di Mario Lombardo

Dopo più di due mesi di scontro politico e proteste di piazza, la crisi che sta avvolgendo la Thailandia sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente nelle prossime settimane che dovrebbero portare al voto anticipato. Nel fine settimana, infatti, la decisione del principale partito di opposizione di boicottare le elezioni è stata seguita dalla più imponente manifestazione finora tenuta contro il governo per forzare le dimissioni immediate della premier, Yingluck Shinawatra, e spianare di fatto la strada ad un nuovo colpo di stato.

Una folla di centinaia di migliaia di persone si è riversata per le strade di Bangkok nella giornata di domenica, finendo per accerchiare l’abitazione privata della premier che si trovava però nel nord del paese dove ha invece ricevuto un’accoglienza trionfale.

Successivamente, i manifestanti organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC) hanno cercato di impedire ai membri di svariati partiti di registrare le loro candidature per il voto che la stessa Yingluck aveva indetto per il 2 febbraio prossimo. La decisione di sciogliere la camera bassa era giunta in seguito alle dimissioni di massa dei parlamentari del Partito Democratico di opposizione.

Alcuni esponenti del partito Pheu Thai di governo e di altri partiti sono però riusciti a raggiungere gli uffici della commissione elettorale e una stazione di polizia nella capitale, registrandosi con successo per apparire sulle schede elettorali. Secondo il Bangkok Post, al termine del primo giorno utile per la registrazione, solo 9 dei 34 partiti che parteciperanno al voto hanno potuto registrare alcuni dei loro candidati. Lunedì, poi, i vertici del Pheu Thai hanno come previsto ribadito la fiducia nell’attuale primo ministro, confermando la sua candidatura anche per la guida del prossimo governo.

Il Partito Democratico, nonostante le divisioni interne circa la strategia da seguire, ha deciso invece di non prendere parte al voto e di continuare ad appoggiare le proteste contro il governo, rischiando però di infiammare ancora di più la situazione e di finire isolato politicamente dopo che il suo ultimo successo elettorale risale a oltre due decenni fa.

Uno dei principali leader della protesta, l’ex deputato del Partito Democratico e già vice-premier Suthep Thaugsuban, ha inoltre anch’egli gettato benzina sul fuoco nel fine settimana, promettendo di bloccare l’intero paese per impedire il voto e di “dare la caccia a Yingluck” finché non si dimetterà o, se non dovesse farlo, “fino alla sua morte”.

Suthep e il PDRC chiedono da tempo, oltre alle dimissioni immediate del gabinetto Yingluck, la creazione di un “consiglio del popolo” non eletto che nomini un nuovo governo e proceda con una serie di “riforme” per eliminare l’influenza del clan Shinawatra in Thailandia. L’attuale premier, come è noto, è la sorella dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, da anni in esilio volontario dopo una condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, a suo dire motivata politicamente.

L’opposizione del Partito Democratico, gli ambienti reali e militari vedono con estremo sospetto la macchina politica costruita attorno a Thaksin, in grado da oltre un decennio di mettere in discussione i tradizionali centri di potere thailandesi grazie alla creazione di una base elettorale nelle aree rurali più povere ed emarginate nel nord del paese attraverso modeste politiche di riforma sociale.

L’impossibilità di combattere all’interno delle regole elettorali la famiglia Shinawatra e i suoi sostenitori organizzati nel Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura ha così spinto l’opposizione politica e di piazza a promuovere una soluzione autoritaria che rimetterebbe le sorti del paese nelle mani dei militari e della monarchia. Ciò è d’altra parte già accaduto svariate volte negli ultimi decenni e, più recentemente, nel 2006 e nel 2008, quando due golpe, rispettivamente condotto dai militari e dal potere guidiziario, rimossero il governo di Thaksin e un altro guidato dai suoi sostenitori.

