di Michele Paris

Pressato da livelli di gradimento ai minimi storici e da una frustrazione ampiamente diffusa tra la maggior parte degli americani che ancora non vedono alcun frutto della presunta ripresa economica in corso, Barack Obama ha messo in atto questa settimana l’ennesimo patetico tentativo di presentarsi come il difensore delle classi disagiate degli Stati Uniti. In un discorso pubblico tenuto presso l’istituto di ricerca filo-democratico Center for American Progress, il presidente ha infatti denunciato le vergognose disparità sociali e di reddito che caratterizzano il paese, promettendo di battersi nei prossimi anni per una più equa distribuzione delle ricchezze. Ciò che l’inquilino della Casa Bianca ha però mancato nuovamente di spiegare sono state le pesantissime responsabilità della sua amministrazione nell’avere creato la situazione che egli stesso ha voluto condannare.

Ad ascoltare Obama nel suo discorso di mercoledì, molti americani avrebbero potuto pensare che il presidente non abbia avuto alcun ruolo in questi cinque anni nel processo di trasferimento di ricchezza dai ceti più poveri al vertice della piramide sociale.

Come se fosse uno spettatore incolpevole, Obama ha così descritto con toni molto duri il divario tra ricchi e poveri negli Stati Uniti, definendolo, assieme ad una mobilità sociale in netto declino, come la principale minaccia al “sogno americano”. Del tutto esatti sono stati poi i dati proposti alla platea, come ad esempio quelli che descrivono una società nella quale il 10 per cento della popolazione detiene la metà della ricchezza prodotta nel paese, oppure che l’1 per cento possiede beni 288 volte superiori a quelli di una famiglia media americana.

Ai numeri proposti dal presidente democratico se ne potrebbero aggiungere molti altri per mettere in evidenza i risultati delle politiche di classe messe in atto questi anni. Ad esempio, come ha affermato a Bloomberg News un economista dell’Università di Berkeley, nel 2012 il 10 per cento degli americani più ricchi si è aggiudicato una parte dei redditi complessivi mai così grande dal 1917.

Oppure, i profitti delle corporations, che rappresentano oggi una parte dell’economia dalle dimensioni senza precedenti dal 1947, mentre le entrate dei lavoratori, in proporzione al PIL degli Stati Uniti, sono al minimo dal 1952.

Le parole di Obama hanno prevedibilmente raccolto il consenso di media e commentatori “liberal”, i quali lo hanno elogiato quasi senza riserve per avere pronunciato uno dei discorsi migliori della sua presidenza in materia di economia e per avere allo stesso tempo affrontato in maniera diretta la piaga dell’ineguaglianza negli Stati Uniti.

Le denunce e le promesse del presidente, tuttavia, non possono nascondere il fatto che egli stesso fin dall’insediamento alla Casa Bianca nel 2009 ha favorito questo processo di polarizzazione sociale, tanto che in questi ultimi anni l’1 per cento degli americani più ricchi ha messo le mani addirittura sul 95 per cento dell’aumento complessivo di reddito fatto registrare negli Stati Uniti.

Allo stesso modo, l’amministrazione Obama ha presieduto ad una contrazione media dei redditi degli americani superiore al 4 per cento in cinque anni, proprio mentre l’èlite economica d’oltreoceano, come ha ricordato mercoledì lo stesso presidente, raddoppiava la propria quota di ricchezza in relazione a quella totale prodotta dal paese.

Queste dinamiche, come appare evidente, non sono il risultato di forze anonime ma di politiche messe in atto deliberatamente da una classe dirigente al completo servizio dell’aristocrazia economica e finanziaria. Se ciò non è responsabilità esclusiva dell’amministrazione Obama, dal momento che politiche economiche regressive vengono implementate da decenni, la tendenza verso l’allargamento del divario sociale e di reddito è stata senza dubbio aggravata in maniera drammatica dalle iniziative dell’attuale presidente democratico in seguito all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.

A contribuire alla creazione di un panorama caratterizzato da disuguaglianze sempre più marcate, come delineato da Obama, sono ad esempio misure a beneficio esclusivo dell’industria finanziaria come i pacchetti di “salvataggio” pari a centinaia di miliardi di dollari approvati sul finire dell’era Bush jr. e ampliati nei mesi successivi.  O, ancor più, la politica espansiva della Federal Reserve che continua a mantiene i tassi di interesse in prossimità dello zero e a immette sui mercati qualcosa come 85 miliardi di dollari ogni mese, alimentando la speculazione finanziaria e facendo schizzare verso l’alto gli indici di borsa.

Parallelamente, i profitti delle grandi aziende - come quelle automobilistiche, oggetto di una “ristrutturazione” gestita dal governo federale nel 2009 - sono stati favoriti dall’impoverimento di massa dei lavoratori attraverso licenziamenti e riduzione di stipendi, pensioni e benefit sanitari.

La stessa “riforma” del sistema sanitario, inoltre, al contrario della retorica ufficiale, serve e servirà in larghissima misura a ridurre i costi assicurativi per il settore pubblico e quello privato, facendo aumentare le contribuzioni a cui decine di milioni di americani dovranno provvedere di tasca propria per mantenere una qualche copertura.

