di Michele Paris

Senza nessuna particolare sorpresa, il Senato americano ha approvato definitivamente il nuovo bilancio federale che stabilisce i livelli di spesa del governo di Washington fino al settembre del 2015. Il pacchetto licenziato rapidamente dal Congresso è il risultato dei negoziati durati svariate settimane all’interno di una speciale commissione bipartisan creata dopo la fine del cosiddetto “shutdown” lo scorso mese di ottobre e rappresenta un’ulteriore tappa nel processo di drastico ridimensionamento dei livelli di spesa pubblica negli Stati Uniti.

La settimana scorsa la nuova legge sul bilancio era passata agevolmente alla Camera dei Rappresentanti con 332 voti favorevoli e 94 contrari. Martedì, poi, il Senato aveva dapprima superato un ostacolo procedurale (“filibuster”) con 7 voti in più del necessario (67 a 33), grazie ad una manciata di repubblicani che si erano uniti ai 55 democratici, mentre il giorno successivo ha votato sul provvedimento vero e proprio, approvandolo con un margine di 64 a 36 e inviandolo al presidente Obama per la firma.

La commissione del Congresso che ha raggiunto un accordo sulle nuove misure contenute nel bilancio è presieduta dai presidenti delle commissioni Bilancio di Camera e Senato, rispettivamente il repubblicano Paul Ryan e la democratica Patty Murray. Questa assemblea è stata il risultato dell’intesa temporanea raggiunta un paio di mesi fa per riaprire gli uffici governativi dopo lo “shutdown” di due settimane nella prima metà di ottobre, causato dalla mancata approvazione del bilancio entro l’inizio del nuovo anno fiscale.

Secondo i propositi iniziali e gli auspici della Casa Bianca, la commissione avrebbe dovuto mandare in porto un accordo di ampio respiro, gettando le basi per una “riforma” (smantellamento) dei programmi di assistenza pubblica come Medicare, Medicaid e Social Security, indicati da quasi tutto l’establishment politico di Washington come i principali responsabili dell’esplosione del debito pubblico statunitense.

Con l’avvio delle trattative, tuttavia, quest’ultimo obiettivo è apparso difficilmente raggiungibile, sia per i tempi molto stretti nei quali la commissione era chiamata ad operare, sia soprattutto per l’estrema impopolarità di eventuali tagli a programmi che garantiscono cure mediche e condizioni di vita decenti a decine di milioni di americani.

Alla fine, l’accordo trovato tra democratici e repubblicani ha dovuto lasciar fuori gli assalti a Medicare, Medicaid e Social Security, anche se le iniziative per rendere questi programmi “sostenibili” nel lungo periodo sono solo rimandate. Anzi, il bilancio appena approvato con un consenso bipartisan faciliterà il compito del Congresso nell’adottare tagli a cui si oppone la grande maggioranza della popolazione.

In ogni caso, relativamente al contenuto del pacchetto appena approvato, l’aspetto più significativo riguarda una misura che da esso è rimasta esclusa, vale a dire il prolungamento dei sussidi straordinari destinati ai disoccupati e che il Congresso aveva aggiunto fin dal 2009 a quelli di breve durata previsti dai singoli stati.

In seguito soprattutto alla ferma opposizione repubblicana, così, il prossimo 28 dicembre 1,3 milioni di disoccupati americani cesseranno di ricevere l’unico reddito a loro disposizione. Inoltre, se nei prossimi mesi non ci sarà un intervento del Congresso, altri 3,6 milioni di persone senza lavoro subiranno la stessa sorte entro la fine del 2014.

La decisione di negare i modesti mezzi di sussistenza a questa categoria di americani appare particolarmente brutale alla luce del fatto che mai dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi i sussidi addizionali del governo federale erano stati interrotti in presenza di una percentuale così elevata di disoccupazione di lungo periodo (oltre le 27 settimane).

Il disinteresse della classe politica d’oltreoceano per i senza lavoro risulta inoltre chiara dalla somma che sarebbe servita per prolungare i sussidi, pari a 25 miliardi di dollari e corrispondente, ad esempio, ad una frazione minima degli oltre 500 miliardi di dollari stanziati annualmente per le spese militari o a poco più di quanto la Federal Reserve destina in una singola settimana per alimentare la speculazione sui mercati finanziari.

Tra i provvedimenti adottati con il consenso delle principali lobby degli affari, invece, spicca la riduzione del 2% fino al 2023 dei rimborsi destinati agli ospedali che forniscono servizi sanitari nell’ambito del programma pubblico Medicare. Questa misura contribuirà a ridurre il deficit di 23 miliardi di dollari e, inevitabilmente, si tradurrà in una riduzione delle cure offerte ai pazienti.

Inoltre, a partire dal 1° gennaio i dipendenti pubblici vedranno aumentare dell’1,3% i contributi da versare di tasca propria ai loro piani pensionistici, dopo che negli ultimi anni hanno già dovuto subire, tra l’altro, il congelamento delle retribuzioni e svariati giorni di congedo obbligato non pagato.

Per i militari in pensione è previsto poi un nuovo metodo di calcolo per l’adeguamento dei loro assegni al costo della vita, con un risparmio per le casse federali pari a 6 miliardi di dollari. Altri 12,6 miliardi saranno infine recuperati attraverso un aumento della tassazione delle compagnie aeree, che verrà prevedibilmente scaricato sui passeggeri.

