di Mario Lombardo

I compensi garantiti agli amministratori delegati più pagati delle grandi compagnie americane continuano a far segnare livelli da record nonostante la crisi economica di questi anni. Ad analizzare il divario sempre più marcato tra i redditi dei top manager d’oltreoceano e quelli dei loro sottoposti è stato uno studio pubblicato questa settimana da un “think tank” di Washington, nel quale viene messo in luce come la quantità di denaro incassata dai primi sia spesso svincolata dalle prestazioni delle aziende che dirigono.

Il rapporto dell’Institute for Policy Studies (IPS) è intitolato “Executive Excess: Bailed Out, Booted, and Busted” e prende in considerazione le performance di oltre duecento “chief executives” compresi almeno una volta negli ultimi due decenni nella lista dei più pagati degli Stati Uniti. Secondo l’IPS, quasi il 40% di essi avrebbe visto incrementare il proprio conto corrente con cifre a sei zeri dopo avere prodotto risultati estremamente modesti o addirittura disastrosi alla guida di una determinata compagnia.

L’esito dello studio conferma perciò come uno dei principi fondamentali del capitalismo - vale a dire l’ottenimento di gratifiche più o meno sostanziose in conseguenza di risultati positivi - venga in molti casi contraddetto proprio ai vertici del sistema stesso.

In particolare, il gruppo di studio americano ha distinto tre categorie di “CEO” non particolarmente brillanti ma ugualmente ricoperti di dollari: quelli la cui azienda è stata salvata dall’intervento del governo federale (“bailed out”), quelli sollevati dal loro incarico (“booted) e quelli alla guida di compagnie che hanno dovuto pagare sanzioni per avere violato la legge (“busted”).

Della seconda categoria, ad esempio, fanno parte amministratori delegati che in media hanno incassato buone uscite da 48 milioni di dollari, mentre le aziende implicate in procedimenti legali hanno sborsato qualcosa come 100 milioni ciascuna per liquidare i propri top manager.

Secondo il campione analizzato dall’IPS, l’amministratore delegato meglio retribuito nonostante il licenziamento sarebbe Eckhard Pfeiffer, allontanato nel 1999 dalla compagnia informatica Compaq (acquistata nel 2002 da HP) con “stock options” pari a 410 milioni di dollari ed una liquidazione di 6 milioni dopo sette anni di profitti in declino. La testata Business Insider avrebbe successivamente inserito Pfeiffer nella lista dei 15 peggiori CEO della storia.

Lo studio elenca poi 17 istituti finanziari - tra cui Morgan Stanley, AIG, JPMorgan, Wells Fargo e il defunto Lehman Brothers - che pur avendo ricevuto quasi 258 miliardi di dollari in fondi pubblici hanno complessivamente portato ben 112 dei loro dirigenti nella lista dei 25 CEO più pagati tra il 1993 e il 2012.

Proprio l’ex CEO di Lehman Brothers, Richard Fuld, ha goduto per otto anni consecutivi di compensi tra i più generosi di Wall Street, toccando punte superiori ai 100 milioni di dollari nel 2001 e nel 2005, prima di contribuire nel 2008 a fare entrare la sua compagnia nella storia con il più clamoroso crack a cui il sistema finanziario americano abbia finora assistito.

Gli autori dell’indagine hanno così concluso che “un numero allarmante di amministratori delegati si dimostra incapace di aggiungere valore all’economia americana, mentre da essa al contrario ne ricava somme ingenti”. In altre parole, i massimi dirigenti delle grandi compagnie d’oltreoceano non sono altro che una ristretta élite parassitaria che presiede e beneficia di un colossale trasferimento di ricchezza a discapito delle classi inferiori, senza creare quasi mai alcun beneficio per l’economia del proprio paese.

Infatti, secondo i dati raccolti dal sindacato AFL-CIO, i compensi dei “CEO” americani sono aumentati del 5% solo tra il 2011 e il 2012, a fronte di una diminuzione del reddito medio complessivo dello 0,4% tra il 2009 e il 2011.

Ancora più drammatiche sono poi le disuguaglianze di reddito prodotte negli ultimi vent’anni. Se nel 1993 i salari dei massimi dirigenti negli USA erano circa 195 volte superiori a quelli dei lavoratori medi, tale rapporto è salito nel 2012 a 354 volte.

L’IPS indica infine alcuni provvedimenti bloccati al Congresso che dovrebbero servire a limitare i compensi eccessivi dei top manager americani. Alcuni di essi avrebbero dovuto essere già stati implementati in seguito all’approvazione della cosiddetta legge “Dodd-Frank” del 2010, definita dalla versione ufficiale come una “riforma” del sistema finanziario adottata per evitare altri tracolli simili a quello dell’autunno del 2008.

Tra le misure che il think tank statunitense ritiene possano risultare utili a questo proposito vi sono l’obbligatorietà della pubblicazione del rapporto tra le retribuzioni dei CEO e degli altri lavoratori di un’azienda, la fissazione di limiti ai compensi garantiti ai manager dei grandi istituti finanziari e la drastica limitazione delle deduzioni fiscali sui costi dei compensi stessi che le grandi aziende possono ottenere dal governo.

Queste ed altre leggi proposte da varie parti avrebbero in ogni caso un effetto limitato e, comunque, la loro mancata approvazione nonostante il larghissimo sostegno ad esse della popolazione americana dimostra ancora una volta come la politica di Washington risponda esclusivamente agli interessi della classe di cui gli stessi amministratori delegati multi-milionari fanno parte.