L’amministrazione Obama è stata protagonista anche della liquidazione di un numero record di posti di lavoro tra i dipendenti pubblici in questi anni - oltre 600 mila - così come ha assistito spesso senza muovere un dito alla distruzione di programmi pubblici destinati alle classi più deboli e, come sta accadendo in questi mesi, alla soppressione dei fondi destinati ai buoni alimentari e ai sussidi straordinari di disoccupazione.

Solo di un paio di giorni fa è infine la notizia dell’approvazione da parte di un giudice fallimentare del procedimento di bancarotta della città di Detroit, presentato dalle autorità cittadine con il pieno appoggio dell’amministrazione Obama e che comporterà, tra l’altro, un taglio delle pensioni degli ex dipendenti pubblici e il conseguente ulteriore peggioramento delle loro condizioni di vita.

Anche tra coloro che hanno risposto positivamente al discorso di Obama, in ogni caso, in molti hanno sottolineato l’assenza di proposte concrete e praticabili quanto meno per limitare il dilagare delle disparità economiche negli USA.

Una delle poche misure indicate dal presidente consiste nell’aumento del salario minimo federale, oggi fissato alla cifra infima di 7,25 dollari l’ora. Dopo avere sostenuto la necessità di salire a 9 dollari l’ora, Obama ha recentemente appoggiato un disegno di legge proposto dal senatore Tom Harkin e dal deputato George Miller, entrambi democratici, che fisserebbe la paga minima oraria a 10,10 dollari l’ora.

Oltre alle difficoltà nel mandare in porto una simile iniziativa al Congresso, appare quanto meno ridicolo pensare che essa possa in qualche modo correggere il trend in corso. Infatti, uno stipendio minimo appena al di sopra dei dieci dollari l’ora sarebbe comunque, in termini reali, più basso di quanto risultava essere quarant’anni fa, senza riuscire nemmeno a far superare la già irrisoria soglia di povertà fissata dal governo federale per un nucleo familiare composto da tre persone.

di Michele Paris

Con una sentenza interamente politica e dalle chiarissime connotazioni di classe, un giudice fallimentare americano nella giornata di martedì ha stabilito la legittimità della procedura di bancarotta presentata da Detroit, dando di fatto il via libera all’assalto alle pensioni di decine di migliaia di ex dipendenti pubblici e alla liquidazione dei rimanenti beni cittadini. Quello della metropoli del Michigan è il fallimento municipale più importante della storia degli Stati Uniti ed è giunto dopo mesi di manovre dietro le quinte da parte di un’intera classe politica che è riuscita a creare un vero e proprio modello di comportamento per altre amministrazioni locali in difficoltà finanziarie, intenzionate a calpestare leggi e norme costituzionali per smantellare i benefici conquistati dai lavoratori con anni di sacrifici.

Il punto più critico e dalle conseguenze potenzialmente più disastrose del verdetto letto dal giudice federale Steven Rhodes stabilisce che, contrariamente a quanto fissato nella Costituzione statale del Michigan, la città di Detroit non ha alcun obbligo di mantenere i propri impegni finanziari nei confronti dei dipendenti municipali in pensione. Nel processo di fallimento, cioè, gli amministratori cittadini potranno ridurre drasticamente i benefit pensionistici già accumulati, così da poter rimborsare i creditori, in gran parte rappresentati da banche e istituti finanziari.

La decisione del giudice Rhodes istituisce un pericolosissimo precedente legale, grazie al quale le amministrazioni locali negli Stati Uniti potranno appellarsi alla legislazione fallimentare per cancellare le protezioni garantite alle pensioni dei lavoratori del settore pubblico. Per quanto riguarda Detroit, la bancarotta si tradurrà in sacrifici spesso devastanti per più di 23 mila persone.

Come ha spiegato un commento apparso mercoledì sul New York Times, questa sentenza avrà conseguenze “a Chicago, Los Angeles, Philadelphia e in molte altre città americane” alle prese con il peso crescente dei costi pensionistici. Per un avvocato di Chicago esperto in diritto fallimentare sentito sempre dal quotidiano newyorchese, infatti, “nessun tribunale fallimentare aveva finora deliberato che le pensioni dei dipendenti pubblici non debbano essere necessariamente protette da un procedimento federale di bancarotta”, così che la sentenza del giudice Rhodes risulterà “istruttiva” per molti.

L’opzione del fallimento per una delle città in passato più floride e produttive degli Stati Uniti è stata perseguita con determinazione da mesi dal commissario straordinario di Detroit, l’avvocato  di Wall Street vicino agli ambienti del Partito Democratico, Kevyn Orr. Nominato lo scorso mese di marzo dal governatore repubblicano del Michigan, Rick Snyder, quest’ultimo dopo la sentenza di martedì ha subito minacciato che ci saranno “decisioni molto difficili da prendere in merito alle pensioni”. Entro i primi giorni dell’anno, Orr presenterà un “piano di aggiustamento” per pagare una parte dei 18 miliardi di dollari di debiti che gravano su Detroit.