Più in generale, il nuovo bilancio cancella solo una piccola parte dei tagli automatici alla spesa pubblica (“sequester”) scattati alcuni mesi fa in assenza di un accordo tra democratici e repubblicani sul debito, come stabilito da una legge del 2011. A beneficiare della metà dei 63 miliardi di dollari che il governo tornerà così a poter spendere fino al 30 settembre 2015 saranno però i programmi militari, mentre gli altri tagli del “sequester” previsti per il prossimo decennio e pari a oltre mille miliardi di dollari rimarranno in vigore.

Anche se, complessivamente, le uscite del governo federale saliranno lievemente tra il 2014 e il 2015, appare evidente come il bilancio approvato questa settimana aggiunga un altro tassello al progressivo ridimensionamento dei livelli di spesa pubblica destinata alle classi più deboli negli Stati Uniti.

Questo processo è sostanzialmente condiviso da tutta la classe politica americana e si traduce in provvedimenti che, una volta creata ad arte un’utile atmosfera di crisi, vengono presentati come inevitabili per rimettere in sesto i conti pubblici, nonostante i profitti di banche e corporations e la ricchezza privata al vertice della piramide sociale continuino a far segnare numeri da record.

Prima del bilancio licenziato questa settimana senza il prolungamento dei sussidi di disoccupazione, ad esempio, il Congresso lo scorso mese di novembre aveva tagliato per la prima volta nella storia a livello nazionale i fondi destinati al finanziamento dei buoni pasto, togliendo letteralmente il pane di bocca a quasi 50 milioni di poveri americani.

di Michele Paris

Per la prima volta dall’inizio delle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi da stato di polizia dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), questa settimana un giudice federale ha sentenziato quello di cui tutti erano a conoscenza nonostante la propaganda del governo, cioè che la raccolta indiscriminata dei dati telefonici di centinaia di milioni di persone è indiscutibilmente una pratica illegale e contraria al dettato della Costituzione degli Stati Uniti.

Il parere del giudice Richard Leon del tribunale distrettuale federale del Distretto di Columbia, a Washington, è stato accompagnato da considerazioni pesantissime sulla condotta del governo in merito alla sorveglianza dei propri cittadini. Inoltre, il giudice nominato da George W. Bush alla vigilia dell’11 settembre 2001 ha ordinato la fine delle intercettazioni telefoniche ai danni dei querelanti e la distruzione dei dati finora raccolti su di essi dall’NSA. L’ingiunzione è stata però immediatamente sospesa, in attesa quanto meno di un sentenza d’appello che arriverà non prima di sei mesi.

Il caso in questione - “Klayman contro Obama” - era scaturito dalla denuncia di due attivisti conservatori, Larry Klayman, fondatore dell’organizzazione di tendenze libertarie Freedom Watch, e Charles Strange, padre di un “Navy Seal” ucciso durante una missione in Afghanistan. Basando la propria istanza sui documenti di Snowden, i due sono riusciti a convincere il giudice distrettuale dei loro requisiti legali per avviare un procedimento contro l’NSA. In precedenza, altri tribunali avevano respinto simili richieste affermando che, dal momento che l’NSA non rende pubblica l’identità delle persone intercettate, nessuno avrebbe la facoltà di citare l’agenzia in giudizio.

Per il giudice Leon, al contrario, i querelanti hanno questa facoltà, poiché è “altamente probabile” che le loro telefonate siano state intercettate come quelle di chiunque altro e finite nel “vasto archivio di metadati” telefonici dell’NSA, la cui esistenza è stata ammessa dal governo stesso.

Come già anticipato, l’amministrazione Obama è subito ricorsa in appello, così che il programma di intercettazioni potrà proseguire sia ai danni di coloro che hanno denunciato l’NSA in questo caso di fronte al tribunale del Distretto di Columbia sia, a maggior ragione, del resto degli americani e di virtualmente qualsiasi cittadino di qualsiasi paese del mondo. Al di là della sentenza di appello, la questione finirà per approdare con ogni probabilità alla Corte Suprema in un procedimento che potrebbe esaurirsi tra svariati anni.

Ciò che il più influente tribunale distrettuale degli Stati Uniti ha stabilito con la sentenza di lunedì rappresenta comunque uno schiaffo per il governo e l’NSA - ma anche per i media ufficiali e i membri del Congresso, tutti più o meno concordi nel giudicare sostanzialmente legittimi i programmi di sorveglianza nonostante gli “eccessi” - la cui flagrante violazione delle basilari norme democratiche americane è stata esposta pubblicamente e con toni insolitamente duri.

In 68 pagine, infatti, il giudice Leon ha affermato, tra l’altro, che non è possibile “immaginare un’invasione [della privacy] più indiscriminata e arbitraria di questa sistematica raccolta e archiviazione di informazioni personali riguardanti virtualmente ogni singolo cittadino… senza una preventiva autorizzazione giudiziaria”. Senza alcun dubbio, prosegue il testo della sentenza, il programma di intercettazioni dell’NSA “contravviene a quel livello di privacy che i [Padri] Fondatori hanno inteso garantire con il Quarto Emendamento [alla Costituzione]”.

Per questa ragione, ha poi aggiunto il giudice federale, è lecito ipotizzare che “l’autore della nostra Costituzione, James Madison, il quale ci ha messo in guardia dalla limitazione della libertà del popolo dovuta alle graduali e silenziose intrusioni di coloro che governano, resterebbe inorridito” di fronte allo scenario attuale.