L’allargamento della forbice dei redditi e il continuo aumentare dei compensi ai vertici delle grandi aziende di fronte al generale impoverimento di massa in atto non sono d’altra parte il risultato di forze impersonali o ineluttabili, bensì dell’azione deliberata di una classe politica che è espressione unica delle élite economico e finanziarie e alla quale l’Institute for Policy Studies, così come commentatori e intellettuali “liberal” negli Stati Uniti e non solo, continua a chiedere ingenuamente una riforma in senso progressista dell’intero sistema.

di Michele Paris

Alla vigilia dell’inaugurazione di una nuova campagna militare in Medio Oriente, l’amministrazione Obama sta cercando in tutti i modi di creare una parvenza di legittimità attorno all’imminente attacco criminale contro la Siria, così da aggirare sia gli ostacoli previsti dal sistema legale statunitense e dal diritto internazionale sia la vastissima ostilità diffusa tra la popolazione americana per una nuova guerra imperialista.

A conferma della natura illegale dell’azione programmata dalle forze armate USA contro il regime di Damasco, la Casa Bianca si muoverà nuovamente nel sostanziale disprezzo delle stesse regole democratiche del proprio paese. Obama e i suoi uomini hanno infatti lasciato intendere con estrema chiarezza come il presidente non intenda chiedere alcuna autorizzazione preventiva al Congresso per scatenare una nuova guerra.

Ciò era peraltro già accaduto in occasione del conflitto in Libia nel 2011, quando il governo americano aveva ritenuto di potere agire a sostegno dei “ribelli” anti-Gheddafi senza un voto di Camera e Senato perché l’intervento militare era stato definito di “portata limitata”. Nel caso della Siria, invece, l’amministrazione Obama sembra essere intenzionata a fare appello ad una fantomatica minaccia alla “sicurezza nazionale” degli Stati Uniti, emersa dopo il presunto attacco con armi chimiche del 21 agosto scorso nei pressi di Damasco.

Secondo la cosiddetta “War Powers Resolution” del 1973, il presidente ha la facoltà di autorizzare l’impiego della forza militare all’estero solo in caso di una “emergenza nazionale” - chiaramente inesistente in relazione alla Siria - anche se il Congresso è chiamato ad esprimersi entro 60 giorni. Alla Camera e al Senato, in ogni caso, non esiste alcuna maggioranza trasversale che mostri di voler difendere le prerogative dell’organo legislativo d’oltreoceano, né tantomeno che chieda un dibattito pubblico sul coinvolgimento di Washington o la presentazione di prove concrete circa la responsabilità del regime di Bashar al-Assad nei fatti della scorsa settimana.

Solo alcune voci isolate, soprattutto tra i repubblicani più conservatori, stanno chiedendo in questi giorni alla Casa Bianca un voto del Congresso prima di far scattare le operazioni in Siria. Tra gli altri, una ventina di parlamentari ha indirizzato al presidente una lettera nella quale viene fatto notare come un attacco contro la Siria senza l’autorizzazione del Congresso risulterebbe al di fuori della legalità.

Lo speaker della Camera, John Boehner, si è tuttavia limitato a chiedere “consultazioni” tra i membri del governo e del Congresso, così da definire gli obiettivi dell’azione da intraprendere. Per venire incontro a queste richieste alquanto modeste, sono stati organizzati alcuni incontri tra esponenti del gabinetto Obama e i leader dei due partiti, in modo da dare l’impressione di un certo coinvolgimento del Congresso in un’avventura bellica che avrà con ogni probabilità conseguenze drammatiche.

Lo stesso Boehner, ad esempio, ha incontrato il capo di gabinetto di Obama, Denis McDonough, mentre il leader di minoranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell, il numero uno dei democratici, Harry Reid, e la ex speaker della Camera, Nancy Pelosi, sono stati informati dei piani del Pentagono nel fine settimana. Il Segretario alla Difesa, John Kerry, ha infine rassicurato i membri più importanti delle commissioni Esteri e per le Forze Armate della Camera circa la legittimità dell’azione militare.

In questa campagna messa in atto appositamente per confondere l’opinione pubblica, un ruolo fondamentale lo stanno svolgendo come al solito i media ufficiali. La NBC ha così riportato nella serata di martedì che i primi missili contro obiettivi in territorio siriano potrebbero essere lanciati già nella giornata di giovedì e che i bombardamenti potrebbero proseguire per tre giorni, salvo poi valutare ulteriori incursioni per colpire obiettivi eventualmente falliti durante la prima fase delle operazioni.

Simili rivelazioni, assieme alle dichiarazioni di vari esponenti dell’amministrazione Obama, hanno lo scopo di occultare le gravissime implicazioni della nuova guerra che sta per esplodere nel mondo arabo, così come le reali motivazioni dell’aggressione contro Damasco. In particolare, come ha ripetuto martedì il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, la risposta militare americana viene presentata come la necessaria conseguenza delle azioni di Assad e dell’uso di armi chimiche, visto che gli USA non avrebbero alcuna intenzione di favorire un cambio di regime a Damasco.

I tentativi di minimizzare la portata dell’intervento delle forze armate statunitensi da parte dell’amministrazione Obama sono dunque da prendere quanto meno con le molle. Innanzitutto, gli USA e il loro alleati in Europa e in Medio Oriente stanno cercando da due anni di costruire un pretesto che possa giustificare un intervento diretto per invertire le sorti del conflitto in Siria.

Inoltre, come ha dimostrato la guerra in Libia, l’utilizzo presumibilmente massiccio di missili e il possibile ricorso ad incursioni aeree causeranno un numero altissimo di vittime civili in Siria, per non parlare infine del possibile coinvolgimento nel conflitto di paesi come Iran o Russia.

