripoli per combattere le formazioni golpiste guidate da Hifter, con il rischio di innescare un conflitto interno ancora più sanguinoso.
Ad aggiungere confusione al già caotico scenario, alcune fonti governative hanno rivelato che ad appoggiare Hifter sarebbero state due milizie - al-Qaaqaa e Sawaaq, le due maggiori attive a Tripoli - che avevano finora operato a fianco dell’Esecutivo per cercare di mantenere l’ordine, come è ormai pratica comune nella Libia del dopo-Gheddafi.
Il Parlamento che Hifter sostiene di avere sciolto appare in stato di completa paralisi e diviso tra fazioni islamiste e secolari, a loro volta sostenute da svariate milizie. Recentemente, un nuovo primo ministro era stato scelto dai deputati islamisti ma la nomina è stata definita illegittima dai loro rivali, così che il premier ad interim non ha ancora formato il nuovo gabinetto. Secondo un deputato sentito dalla TV libica, l’attacco del fine settimana sarebbe avvenuto precisamente per impedire che il Parlamento ratificasse la formazione dell’esecutivo, dopo che proprio domenica i suoi membri avevano ricevuto la lista dei ministri proposti per farne parte.I gruppi messi assieme dal generale Hifter sono legati alle milizie di Zintan, nella Libia occidentale, e rappresentano la forza principale nelle file anti-islamiste di Tripoli. L’altra forza dominante nella capitale è costituita invece da formazioni islamiste, provenienti in gran parte da Misurata. Già venerdì scorso, Hifter e i suoi uomini avevano orchestrato un’operazione contro le milizie islamiste a Bengasi, in quello definito dalle autorità centrali come un altro tentativo di golpe che ha fatto 70 morti.
Personaggio controverso e dal passato oscuro, Hifter era un fedelissimo di Gheddafi prima di defezionare e fondare il Fronte Nazionale di Salvezza per la Libia. Il generale si sarebbe poi trasferito negli Stati Uniti, vivendo per anni in Virginia, a breve distanza dal quartier generale della CIA. Tornato in patria dopo l’assassinio di Gheddafi, Hifter era stato protagonista di un video circolato lo scorso mese di Febbraio, nel quale in sostanza annunciava un colpo di stato in Libia, senza però riuscire a dare seguito alle proprie minacce.
Visti i suoi legami con la CIA, che aveva selezionato l’ex generale di Gheddafi per favorire la nascita di una forza pronta a rovesciare il regime, è dunque possibile che Hifter sia stato utilizzato da Washington - o da fazioni all’interno dell’apparato militare o dell’intelligence americano - per provare un colpo di mano nel paese nordafricano con l’obiettivo di riportare un minimo di ordine e infliggere un colpo alle formazioni islamiste o, quanto meno, di testare le capacità dello stesso Hifter all’interno del confuso panorama politico libico.
Quel che appare certo, in ogni caso, è che il precipitare della situazione in Libia è la diretta e drammatica conseguenza dell’intervento “umanitario” occidentale del 2011, responsabile della totale destabilizzazione non solo di uno dei paesi più stabili e (relativamente) prosperi del continente ma anche dell’intera regione.
Il dopo-Gheddafi in Libia è sfociato nello strapotere di una miriade di milizie armate violente, spesso di ispirazione fondamentalista quando non apertamente affiliate al terrorismo internazionale, sulle quali Washington, Parigi e Londra avevano contato per dare la spallata al regime.
Una volta ultimate le operazioni militari, queste stesse milizie si sono rifiutate di deporre le armi e, approfittando del vuoto di potere venutosi a creare in un paese praticamente senza una società civile o un’opposizione organizzata, hanno creato proprie zone di influenza, talvolta collaborando con le forze armate ufficiali e quelle di polizia ma, soprattutto, dando vita a continui scontri interni per il controllo del territorio.
Nelle regioni orientali, in varie occasioni le milizie si sono anche impadronite dei pozzi petroliferi sottraendoli al controllo del governo centrale, mentre qualche mese fa una di esse è stata addirittura protagonista del rapimento dell’ex primo ministro, Ali Zeidan, accusato di complicità con il raid americano che aveva portato alla cattura del leader di al-Qaeda, Anas al-Liby.
Il succedersi degli eventi in Libia rappresenta così un motivo di grave imbarazzo per i governi che hanno apoggiato la cosiddetta “rivoluzione democratica” contro il regime di Gheddafi, nonostante i tentativi dei media ufficiali di occultare le implicazioni dell’impegno occidentale in questo paese.