Dopo i fatti del 2010, quando manifestazioni di protesta a Bangkok animate questa volta dalle “camicie rosse” pro-Thaksin vennero represse nel sangue dal governo del Partito Democratico insediatosi grazie al golpe del 2008, c’è oggi molta apprensione per le conseguenze di un nuovo colpo di stato in Thailandia. Tanto più che gli stessi sostenitori del governo continuano a dirsi pronti ad intervenire per impedire un colpo di mano dei militari e degli ambienti monarchici.

Lo stesso governo sembra temere che la situazione possa sfuggire di mano nel caso l’opposizione dovesse forzare la mano ai militari, tanto che la premier nei giorni scorsi ha risposto al boicottaggio del Partito Democratico con una propria proposta per risolvere la crisi. Yingluck ha cioè ipotizzato la creazione di un “consiglio per la riforma” dopo le elezioni di febbraio. Anche questo organo sarebbe non elettivo e dovrebbe però comprendere esponenti di tutte le parti politiche e della società civile.

Il successo dei manifestanti anti-Thaksin, in ogni caso, dipenderà quasi certamente dalla posizione che decideranno di assumere le forze armate thailandesi. I vertici di queste ultime negano di avere chiesto alla premier Yingluck di fare un passo indietro e, per il momento, continuano ad appoggiare ufficialmente la soluzione elettorale che, tuttavia, difficilmente riuscirà a risolvere le profonde divisioni che attraversano il paese del sud-est asiatico.

di Michele Paris

Solo poche ore dopo le rassicurazioni pubbliche del presidente Obama circa il rispetto da parte del governo americano delle norme sulla privacy e delle libertà civili, nel fine settimana tre giornali negli Stati Uniti e in Europa hanno pubblicato una serie di nuovi documenti riservati dell’NSA che hanno contribuito ulteriormente a chiarire la pervasività e le ragioni dei programmi di sorveglianza in tutto il pianeta.

L’inquilino della Casa Bianca si è impegnato nell’ennesimo tentativo di nascondere la realtà mostrata dalle rivelazioni di Edward Snowden, cercando di dare rassicurazioni sulla legittimità delle operazioni dell’NSA e di motivarle ancora una volta con la necessità di proteggere gli americani da un nuovo 11 settembre.

Quest’ultima pretesa era stata clamorosamente smentita nei giorni scorsi dalla sentenza di un giudice federale del District of Columbia che, dopo avere bollato come incostituzionali i programmi di sorveglianza telefonica dell’NSA, aveva spiegato che il governo non ha mai presentato alcuna prova della loro efficacia nel prevenire un solo attentato terroristico.

Non solo, la stessa commissione speciale nominata dal presidente per raccomandare una serie di proposte di “riforma” dell’NSA, nel presentare le proprie conclusioni qualche giorno fa ha sostenuto eufemisticamente che le informazioni raccolte su centinaia di milioni di persone negli USA e all’estero non sono risultate “essenziali per prevenire attacchi”. Nel corso della conferenza stampa di venerdì, infine, anche Obama non è stato in grado di citare un solo attentato sventato grazie alle intercettazioni di massa.

A confermare che l’apparato spionistico, costruito dal governo degli Stati Uniti e dai suoi principali alleati per controllare le popolazioni di tutto il mondo, non ha dunque praticamente nulla a che vedere con la lotta al terrorismo ha contribuito la pubblicazione nella serata di venerdì di nuovi documenti forniti da Snowden sul New York Times, il britannico Guardian e il tedesco Der Spiegel.

In essi viene descritto come l’NSA e la sua corrispondente britannica GCHQ (General Communications Headquarters) abbiano tenuto sotto controllo tra il 2008 e il 2011 non solo una serie di personalità politiche di paesi spesso alleati - come era emerso in precedenza per Angela Merkel e la presidente brasiliana Dijlma Rousseff - e organizzazioni umanitarie ma anche e soprattutto i vertici di grandi aziende straniere.