Nei prossimi mesi, perciò, oltre a condurre un attacco frontale contro le pensioni pubbliche, il commissario non eletto di Detroit procederà alla svendita di beni e aziende della città, compresi probabilmente i capolavori dell’arte conservati nel Detroit Institute of Art (DIA). Questa collezione è una delle più importanti a livello municipale degli Stati Uniti e conserva opere, tra gli altri, di Bruegel, Caravaggio, Cézanne, Picasso, Renoir e Van Gogh, nonché lo straordinario ciclo di affreschi murali di Diego Rivera che documentano la storia della classe operaia a Detroit.

Da tempo, Orr ha incaricato la casa d’aste Christie’s di stimare il valore delle opere del DIA in vista di una possibile svendita che andrebbe a beneficio di alcuni esponenti dell’aristocrazia parassitaria statunitense, mentre un importante sindacato nelle scorse settimane si era unito ai creditori della città nel chiedere ogni sforzo per ricavare il massimo dai capolavori d’arte, definiti apertamente come servizi “non essenziali” per la popolazione di Detroit.

Nel decretare la legittimità del procedimento di bancarotta, il giudice Rhodes ha inoltre respinto la tesi di coloro che sostenevano, con piena ragione, che la richiesta di fallimento fosse stata avanzata in “cattiva fede” e a seguito di consultazioni segrete tra il commissario straordinario Orr, il governatore Snyder e altri esponenti politici locali e dell’industria finanziaria.

Una serie di rivelazioni nei mesi scorsi aveva messo in luce come questi ultimi avessero di fatto congiurato dietro le spalle degli abitanti di Detroit per giungere ad un procedimento fallimentare, considerato come la via più breve per “ristrutturare” pensioni, assicurazioni mediche e servizi pubblici che molto difficilmente avrebbero potuto essere toccati attraverso la strada del negoziato con le organizzazioni sindacali o perché protetti dalla Costituzione dello stato.

Proprio questa strategia, d’altra parte, è stata ratificata dal giudice Rhodes martedì, quando, pur riconoscendo che il commissario Orr non aveva effettivamente provato a trattare con i creditori per evitare la bancarotta della città come prevede la legge, ha stabilito che la strada dei negoziati era “impraticabile”, visto che le parti coinvolte erano più di 100 mila e Detroit si trovava ormai in una situazione finanziaria disperata.

Il baratro in cui si troverebbe Detroit, oltre ad essere stato ingigantito da Orr e dagli altri principali esponenti politici locali, non è però in nessun modo il risultato di una “dipendenza da debito” o dell’elargizione di benefici “insostenibili” o “eccessivamente generosi” ai dipendenti della città nel corso degli anni. Come ha dimostrato un recente studio del think tank Demos, infatti, la crisi finanziaria della città del Michigan è dovuta in gran parte a prestiti-truffa estorti da compagnie finanziarie senza scrupoli e ad altri strumenti sottoscritti con svariate banche e creditori che ora finiranno per beneficiare maggiormente del procedimento fallimentare.

Più in generale, la ricerca ha messo in luce come la crisi finanziaria sia il risultato del “declino delle entrate cittadine durante il processo di de-industrializzazione” patito da Detroit negli ultimi decenni, ma anche “della disoccupazione di massa, dell’aumento della povertà e dei benefici fiscali assicurati alle corporations” che ne sono conseguiti.

“Contrariamente a quanto si crede”, continua poi il documento di Demos, “Detroit non ha un problema di spesa eccessiva”, dal momento che dall’inizio della recessione nel 2008 “le uscite complessive della città sono scese di 356,3 milioni di dollari”, mentre “a salire vertiginosamente sono stati i costi finanziari”.

A tutto ciò vanno aggiunti i tagli colossali dei fondi tradizionalmente trasferiti alle municipalità del Michigan dallo stato stesso e che ammontano, solo negli ultimi anni sotto la responsabilità del governatore Snyder e del suo predecessore, la democratica Jennifer Granholm, a più di 700 milioni di dollari per la sola città di Detroit.

La sorte di Detroit e dei suoi abitanti, perciò, è stata segnata questa settimana da una decisione puramente politica che, andando contro la legalità e l’evidenza dei fatti, assegna alla classe dirigente americana un altro strumento formidabile per procedere nella drammatica ristrutturazione dei rapporti di classe negli Stati Uniti, dopo che da tempo i procedimenti di bancarotta vengono usati dalle grandi compagnie private per ottenere una riduzione dei costi tramite il peggioramento delle condizioni economiche e di lavoro dei propri dipendenti.

Il fallimento di Detroit e la nuova devastazione sociale prescritta ad una città che ha perso metà della propria popolazione negli ultimi cinquant’anni darà così il via ad un inevitabile effetto domino in tutto il paese. Significativamente, solo alcune ore dopo la sentenza del giudice Rhodes, il parlamento locale del vicino Illinois ha approvato un pacchetto di tagli al sistema pensionistico statale, anche in questo caso calpestando le garanzie previste dalla Costituzione.