La pretesa di essere sul punto di intraprendere una campagna militare di pochi giorni e di basso profilo appare perciò come una menzogna deliberata per superare la forte opposizione popolare, dal momento che l’assalto preparato dal Pentagono proseguirà fino a che non verranno piegate le difese del regime, così da consentire ai “ribelli” - tra i quali prevalgono le forze integraliste più o meno legate al terrorismo internazionale - di invertire gli equilibri sul campo finora favorevoli ad Assad.

Ad insistere sulla necessità di rispondere ad un imperativo morale e di non lasciare impunito un attacco con armi chimiche la cui responsabilità è ancora tutta da dimostrare era stato lo stesso Kerry nella giornata di lunedì, quando è stato protagonista di un intervento pubblico che ha ricordato tragicamente la vergognosa performance del febbraio 2003 dell’allora segretario di Stato dell’amministrazione Bush, Colin Powell, alla vigilia dell’invasione dell’Iraq.

L’ex senatore democratico ha definito “la strage indiscriminata di civili” con armi chimiche nella località di Ghouta un “abominio morale”, motivando la frettolosa assegnazione della responsabilità al regime di Assad in base ad una presunta valutazione dei “fatti” ma anche al “buon senso”. In realtà, Kerry non è stato in grado di presentare una sola prova concreta delle proprie accuse e, oltretutto, il “buon senso” nella vicenda siriana porterebbe piuttosto a considerare gli stessi “ribelli” come i possibili autori del più recente attacco con armi chimiche.

Ad ipotizzare simili responsabilità di questi ultimi erano stati anche i membri di una speciale commissione ONU di indagine sulla Siria qualche mese fa nell’ambito di altri due episodi nei quali era stato segnalato l’impiego di questo genere di armi proibite. Da tempo, inoltre, le forze speciali USA e la CIA stanno addestrando formazioni “ribelli”, alle quali avrebbero potuto fornire armi chimiche per condurre un attacco da attribuire al regime, mentre il ministro degli Esteri di Damasco, Walid al-Moallem, ha parlato più volte di un’ondata di guerriglieri stranieri intenzionati a lanciare un assalto contro Damasco “su quattro diversi fronti”.

La propaganda statunitense, dunque, serve in definitiva ad impedire che si faccia chiarezza sui fatti della scorsa settimana, come dimostrano i tentativi di boicottare la missione ONU attualmente al lavoro in Siria per raccogliere prove sull’uso di armi chimiche a Ghouta.

Dopo che il governo di Damasco aveva dato il via libera all’indagine degli esperti delle Nazioni Unite, infatti, l’amministrazione Obama non solo ha definito tardiva e inutile la missione ma, come ha dimostrato martedì il giornalista investigativo Gareth Porter sul sito web dell’agenzia di stampa IPS News, ha addirittura fatto pressioni sul Segretario Generale, Ban Ki-Moon, per interromperla definitivamente.

Secondo numerosi esperti contattati da Porter, la tesi sostenuta dagli USA che le prove dell’uso di armi chimiche non sarebbero più rilevabili dopo alcuni giorni è insostenibile, visto che tracce di questo genere possono essere raccolte anche dopo svariati mesi. L’obiettivo degli americani appare perciò quello di evitare che si faccia luce su quanto avvenuto in Siria e di propagandare la propria versione dei fatti come verità incontrovertibile.

Non a caso, infatti, la Casa Bianca e il Pentagono sarebbero intenzionati ad iniziare la loro campagna di aggressione contro la Siria - ovviamente senza alcun mandato ONU nonostante la Gran Bretagna abbia presentato mercoledì una risoluzione al Palazzo di Vetro per autorizzare qualsiasi genere di misura volta a “difendere la popolazione civile” - prima che gli ispettori riferiscano al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite i risultati della propria indagine, considerata di fatto dagli Stati Uniti come un impedimento ai loro piani di guerra.

Tutto ciò che l’amministrazione Obama presenterà all’opinione pubblica per giustificare l’attacco alla Siria dovrebbero essere soltanto parziali rapporti di intelligence che, secondo i media d’oltreoceano, ricostruirebbero dettagliatamente i fatti del 21 agosto, assegnandone la responsabilità al regime di Assad.

Questa strategia ricorda in maniera inquietante quella messa in atto dall’amministrazione Bush nel 2003, quando rapporti dei servizi segreti a stelle e strisce sulle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein vennero fabbricati ad arte per legittimare un’azione unilaterale del tutto illegale che portò ad un vero e proprio “abominio morale”, vale a dire la devastazione dell’Iraq e il massacro di centinaia di migliaia di civili anche in seguito all’uso da parte degli americani di fosforo bianco nella città di Fallujah.

Su queste premesse e con questi metodi, dunque, gli Stati Uniti del presidente democratico premio Nobel per la pace si apprestano ad aprire un nuovo fronte di guerra in Medio Oriente, celando dietro alla consueta retorica della difesa della democrazia e dei diritti umani un’operazione che rientra in pieno nella strategia a lungo termine di Washington di assicurarsi con la forza delle armi una posizione dominante in questa area cruciale del pianeta.

di Fabrizio Casari

L’attacco americano alla Siria è imminente. Obama ha già dato il via libera, a detta della Nbc, mentre stando alla Reuters non avrebbe ancora deciso. Ma tutto sembra indicare che la guerra sta per avere inizio: la procedura normalmente utilizzata a scopi mediatici per convincere gli americani dell’indispensabile nuova aggressione ad uno Stato sovrano è già in marcia. Il Segretario di Stato Kerry si è già scatenato in minacce di fronte ai taccuini aperti degli impiegati embedded della grande stampa d'Oltreoceano, e lo stesso ha fatto il portavoce della Casa Bianca.