Oltre all’ufficio dell’ex premier israeliano, Ehud Olmert, e dell’ex ministro della Difesa di Tel Aviv, Ehud Barak, tra gli obiettivi dell’intelligence statunitense c’è stato l’ex ministro socialista spagnolo Joaquín Almunia, il quale nel ruolo di commissario europero per la concorrenza è stato protagonista di procedimenti anti-trust ai danni di importanti corporations americane, come Microsoft, Intel e Google.

Nel settore privato, alle precedenti rivelazioni relative alle intercettazioni ai danni del colosso petrolifero pubblico brasiliano Petrobras se ne sono aggiunte ora altre che riguardano le francesi Total e Thales. Quest’ultima è una compagnia parzialmente pubblica che fornisce sistemi elettronici, aerospaziali e militari a molti governi in tutto il mondo.

A fronte di queste rivelazioni, l’NSA ha nuovamente smentito l’evidenza, negando che l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, sia impegnata in operazioni di spionaggio industriale “a favore di compagnie americane per migliorare la loro competitività internazionale”.

Allo stesso tempo, però, una portavoce della stessa agenzia ha indirettamente ammesso proprio quanto aveva negato poco prima, affermando che “lo sforzo dell’intelligence per comprendere le politiche e i sistemi economici, così come per monitorare attività economiche anomale, risulta cruciale per garantire alla politica le informazioni necessarie per prendere decisioni nell’interesse della nostra sicurezza nazionale”.

In altre parole, l’NSA non è altro che lo strumento della partnership tra la politica di Washington e le grandi corporation americane per promuovere gli interessi e i profitti di queste ultime su scala planetaria. Nei mesi scorsi, d’altra parte, alcune rivelazioni di Snowden avevano confermato come le principali compagnie di telecomunicazioni e di servizi internet negli USA avessero collaborato senza troppi scrupoli, se non per la propria immagine pubblica, con la stessa NSA.

Questi ultimi documenti sembrano dunque chiudere il cerchio, contribuendo a delineare un sistema sempre più autoritario e anti-democratico, basato sugli interessi dell’oligarchia economica e finanziaria d’oltreoceano che, per tenere sotto controllo qualsiasi forma di opposizione interna ed esterna, ha bisogno di sorvegliare virtualmente tutta la popolazione del pianeta.

di Michele Paris

Senza nessuna particolare sorpresa, il Senato americano ha approvato definitivamente il nuovo bilancio federale che stabilisce i livelli di spesa del governo di Washington fino al settembre del 2015. Il pacchetto licenziato rapidamente dal Congresso è il risultato dei negoziati durati svariate settimane all’interno di una speciale commissione bipartisan creata dopo la fine del cosiddetto “shutdown” lo scorso mese di ottobre e rappresenta un’ulteriore tappa nel processo di drastico ridimensionamento dei livelli di spesa pubblica negli Stati Uniti.

La settimana scorsa la nuova legge sul bilancio era passata agevolmente alla Camera dei Rappresentanti con 332 voti favorevoli e 94 contrari. Martedì, poi, il Senato aveva dapprima superato un ostacolo procedurale (“filibuster”) con 7 voti in più del necessario (67 a 33), grazie ad una manciata di repubblicani che si erano uniti ai 55 democratici, mentre il giorno successivo ha votato sul provvedimento vero e proprio, approvandolo con un margine di 64 a 36 e inviandolo al presidente Obama per la firma.

La commissione del Congresso che ha raggiunto un accordo sulle nuove misure contenute nel bilancio è presieduta dai presidenti delle commissioni Bilancio di Camera e Senato, rispettivamente il repubblicano Paul Ryan e la democratica Patty Murray. Questa assemblea è stata il risultato dell’intesa temporanea raggiunta un paio di mesi fa per riaprire gli uffici governativi dopo lo “shutdown” di due settimane nella prima metà di ottobre, causato dalla mancata approvazione del bilancio entro l’inizio del nuovo anno fiscale.