L’ambiguità dell’approccio dell’Occidente e, soprattutto, degli Stati Uniti al fondamentalismo islamico è apparsa infatti in tutta la sua evidenza proprio in Libia, così come i pericolosi effetti collaterali di un politica sconsiderata, ugualmente riscontrabili nella crisi in Siria.Washington, in sostanza, ha appoggiato finanziariamente e militarmente formazioni estremiste in Libia per condurre la propria guerra contro Gheddafi, finendo poi per subire le conseguenze dell’inevitabile rafforzamento di questi stessi gruppi armati, con effetti sia sugli interessi americani - come dimostrò clamorosamente l’assassinio a Bengasi dell’ambasciatore USA Christopher Stevens nel 2012 per mano di fondamentalisti sunniti - sia sulla stabilità di Tripoli e di altri paesi dell’Africa sub-sahariana, come il Mali o la stessa Nigeria.
La Libia, infine, rappresenta da qualche tempo un autentico serbatoio di guerriglieri estremisti per il conflitto in corso in Siria, utilizzati più o meno tacitamente come forza d’urto dagli Stati Uniti e dai loro alleati che, perciò, sembrano qualcosa di più che semplici spettatori passivi di un flusso di armi e uomini a cui ufficialmente sostengono di opporsi.
Ciò è risultato evidente, tra l’altro, da una rivelazione pubblicata a fine aprile dalla testata on-line The Daily Beast, secondo la quale da quasi un anno una base creata nel 2011 dalle Forze Speciali USA non lontana da Tripoli sarebbe finita nelle mani di gruppi armati affiliati ad al-Qaeda. I reparti scelti americani che da questa struttura avevano operato al fianco di gruppi fondamentalisti per abbattere il regime di Gheddafi ne hanno perso il controllo la scorsa estate dopo almeno due precedenti incursioni da parte dei jihadisti.
I militanti islamici che ora la controllano, dopo avere beneficiato delle operazioni NATO in Libia, sono attivi nel reclutamento e invio di guerriglieri in Siria, dove condividono di fatto l’obiettivo immediato degli Stati Uniti nel paese mediorientale, vale a dire la rimozione del regime secolare di Bashar al-Assad.
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di Carlo Musilli
Sul piatto c'erano più di 3.200 euro al mese, ma gli svizzeri hanno detto no. Lo hanno fatto con una percentuale quasi bulgara: il 76,5% degli elettori che lo scorso weekend si sono recati alle urne ha bocciato il referendum d'iniziativa popolare "per la protezione di salari equi". Il progetto, sostenuto dai sindacati e osteggiato da governo e imprenditori, prevedeva uno stipendio minimo legale a livello nazionale di 22 franchi l’ora (18 euro), ovvero circa 4mila franchi al mese (poco meno di 3.300 euro) per un impiego a tempo pieno di 42 ore settimanali. A conti fatti, sarebbe stato lo stipendio minimi più alto del mondo, eppure è stato respinto in tutti i 26 cantoni e semi-cantoni.
È la terza volta in poco più di un anno che gli svizzeri sono chiamati a votare sul capitolo remunerazioni: lo scorso novembre avevano respinto con circa il 65% di voti contrari l’iniziativa "1-12 - Per salari equi", la quale prevedeva che in ogni impresa il salario più alto non potesse superare di oltre 12 volte quello più basso; nel marzo 2013, invece, avevano approvato con oltre il 67% di schede favorevoli il referendum contro le paghe esorbitanti dei manager.
Ora, finché si parla degli eccessi riservati a pochi eletti, il rifiuto è comprensibile. Ma come si spiega che più di tre persone su quattro abbiano respinto una manna dal cielo nelle tasche dei lavoratori più umili? Secondo Johann Schneider-Ammann, ministro dell'Economia, l'innovazione avrebbe causato una perdita di occupazione (anche se, ad oggi, il tasso di disoccupazione svizzero è pari al 3,5%, uno dei più bassi al mondo), e a risentirne maggiormente sarebbero stati proprio i lavoratori meno qualificati e quelli attivi nelle zone periferiche.
La sua posizione è la stessa della destra svizzera e dell'intera classe imprenditoriale del Paese, che di fronte alla prospettiva di dover mettere mano al portafoglio aveva agitato perfino lo spauracchio della delocalizzazione. Certo, se il primo criterio per scegliere dove produrre fosse il costo del lavoro, è evidente che con o senza referendum a nessuno verrebbe in mente di aprire un'azienda in Svizzera. Peccato che si debba tener conto anche di fattori come la logistica, i tempi della giustizia e - soprattutto - il fisco.
Se si guarda oltre l'orizzonte degli stipendi, si nota che il contesto svizzero nel suo complesso rappresenta una dorata eccezione nel panorama europeo. Sono del tutto improponibili i paragoni con la Francia (dove il salario minimo è di poco più di 9 euro l'ora) o la Germania (che ha recentemente introdotto un tetto minimo di 8,5 euro l'ora, in vigore dall'anno prossimo). Eppure la differenza macroscopica fra il salario chiesto dal referendum e quello garantito nelle prime due economie dell'Eurozona deve aver indotto diversi lavoratori a temere davvero di perdere il posto.