Il rispetto del Quarto Emendamento - che garantisce contro arresti, perquisizioni e confische arbitrarie - non è nemmeno assicurato dalle delibere del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), l’organo chiamato ad autorizzare le richieste di intercettazione presentate dalle varie agenzie governative. Il FISC, infatti, si riunisce in segreto e all’insaputa degli individui interessati dai programmi dell’NSA, i cui rappresentanti legali, ovviamente, non presenziano alle sue sedute.

Come se non bastasse, il giudice Leon ha anche espresso “seri dubbi circa l’efficacia” del programma dell’NSA, visto che il governo non è stato in grado di citare “un solo caso nel quale la raccolta di massa di metadati telefonici abbia effettivamente impedito un attacco terroristico imminente”.

La sentenza ha inoltre respinto il presupposto legale sul quale il governo si è finora basato per giustificare il controllo delle comunicazioni elettroniche, cioè una decisione della Corte Suprema del 1979 (“Smith contro Maryland”) che aveva escluso i metadati telefonici dalle garanzie del Quarto Emendamento. I cosiddetti metadati includono i numeri telefonici digitati o la data e la durata delle conversazioni ma non il loro contenuto e, secondo il governo, in merito ad essi i cittadini non possono aspettarsi di essere protetti dal diritto alla privacy, visto che, ad esempio, queste informazioni sono a disposizione delle compagnie telefoniche.

Per il giudice Leon, invece, la sentenza del 1979 - che si riferiva al caso di un solo individuo intercettato dalle forze di polizia - non è applicabile alla situazione odierna relativa all’NSA, sia perché in ballo c’è la raccolta indiscriminata di dati appartenenti a centinaia di milioni di individui sia perché il ruolo che svolgono oggi i telefoni e, più in generale, la tecnologia, non è paragonabile a quello di oltre tre decenni fa.

Il verdetto emesso lunedì è stato accolto positivamente anche dallo stesso Snowden. L’ex contractor dell’NSA ha rilasciato una dichiarazione tramite il giornalista americano Glenn Greenwald, al quale erano stati consegnati i documenti riservati pubblicati nei mesi scorsi. Snowden ha ricordato come le sue azioni erano scaturite dalla “convinzione che i programmi di sorveglianza di massa dell’NSA non avrebbero potuto superare nessuna prova di costituzionalità e che gli americani meritavano una possibilità di vedere tali questioni approdare di fronte ad un tribunale pubblico”.

Se la sentenza di questa settimana è la conseguenza delle rivelazioni dei crimini dell’NSA da parte dello stesso Snowden, il governo e l’apparato della sicurezza nazionale americano continuano ad operare per mantenere in vita i programmi di sorveglianza appena dichiarati incostituzionali. Proprio lo scorso fine settimana, ad esempio, una speciale commissione nominata da Obama aveva anticipato le proprie raccomandazioni al presidente ufficialmente per “riformare” l’NSA ma, in realtà, per apportare solo alcune trascurabili modifiche esteriori alla condotta dell’agenzia e placare le critiche provenienti da più parti.

Sempre lunedì, poi, la Casa Bianca ha nuovamente respinto ogni ipotesi di amnistia per Edward Snowden, dopo che alcune voci all’interno del governo avevano suggerito una misura di clemenza in cambio della consegna di tutti i documenti ancora nelle mani dell’ex contractor costretto all’asilo in Russia.

Lo stesso giudice federale che ha condannato così severamente le violazioni della Costituzione del governo ha in definitiva subordinato la propria decisione di fermare la raccolta di informazioni personali da parte dell’NSA alle necessità dell’intelligence statunitense. Alcuni diritti democratici fondamentali, perciò, potrebbero in ultima analisi essere sacrificati, visti, a suo dire, “i significativi interessi relativi alla sicurezza nazionale che risultano in gioco”.

di Michele Paris

Nonostante l’impegno messo in atto dall’amministrazione Obama e le fortissime pressioni provenienti da Washington, il colossale e minaccioso trattato di libero scambio trans-pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) fortemente voluto dagli Stati Uniti sta incontrando un’opposizione crescente non solo tra un’opinione pubblica che comincia solo ora a conoscere alcuni dei contenuti dell’accordo ma anche tra i governi che dovrebbero sottoscriverlo nelle prossime settimane.

La Casa Bianca aveva fissato la fine dell’anno come scadenza per l’approvazione del TPP ma le resistenze al Congresso e il mancato raggiungimento di un’intesa definitiva tra i paesi che ne dovrebbero far parte nel corso di un recente summit a Singapore hanno fatto allungare i tempi previsti.

I negoziati dovrebbero riprendere a gennaio, anche se il dibattito pubblico appena iniziato contro il volere del governo USA e delle parti che dovrebbero maggiormente beneficiarne - grandi banche e corporations, soprattutto americane - potrebbe complicare i piani di Obama di mandare in porto un trattato di ampio respiro dietro le spalle di centinaia di milioni di persone che, sulle due sponde del Pacifico, finiranno per pagarne interamente le conseguenze.