Molte altre città americane, infine, hanno già annunciato di essere pronte a seguire l’esempio di Detroit, a cominciare dalla californiana Stockton - la città più grande degli USA a presentare istanza di fallimento prima della metropoli del Michigan - dove fino a martedì il piano di ristrutturazione delle autorità locali aveva lasciato inalterate le pensioni dei dipendenti pubblici, i quali ora si troveranno invece esposti a nuovi pesanti attacchi alle loro condizioni di vita.

di Mario Lombardo

Le manifestazioni organizzate dall’opposizione ucraina con il sostegno dei governi occidentali per protestare contro la mancata firma dell’accordo di associazione con l’Unione Europea da parte del presidente, Viktor Yanukovich, continuano ad essere descritte sui principali media come una possibile nuova “rivoluzione democratica” nel paese dell’est europeo, già teatro nel recente passato di una delle cosiddette “rivoluzioni colorate” ugualmente orchestrate da Washington e Bruxelles.

Come è ormai noto, Yanukovich era stato protagonista di un clamoroso voltafaccia nei confronti dell’UE, declinando di firmare un accordo di partnership frutto di anni di trattative e impegnandosi invece a fare entrare il proprio paese in un’unione doganale promossa dalla Russia e di cui per ora fanno parte Kazakistan e Bielorussia. La rottura ufficiale tra Kiev e Bruxelles si era consumata nel corso della conferenza per il Partenariato Orientale tenuta settimana scorsa a Vilnius, in Lituania, dove l’Unione Europea ha alla fine potuto accogliere soltanto Moldavia e Georgia, incassando invece il rifiuto di Armenia e, appunto, Ucraina.

Contro il presidente Yanukovich si sono immediatamente scatenate una serie di dichiarazioni di condanna, con la cancelliera tedesca Angela Merkel in prima fila ad esprimere pubblicamente il proprio disappunto per la scelta di Kiev. Il Dipartimento di Stato americano ha poi a sua volta condannato fermamente la repressione delle proteste nelle piazze dell’Ucraina, invitando i leader di questo paese a rispettare la libertà di espressione e consigliando loro “l’integrazione europea” come “il percorso migliore verso la crescita economica”.

In maniera estremamente insolita, anche un politico polacco di spicco, il leader del più importante partito dell’opposizione a Varsavia, l’ex primo ministro Jaroslav Kaczynski, nei giorni scorsi aveva preso parte ad alcune manifestazioni anti-governative a Kiev.

Oltre alla contraddizione insita in consigli che promuovono un modello, come quello europeo, che sta causando soltanto sofferenze e devastazione sociale, appare opportuno sottolineare come lo stesso zelo dei burocrati di Bruxelles e dei leader politici occidentali nel rispondere in maniera sdegnata alla repressione delle manifestazioni in Ucraina non è mai stato mostrato nei mesi scorsi in relazione ai ripetuti interventi delle forze dell’ordine per contrastare, ad esempio, le proteste dei cittadini greci o spagnoli contro le rovinose politiche di austerity imposte proprio dall’UE e dagli ambienti finanziari internazionali.

La nuova presunta “rivoluzione” ucraina, in ogni caso, ha ben poco a che fare con democrazia o libertà di espressione, dal momento che gli eventi di questi giorni sono legati pressoché esclusivamente allo scontro tra Occidente e Russia per il controllo di paesi dell’Europa orientale come l’Ucraina, nonché agli interessi divergenti della ristretta classe di oligarchi che detiene il potere economico in quest’ultimo paese.

Queste dinamiche non sono d’altra parte nuove, visto che la cosiddetta “Rivoluzione Arancione” del 2004 in Ucraina fu alimentata proprio da Washington con l’impegno finanziario di agenzie come USAID (United States Agency for International Development) per promuovere gli interessi americani a discapito di quelli russi. In quell’occasione, le proteste di piazza portarono alla ripetizione delle elezioni presidenziali vinte da Yanukovich. Nella nuova tornata elettorale ad affermarsi fu uno dei leader dell’opposizione, Viktor Yushchenko, il quale nominò a capo del governo Yulia Tymoshenko, la cui liberazione dal carcere in seguito ad una condanna per abuso di potere è stata a lungo al centro delle richieste europee in cambio dell’accordo con Kiev.

Il governo appoggiato dall’Occidente dopo la “Rivoluzione Arancione” si sarebbe ben presto dimostrato incapace di mettere in atto le promesse di cambiamento nel paese, facendo crollare miseramente le illusioni democratiche che erano state alimentate da una possibile maggiore integrazione europea e dall’avvicinamento agli Stati Uniti. Nel 2010, così, lo stesso Yanukovich riuscì a riconquistare la presidenza dell’Ucraina con relativa facilità.

Il suo nuovo mandato alla guida del paese aveva inizialmente spinto gli osservatori a prevedere un riallineamento a Mosca, anche se il dialogo con Bruxelles è rimasto sempre aperto fino al raggiungimento dell’accordo con l’Unione Europea respinto pochi giorni fa. Se il Partito delle Regioni di Yanukovich ha la propria base elettorale nelle regioni orientali del paese maggiormente legate culturalmente ed economicamente alla Russia, l’opzione europea era stata tenuta in vita dalle pressioni degli oligarchi ucraini che intravedevano una serie di vantaggi anche dall’integrazione con Bruxelles.