Un'eventualità che secondo i sindacati e i partiti di sinistra non si sarebbe mai realizzata. Perché? Semplice, perché la Svizzera è straricca. Nelle imprese private lo stipendio medio è di 6.118 franchi lordi al mese, mentre i lavoratori che guadagnano meno di 4mila franchi rappresentano solo il 10% e sono perlopiù concentrati in settori come il commercio al dettaglio, la ristorazione e l'agricoltura. In uno scenario di questo tipo, considerando anche un costo della vita impensabile per un europeo medio, la tesi dei promotori del referendum era che pagare qualcuno meno di 22 franchi l'ora fosse semplicemente vergognoso. E' probabile che i sindacati e la sinistra non siano stati sconfitti solo dalla campagna di terrore degli oppositori, ma anche da quel non so che di xenofobo che serpeggia nel dna del loro Paese. Gli svizzeri, mediamente, non vedono di buon occhio gli immigrati, considerando che in passato hanno proibito la costruzione di minareti sul territorio nazionale, approvando invece un referendum "per l'espulsione degli stranieri che commettono reati".
Lo scorso gennaio è passato addirittura un referendum per l'introduzione di quote che limitino il numero di lavoratori stranieri ammessi in Svizzera (il ddl dovrebbe essere presentato a breve). Una decisione che ha danneggiato i rapporti fra Berna e Bruxelles, poiché di fatto restringe arbitrariamente gli accordi per la libera circolazione nell'area Schengen.
Insomma, non serve cercare troppo nelle pieghe della giurisprudenza elvetica per sapere con quanta acredine vengano accolti molto spesso i nostri connazionali frontalieri, ovvero gli italiani che ogni giorno vanno in Svizzera per lavorare e ogni sera tornano a casa al di qua delle Alpi. E non serve un genio per capire che con un salario minimo di quel tipo si sarebbero moltiplicati. Lo hanno capito persino più di tre svizzeri su quattro.
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di Mario Lombardo
Il più grave incidente della storia della Turchia in un luogo di lavoro, avvenuto a inizio settimana in una miniera nella città di Soma, ha fatto riesplodere le proteste popolari in tutto il paese contro il governo islamista del premier Recep Tayyip Erdogan. Se i motivi immediati delle nuove manifestazioni sono legati alla natura del tutto evitabile del disastro, l’ennesima manifestazione di rabbia su scala nazionale contro le autorità conferma la crescente avversione nei confronti dell’esecutivo guidato dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP).
Come è ormai noto, a determinare l’esplosione nella miniera della compagnia Soma Kumur è stata un fuga di metano che ha messo fuori uso i sistemi di ventilazione e gli altri impianti per la sicurezza che avrebbero potuto salvare i minatori.
Nella giornata di giovedì il bilancio si è avvicinato alle 300 vittime, con un altro centinaio di minatori ancora intrappolato sottoterra e quasi nessuna speranza di individuare superstiti. L’incidente di martedì ha già superato il numero di decessi provocati da quello ritenuto fino ad ora come il più grave in Turchia, avvenuto nel 1992 in una miniera nella località di Zonguldak, sul Mar Nero, che fece 263 morti.
A suscitare lo sdegno in tutto il paese sono state le rivelazioni immediatamente emerse sui media in relazione alle responsabilità della compagnia proprietaria della miniera e dello stesso governo, entrambi impegnati a mettere il profitto davanti alle vite dei lavoratori. Se la prima ha deliberatamente mancato di prendere le misure necessarie a garantire la sicurezza dei minatori, il secondo è stato complice nel nascondere e ignorare le reali condizioni di lavoro a Soma.
A partire dalla privatizzazione delle miniere della Turchia nel 2005, come aveva ostentato in una vecchia intervista il proprietario di Soma Kumur, Alp Gurkan, la sua compagnia è stata in grado di ridurre il costo dell’estrazione di carbone da 140 a 23,8 dollari per tonnellata. Nemmeno una parte del denaro così risparmiato, tuttavia, è stata investita in efficaci sistemi di sicurezza, in particolare quelli pure esistenti per prevenire il pericolosissimo accumulo di metano nelle miniere.
L’intero settore estrattivo turco, peraltro, risulta quello con il maggior numero di incidenti mortali nel mondo in proporzione alle dimensioni. Se in termini assoluti è la Cina a fare segnare il record di decessi nelle miniere, il dato relativo al numero di minatori morti per quantità di carbone estratto in Turchia è di quasi sei volte superiore a quello cinese. A conferma della pericolosità della situazione, mercoledì c’è stato un altro decesso in una miniera turca, ancora a Zonguldak in seguito ad un crollo improvviso.Che il governo di Ankara consideri l’adozione di misure di sicurezza moderne come un ostacolo ai profitti delle compagnie private è confermato ad esempio dal fatto che la Turchia non ha mai firmato la convenzione dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (ILO) sulla sicurezza nelle miniere. Quest’ultima, stabilita nel 1995, delega le responsabilità relative alla sicurezza e alla salute dei lavoratori di questo ambito sia ai governi che ai proprietari delle miniere e richiede provvedimenti specifici per abbattere i rischi.