Il TPP era nato quasi un decennio fa come un progetto di trattato di libero scambio tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore, per poi allargarsi negli anni successivi ad altri otto paesi con i quali i primi quattro ne stanno appunto negoziando la versione definitiva (Stati Uniti, Canada, Messico, Perù, Australia, Giappone, Malaysia e Vietnam). Recentemente, anche Corea del Sud e Taiwan hanno manifestato il loro interesse a partecipare al trattato.

Se l’obiettivo ufficiale del TPP dovrebbe essere quello di creare una grande area di scambi commerciali priva di tariffe nazionali per dare un impulso alle economie dei paesi interessati, i veri scopi sono in realtà quelli di consegnare alle grandi compagnie trans-nazionali un altro strumento formidabile per superare qualsiasi autorità nell’ampliamento dei propri profitti e, per gli Stati Uniti, di provare a isolare Pechino rafforzando i legami commerciali con alcune delle principali economie asiatiche.

Il TPP, inoltre, in caso andasse a buon fine, servirebbe da modello per altri trattati simili - come quello in discussione tra USA e UE - destinati a smantellare le rimanenti protezioni contro lo strapotere del capitale privato.

Le questioni affrontate dal TPP, in ogni caso, vanno ben al di là degli scambi commerciali ed includono, tra l’altro, anche il delicato tema del diritto d’autore e della proprietà intellettuale. Quest’ultimo aspetto, assieme alle opinioni divergenti emerse nel corso dei negoziati tra i dodici paesi aderenti al trattato, era stato messo in luce lo scorso mese di novembre da alcuni documenti pubblicati da WikiLeaks.

Che all’organizzazione fondata da Julian Assange debba essere attribuito l’indubbio merito di avere rivelato una parte dei contenuti del TPP è dovuto al fatto che le trattative continuano a svolgersi in maniera segreta quasi unicamente tra i governi e i rappresentanti di banche e corporations, mentre le popolazioni e, spesso, gli stessi parlamenti nazionali ne sono tenuti all’oscuro.

Tra le misure previste sulla proprietà intellettuale, così, ce ne sono alcune che, ad esempio, garantirebbero alle grandi compagnie farmaceutiche una sorta di monopolio a lungo termine sui brevetti, limitando in maniera drastica la possibilità da parte dei governi di accedere ai medicinali generici.

Il TPP favorirebbe di fatto anche una sorta di censura del web, dal momento che, secondo le proposte di Stati Uniti e Australia, i provider di servizi internet dei vari paesi potrebbero essere costretti a bloccare o monitorare l’accesso alla rete su richiesta delle corporation in caso queste ultime dovessero individuare una violazione dei diritti d’autore sui propri prodotti.

Ugualmente inquietanti sono poi le disposizioni che permetterebbero alle multinazionali di avviare azioni legali contro leggi e regolamentazioni dei paesi in cui esse hanno investito e che in qualche modo minacciano i loro profitti. A sentenziare su tali casi non sarebbero i giudici di un determinato paese, bensì un organo internazionale che agirebbe al di fuori del sistema legale del paese stesso.

Come ha precisato l’economista Marc Weisbrot in un recente commento apparso sul Guardian, le corporation potranno denunciare direttamente i governi, come già è previsto attualmente dal Trattato di Libero Scambio Nord Americano (NAFTA) e al contrario invece delle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), secondo le quali deve essere obbligatoriamente un governo terzo ad intentare una causa di questo genere.

Tra le altre disposizioni previste dal TPP, vanno ricordate anche quelle che richiedono la sostanziale distruzione dei monopoli pubblici nei paesi firmatari dell’accordo, nonché l’allentamento delle protezioni per i lavoratoti e delle misure di regolamentazione ambientale e del settore finanziario. Il tutto, ancora una volta, per garantire mano libera alle grandi aziende private che aumenteranno il loro impegno nei paesi coperti dal trattato.

Queste ed altre misure controverse stanno però creando non poche frizioni tra gli Stati Uniti - definiti da alcuni negoziatori come “inflessibili” nel promuovere quelle condizioni che porterebbero vantaggi enormi per le proprie corporations - e gli altri paesi aderenti al TPP.

Il Giappone, ad esempio, teme che la soppressione delle tariffe che applica sulle importazioni agricole possa mettere in crisi il proprio settore primario dove, oltretutto, il Partito Liberal Democratico al governo trova la sua principale base elettorale. Tokyo, infatti, nonostante l’insistenza americana, aveva deciso di partecipare ai negoziati per il TPP solo nel marzo di quest’anno, superando sia pure a stento le tradizionali preoccupazioni espresse dalla propria classe rurale nei confronti dei trattati di libero scambio.

La Malaysia e il Vietnam, a loro volta, non sembrano voler cedere sulle privatizzazioni, visto che le aziende pubbliche in entrambi i paesi svolgono un ruolo fondamentale nelle loro economie, rappresentando, rispettivamente, la metà della capitalizzazione di borsa e il 40 per cento del PIL nazionale. Quasi unica eccezione è invece l’Australia del neo premier conservatore Tony Abbott, il quale ha finora assecondato pressoché ogni condizione imposta da Washington.

Negli Stati Uniti, intanto, per evitare una sia pur minima discussione pubblica sul TPP e per limitare al massimo le fughe di notizie relative ai contenuti, l’amministrazione Obama ha chiesto al Congresso di mettere in atto una procedura definita “Fast Track”, la quale si usa da quasi quarant’anni per arrivare ad un’approvazione rapida e senza intoppi dei trattati commerciali negoziati dal governo e quasi sempre profondamente impopolari. Grazie a questo espediente, Camera e Senato sono chiamati ad approvare il trattato in questione senza possibilità di discutere emendamenti.