Secondo i propositi iniziali e gli auspici della Casa Bianca, la commissione avrebbe dovuto mandare in porto un accordo di ampio respiro, gettando le basi per una “riforma” (smantellamento) dei programmi di assistenza pubblica come Medicare, Medicaid e Social Security, indicati da quasi tutto l’establishment politico di Washington come i principali responsabili dell’esplosione del debito pubblico statunitense.

Con l’avvio delle trattative, tuttavia, quest’ultimo obiettivo è apparso difficilmente raggiungibile, sia per i tempi molto stretti nei quali la commissione era chiamata ad operare, sia soprattutto per l’estrema impopolarità di eventuali tagli a programmi che garantiscono cure mediche e condizioni di vita decenti a decine di milioni di americani.

Alla fine, l’accordo trovato tra democratici e repubblicani ha dovuto lasciar fuori gli assalti a Medicare, Medicaid e Social Security, anche se le iniziative per rendere questi programmi “sostenibili” nel lungo periodo sono solo rimandate. Anzi, il bilancio appena approvato con un consenso bipartisan faciliterà il compito del Congresso nell’adottare tagli a cui si oppone la grande maggioranza della popolazione.

In ogni caso, relativamente al contenuto del pacchetto appena approvato, l’aspetto più significativo riguarda una misura che da esso è rimasta esclusa, vale a dire il prolungamento dei sussidi straordinari destinati ai disoccupati e che il Congresso aveva aggiunto fin dal 2009 a quelli di breve durata previsti dai singoli stati.

In seguito soprattutto alla ferma opposizione repubblicana, così, il prossimo 28 dicembre 1,3 milioni di disoccupati americani cesseranno di ricevere l’unico reddito a loro disposizione. Inoltre, se nei prossimi mesi non ci sarà un intervento del Congresso, altri 3,6 milioni di persone senza lavoro subiranno la stessa sorte entro la fine del 2014.

La decisione di negare i modesti mezzi di sussistenza a questa categoria di americani appare particolarmente brutale alla luce del fatto che mai dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi i sussidi addizionali del governo federale erano stati interrotti in presenza di una percentuale così elevata di disoccupazione di lungo periodo (oltre le 27 settimane).

Il disinteresse della classe politica d’oltreoceano per i senza lavoro risulta inoltre chiara dalla somma che sarebbe servita per prolungare i sussidi, pari a 25 miliardi di dollari e corrispondente, ad esempio, ad una frazione minima degli oltre 500 miliardi di dollari stanziati annualmente per le spese militari o a poco più di quanto la Federal Reserve destina in una singola settimana per alimentare la speculazione sui mercati finanziari.

Tra i provvedimenti adottati con il consenso delle principali lobby degli affari, invece, spicca la riduzione del 2% fino al 2023 dei rimborsi destinati agli ospedali che forniscono servizi sanitari nell’ambito del programma pubblico Medicare. Questa misura contribuirà a ridurre il deficit di 23 miliardi di dollari e, inevitabilmente, si tradurrà in una riduzione delle cure offerte ai pazienti.

Inoltre, a partire dal 1° gennaio i dipendenti pubblici vedranno aumentare dell’1,3% i contributi da versare di tasca propria ai loro piani pensionistici, dopo che negli ultimi anni hanno già dovuto subire, tra l’altro, il congelamento delle retribuzioni e svariati giorni di congedo obbligato non pagato.

Per i militari in pensione è previsto poi un nuovo metodo di calcolo per l’adeguamento dei loro assegni al costo della vita, con un risparmio per le casse federali pari a 6 miliardi di dollari. Altri 12,6 miliardi saranno infine recuperati attraverso un aumento della tassazione delle compagnie aeree, che verrà prevedibilmente scaricato sui passeggeri.

Più in generale, il nuovo bilancio cancella solo una piccola parte dei tagli automatici alla spesa pubblica (“sequester”) scattati alcuni mesi fa in assenza di un accordo tra democratici e repubblicani sul debito, come stabilito da una legge del 2011. A beneficiare della metà dei 63 miliardi di dollari che il governo tornerà così a poter spendere fino al 30 settembre 2015 saranno però i programmi militari, mentre gli altri tagli del “sequester” previsti per il prossimo decennio e pari a oltre mille miliardi di dollari rimarranno in vigore.