Sono cominciate le finte indiscrezioni dei giornali e le interviste ai presunti esperti militari e d’intelligence, utili a saggiare il clima, ma i risultati non sono stati esaltanti: oltre il 60% degli statunitensi non approvano la nascita di un nuovo fronte di guerra.


Come sempre, il casus belli è sostanzialmente costruito ad arte; dal Golfo del Tonchino al famoso arsenale di Saddam denunciato da Colin Powell in sede ONU e poi rivelatosi miseramente falso, la propaganda bellica statunitense non va tanto per il sottile. Il privilegio di controllare la grande maggioranza dei media planetari, sia in quanto proprietari, sia in quanto direzione politica e ideologica, permette agli Stati Uniti di poter dire e negare tutto e il contrario di tutto senza dover ricorrere all’obbligo di dimostrarne la fondatezza. Nel caso specifico, non vi sono prove sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad, che anzi, a rigor di logica, risulta difficile immaginare, dal momento che il luogo dove l’attacco chimico si sarebbe svolto vedeva la presenza massiccia di forze lealiste.

Ancora più bizzarro appare l’attacco al convoglio degli ispettori ONU, dal momento che Damasco ha proprio nel ruolo delle Nazioni Unite l’unica deterrenza politica e giuridica nei confronti della scalata interventista di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Quale interesse avrebbe avuto nell'aprire il fuoco contro l'ONU? Lo avrebbero avuto semmai i ribelli, come del resto sono interessati a incolpare il governo dell'uso delle armi chimiche. Il che non significa che effettivamente il regime siriano non le abbia utilizzate, ma un’inchiesta approfondita sarebbe utile, dal momento che l’unica fonte al riguardo è rappresentata dai ribelli islamici, non proprio affidabili e certamente non neutrali. Prima di scatenare un’altra guerra varrebbe la pensa sapere cosa è avvenuto e di chi sono le responsabilità.

Come quelle venute fuori - solo per fare un esempio - dalla pubblicazione da parte della rivista Foreign Policy della declassificazione dei documenti segreti del Pentagono relativi alla guerra che, 23 anni orsono, l’allora buon amico Saddam Hussein scatenò contro l’Iran di Khomeini. L’Iraq utilizzò massicciamente armi chimiche - gas Sarin per la precisione - contro la popolazione iraniana, in particolare nell’operazione definita “Sacro Ramadan” e lo fece con il consenso degli Stati Uniti. I morti si contarono a migliaia.

Lo rivelano alti ufficiali della US Army e membri della CIA in pensione. La proibizione dell’uso delle armi chimiche risale al 1925 e al Protocollo di Ginevra del 1925, cioè di 55 anni prima della guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), ma nella circostanza gli USA non sembrarono scandalizzarsi, dato che come disse l’allora presidente genocida Ronald Reagan, “sarebbe intollerabile una vittoria iraniana”.

La strada del diritto internazionale è preclusa ai fini della guerra. L’ONU non approverà nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza che presti legalità internazionale all’aggressione, il veto di Russia e Cina è scontato. Dunque l’operazione sarà sotto egida Nato. I servi storici di Washington, Gran Bretagna e Canada, seguiti dall’Australia e Nuova Zelanda, costituiranno il gruppone di testa per la corsa ai bombardamenti prima e ai contratti dopo. Perché il piatto siriano è troppo succulento per i piani di destabilizzazione mediorientali e l’occasione è ghiotta, dal momento che la congregazione di forze ribelli non riesce a deporre Assad, tantomeno a spostare la popolazione contro il regime.

Nonostante gli sforzi finanziari degli Emirati, nonostante l’aiuto militare di turchi e consiglieri britannici e francesi, l’esercito di Assad, grazie anche al contributo degli Hezbollah libanesi e al sostegno iraniano, ha dimostrato infatti di saper invertire a proprio favore i pronostici che dalle capitali occidentali e del Golfo pochi mesi orsono prevedevano la caduta del regime. Il dilatarsi della guerra ha invece messo a nudo le contraddizioni e la litigiosità interna delle diverse bande di integralisti islamici che combattono in Siria e, senza l’intervento straniero, la guerriglia non durerebbe ancora molto al lungo. Proprio a questo si deve l’accelerazione di queste ore.

Le opzioni in campo sembrano riguardare i cosiddetti attacchi mirati, cioè una significativa quota di Tomahawk e Cruise lanciati dalle flotte americane, inglesi e francesi più prossime alla Siria, seguite da raid aerei. Successivamente, é facile prevederlo, si darà vita alla no-fly zone, destinata in teoria ad impedire l’uso dell’aviazione militare ai lealisti.

Ma, come già avvenuto in Libia, la no-fly zone diverrà subito ben altro, e cioè un vero e proprio susseguirsi di raid aerei destinati ad attaccare le forze di terra dell’esercito siriano. Fatta piazza pulita della capacità militare dei lealisti, la guerriglia avrà gioco facile nel conquistare città e siti strategici del paese, dando il via al racconto dell’insurrezione popolare che sconfisse il regime a cui tutti o quasi fingemmo di credere.

Le ripercussioni politiche internazionali all’aggressione alla Siria saranno comunque rilevanti e il prossimo G20 di Mosca difficilmente riuscirà ad appianarle. Mosca e Pechino difficilmente accetteranno di dimostrare in modo palese la loro impotenza nello scenario globale. Non è in discussione l’esito militare della vicenda, anche se si scoprirà rapidamente come la Siria è territorio non semplice da conquistare; sarà difficile assistere ad una passeggiata di salute degli integralisti islamici aiutati dell'Occidente, visto che una significativa parte della popolazione ha ben presente cosa gli potrebbe succedere in caso di presa del potere di al-Queda e propaggini varie al seguito.