In definitiva, però, la decisione di Kiev a favore di Mosca è giunta non tanto a causa delle minacce economiche del Cremlino ma per evitare la prospettiva della rovina sociale ed economica che avrebbe comportato per l’Ucraina un’eventuale partnership con l’Unione Europea.

La firma di Yanukovich a Vilnius avrebbe infatti implicato una serie di “riforme” e misure che avrebbero sostanzialmente peggiorato gli standard di vita della maggior parte della popolazione ucraina, ma anche richiesto ingenti investimenti alle aziende locali per rimanere competitive con quelle occidentali, a fronte di modesti aiuti finanziari provenienti da Bruxelles.

Inoltre, come aveva chiaramente fatto intendere qualche mese fa il presidente della Commissione Europea Barroso, l’accordo con l’UE avrebbe significato l’impossibilità per l’Ucraina di mantenere le tariffe doganali privilegiate in vigore per gli scambi commerciali con la Russia e, con ogni probabilità, la fine dei prezzi di favore delle forniture di gas provenienti dal vicino orientale se non addirittura le forniture stesse.

Per Kiev, dunque, l’abbraccio con Bruxelles avrebbe potuto tradursi in un suicidio economico, mentre Yanukovich sarebbe andato incontro a sua volta ad un suicidio politico in vista delle elezioni presidenziali del marzo 2015.

Per quanto riguarda i governi occidentali, invece, il loro intervento a favore dell’opposizione e delle proteste di piazza in Ucraina è dovuto a ragioni strategiche ancor prima che economiche. Con un vastissimo territorio situato in posizione strategica tra l’Europa, il Caucaso e il Mar Nero, l’Ucraina è da sempre un paese nelle mire di Mosca e, per Washington e Bruxelles, strapparlo al Cremlino si sarebbe tradotto in un importante ridimensionamento delle aspirazioni russe nella regione eurasiatica.

Dietro la spinta delle proteste, in ogni caso, Yanukovich questa settimana è sembrato lasciare aperta la porta ad una ripresa dei negoziati con l’Unione Europea, anche se la risposta di Bruxelles è stata finora piuttosto tiepida. Allo stesso tempo, il presidente ucraino in un’intervista televisiva prima di partire per una visita ufficiale in Cina ha difeso la propria decisione di non firmare l’accordo di partnership con l’UE, ribadendo le motivazioni di natura economica che lo hanno spinto a privilegiare la Russia.

Il tentativo di dare la spallata al governo di Kiev da parte dell’opposizione è passato poi nella giornata di martedì anche dal parlamento ucraino, dove è stata votata una mozione di sfiducia contro il governo. L’iniziativa ha ricevuto però molti meno voti dei 226 necessari per far cadere il governo del premier Mykola Azarov, il quale lunedì aveva messo in guardia dalla presenza nel paese di “tutti i segnali di un colpo di stato”.

La natura della stessa opposizione politica che guida le proteste nel paese, infine, contribuisce ad escludere che in Ucraina sia in corso una rivoluzione democratica. Ad animare le manifestazioni di piazza sono infatti i leader dei partiti UDAR dell’ex campione di boxe Vitali Klitschko, Unione Pan-Ucraina “Patria” della Tymoshenko e “Svoboda” del controverso Oleg Tyahnybok.

Mentre il primo si ispira ad un vago populismo, il secondo fa parte come osservatore del Partito Popolare Europeo e mantiene rapporti molto stretti con la CDU tedesca, la cui leader - Angela Merkel - è la prima responsabile dei programmi semi-dittatoriali di austerity imposti a svariati paesi europei.

“Svoboda” o “Libertà”, invece, è un movimento ultranazionalista di estrema destra apertamente xenofobo e anti-semita, nonché affiliato - anch’esso come osservatore - all’Alleanza Europea dei Movimenti Nazionalisti di cui fanno parte, tra gli altri, il Fronte Nazionale francese e il famigerato partito neo-nazista ungherese Jobbik. Bella compagnia..

di Michele Paris

Con il paese sull’orlo di una nuova grave crisi, il primo ministro thailandese, Yingluck Shinawatra, ha parlato in diretta televisiva per ribadire la disponibilità del suo governo ad una soluzione negoziata che metta fine alle proteste di piazza che da alcuni giorni stanno paralizzando il centro di Bangkok. La sorella dell’ex premier in esilio, Thaksin Shinawatra, ha però respinto decisamente una richiesta chiave dell’opposizione - le sue dimissioni e l’assegnazione del potere di scegliere il prossimo capo dell’esecutivo ad un “Consiglio Popolare” non elettivo - bollandola come incostituzionale.

Il leader dei manifestanti, l’ex parlamentare del Partito Democratico all’opposizione e già vice primo ministro, Suthep Thaugsuban, aveva incontrato Yingluck nella notte di domenica senza trovare un accordo per fare rientrare le proteste. Suthep si era dimesso da deputato lo scorso 11 novembre per guidare le manifestazioni contro il governo, esplose dopo il fallito tentativo da parte di quest’ultimo di modificare la Costituzione thailandese e, in precedenza, di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito il ritorno in patria di Thaksin nonostante la condanna a suo carico per corruzione.