Tuttavia, alla luce della crescente opposizione popolare dopo le rivelazioni di WikiLeaks e di altre testate giornalistiche, ma anche del tradizionale scetticismo per questo genere di accordi dell’ala libertaria del Partito Repubblicano, la garanzia del “Fast Track” al Congresso appare oggi tutt’altro che scontata per la Casa Bianca.

Circa un mese fa, addirittura, 151 deputati democratici e 23 repubblicani avevano indirizzato una lettera ai negoziatori americani del TPP per manifestare la loro opposizione al “Fast Track” nel caso del TPP. Oltre alle ragioni di natura ideologica, molti parlamentari di entrambi gli schieramenti sono preoccupati per la più che probabile perdita di posti di lavoro nei loro distretti elettorali in seguito all’abbattimento delle tariffe doganali sui prodotti stranieri che entreranno negli USA dopo la firma del trattato.

Per il presidente Obama, perciò, sembra sempre più probabile il materializzarsi dell’incubo di una maggioranza trasversale alla Camera dei Rappresentanti tra democratici “liberal” e repubblicani vicini ai Tea Party, la quale potrebbe aprire un qualche dibattito sul TPP, portando a modifiche indesiderate se non addirittura all’arenarsi del trattato stesso, nonché, soprattutto, facendo finalmente conoscere agli americani e al resto del mondo le gravissime conseguenze che esso comporterebbe in caso di approvazione.

di Mario Lombardo

I punti di riferimento degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali nel conflitto in Siria continuano a crollare di fronte alla sempre più evidente avanzata delle formazioni di matrice integralista sunnita tra le fila dell’opposizione anti-Assad, nonostante l’impegno diplomatico in atto per mettere in piedi una conferenza di pace nelle prossime settimane.

Questa tendenza nel paese mediorientale nel caos ormai da quasi tre anni è apparsa chiara questa settimana in seguito alla decisione di Washington e Londra di sospendere la fornitura di aiuti “non letali” destinati da tempo ai “ribelli” moderati e organizzati nel cosiddetto Libero Esercito della Siria.

L’iniziativa americana e britannica è stata annunciata mercoledì ed è la conseguenza di un episodio accaduto lo scorso venerdì, quando un altro gruppo “ribelle”, il Fronte Islamico, si è impossessato di un deposito contenente materiale arrivato dagli Stati Uniti nell’ambito della politica di sostegno mirato a beneficio dell’opposizione secolare siriana.

Gli eventi che hanno portato alla decisione degli USA e della Gran Bretagna non appaiono del tutto chiari e la ricostruzione ufficiale conferma il groviglio di rivalità e alleanze che caratterizza la galassia dell’opposizione armata in Siria.

Secondo fonti americane e dell’opposizione, in ogni caso, i fatti sarebbero avvenuti nella località settentrionale di Atmeh, dove la diffusione della notizia che gli integralisti dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, una formazione affiliata ad al-Qaeda, stavano pianificando un attacco, per prendere il controllo del quartier generale del Consiglio Militare Supremo - l’organo di comando nominale del Libero Esercito della Siria - e di un deposito da esso controllato, ha spinto i militanti del Fronte Islamico a precipitarsi in quest’area per proteggere le strutture minacciate.

Un volta giunti sul posto, sono stati però questi ultimi ad occupare gli edifici, impadronendosi del materiale distribuito dagli americani, così come del valico di frontiera con la Turchia di Bab al-Hawa. Secondo svariati membri del Libero Esercito della Siria, la notizia dell’imminente operazione dello Stato Islamico era soltanto una voce senza fondamento diffusa per favorire l’intervento del Fronte Islamico.

La vicenda si è poi conclusa con un’autentica umiliazione per i ribelli sostenuti dall’Occidente, dal momento che l’azione del Fronte Islamico ha costretto il comandante del Consiglio Militare Supremo, generale Salim Idriss, a fuggire in Turchia.

L’ex alto ufficiale dell’esercito regolare di Damasco si sarebbe successivamente recato in Qatar per poi tornare in Turchia, dove è stato raggiunto dagli inviti americani di rientrare al più presto in Siria. Per i “ribelli”, invece, Idriss non sarebbe fuggito ma si troverebbe al confine meridionale turco trattando proprio con il Fronte Islamico.

Il Fronte Islamico Siriano è uno dei vari gruppi che si battono per rovesciare il regime di Assad e raccoglie alcune formazioni islamiste che hanno rotto con l’opposizione armata moderata filo-occidentale ma, allo stesso tempo, si oppone anche allo Stato Islamico e al Fonte al-Nusra, entrambi legati ad al-Qaeda.

Il materiale “non letale” di cui il Fronte Islamico è entrato in possesso nei giorni scorsi viene fornito regolarmente alle fazioni ritenute più moderate dal Dipartimento di Stato americano - mentre la CIA provvede alle armi e all’addestramento dei “ribelli” - e consiste in cibo, medicinali, strumentazioni elettroniche, veicoli ed equipaggiamenti vari. Gli aiuti umanitari diretti in Siria, ha fatto sapere il governo di Washington, non saranno invece interessati dall’annunciata sospensione.