Secondo quanto riportato dalla stampa turca, inoltre, il partito di governo aveva respinto solo due settimane fa una mozione presentata lo scorso ottobre in Parlamento dall’opposizione del Partito Popolare Repubblicano (CHP) proprio per indagare sui numerosi incidenti avvenuti nelle miniere di carbone di Soma.
Nel discutere la proposta, un deputato dell’opposizione aveva affermato che nel solo 2013 il distretto di Soma aveva registrato 5 mila incidenti sul lavoro, di cui il 90% nelle miniere. Un parlamentare dell’AKP, invece, aveva sostenuto che le miniere di Soma erano le più sicure della Turchia e i proprietari avevano preso tutte le misure di sicurezza necessarie.
Lo stesso compagno di partito di Erdogan aveva poi affermato che gli incidenti fatali che coinvolgono i minatori continuano ad accadere a causa della “natura della loro professione”, senza che vi siano specifiche responsabilità. Una tesi simile l’ha offerta ai famigliari delle vittime del più recente disastro anche il primo ministro, accolto da una folla tutt’altro che ospitale durante la sua apparizione di mercoledì a Soma.
Poco prima di essere costretto a riparare in un supermercato sotto la protezione della sua scorta, Erdogan aveva provocato la folla dicendo che gli eventi mortali nelle miniere sono “normali”, portando ad esempio vari incidenti con centinaia di morti avvenuti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nel XIX e a inizio del XX secolo, quando non esistevano la tecnologia e i sistemi odierni per evitare le stragi di lavoratori.
Al termine del discorso, la folla di Soma ha accerchiato il primo ministro chiedendone le dimissioni e chiamandolo “assassino”, mentre altri gruppi di abitanti della città hanno assaltato la sede locale del suo partito. Giovedì, poi, la stessa accoglienza riservata a Erdogan è toccata anche al presidente turco, nonché membro dell’AKP, Abdullah Gül.
Le proteste di piazza, in ogni caso, si sono diffuse a molte altre città della Turchia, soprattutto dopo l’apparizione sui social media di immagini nelle quali si vede il consigliere di Erdogan, Yusuf Yerkel, prendere a calci un manifestante immobilizzato a terra da agenti delle forze speciali.Secondo quanto riferito dai testimoni, il giovane era stato fermato dopo avere sferrato dei colpi ad un’auto del convoglio del premier a Soma. A quel punto, Yerkel ha abbandonato il mezzo a lui destinato per correre verso il manifestante e prenderlo a calci ripetutamente.
La risposta della polizia alle proteste è stata particolarmente dura a Istanbul e ad Ankara. Nella metropoli sul Bosforo, centinaia di manifestanti si sono radunati nella piazza Taksim, centro nevralgico delle proteste dello scorso anno nate per contrastare un progetto edilizio speculativo promosso dal governo e ben presto allargatesi a tutto il paese.
Giovedì, inoltre, i sindacati turchi hanno indetto uno sciopero di 24 ore e gli scontri più gravi con la polizia si sono avuti nella città occidentale di Izmir, dove è stato segnalato l’uso di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua contro più di 20 mila manifestanti.
Le esplosioni di protesta che si registrano in Turchia ad ogni occasione e la risposta brutale delle forze di sicurezza rivelano dunque tensioni sociali crescenti nel paese euro-asiatico. Nonostante il partito al potere abbia ottenuto una netta vittoria nelle recenti elezioni amministrative, la società turca continua a mostrare una profonda inquietudine ed un’ostilità diffusa nei confronti di un Erdogan sempre più impopolare.
Lo è per una lunga serie di motivi che vanno, ad esempio, dai numerosi scandali giudiziari scoppiati negli ultimi mesi al coinvolgimento nel conflitto in Siria, dalla regolare elargizione di favori ad una ristretta élite gravitante attorno alla cerchia di potere dell’AKP alla costante erosione dei diritti democratici nel paese.
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di Michele Paris
La vigilia dell’ennesimo vertice dei cosiddetti “Amici della Siria”, al via da giovedì a Londra, è stata segnata da una serie di eventi legati al paese mediorientale in guerra da oltre tre anni che hanno confermato sia il crescente fallimento dell’opposizione armata anti-Assad sia la volontà dei governi occidentali di continuare ad alimentare il conflitto in corso, ricorrendo ancora una volta, se necessario, a menzogne e manipolazioni della realtà.