Queste iniziative del governo sono state sfruttate dall’opposizione per portare in piazza alcune decine di migliaia di propri sostenitori - in gran parte facenti parte della borghesia di Bangkok e provenienti dal sud della Thailandia - così da far cadere il governo, considerato da molti una sorta di fantoccio manovrato dall’estero dall’ex premier Thaksin.

In ogni caso, dopo il faccia a faccia con la premier alla presenza dei vertici delle Forze Armate, Suthep, sul quale grava un mandato di arresto, ha dichiarato che non ci saranno altri negoziati né compromessi. L’opposizione, secondo Suthep, non si accontenterà delle dimissioni di Yingluck e del suo governo entro martedì ma pretende la creazione di uno speciale “Consiglio” che decida l’immediato futuro politico del paese del sud-est asiatico.

Questa richiesta da parte dell’opposizione nasconde il tentativo di dare alle proteste in corso una facciata di legittimità popolare, mentre la sua attuazione non sarebbe altro che un nuovo colpo di stato contro il partito vicino all’ex premier Thaksin, preparato negli ambienti reali, militari e della potente burocrazia statale, i cui esponenti dovrebbero con ogni probabilità entrare a far parte del “Consiglio Popolare” deputato alla scelta del prossimo governo.

Lo stesso Thaksin era stato deposto da un golpe militare nel 2006, mentre due anni più tardi un altro colpo di mano dell’establishment tradizionale thailandese - questa volta con una sentenza giudiziaria - avrebbe messo fuori legge il nuovo partito formato dai sostenitori dell’ex premier e protagonista di una netta affermazione elettorale, installando di lì a poco a capo di un nuovo governo il leader del Partito Democratico, Abhisit Vejjajiva.

Come già anticipato, lunedì la premier Yingluck ha tenuto un discorso di 12 minuti alla nazione per dire che la richiesta di Suthep creerebbe uno scenario non contemplato dalla Costituzione. Cionondimeno, il capo del governo si è detto disponibile ad “aprire ogni porta” per risolvere col negoziato la crisi in corso.

Nei giorni scorsi, la stessa premier aveva escluso un possibile intervento delle forze di polizia per mettere fine alle proteste che avevano portato anche all’occupazione di alcuni ministeri. L’intensificarsi dello scontro politico si è però tradotto nel fine settimana in un confronto più duro tra polizia e manifestanti, i quali lunedì hanno denunciato l’uso eccessivo di proiettili di gomma e gas lacrimogeni. Gli scontri hanno anche fatto registrare le prime vittime di questo nuovo round di proteste in Thailandia, con almeno tre morti e oltre cento feriti.

Ad aggravare la situazione è stato poi l’intervento dei sostenitori del governo - le cosiddette “Camicie Rosse” - organizzati nel “Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura” (UDD). Questi ultimi sono anch’essi accampati da qualche giorno a Bangkok e avevano finora evitato qualsiasi scontro con i contestatori dell’opposizione, ma nel fine settimana, al termine di una manifestazione pro-Yingluck tenuta in uno stadio della capitale, le due fazioni sono venute in contatto.

Con l’aumentare delle tensioni, secondo alcuni giornali, altre migliaia di affiliati alle “Camice Rosse” starebbero per giungere a Bangkok dalle aree rurali nel nord del paese, dove il partito attualmente al potere trova la propria base elettorale, così che la crisi potrebbe precipitare ulteriormente con esiti tutt’altro che graditi per gli stessi vertici dell’UDD e del governo.

Nelle strade, d’altra parte, per la prima volta dalla durissima repressione delle proteste pro-Thaksin nel 2010 che fece più di 90 morti, sono apparsi alcuni contingenti di militari, ufficialmente per proteggere gli uffici governativi presi di mira dai manifestanti. La mobilitazione delle Forze Armate, come accadde nel 2006, potrebbe facilmente portare ad un nuovo intervento nell’ambito politico per rimuovere il governo di Yingluck sull’onda delle proteste di piazza. Per il momento, tuttavia, i comandanti militari hanno assicurato di non avere intenzione di schierarsi a fianco di nessuna delle due parti in lotta.

All’origine degli eventi a cui si sta assistendo in Thailandia ci sono in definitiva le divisioni non risolte all’interno dell’élite politica ed economica di questo paese, esplose dopo i tentativi di Thaksin Shinawatra di mettere in discussione i tradizionali centri di potere e di coltivare una propria base elettorale tra i ceti più disagiati con un programma di limitate riforme sociali.

Di fronte all’inaspettata intraprendenza delle classi solitamente escluse dalle decisioni politiche prese a Bangkok, alla vigilia del voto del 2011 il partito di Yingluck e Thaksin Shinawatra - Pheu Thai - aveva siglato un tacito accordo con i vertici militari e la monarchia thailandese per consentire la nascita del governo Yingluck e mantenere le aspettative di cambiamento all’interno del sistema.

In cambio, il nuovo esecutivo si era impegnato a non interferire nelle questioni militari e reali, ma i tentativi di riportare in patria Thaksin e cambiare la Costituzione approvata dai militari stessi nel 2007, assieme ad un rapido deteriorarsi delle condizioni economiche e ad alcune misure del governo poco gradite all’opposizione, hanno fatto riesplodere in tutta la sua gravità il conflitto che attraversa da anni questo paese.