Lo stop a queste forniture da parte degli Stati Uniti non dovrebbe avere un particolare impatto sulle vicende siriane ma è altamente significativo della situazione creatasi nel paese mediorientale, dove l’opposizione coltivata dall’Occidente appare sempre più debole e priva sia di un’efficace struttura militare che di un qualche seguito tra la popolazione. Per il Wall Street Journal, addirittura, il Libero Esercito della Siria starebbe letteralmente “collassando sotto la pressione degli islamisti che dominano tra i ribelli”.

Anche per queste ragioni, l’amministrazione Obama aveva recentemente approcciato proprio le formazioni che fanno parte del Fronte Islamico, così da convincere anche i suoi leader a partecipare al dialogo con il regime, da tenersi a Ginevra verosimilmente a fine gennaio, dopo avere incassato l’OK sia pure non troppo convinto del Consiglio Militare Supremo del generale Idriss.

Questa strategia era stata adottata sostanzialmente per dare qualche legittimità alla delegazione che dovrebbe prendere parte al summit battezzato “Ginevra II” di cui si parla fin dal maggio scorso e, parallelamente, rendere quanto meno ipotizzabile una qualche implementazione sul campo di un eventuale accordo di pace.

Dopo i fatti di venerdì, tuttavia, appaiono sempre più scarse le possibilità per gli Stati Uniti di includere alcune formazioni islamiste nel dialogo ancora da avviare con il regime. Tanto più che, secondo alcuni esponenti dell’opposizione filo-occidentale, l’obiettivo del Fronte Islamico nel nord della Siria sarebbe precisamente quello di ridurre ulteriormente l’influenza dei gruppi moderati. Il Fronte, d’altra parte, pur avendo collaborato in alcune occasioni con il Libero Esercito della Siria, mira apertamente alla creazione di uno stato islamico dopo la rimozione di Assad.

Come ha affermato al New York Times Andrew Tabler del Washington Institute for Near East Policy, l’amministrazione Obama si trova in definitiva a “dover scegliere tra il sostegno ai gruppi [dell’opposizione] moderati e quelli efficaci”. Mentre i primi garantiscono almeno apparentemente un’immagine secolare e democratica pur essendo sostanzialmente impotenti sul campo, le formazioni jihadiste sono le uniche a combattere con una qualche efficacia le forze del regime, anche se un loro successo finale nel conflitto finirebbe per creare più di un grattacapo all’Occidente.

Simili considerazioni sono con ogni probabilità all’esame del governo americano, da dove la retorica anti-Assad negli ultimi tempi sembra avere lasciato spazio ad una certa revisione della strategia relativa alla Siria e all’intero Medio Oriente.

Ciò risulta evidente anche dallo spazio relativamente inferiore dato nelle ultime settimane dai media “mainstream” americani alla crisi siriana, in concomitanza con la distensione dei rapporti tra USA e Iran, nonché forse con il prevalere di quelle sezioni all’interno dell’establishment governativo di Washington che ritengono fallimentare se non dannosa la politica finora perseguita nei confronti di Damasco.

L’appoggio garantito ai “ribelli” in oltre tre anni anche tramite le armi e il denaro fornito dalle monarchie del Golfo Persico ha infatti creato uno scenario a dir poco esplosivo in Siria, dove sono giunte migliaia o decine di migliaia di estremisti islamici con un’agenda prettamente settaria del tutto estranea alle aspirazioni della popolazione e minacciosa anche per gli interessi occidentali.

La resistenza inaspettata del regime anche grazie all’appoggio di Iran e Hezbollah ha fatto così scemare le speranze di quanti in Occidente auspicavano una caduta repentina di Assad, per poi concentrarsi sulla liquidazione di gruppi integralisti relativamente marginali attraverso la promozione a Damasco di una nuova classe dirigente docile e ben disposta verso Washington.

Il perdurare del conflitto si è invece risolto in un rafforzamento del regime e in un inevitabile indebolimento dell’opposizione armata, all’interno della quale però le fazioni più estreme hanno preso il sopravvento sui moderati, lasciando gli sponsor di questi ultimi senza interlocutori accettabili o presentabili all’opinione pubblica internazionale.

La soluzione ultima per evitare lo scivolamento definitivo della Siria in un baratro che farebbe impallidire i conflitti di Somalia o Afghanistan, perciò, secondo alcuni osservatori potrebbe per assurdo materializzarsi in un clamoroso voltafaccia, i cui contorni hanno preso forma nelle parole - finora senza molto seguito a livello ufficiale - pronunciate in un’intervista rilasciata al New York Times il 3 dicembre scorso dal diplomatico americano Ryan Crocker.

Secondo l’ex ambasciatore USA a Kabul e a Baghdad, ma anche a Damasco tra il 1998 e il 2001, “è necessario iniziare a discutere nuovamente con il regime di Assad… e ciò dovrà essere fatto in maniera molto molto sommessa”. D’altra parte, ha aggiunto Crocker, “per quanto sgradevole possa essere Assad non lo sarà mai quanto i jihadisti che minacciano di prendere il potere in caso di una sua caduta”.

di Michele Paris

Anche se gli Stati Uniti stanno cercando in queste settimane di far partire un faticoso processo diplomatico che porti ad una soluzione pacifica della crisi in Siria, non più di tre mesi fa l’amministrazione Obama sembrava essere sul punto di scatenare una nuova e ancora più rovinosa guerra in Medio Oriente basandosi su menzogne e manipolazioni della realtà sul campo.