L’ammissione della totale incapacità da parte della comunità internazionale anche solo di gettare le basi per un negoziato efficace sulla crisi è avvenuta martedì con le dimissioni dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Lakhdar Brahimi.
Il diplomatico algerino ha annunciato la propria decisione ai membri del Consiglio di Sicurezza nel corso di una riunione a porte chiuse, durante la quale avrebbe espresso delusione per la mancanza di impegno da parte dei sostenitori di entrambi gli schieramenti nel fermare l’afflusso di armi in Siria e di alleviare la crisi umanitaria.
La sorte di Brahimi era risultata evidente già nel mese di marzo, quando i colloqui di Ginevra tra il regime e l’opposizione “moderata” erano finiti nel nulla dopo due round di negoziati. Per il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, l’impossibilità di percorrere la strada diplomatica sarebbe dovuta all’intransigenza mostrata al tavolo delle trattative da Assad e dai suoi uomini.
Lo stesso Brahimi, nonostante abbia puntato il dito contro tutte le parti in causa per la drammatica evoluzione della crisi in Siria, ha più volte lasciato intendere che il fallimento dei negoziati di Ginevra è la diretta conseguenza della decisione del regime di Damasco di organizzare le elezioni presidenziali per il 3 giugno prossimo nelle quali Assad sarà regolarmente tra i candidati.
Le affermazioni di Ban e Brahimi la dicono lunga sulla presunta imparzialità delle Nazioni Unite in relazione alla Siria, visto che le ragioni principali del naufragio di qualsiasi ipotesi diplomatica sono da ricercare piuttosto nell’inflessibilità mostrata a Ginevra dai rappresentanti dell’opposizione anti-Assad.
I “ribelli”, cioè, hanno sempre posto come condizione imprescindibile per l’accettazione di un eventuale piano di transizione l’esclusione del presidente siriano e degli uomini ritenuti più compromessi del suo regime, negando così una realtà militare sempre più favorevole a Damasco e sorvolando sull’avversione nutrita dalla maggior parte della popolazione nei confronti di un’opposizione composta in larga misura da forze fondamentaliste violente.Proprio mentre Brahimi rassegnava le proprie dimissioni, la visita a Washington del leader politico dell’opposizione siriana, Ahmad Jarba, raggiungeva il proprio culmine con un incontro alla Casa Bianca. Il burattino saudita aveva trascorso i giorni precedenti parlando a media e think tank americani, nel tentativo di raccogliere consensi per la richiesta da sottoporre all’amministrazione Obama di fornire ai ribelli nuove armi, in particolare missili terra-aria per abbattere gli aerei del regime.
Jarba, dopo avere incassato da Washington il riconoscimento dello status di “missione diplomatica” per l’organizzazione che dirige, aveva anche confermato che gli USA hanno recentemente fornito missili anti-carro al Libero Esercito della Siria, per poi sottolineare la competenza e la responsabilità che i militanti anti-Assad avrebbero mostrato con queste armi.
Il presidente Obama, così come gli uomini all’interno dell’amministrazione democratica che condividono la sua posizione relativamente cauta sulla Siria, continua però a dubitare dell’opportunià di fornire i cosiddetti “manpads” ai ribelli, visto che con ogni probabilità queste armi finirebbero nelle mani di formazioni estremiste che le potrebbero utilizzare contro velivoli commerciali.
Questa possibilità è stata confermata da un articolo uscito la settimana scorsa sul Wall Street Journal, nel quale alcune fonti all’interno del Libero Esercito della Siria hanno rivelato come le fazioni anti-Assad ritenute “moderate” dall’Occidente stiano collaborando da qualche settimana con il Fronte al-Nusra, vale a dire l’unica organizzazione riconosciuta ufficialmente da Al-Qaeda tra quelle attive in Siria.
In particolare, il Libero Esercito e il Fronte al-Nusra sono partner sui campi di battaglia nel sud-ovest della Siria, non lontano dalle alture del Golan occupate da Israle, dove tra l’altro gli Stati Uniti operano da tempo tramite la CIA un programma di addestramento per i ribelli.
Se le rassicurazioni di Jarba sono dunque crollate miseramente già prima di essere esposte al presidente Obama, le manovre per mantenere la Siria nel caos da parte dell’Occidente, in alternativa al sogno per ora irrealizzabile di provocare la caduta di Assad, stanno passando anche da altre strade, sia pure non esattamente nuove.
Con una dose difficilmente misurabile di ipocrisia e cinismo, ad esempio, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, sempre nella giornata di martedì, ha espresso il proprio rammarico per la mancata decisione da parte di Obama di bombardare la Siria dopo le accuse mosse contro Assad l’agosto scorso per avere usato armi chimiche contro i ribelli.