Ma è l’intera Asia orientale - oltre alla Thailandia - che continua ad occupare le cronache internazionali di questi giorni, anche per le crescenti tensioni tra Cina da una parte e Giappone e Stati Uniti dall’altra dopo che Pechino ha annunciato la creazione di una “zona di identificazione per la difesa aerea” (ADIZ) nel Mar Cinese Orientale.

In risposta a questa iniziativa, Washington la settimana scorsa aveva provocatoriamente fatto sorvolare l’area in questione a due bombardieri nucleari B-52, mentre sia il Giappone che la Corea del Sud avevano espresso il proprio malcontento continuando a pattugliare con aerei militari l’ADIZ cinese senza inviare alcuna notifica alle autorità di Pechino.

Sebbene la Cina abbia finora evitato di prendere le misure teoricamente previste dall’implementazione della “zona di identificazione” - un’area immediatamente al di fuori dello spazio aereo di un determinato paese e all’interno della quale gli aerei che volano sono tenuti a comunicare ad esso informazioni in merito a rotta, destinazione o qualsiasi altro dettaglio richiesto - l’escalation di provocazioni ha fatto aumentare sensibilmente il rischio di scontri non voluti. Anche per cercare di allentare le tensioni, perciò, il vice-presidente americano Joe Biden ha iniziato lunedì una trasferta in Estremo Oriente che lo porterà dapprima a Tokyo, poi a Pechino e a Seoul.

Soprattutto, il vice di Obama dovrebbe riaffermare l’impegno di Washington in quest’area del globo per isolare la Cina dopo i danni provocati alla credibilità statunitense dalla mancata apparizione dello stesso presidente nel mese di ottobre, quando decise di cancellare una trasferta asiatica programmata da tempo per risolvere la questione dello “shutdown” del governo federale.

Come già fatto da vari membri del suo gabinetto nei giorni scorsi, Biden ribadirà il sostegno degli USA al Giappone nell’ambito della disputa territoriale attorno alle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, amministrate da Tokyo e rivendicate da Pechino.

Il vice-presidente americano dovrebbe poi avere parole di condanna nei confronti dell’ADIZ cinese, in una prova di forza a favore dell’alleato nipponico che, secondo alcuni osservatori, dovrebbe inserirsi nei negoziati sul trattato di libero scambio trans-pacifico (TPP), fortemente voluto da Washington ma visto con sospetto da svariate sezioni del business giapponese.

L’alta tensione nel Mar Cinese Orientale è comunque il frutto di quanto gli stessi Stati Uniti hanno seminato in seguito all’annunciata “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama, ideata per contenere la crescita dell’influenza cinese nell’area Asia-Pacifico e destinata fin dall’inizio ad alimentare pericolosi sentimenti militaristi e nazionalisti tra i propri alleati, a cominciare dal Giappone.

Tokyo, infatti, ha risposto finora più duramente di Washington e Seoul alla decisione cinese di istituire una “zona di identificazione”, che il Giappone ha peraltro fissato da decenni. Il governo del premier di estrema destra, Shinzo Abe, si sarebbe addirittura lamentato privatamente per la reazione troppo tenera degli Stati Uniti, i quali, pur ignorando l’ADIZ di Pechino in relazione alle proprie operazioni militari, hanno però dato indicazioni alle compagnie aeree commerciali americane di adeguarsi alle richieste di Pechino.

Il tentativo degli USA di mantenere la supremazia in Asia Orientale a fronte dell’avanzata cinese, dunque, ha riaperto vecchie rivalità, scatenando forze centrifughe che rischiano di sfuggire di mano e a cui il vice-presidente Biden proverà a rimediare nel corso della delicatissima trasferta in corso.

di Michele Paris

La devastazione provocata dal tifone Haiyan nelle Filippine non ha soltanto scatenato una gara di solidarietà tra le popolazioni di molti paesi, ma ha anche consentito ad alcuni governi, interessati a sfruttare l’importanza strategica di questo paese-arcipelago del sud-est asiatico, di provare a rafforzare la propria presenza in un’area del globo contrassegnata da crescenti rivalità. In particolare, il Giappone sta sfruttando la crisi umanitaria nelle Filippine per stabilire una partnership militare con il governo di Manila, mentre gli Stati Uniti ne hanno approfittato per dare un impulso probabilmente decisivo alle trattative in corso da tempo per creare basi militari di fatto permanenti nel vicino meridionale della Cina.

Prima dell’arrivo ai primi di novembre del più potente tifone mai registrato sulla terraferma, i negoziati tra gli USA e il governo del presidente Benigno Aquino su un accordo bilaterale per consentire il posizionamento “a rotazione” di soldati americani nelle Filippine sembravano essersi arenati sulla definizione di alcuni dettagli e, soprattutto, in conseguenza dell’emergere di una certa opposizione interna ad una decisione strategica che rischia di complicare ulteriormente i rapporti già tesi con Pechino.