Non c’è nessuna ragione umanitaria dietro la scelta dell’Occidente di attaccare la Siria. Se così fosse, la ricerca della soluzione politica al conflitto sarebbe stata perseguita. Che si bombardino città, si scateni la guerra nei cieli e si colpiscano le infrastrutture del paese non pare avere molto a che fare con le preoccupazioni per la popolazione civile. Nel mondo alla rovescia, che sceglie il paradosso sfacciato come arma principale della propaganda, la guerra è diventata la ricerca della pace. Il business della guerra e del saccheggio continua a determinare le scelte della politica. Il presidente Nobel per la pace ha già il dito sul grilletto. Una nuova avventura coloniale, tragica e ingiusta, sta per cominciare.


di Fabrizio Casari

Il massacro quotidiano di islamici in onda nelle piazze d’Egitto genera sdegno diffuso. Al quale ovviamente non c’è seguito, dal momento che l’opinione pubblica internazionale non ha nessun ruolo attivo possibile nella vicenda egiziana e le autorità internazionali sono ferme al balbettìo sterile. Non solo perché incapaci di intervenire celermente in quella che ormai è una autentica guerra civile, bensì perché in qualche modo le grandi potenze occidentali sono soddisfatte.

Vorrebbero certo maggiore attenzione, meno macelleria è più discrezione, ma il risultato finale - l’uscita di scena dei Fratelli Musulmani - è obiettivo condiviso con i generali egiziani. Le minacce della UE, circa l’interruzione delle forniture di armi al Cairo fanno ridere: non solo perché il principale fornitore di armi sono gli USA, ma perché l’Egitto fabbrica da solo una quota consistente del suo apparato bellico. La Bonino, che vanta una approfondita conoscenza del paese arabo, dovrebbe saperlo.

Protagonisti principali della rivolta popolare che diede il via alla cacciata di Mubarak, le organizzazioni islamiche non hanno certo dato il meglio alla prova del governo e, vinte di stretta misura le elezioni, sono stati svelti a ricorrere anch’essi alla repressione dinanzi alle manifestazioni antigovernative che chiedevano le dimissioni di Morsi. La presidenza di quello che è sembrato più un funzionario della confraternita che non il leader di una nazione, è stata un disastro totale.

Centrifugati in una dinamica di crescente islamizzazione della legislazione, indifferenti al dramma socio-economico del Paese, i Fratelli Musulmani sono risultati incapaci e ingenui nella lettura della fase politica e, una dimostrata inclinazione verso l’autoritarismo crescente, ha determinato progressivamente il venir meno del consenso ottenuto durante la rivolta e nelle elezioni ad essa succedutesi.

Pensavano forse che chiudere i varchi attraverso i quali giungevano i riferimenti al governo palestinese e ad Hamas in particolare, oppure schierarsi al fianco dei ribelli siriani, gli avrebbe garantito le simpatie israelo-statunitensi e che la nomina del generale al-Sisi, gradito all’establishmente militare dell’Occidente e da Morsi considerato “un buon musulmano”, avrebbe ulteriormente rafforzato l’appoggio di Washington.

Ma il miliardo e mezzo di dollari che gli USA versano annualmente all’Egitto è destinato proprio alle loro forze armate e la scelta di al-Sisi, da parte di Morsi, è stato un errore clamoroso. Ricorda tristemente quella di Allende che nel Cile del ‘73 nel pieno della campagna orchestrata da Kissinger e Nixon contro il governo di Unidad Popular, decise di nominare Pinochet al vertice delle forze armate; era convinto della sua lealtà alla Costituzione e che avrebbe utilizzato i suoi buoni rapporti con il Pentagono per ridurre la pressione della Casa Bianca sulla Moneda.

Ingenuità che si pagano a caro prezzo: i militari che si formano nelle accademie degli eserciti dove gli USA svolgono il ruolo di direzione politica e militare, obbediscono al Pentagono, non alla propria Carta Costituzionale. Non c’è nemmeno il doppio livello d’obbedienza tipico dei paesi europei, ma solo uno: quello verso gli USA.

Si possono analizzare diversi aspetti della cosiddetta “primavera” egiziana, finita sotto i cingoli dei carri armati e nel mirino dei cecchini in uniforme, e si può anche registrare un quadro d’insieme che va ben oltre la vicenda politica interna del più grande paese arabo. Nello scontro definitivo tra i militari e la porzione laica della popolazione da una parte e i Fratelli Musulmani dal’altra, non c’è infatti solo la resa dei conti interna tra le diverse componenti del Paese; l’eco di quanto accade al Cairo o ad Alessandria si riflette anche sul riposizionamento del quadro regionale, che vede i rispettivi sponsor - Arabia Saudita al fianco dei militari e Qatar che sostiene i Fratelli Musulmani - ridefinire attraverso l’affaire Egitto il ruolo di direzione politica nel Golfo Persico.

Il generale al-Sisi ordina ora la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani, così come fece Nasser 85 anni fa. Ma se il disegno del leader panarabista era comunque dotato di una vision mediorientale, quello di al-Sisi è puro impulso da sbirro. Inutile fu metterli fuorilegge allora e inutile è riproporlo adesso: i Fratelli Musulmani rappresentano comunque una parte importante della popolazione e sono insediati in maniera profonda nelle viscere del paese. Sono privi di classe dirigente, di classe imprenditoriale e di appartenenti alla casta militare, ma non per questo non sono in grado d’incidere.