Anche se, complessivamente, le uscite del governo federale saliranno lievemente tra il 2014 e il 2015, appare evidente come il bilancio approvato questa settimana aggiunga un altro tassello al progressivo ridimensionamento dei livelli di spesa pubblica destinata alle classi più deboli negli Stati Uniti.

Questo processo è sostanzialmente condiviso da tutta la classe politica americana e si traduce in provvedimenti che, una volta creata ad arte un’utile atmosfera di crisi, vengono presentati come inevitabili per rimettere in sesto i conti pubblici, nonostante i profitti di banche e corporations e la ricchezza privata al vertice della piramide sociale continuino a far segnare numeri da record.

Prima del bilancio licenziato questa settimana senza il prolungamento dei sussidi di disoccupazione, ad esempio, il Congresso lo scorso mese di novembre aveva tagliato per la prima volta nella storia a livello nazionale i fondi destinati al finanziamento dei buoni pasto, togliendo letteralmente il pane di bocca a quasi 50 milioni di poveri americani.

di Michele Paris

Per la prima volta dall’inizio delle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi da stato di polizia dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), questa settimana un giudice federale ha sentenziato quello di cui tutti erano a conoscenza nonostante la propaganda del governo, cioè che la raccolta indiscriminata dei dati telefonici di centinaia di milioni di persone è indiscutibilmente una pratica illegale e contraria al dettato della Costituzione degli Stati Uniti.

Il parere del giudice Richard Leon del tribunale distrettuale federale del Distretto di Columbia, a Washington, è stato accompagnato da considerazioni pesantissime sulla condotta del governo in merito alla sorveglianza dei propri cittadini. Inoltre, il giudice nominato da George W. Bush alla vigilia dell’11 settembre 2001 ha ordinato la fine delle intercettazioni telefoniche ai danni dei querelanti e la distruzione dei dati finora raccolti su di essi dall’NSA. L’ingiunzione è stata però immediatamente sospesa, in attesa quanto meno di un sentenza d’appello che arriverà non prima di sei mesi.

Il caso in questione - “Klayman contro Obama” - era scaturito dalla denuncia di due attivisti conservatori, Larry Klayman, fondatore dell’organizzazione di tendenze libertarie Freedom Watch, e Charles Strange, padre di un “Navy Seal” ucciso durante una missione in Afghanistan. Basando la propria istanza sui documenti di Snowden, i due sono riusciti a convincere il giudice distrettuale dei loro requisiti legali per avviare un procedimento contro l’NSA. In precedenza, altri tribunali avevano respinto simili richieste affermando che, dal momento che l’NSA non rende pubblica l’identità delle persone intercettate, nessuno avrebbe la facoltà di citare l’agenzia in giudizio.

Per il giudice Leon, al contrario, i querelanti hanno questa facoltà, poiché è “altamente probabile” che le loro telefonate siano state intercettate come quelle di chiunque altro e finite nel “vasto archivio di metadati” telefonici dell’NSA, la cui esistenza è stata ammessa dal governo stesso.

Come già anticipato, l’amministrazione Obama è subito ricorsa in appello, così che il programma di intercettazioni potrà proseguire sia ai danni di coloro che hanno denunciato l’NSA in questo caso di fronte al tribunale del Distretto di Columbia sia, a maggior ragione, del resto degli americani e di virtualmente qualsiasi cittadino di qualsiasi paese del mondo. Al di là della sentenza di appello, la questione finirà per approdare con ogni probabilità alla Corte Suprema in un procedimento che potrebbe esaurirsi tra svariati anni.