Come è noto, il governo di Washington aveva accusato apertamente il regime di Bashar al-Assad di avere condotto un devastante attacco con armi chimiche nei pressi di Damasco pur sapendo, come ha dimostrato una recente indagine dell’autorevole giornalista americano Seymour Hersh, che le prove disponibili potevano indicare responsabili ben diversi.

Un lungo e dettagliato articolo (“Whose sarin ?”) del veterano giornalista premio Pulitzer che attualmente collabora soprattutto con il New Yorker è apparso qualche giorno fa sulla London Review of Books, sostenendo che il presidente Obama, nel descrivere l’episodio accaduto il 21 agosto a Ghouta, “aveva da un lato omesso importanti informazioni di intelligence e dall’altro presentato semplici congetture come fatti accertati”.

In particolare, Obama “aveva mancato di riconoscere… che l’esercito regolare siriano non era l’unica parte in lotta nella guerra civile ad avere accesso al gas sarin”. Infatti, continua Hersh, nei mesi precedenti l’attacco “le agenzie di intelligence americane avevano prodotto una serie di rapporti altamente classificati, culminati in un “Operations Order” - cioè un documento che pianifica e precede un’invasione di terra - contenente prove che il Fronte al-Nusra, un gruppo jihadista affiliato ad Al-Qaeda [e attivo tra le forze di opposizione in Siria], aveva acquisito le capacità di fabbricare sarin in grande quantità”.

Nonostante questo gruppo armato che si batte per rovesciare il regime di Assad avrebbe quanto meno dovuto essere preso in considerazione per avere condotto l’attacco, l’inquilino della Casa Bianca decise al contrario di basarsi unicamente e deliberatamente sul materiale di intelligence che avrebbe permesso di giustificare un’aggressione militare contro Damasco.

In un discorso pubblico tenuto il 10 settembre scorso, Obama ha così raccontato al mondo come Assad aveva senza dubbio portato a termine un attacco con armi chimiche facendo “più di mille vittime”, descrivendo le operazioni nel dettaglio, come la distribuzione di maschere anti-gas alle truppe del regime prima che i suoi uomini colpissero i quartieri controllati dall’opposizione.

Attraverso una serie di interviste con anonimi membri dell’intelligence e dell’apparato militare degli Stati Uniti, Hersh afferma però di avere riscontrato “forti preoccupazioni” e talvolta “rabbia” per quella che viene descritta come una “deliberata manipolazione” delle informazioni a disposizione del governo.

Secondo un ex agente dell’intelligence a stelle e strisce, ad esempio, l’amministrazione Obama avrebbe “alterato le informazioni - in relazione ai tempi e alla sequenza degli eventi - per consentire al presidente e ai suoi consiglieri di fare in modo che i dati raccolti svariati giorni dopo l’attacco apparissero ottenuti e analizzati in tempo reale”, così da dare l’impressione di avere monitorato le decisioni prese dal regime e di disporre di prove inconfutabili della sua responsabilità.

In realtà, Hersh ha potuto stabilire che tra il 20 e il 22 di agosto i consueti rapporti mattutini preparati per la Casa Bianca dai militari e dall’intelligence degli USA, nei quali vengono riassunti i principali eventi militari nel mondo per i quali si dispone di informazioni, non citavano in nessun modo l’attacco di Ghouta.

Inoltre, come reso noto da un articolo di qualche mese fa del Washington Post basato su documenti segreti forniti da Edward Snowden, gli Stati Uniti disponevano di sensori segreti sul terreno in Siria per monitorare e segnalare tempestivamente ogni movimento di armamenti chimici in questo paese.

Ebbene, nelle settimane e nei giorni precedenti il 21 agosto, questo sistema di sensori non aveva prodotto alcuna allerta. Hersh spiega che ciò non escluderebbe, almeno in teoria, che le forze armate siriane abbiano potuto ottenere il sarin usato a Ghouta da altre fonti, ma dimostra in ogni caso come il governo americano non sia stato in grado di monitorare gli eventi secondo la ricostruzione fatta da Obama e dal suo entourage.

Tanto più che nel dicembre del 2012 questi sensori avevano fatto il loro lavoro, informando Washington che i militari siriani stavano producendo sarin in un deposito di armi chimiche. Successivamente sarebbe emerso che si trattava soltanto di un’esercitazione, ma gli Stati Uniti mandarono comunque un messaggio al regime per mezzo di canali diplomatici, avvertendo che l’uso del sarin sarebbe stato “del tutto inaccettabile”. Perciò, è più che legittimo chiedersi il motivo per cui l’amministrazione Obama non si era mossa anche lo scorso agosto per impedire il presunto attacco con armi chimiche da parte delle forze regolari nel caso fosse stata a conoscenza anticipatamente dell’operazione.

In ogni caso, alla Casa Bianca servirono nove giorni per mettere assieme un atto d’accusa formale contro Assad ed esso venne presentato a Washington di fronte ad un gruppo di giornalisti selezionati, da cui fu escluso, ricorda Hersh, il reporter Jonathan Landay dell’agenzia di stampa McClatchy perché frequentemente critico dell’amministrazione Obama.