Magari non sanno governare, ma sanno benissimo come impedire di governare agli altri. Per l’Egitto si apre dunque uno scenario difficilissimo e gli inviti alla riconciliazione sono parole al vento degne di un enciclica più che di un disegno politico.

Il dato ineludibile che una onesta analisi dei fatti dovrebbe considerare, è comunque quello della governance internazionale. Risulta evidente l’incompatibilità tra il controllo politico occidentale sull’area e la democrazia. La democrazia, anche quella formale, è ormai insostenibile per un modello di governance che non prevede aree di autonomia politica ma solo l’adesione assoluta al comando unico globale. L’Occidente, per riottenere il controllo quando la situazione gli sfugge, ricorre da diversi anni alla stessa mossa sullo scacchiere: quando ha bisogno di destabilizzare paesi non conformi al suo modello di comando internazionale lancia grandi campagne sui diritti umani.

Lo fa con una notevole faccia di bronzo, giacché chiede diritti umani mentre difende regimi barbari ed anacronistici come gli Emirati che i diritti umani li calpestano quotidianamente. Sceicchi pieni di oro ed ignoranza tribale che coniugano complotti e repressione per rimanere saldamente in sella.

Nella consapevolezza di essere solo tribù sedute su giacimenti di petrolio, alla ricerca di una leadership regionale, lanciano offensive politiche in tutto il Medio Oriente che prevedono guerre e destabilizzazioni ovunque. Non è un caso che, anche nella vicenda egiziana, l’Arabia saudita sia pronta a sopperire immediatamente con le proprie risorse all’eventuale riduzione degli aiuti americani.

C’è poi l’altra opzione occidentale, normalmente utilizzata quando si ritiene di dover solo abbattere governi ritenuti ostili o non più utili allo scopo; si da respiro internazionale al malcontento e alle proteste e, quando si ritiene che il momento del ribaltamento sia giunto, sì invocano democrazia ed elezioni. Anche qui l’ipocrisia regna, dal momento che le elezioni sono riconosciute e rispettate solo se terminano con il successo degli amici e la sconfitta dei nemici.

Dalla Turchia del colpo di Stato (Nato) del 1980 all’Algeria del 1991, fino alla storia di questi giorni, ci sono esempi impossibili da non considerare. Ovunque le elezioni vengono vinte dai partiti islamici, dal giorno seguente comincia il processo di delegittimazione, normalmente articolato in due grandi linee: o un intervento dei militari che ripristina immediatamente il controllo dell’Occidente, o, nel caso non siano propizie le condizioni, l’inizio di una enorme campagna di delegittimazione delle formazioni religiose vincitrici delle elezioni, allo scopo di creare le condizioni per una protesta di massa che veda poi l’intervento dei militari come ineludibile.

Le due diverse strade con le rispettive tempistiche vengono perseguite a seconda di quali siano i rapporti di forza interni e si misurano soprattutto con il grado di affidabilità dei vertici militari locali, cioè la disponibilità delle autorità castrensi ad allinearsi sotto il comando unico dell’Occidente.

In molti sostengono che Obama ha sbagliato tutte le mosse: con Mubarak prima, con Morsi poi e con al-Sisi ora. Che la sua confusione ed indecisione politica abbia dato alibi alle giravolte della società e dell’establishment egiziano causando il disordine di oggi. Certo, Obama non ha dimostrato grande abilità nella geopolitica all’epoca del 2.0. La questione di fondo sembrerebbe però una: possono dei partiti religiosi aspirare a governare con il consenso dell’Occidente in generale e degli USA in particolare?

La possibilità di sorvolo dello spazio aereo egiziano, necessaria per i rifornimenti alle truppe in Afghanistan, il controllo del Canale di Suez e la necessità di controllare strettamente il più grande paese arabo anche in funzione di protezione di Israele, possono essere garantite da un governo islamico, a maggior ragione in un momento in cui la guerra in Siria rischia di far deflagrare ulteriormente il caos nella regione?

Una lettura semplificata della politica estera degli Stati Uniti e dei suoi maggiordomi europei potrebbe indurre a ritenere di no, in forza di una considerazione apparentemente logica: da sempre, in particolare dopo l’11 Settembre, l’impegno dell’Occidente è rivolto alla lotta contro il fondamentalismo islamico e non sarebbe realistico ipotizzare un qualunque consenso da parte statunitense ad un governo islamista.

Niente di più inesatto. Gli Stati Uniti, dagli anni ’80 in poi, hanno sempre avuto rapporti strettissimi ed intese ampie con il mondo islamico, anche con le fazioni più radicali. La condizione necessaria e sufficiente di ogni patto tra gli USA e gli islamici è determinato dall’essere questi ultimi fermamente contrari ad ogni orientamento progressista.

E’ con l’Islam laico e con venature socialiste ( vedi Baath in Iraq e Siria o OLP in Palestina) che gli Stati Uniti sono entrati da sempre in rotta di collisione. Prima per la partita con i sovietici in Medio Oriente, poi, dopo la caduta dell’Urss, per ridisegnare la mappa in funzione delle esigenze parallele dei suoi amici israeliani e sauditi. Gli uni decisi a mantenere il controllo militare sul Medio Oriente, gli altri impegnati a costruire a suon di dollari la loro leadership politica sul mondo musulmano.

A ben vedere, la vicinanza tra Washington e l’Islam radicale è stata una costante dell’ultimo trentennio. Cominciò con il sostegno sfacciato delle monarchie saudite, proseguì con l’alleanza con Teheran per la fornitura di armi ai Contras in Nicaragua e con il finanziamento e l’addestramento dai mujaheddin afgani in guerra contro i sovietici prima e contro i serbi in Bosnia poi. Insieme a questo - e forse sopra - il sostegno al Pakistan in funzione di antagonista principale dell’India (un tempo leader dei Non Allineati e vicina a Mosca), quindi l’aiuto diretto alle milizie jahidiste libiche e irachene. Washington, insomma, non ha mai avuto scrupoli ad allearsi tatticamente e strategicamente con l’Islam, per radicale che fosse.