Due giorni prima che il tifone Haiyan colpisse le Filippine, lo stesso ministro della Difesa, Voltaire Gazmin, aveva riconosciuto pubblicamente lo stallo, affermando che Manila e Washington non erano riusciti ad accordarsi su alcuni punti del trattato, tra cui la responsabilità per il controllo delle nuove basi militari da assegnare agli USA.

Così, subito dopo il passaggio del tifone, il governo americano aveva inizialmente offerto appena 100 mila dollari in aiuti ad un paese in ginocchio. Il successivo 11 novembre, però, da Washington è giunto l’annuncio che il sostegno finanziario a Manila sarebbe salito a 20 milioni di dollari, da recapitare assieme a circa 13 mila soldati trasportati dal gruppo aeronavale di cui fa parte la colossale portaerei USS George Washington.

La successione dei fatti suggerisce dunque che gli Stati Uniti abbiano vincolato il loro impegno a favore delle vittime del tifone alla ripresa delle trattative per l’accordo sulla partnership strategica se non, addirittura, direttamente allo stazionamento delle proprie forze armate in territorio filippino.

A confermare il mutato atteggiamento anche del governo di Manila, il ministro degli Esteri, Alberto del Rosario, qualche giorno fa ha accolto una delegazione di parlamentari americani sottolineando l’importanza dell’accordo sulla presenza militare USA nel suo paese. Il numero uno della diplomazia filippina ha poi aggiunto che “l’assistenza umanitaria e il soccorso in caso di disastri” saranno una parte fondamentale dell’accordo stesso.

Quest’ultima osservazione rivela come le conseguenze del tifone Haiyan siano state utili anche al governo delle Filippine per superare le resistenze interne alla partnership con gli Stati Uniti, avendo fornito l’occasione per mascherare un accordo puramente strategico - e che ha in gran parte a che fare con la rivalità tra Washington e Pechino in Estremo Oriente - dietro la retorica umanitaria.

Meno preoccupato delle apparenze è apparso invece un membro della delegazione proveniente dal Congresso americano. Il deputato repubblicano dell’Arizona, Trent Franks, ha infatti spiegato come le forze armate di USA e Filippine debbano collaborare in maniera più stretta perché i due paesi “hanno in comune potenziali rivali formidabili”, con un chiaro riferimento alla Cina.

I negoziati sull’accordo bilaterale sembravano peraltro vicini alla loro conclusione già lo scorso mese di settembre, quando alcune rivelazioni sul suo contenuto erano apparse sulla stampa. Il trattato dovrebbe cioè prevedere una base di comando USA a Oyster Bay, sull’isola-provincia di Palawan, dove sorgeranno anche altre basi operative ed un sofisticato sistema radar diretto con ogni probabilità verso la Cina.

Gli americani dovrebbero anche tornare a Subic Bay, dove fino a poco più di due decenni fa mantenevano la più grande struttura militare a stelle strisce dell’area Asia-Pacifico, mentre, complessivamente, i soldati da stazionare nelle Filippine “a rotazione” saranno più di 4 mila.

La formula “a rotazione” in riferimento alla presenza militare americana che dovrebbe entrare nell’accordo ufficiale serve ad aggirare il divieto, previsto dalla Costituzione filippina, della creazione di basi militari straniere permanenti sul territorio di questo paese paese.

Anche se l’accordo bilaterale non è stato ancora firmato, i lavori per la costruzione di nuove basi sono comunque già iniziati nelle Filippine, ad esempio proprio a Oyster Bay, una località situata in posizione strategica perché affacciata sul Mar Cinese Meridionale a meno di 200 km dalle Isole Spratly, oggetto di un’aspra contesa territoriale tra Manila e Pechino.

Come già anticipato, gli Stati Uniti già disponevano nel recente passato di imponenti basi militari nella ex colonia asiatica, tra cui, oltre a Subic Bay, a nord di Manila, quella di Clark, sull’isola di Luzon. Queste basi vennero però abbandonate tra il 1991 e il 1992 dopo che il parlamento filippino negò il rinnovo delle concessioni a causa dell’impopolarità della presenza americana.

Il due paesi, i quali avevano siglato un trattato di mutua difesa nel 1951, avrebbero in ogni caso sottoscritto nel 1999 un accordo per consentire nuovamente una certa presenza militare americana nelle Filippine, anche se su base provvisoria.

In concomitanza con la “svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama per contenere l’espansionismo cinese, infine, Manila è diventata una pedina fondamentale di questa strategia, così che negli ultimi anni le forze navali statunitense hanno intensificato le loro apparizioni nei porti filippini. Secondo i dati delle autorità locali, ad esempio, a Subic Bay il numero degli attracchi di navi da guerra e sottomarini a stelle e strisce è passato da 51 nel 2010 a 72 soltanto nei primi sei mesi di quest’anno.

L’intensificarsi della cooperazione tra Stati Uniti e Filippine è coincisa anche con l’elezione nel 2010 di Benigno Aquino, protagonista del totale allineamento a Washington del suo paese dopo che la precedente presidente ora finita in disgrazia, Gloria Macapagal-Arroyo, pur mantenendo soprattutto inizialmente i tradizionali legami con gli Stati Uniti, aveva rafforzato in maniera sensibile le relazioni economiche con la Cina.


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