Ciò che il più influente tribunale distrettuale degli Stati Uniti ha stabilito con la sentenza di lunedì rappresenta comunque uno schiaffo per il governo e l’NSA - ma anche per i media ufficiali e i membri del Congresso, tutti più o meno concordi nel giudicare sostanzialmente legittimi i programmi di sorveglianza nonostante gli “eccessi” - la cui flagrante violazione delle basilari norme democratiche americane è stata esposta pubblicamente e con toni insolitamente duri.

In 68 pagine, infatti, il giudice Leon ha affermato, tra l’altro, che non è possibile “immaginare un’invasione [della privacy] più indiscriminata e arbitraria di questa sistematica raccolta e archiviazione di informazioni personali riguardanti virtualmente ogni singolo cittadino… senza una preventiva autorizzazione giudiziaria”. Senza alcun dubbio, prosegue il testo della sentenza, il programma di intercettazioni dell’NSA “contravviene a quel livello di privacy che i [Padri] Fondatori hanno inteso garantire con il Quarto Emendamento [alla Costituzione]”.

Per questa ragione, ha poi aggiunto il giudice federale, è lecito ipotizzare che “l’autore della nostra Costituzione, James Madison, il quale ci ha messo in guardia dalla limitazione della libertà del popolo dovuta alle graduali e silenziose intrusioni di coloro che governano, resterebbe inorridito” di fronte allo scenario attuale.

Il rispetto del Quarto Emendamento - che garantisce contro arresti, perquisizioni e confische arbitrarie - non è nemmeno assicurato dalle delibere del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), l’organo chiamato ad autorizzare le richieste di intercettazione presentate dalle varie agenzie governative. Il FISC, infatti, si riunisce in segreto e all’insaputa degli individui interessati dai programmi dell’NSA, i cui rappresentanti legali, ovviamente, non presenziano alle sue sedute.

Come se non bastasse, il giudice Leon ha anche espresso “seri dubbi circa l’efficacia” del programma dell’NSA, visto che il governo non è stato in grado di citare “un solo caso nel quale la raccolta di massa di metadati telefonici abbia effettivamente impedito un attacco terroristico imminente”.

La sentenza ha inoltre respinto il presupposto legale sul quale il governo si è finora basato per giustificare il controllo delle comunicazioni elettroniche, cioè una decisione della Corte Suprema del 1979 (“Smith contro Maryland”) che aveva escluso i metadati telefonici dalle garanzie del Quarto Emendamento. I cosiddetti metadati includono i numeri telefonici digitati o la data e la durata delle conversazioni ma non il loro contenuto e, secondo il governo, in merito ad essi i cittadini non possono aspettarsi di essere protetti dal diritto alla privacy, visto che, ad esempio, queste informazioni sono a disposizione delle compagnie telefoniche.

Per il giudice Leon, invece, la sentenza del 1979 - che si riferiva al caso di un solo individuo intercettato dalle forze di polizia - non è applicabile alla situazione odierna relativa all’NSA, sia perché in ballo c’è la raccolta indiscriminata di dati appartenenti a centinaia di milioni di individui sia perché il ruolo che svolgono oggi i telefoni e, più in generale, la tecnologia, non è paragonabile a quello di oltre tre decenni fa.

Il verdetto emesso lunedì è stato accolto positivamente anche dallo stesso Snowden. L’ex contractor dell’NSA ha rilasciato una dichiarazione tramite il giornalista americano Glenn Greenwald, al quale erano stati consegnati i documenti riservati pubblicati nei mesi scorsi. Snowden ha ricordato come le sue azioni erano scaturite dalla “convinzione che i programmi di sorveglianza di massa dell’NSA non avrebbero potuto superare nessuna prova di costituzionalità e che gli americani meritavano una possibilità di vedere tali questioni approdare di fronte ad un tribunale pubblico”.

Se la sentenza di questa settimana è la conseguenza delle rivelazioni dei crimini dell’NSA da parte dello stesso Snowden, il governo e l’apparato della sicurezza nazionale americano continuano ad operare per mantenere in vita i programmi di sorveglianza appena dichiarati incostituzionali. Proprio lo scorso fine settimana, ad esempio, una speciale commissione nominata da Obama aveva anticipato le proprie raccomandazioni al presidente ufficialmente per “riformare” l’NSA ma, in realtà, per apportare solo alcune trascurabili modifiche esteriori alla condotta dell’agenzia e placare le critiche provenienti da più parti.