E il fatto che le monarchie del Golfo siano finanziatrici di ogni fazione islamica in armi, che il regime pakistano organizzi l’addestramento e la struttura d’intelligence dei talebani contro i quali l’Occidente combatte in Afghanistan e che i ribelli in Siria (come accadde in Libia) siano diretti in buona parte da quella al-Queda che dovrebbe essere l’obiettivo principale della “war or terror”, sono dettagli che non turbano affatto i piani statunitensi di controllo geostrategico dell’area. Solo una pubblicistica sdraiata e velinara può bypassare tutto ciò.

D’altra parte, se davvero gli USA avessero voluto ridurre l’influenza dell’Islam nel movimento politico mediorientale, non avrebbe dichiarato guerra ad Iraq, Libia e Siria, dove i regimi di Saddam, Gheddafi e Assad hanno sempre rappresentato un nemico giurato degli integralisti islamici.

Ma, appunto, il timore dell’America non è l’integralismo islamico, ma le sue derivazioni politiche che coniugano l’irredentismo e l’anti-imperialismo con la fede, che tengono insieme la solidarietà sociale insita nella cultura islamica e l’individuazione dell’Occidente come usurpatore di risorse e libertà.

Sarebbe quindi sbagliato accusare Obama di confusione ed inadeguatezza con la vicenda egiziana nel modo in cui ha affrontato la rivolta prima, le elezioni poi e la guerra civile ora. Obama è figlio legittimo di quel complesso militar-industriale che decide quali siano gli interessi politici ed economici da tenere sotto controllo ed alla sua logica ispira la sua politica estera. La guerra permanente, oltre a riaffermare il ruolo di leadership militare degli USA, rappresenta la possibilità di allungare le mani sulle risorse dei paesi coinvolti ed è, ancora oggi, il miglior volano per l’economia del paese.

Lì risiede la garanzia di sopravvivenza e crescita del settore militare e dell’intelligence statunitense, vero cuore pulsante di un sistema che, senza contrappesi né bilanciamenti, ha assunto ormai il volto di un regime. Che si serve del terrore e delle guerre per ridefinire ed aggiornare la sua identità. Invasivo verso l’interno ed invasore all’esterno.

di Michele Paris

L’ennesimo massacro messo in atto mercoledì dai militari egiziani per porre fine alla resistenza dei sostenitori dei Fratelli Musulmani ha smascherato impietosamente i reali scrupoli democratici degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente, così come la vera natura delle forze secolari e “progressiste” indigene che avevano di fatto appoggiato il golpe del 3 luglio scorso ai danni del presidente islamista Mohamed Mursi.

Le centinaia o forse migliaia di morti nel corso dell’ultimo atto della repressione andata in scena al Cairo e nelle principali città del più popoloso paese arabo sono state seguite dall’imposizione dello stato di emergenza, una misura grazie alla quale Hosni Mubarak aveva governato con il pugno di ferro per tre decenni e che era stata già minacciata qualche settimana fa durante il precedente round di scontri tra i Fratelli Musulmani e le forze di sicurezza.

Lo stato di emergenza rimarrà in vigore per un mese, anche se il possibile radicalizzarsi dello scontro interno potrebbe giustificare un prolungamento indefinito del provvedimento da parte dei militari. Questo strumento, d’altra parte, riattivando le leggi di emergenza del 1958 consentirà al regime, come è accaduto in passato, di reprimere ogni forma di opposizione interna, principalmente autorizzando l’arresto di cittadini senza il mandato di un tribunale.

Le vittime di mercoledì e le misure prese dal governo espressione dei vertici militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Sisi, smontano dunque definitivamente la pretesa di un regime intento a rimettere l’Egitto sulla strada della democrazia dopo la deposizione di Mursi sull’onda di oceaniche dimostrazioni di piazza.

Il percorso intrapreso dal paese nord-africano sembra essere piuttosto quello dell’autoritarismo dell’era Mubarak, come dimostra anche la nomina, avvenuta il giorno prima dello sgombero del sit-in dei sostenitori di Mursi, di 25 nuovi governatori provinciali, tra i quali vi sono 19 generali e due giudici noti per la loro fedeltà al presidente rimosso in seguito alla rivoluzione del 2011.

Soltanto ai primi di agosto, questa evoluzione era stata invece definita in altri termini dal segretario di Stato americano, John Kerry. In una discussa intervista rilasciata nel corso di una visita in Pakistan, quest’ultimo aveva lasciato chiaramente intravedere la predisposizione di Washington verso i generali egiziani, i quali a suo dire, nel deporre Mursi, avevano “in effetti ristabilito la democrazia” nel paese.

Anche se la presunta strada verso la democrazia in Egitto sotto la guida dei militari appare sempre più inondata di sangue, l’amministrazione Obama continua a non mostrare alcuna intenzione di modificare la propria politica nei confronti del regime golpista. Le uniche reazioni provenienti da Washington in seguito al massacro di mercoledì sono state ciniche dichiarazioni di “condanna”, espresse, secondo i media ufficiali, in termini “insolitamente duri”.