Secondo Fabius, se il governo USA in quell’occasione avesse dato seguito alle proprie minacce autorizzando attacchi aerei contro il regime, “molte cose sarebbero cambiate”. In effetti, se Washington avesse inaugurato una nuova guerra criminale basata sulla menzogna in Medio Oriente, la Siria sarebbe oggi, quanto meno, già nelle mani di bande fondamentaliste sull’esempio della Libia “liberata” dalla NATO.
La criminalità della tesi di Fabius è amplificata dal fatto che le sue dichiarazioni rilasciate a Washington giungono dopo quasi nove mesi dagli attacchi in questione, avvenuti a Ghouta, nei pressi di Damasco, durante i quali sono emersi numerosi dettagli e rivelazioni - anche se quasi mai riportati dai media ufficiali - che hanno dimostrato come l’uso di armi chimiche fosse da attribuire quasi certamente proprio alle formazioni ribelli, interessate a provocare la reazione della comunità internazionale contro un regime che già allora stava mettendo a segno importanti successi militari sul campo.
Il giornalista investigativo americano Seymour Hersh, soprattutto, nei mesi scorsi ha pubblicato due indagini molto approfondite per smontare la tesi americana della responsabilità di Assad, rivelando tra l’altro come gli USA sapevano perfettamente delle capacità dei ribelli di produrre e utilizzare il Sarin a scopi bellici e come dietro all’attacco di Ghouta ci fosse addirittura il governo turco, disperatamente intenzionato a provocare un intervento internazionale per rimuovere il regime di Damasco.Ciononostante, Fabius è tornato nuovamente ad accusare Assad di avere condotto 14 attacchi con armi chimiche a partire dallo scorso ottobre, sostanzialmente da quando ha accettato l’accordo USA-Russia per la distruzione del proprio arsenale. Il ministro francese ha citato “testimoni credibili”, verosimilmente pescati tra le fila dei ribelli e, perciò, nessuno di essi nella posizione di fornire prove irrefutabili che, infatti, non sono state presentate.
Le accuse infondate di Fabius potrebbero servire in ogni caso da pretesto agli “Amici della Siria” riuniti a Londra per aumentare il loro impegno a favore dei ribelli, così come allo scopo tornerà utile un rapporto diffuso ancora martedì da Human Rights Watch sull’uso di armi chimiche.
L’organizzazione americana, teoricamente indipendente, sostiene che nel mese di Aprile le forze del regime avevano lanciato bombe al cloro su tre città nel nord della Siria. Pur affermando che quelle reperite su questi attacchi sarebbero “prove”, Human Rights Watch ha dovuto ammettere che “non è stato possibile confermarle in maniera indipendente”. Anche in questo caso, appare evidente, le presunte “prove” devono essere state fornite esclusivamente dalle forze anti-governative.
L’allineamento di Human Rights Watch alle posizioni del Dipartimento di Stato americano appare peraltro ben poco sorprendente, visti i legami di molti suoi uomini di spicco con il governo USA, a cominciare da Tom Malinovski, recentemente dimessosi da responsabile delle relazioni dell’organizzazione per i diritti umani a Washington per diventare assistente al segretario di Stato per “la democrazia, i diritti umani e il lavoro”.
Il problema di credibilità di Human Rights Watch è stato in questi giorni sollevato anche da un gruppo di autorevoli accademici, tra cui il premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel, i quali hanno indirizzato una lettera al direttore esecutivo Kenneth Roth per denunciare i rapporti della sua organizzazione con il governo di Washington che ne mettono in dubbio l’indipendenza.
Oltre a Malinovski, che ricoprì vari incarichi già durante l’amministrazione Clinton, la lettera evidenzia la presenza nel comitato consultivo di Human Rights Watch di personaggi come ad esempio Myles Frechette, ex ambasciatore USA in Colombia, Miguel Diaz, ex analista della CIA, e Michael Shifter, già direttore per l’America Latina del “National Endowment for Democracy”, uno degli strumenti utilizzati da Washington per la destabilizzazione di governi stranieri poco graditi.
Tra gli altri possibili sviluppi della crisi siriana vanno infine segnalate le bozze di due risoluzioni ONU proposte da Russia e Francia. Mentre la prima intende estendere ad altre località del paese in guerra il recente accordo di cessate il fuoco negoziato a Homs tra il regime e l’opposizione armata, la seconda è un altro capolavoro di ipocrisia occidentale.
Con essa, Parigi vorrebbe deferire il caso della guerra in Siria al Tribunale Penale Internazionale ma la sua vera natura è illustrata dalle manovre francesi per definirne il testo. La risoluzione, infatti, è stata studiata per limitare le indagini sui crimini commessi in Siria a dopo il 2011, così da escludere quelli commessi in precedenza da Israele nelle alture del Golan, e per dispensare da eventuali incriminazioni i cittadini dei paesi non firmatari dello Statuto di Roma - che ha istituito appunto il Tribunale - ad eccezione della Siria.