Il rapporto presentato in questa occasione era significativamente attribuito al “governo” e non alla “comunità di intelligence”, dal momento che risultava essere un documento “essenzialmente politico” per supportare le accuse contro Assad. In esso si sosteneva appunto che gli USA sapevano che la Siria stava preparando armi chimiche tre giorni prima dell’attacco del 21 agosto, anche se, come si è visto, nessuno alla Casa Bianca sembrava essere stato informato in tempo reale né gli strumenti di monitoraggio del regime avevano segnalato situazioni meritevoli di attenzione.

I leader del cosiddetto Libero Esercito Siriano, dopo avere appreso che gli USA stavano monitorando i movimenti delle armi chimiche nel paese, si sarebbero in seguito lamentati con gli americani, colpevoli di non avere fatto nulla per avvertire i ribelli dell’imminente attacco o per fermare i piani del regime.

Le accuse rivolte da Obama ad Assad si basavano dunque su informazioni e intercettazioni acquisite in Siria anche molti mesi prima dell’attacco e analizzate solo nei giorni successivi al 21 agosto. In altre parole, spiega Hersh, “la valutazione fatta dalla Casa Bianca e il discorso di Obama [del 10 settembre] non riguardavano eventi specifici che hanno condotto all’attacco del 21 agosto, ma erano il resoconto della sequenza di comportamenti che l’esercito siriano avrebbe seguito in caso di una qualsiasi operazione con armi chimiche”.

Le accuse contro Damasco non era basate cioè sulla disponibilità e l’esame di informazioni relative ai fatti di Ghouta ma su una sorta di manuale di comportamento in dotazione all’esercito di Assad in caso di utilizzo di armi chimiche, nonché su frammenti di intelligence risalenti anche a più di otto mesi prima.

La ricostruzione fatta dal governo USA ha poi escluso scrupolosamente qualsiasi informazione che poteva contraddire la propria versione. In particolare, come già era accaduto per alcuni attacchi su piccola scala con armi chimiche segnalati tra marzo e aprile, l’amministrazione Obama ha ignorato dei rapporti della CIA risalenti almeno al mese di maggio nei quali si affermava come il Fronte al-Nusra e un altro gruppo fondamentalista sunnita attivo in Siria - al-Qaeda in Iraq - disponevano dei mezzi tecnici per produrre armi equipaggiate con il gas sarin. Il Fronte al-Nusra, inoltre, nella tarda primavera stava operando proprio in alcuni sobborghi di Damasco, tra cui Ghouta.

Un documento di intelligence dell’estate, inoltre, era dedicato a Ziyaad Tariq Ahmed, descritto come un esperto di armi chimiche iracheno trasferitosi in Siria e anch’egli in attività a Ghouta al servizio del Fronte al-Nusra. Tariq Ahmed era un ex membro dell’esercito iracheno, implicato proprio nella produzione di Sarin e per questo finito nel mirino degli Stati Uniti.

Nelle settimane successive all’attacco di Ghouta, l’amministrazione Obama mise comunque in atto un’offensiva pubblica per convincere sia i cittadini americani che i membri del Congresso - chiamati dal presidente stesso ad autorizzare un intervento militare in Siria - delle responsabilità di Assad. In ogni audizione, i membri del governo si erano impegnati ad assicurare come solo il regime avesse la disponibilità del sarin, escludendo invece i rapporti di intelligence che avevano mostrato l’accesso a questo gas letale da parte delle formazioni jihadiste anti-Assad.

Il desiderio mostrato dall’amministrazione Obama di attaccare la Siria senza alcuna prova concreta della colpevolezza del regime aveva provocato parecchi malumori all’interno dell’apparato militare e dell’intelligence a stelle e strisce, tanto che un consigliere per le operazioni speciali degli Stati Uniti ha confidato a Hersh che intervenire militarmente sarebbe stato in sostanza come “fornire supporto aereo al Fronte al-Nusra”.

Queste divisioni all’interno del governo hanno alla fine contribuito - assieme alla profonda avversione dell’opinione pubblica mondiale per una nuova guerra illegale - a far naufragare i piani bellici e a costringere gli USA ad accettare la proposta russa di smantellare l’arsenale chimico di Assad, approvata infine dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite lo scorso 27 settembre.

Nonostante la serietà dell’analisi e l’autorevolezza di Seymour Hersh - Premio Pulitzer nel 1970 per avere rivelato il massacro di My Lai in Vietnam e i tentativi di occultare le responsabilità USA - la sua indagine sulla London Review of Books è stata ignorata dalla gran parte dei giornali negli Stati Uniti, tra cui i “liberal” New York Times e Washington Post, impegnati tra agosto e settembre a produrre editoriali che spingevano l’amministrazione Obama a dar seguito alle proprie minacce contro Assad.

Proprio al Washington Post, così come al New Yorker per cui scrive regolarmente, Hersh aveva proposto di pubblicare il suo pezzo sui fatti di Ghouta ma entrambi hanno preferito declinare. Secondo quanto riportato dall’Huffington Post, il materiale di Hersh sarebbe stato valutato dal direttore del Washington Post, Marty Baron, e bocciato perché “le fonti dell’articolo non corrispondevano agli standard” del giornale della capitale.

Un giornale che, va ricordato, senza alcuna seria indagine o verifica dei fatti, era stato in prima linea nell’appoggiare la tesi della Casa Bianca e a promuovere un’altra guerra imperialista in Medio Oriente dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per l’intero pianeta.


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