Lo stesso Kerry ha così definito “deplorevoli” le violenze al Cairo, nonché “contrarie alle aspirazioni degli egiziani alla pace, all’inclusione e ad una democrazia genuina”. Il presidente Obama, invece, inizialmente non ha ritenuto nemmeno necessario sospendere le vacanze nel lusso di Martha’s Vineyard per parlare della situazione in Egitto, preferendo continuare a giocare a golf con un suo facoltoso finanziatore. Solo giovedì l’inquilino della Casa Bianca ha affrontato l’argomento con la stampa, affermando che “il ciclo della violenza deve terminare”.

Le reazioni ufficiali erano state in precedenza affidate, oltre che al Dipartimento di Stato, ad un portavoce di secondo piano della Casa Bianca, John Earnest, il quale di fronte alle centinaia di morti aveva assurdamente invitato i militari egiziani e le forze di sicurezza “a mostrare moderazione e a rispettare i diritti universali dei propri cittadini”.

In maniera altrettanto patetica, la Casa Bianca ha poi fatto sapere di essere intenzionata a cancellare l’esercitazione militare “Bright Star” con le forze armate egiziane in programma a settembre e che si tiene regolarmente dall’inizio degli anni Ottanta. Secondo la versione ufficiale, simili misure “punitive” dovrebbero servire ad esercitare pressioni sui militari al Cairo per mettere fine ad una repressione con ogni probabilità messa ampiamente in preventivo da Washington in seguito alla decisione di sottrarre il proprio appoggio ai Fratelli Musulmani e di dare il via libera al colpo di stato del 3 luglio scorso per prevenire una possibile seconda rivoluzione popolare.

Un finto e tardivo rammarico per la situazione egiziana è stato prevedibilmente espresso anche dai governi europei. La responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ad esempio “condannato fermamente” le violenze in Egitto e chiesto la fine al più preso dello stato di emergenza. Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha anch’egli espresso la propria preoccupazione per la crisi nel paese nordafricano e il suo disappunto per il mancato raggiungimento di un compromesso tra le parti in lotta per evitare una resa dei conti.

Quest’ultimo aspetto è stato messo in risalto anche da una serie di resoconti giornalistici, in particolare della Reuters nella giornata di giovedì, nei quali si racconta come diplomatici europei e statunitensi avrebbero cercato fino all’ultimo di evitare una soluzione di forza contro le proteste degli islamisti, proponendo una via d’uscita condivisa.

In realtà, tramite una serie di visite al Cairo di inviati dei governi occidentali - a cominciare dalla Ashton - gli sforzi di Bruxelles e Washington per giungere ad un accordo prevedevano condizioni chiaramente inaccettabili per i Fratelli Musulmani, come l’accettazione sia del golpe ai danni del proprio presidente sia della “road map” dei militari per il ristabilimento dell’autorità civile.

Come si comprende chiaramente da una serie di dichiarazioni quasi sempre anonime di membri delle delegazioni diplomatiche inviate al Cairo, i governi occidentali erano ben consapevoli dell’impossibilità da parte dei Fratelli Musulmani ad acconsentire a quello che sarebbe stato un vero e proprio suicidio politico con i propri sostenitori già nelle piazze a chiedere il reinsediamento di Mursi.

Per questa ragione, gli appelli alla riconciliazione sono apparsi da subito vuoti e hanno a malapena nascosto la sostanziale volontà dell’Occidente di appoggiare il progetto contro-rivoluzionario dei vertici militari, considerati gli unici sicuri garanti in Egitto dei propri interessi e di quelli di Israele nel mondo arabo.

Una simile strategia è stata possibile solo grazie al ruolo giocato dalle forze di opposizione al governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani. La galassia di partiti teoricamente di sinistra, liberali, nasseriti e le varie organizzazioni della società civile hanno infatti fornito la necessaria copertura “democratica” al colpo di stato militare, sfruttando il crescente malcontento popolare per le politiche reazionarie del gabinetto guidato dal primo presidente eletto nel dopo-Mubarak.

I leader di tutte queste formazioni erano significativamente apparsi a fianco del generale al-Sisi subito dopo la rimozione di Mursi e avevano appoggiato la repressione scatenata da subito contro gli islamisti. Il sangue dei morti di questa settimana è perciò anche sulle mani di coloro che in Egitto si sono presentati come difensori della rivoluzione del 2011 entrando a far parte di un governo-fantoccio manovrato dalle Forze Armate, a cominciare dal premio Nobel per la Pace, Mohamed ElBaradei.

Alcuni leader liberali come l’ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica stanno cercando in questi giorni di prendere le distanze dai generali nel tentativo di occultare le loro responsabilità nelle violenze in corso. ElBaradei, in particolare, ha rassegnato le proprie dimissioni da vice-presidente per gli Affari Internazionali, indirizzando una lettera al presidente ad interim, Adly Mansour.

La decisione di ElBaradei è stata concordata quasi certamente con Washington, come confermerebbe un colloquio telefonico dell’ormai ex vice-presidente egiziano con John Kerry subito dopo l’inizio della repressione delle forze armate di mercoledì. Per gli Stati Uniti, infatti, ElBaradei rappresenta una risorsa importante per i propri interessi in Egitto e la sua permanenza all’interno di un governo responsabile di ripetuti massacri lo avrebbe irrimediabilmente compromesso.

L’annientamento della resistenza dei Fratelli Musulmani, se anche avrà successo, non determinerà in ogni caso l’apertura di un nuovo capitolo sulla strada della democrazia per l’Egitto, bensì rappresenterà il primo passo dell’offensiva dei militari contro il reale obiettivo del loro progetto contro-rivoluzionario, cioè la grandissima maggioranza della popolazione che chiede un autentico cambiamento e la possibilità di svolgere finalmente un ruolo da protagonista nel futuro del proprio paese.


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