Quest’ultima disposizione serve appositamente a escludere qualsiasi denuncia ai danni di membri del governo e delle forze armate degli Stati Uniti, nel caso in cui il paese più importante che non ha mai ratificato lo Statuto di Roma decidesse di invadere la Siria per forzare il cambio di regime.
Se la risoluzione francese dovesse finire ai voti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Russia ha comunque già annunciato di volere esercitare il proprio diritto di veto.
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di Mario Lombardo
Da oltre una settimana, la Cina e il Vietnam sono nel pieno di un’accesa disputa attorno al posizionamento di una piattaforma petrolifera nel Mar Cinese Meridionale da parte di Pechino. Il nuovo scontro non solo retorico in Asia orientale rientra nel quadro delle contese territoriali riaccese dal riposizionamento degli Stati Uniti in questa parte del globo e che stanno pericolosamente mettendo di fronte Pechino a svariati paesi vicini, la cui crescente aggressività continua ad essere incoraggiata proprio dalle necessità strategiche di Washington.
A inizio mese le autorità cinesi avevano installato la piattaforma in un’area vicina alle isole Paracel (Xisha in cinese), controllate da Pechino ma rivendicate dal Vietnam. L’azione aveva subito provocato la replica di Hanoi, il cui governo nei giorni scorsi ha inviato nella zona alcune imbarcazioni della propria Guardia Costiera, accolte però da navi cinesi con cannoni ad acqua.
Nella giornata di lunedì, il governo vietnamita ha nuovamente accusato la Cina di avere respinto con gli stessi metodi una motovedetta che, a sua volta, secondo i media locali avrebbe risposto anch’essa con l’uso di cannoni ad acqua.
Secondo Hanoi, le attività di trivellazione avviate dalla Cina sono illegali, poiché la piattaforma in questione si troverebbe nella cosiddetta “zona economica esclusiva” del Vietnam, fissata dalle norme internazionali a 200 miglia al largo delle coste di un determinato paese.
Pechino, al contrario, respinge categoricamente una simile interpretazione e sostiene che la Cina ha l’assoluta sovranità sulla zona in cui si trova la piattaforma, essendo ad appena una trentina di chilometri al largo delle isole Paracel che essa controlla fin dal 1974.
Pechino ha poi denunciato la marina vietnamita per avere inviato nell’area di crisi 35 imbarcazioni che hanno speronato navi cinesi in almeno 171 occasioni tra il 3 e il 7 di maggio. Nel corso degli ultimi dieci anni, inoltre, la Cina ha già condotto attività esplorative nei pressi delle isole contese e il recente posizionamento della piattaforma petrolifera sarebbe un’operazione non differente dalle precedenti.Il Vietnam, in ogni caso, non ha lesinato iniziative che hanno fatto aumentare le tensioni. Per cominciare, nel fine settimana il regime ha autorizzato alcune dimostrazioni di fronte alle sedi diplomatiche cinesi per denunciare la presunta aggressione di Pechino. Già nel 2011, Hanoi permise proteste simili in occasione di un altro scontro tra i due paesi vicini, per poi disperderle senza troppi complimenti quando stavano per trasformarsi in una rara occasione per esprimere il malcontento popolare nei confronti del governo.
Il primo ministro vietnamita, Nguyen Tan Dung, ha poi avuto parole molto dure per la Cina, accusata di essersi macchiata di “serie e pericolose violazioni” nell’ambito delle dispute, mettendo a rischio “la pace, la stabilità e la sicurezza” nella regione.
Il messaggio di Dung è stato indirizzato in particolare ai dieci membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico riuniti nella giornata di domenica in Myanmar. Qui, il premier del Vietnam ha cercato di raccogliere il supporto di qualche governo - alcuni dei quali coinvolti anch’essi in contese territoriali con Pechino - ma senza troppo successo.
I leader del gruppo non hanno infatti menzionato esplicitamente la Cina nel loro comunicato ufficiale al termine del vertice, limitandosi ad esprimere “gravi preoccupazioni in merito agli sviluppi in corso nel Mar Cinese Meridionale”.
L’ASEAN, d’altra parte, continua a trattare con estrema cautela le dispute riesplose in questi anni, principalmente perché la Cina è il principale partner commerciale di praticamente tutti i paesi membri, nonché stretto alleato di alcuni di essi (Cambogia e Laos). Altri invece, come le Filippine, auspicherebbero una risposta più forte alle “provocazioni” cinesi, in linea con i tentativi favoriti da Washington di aprire un negoziato multilaterale per la risoluzione delle contese territoriali.
Nonostante la posizione neutrale ufficialmente sostenuta dall’amministrazione Obama, gli USA hanno più volte segnalato la loro intenzione di appoggiare tutti i rivali di Pechino nelle varie dispute. Ciò è stato confermato anche in questa occasione, visto che in una telefonata avvenuta lunedì, il segretario di Stato John Kerry ha comunicato alla sua controparte cinese che il posizionamento della piattaforma petrolifera in acque contese con il Vietnam è stata una mossa “provocatoria”, ribadendo poi che lo scontro dovrebbe essere risolto “con mezzi pacifici e in accordo con il diritto internazionale”.
Il ministero degli Esteri di Pechino ha replicato che nel Mar Cinese Meridionale ci sono state indubbiamente delle operazioni provocatorie ma non da parte cinese, per poi puntare il dito contro gli Stati Uniti per avere nuovamente incitato comportamenti di questo genere.
Dal momento che il governo cinese non poteva non aspettarsi una qualche reazione da parte del Vietnam e degli stessi USA, è probabile che la decisione di collocare una piattaforma petrolifera in uno dei punti caldi nel Mar Cinese Meridionale sia stata una risposta studiata alla recente trasferta asiatica del presidente Obama.
L’inquilino della Casa Bianca, pur cercando di smorzare i toni della rivalità con Pechino, aveva di fatto appoggiato tutte le rivendicazioni territoriali dei paesi visitati (Giappone, Filippine), promettendo a Tokyo di intervenire anche militarmente in caso di “aggressione” cinese nelle isole Senkaku nel Mar Cinese Orientale e siglando a Manila un trattato che garantisce la presenza nell’arcipelago di un contingente militare americano per almeno dieci anni.
Quest’ultimo accordo e altre iniziative statunitensi in Asia Orientale in concerto con i propri alleati possono avere anche spinto la Cina a mettere in atto una manovra - come quella in corso al largo delle isole Paracel - volta a spezzare l’accerchiamento e a ribadire agli occhi della comunità internazionale la volontà di non rendere conto a nessuno in merito alle decisioni su territori considerati sotto la propria sovranità, sia pure rivendicati da altri paesi.
La fermezza della risposta di Hanoi potrebbe però avere relativamente sorpreso le autorità cinesi, visto che i due paesi negli ultimi anni avevano fatto passi importanti sulla via della risoluzione delle dispute territoriali. Nel 2011 e ancora nel 2013, ad esempio, Cina e Vietnam avevano sottoscritto bozze di accordo per avviare colloqui distensivi ed evitare pericolosi scontri.Più in generale, i due vicini avevano visto migliorare i rapporti bilaterali, come aveva confermato un’intesa sulla fissazione dei confini e dei diritti marittimi nel Golfo del Tonchino, ma anche la decisione di studiare modalità per sfruttare congiuntamente le risorse energetiche della regione in seguito alla visita in Vietnam a fine 2013 del premier cinese, Li Keqiang.
Il confronto in corso con Hanoi assume comunque contorni ancora più allarmanti non solo perché è stato sfruttato nuovamente dagli Stati Uniti per esercitare pressioni su Pechino, ma anche perché si aggiunge ad un nuovo motivo di scontro con le Filippine. Sempre settimana scorsa, infatti, le autorità del paese-arcipelago avevano fermato un peschereccio cinese e arrestato il suo equipaggio nelle isole Spratly, rivendicate dalla Cina e dalle Filippine oltre che da Brunei, Malaysia, Taiwan e Vietnam.
L’imbarcazione cinese è stata sequestrata con la scusa che l’equipaggio aveva a bordo un certo numero di tartarughe protette, anche se a molti l’operazione del governo del presidente filippino Benigno Aquino è apparsa come l’ennesima provocazione di Manila nei confronti di Pechino, possibilmente orchestrata durante la recente visita di Obama.
Il differente approccio alle dispute territoriali in Estremo Oriente dei media occidentali, degli Stati Uniti e dei paesi alleati di questi ultimi risulta in ogni caso evidente dal fatto che azioni simili a quella intrapresa settimana scorsa dalla Cina nelle isole Paracel da parte di Giappone, Filippine o Vietnam passano puntualmente sotto silenzio e, come è ovvio, non vengono condannate se non da Pechino.
Così, infatti, nel 2012 il governo di Tokyo aveva “nazionalizzato” le isole Senkaku, rivendicate dalla Cina, dopo averle acquistate dai privati che ne detenevano la proprietà. Solo nel fine settimana scorso, poi, le Filippine hanno annunciato un’asta per la concessione di diritti per la trivellazione di una decina di pozzi petroliferi, tra cui uno situato in un’area del Mar Cinese Meridionale rivendicata da Pechino.
Ugualmente contese da Pechino sono infine le acque nelle quali proprio il Vietnam ai primi di maggio ha offerto alla compagnia petrolifera indiana ONGC Videsh (OVL) altre due aree da trivellare, in aggiunta alle cinque già proposte lo scorso mese di novembre.