Sempre lunedì, poi, la Casa Bianca ha nuovamente respinto ogni ipotesi di amnistia per Edward Snowden, dopo che alcune voci all’interno del governo avevano suggerito una misura di clemenza in cambio della consegna di tutti i documenti ancora nelle mani dell’ex contractor costretto all’asilo in Russia.

Lo stesso giudice federale che ha condannato così severamente le violazioni della Costituzione del governo ha in definitiva subordinato la propria decisione di fermare la raccolta di informazioni personali da parte dell’NSA alle necessità dell’intelligence statunitense. Alcuni diritti democratici fondamentali, perciò, potrebbero in ultima analisi essere sacrificati, visti, a suo dire, “i significativi interessi relativi alla sicurezza nazionale che risultano in gioco”.

di Michele Paris

Nonostante l’impegno messo in atto dall’amministrazione Obama e le fortissime pressioni provenienti da Washington, il colossale e minaccioso trattato di libero scambio trans-pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP) fortemente voluto dagli Stati Uniti sta incontrando un’opposizione crescente non solo tra un’opinione pubblica che comincia solo ora a conoscere alcuni dei contenuti dell’accordo ma anche tra i governi che dovrebbero sottoscriverlo nelle prossime settimane.

La Casa Bianca aveva fissato la fine dell’anno come scadenza per l’approvazione del TPP ma le resistenze al Congresso e il mancato raggiungimento di un’intesa definitiva tra i paesi che ne dovrebbero far parte nel corso di un recente summit a Singapore hanno fatto allungare i tempi previsti.

I negoziati dovrebbero riprendere a gennaio, anche se il dibattito pubblico appena iniziato contro il volere del governo USA e delle parti che dovrebbero maggiormente beneficiarne - grandi banche e corporations, soprattutto americane - potrebbe complicare i piani di Obama di mandare in porto un trattato di ampio respiro dietro le spalle di centinaia di milioni di persone che, sulle due sponde del Pacifico, finiranno per pagarne interamente le conseguenze.

Il TPP era nato quasi un decennio fa come un progetto di trattato di libero scambio tra Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore, per poi allargarsi negli anni successivi ad altri otto paesi con i quali i primi quattro ne stanno appunto negoziando la versione definitiva (Stati Uniti, Canada, Messico, Perù, Australia, Giappone, Malaysia e Vietnam). Recentemente, anche Corea del Sud e Taiwan hanno manifestato il loro interesse a partecipare al trattato.

Se l’obiettivo ufficiale del TPP dovrebbe essere quello di creare una grande area di scambi commerciali priva di tariffe nazionali per dare un impulso alle economie dei paesi interessati, i veri scopi sono in realtà quelli di consegnare alle grandi compagnie trans-nazionali un altro strumento formidabile per superare qualsiasi autorità nell’ampliamento dei propri profitti e, per gli Stati Uniti, di provare a isolare Pechino rafforzando i legami commerciali con alcune delle principali economie asiatiche.

Il TPP, inoltre, in caso andasse a buon fine, servirebbe da modello per altri trattati simili - come quello in discussione tra USA e UE - destinati a smantellare le rimanenti protezioni contro lo strapotere del capitale privato.

Le questioni affrontate dal TPP, in ogni caso, vanno ben al di là degli scambi commerciali ed includono, tra l’altro, anche il delicato tema del diritto d’autore e della proprietà intellettuale. Quest’ultimo aspetto, assieme alle opinioni divergenti emerse nel corso dei negoziati tra i dodici paesi aderenti al trattato, era stato messo in luce lo scorso mese di novembre da alcuni documenti pubblicati da WikiLeaks.

Che all’organizzazione fondata da Julian Assange debba essere attribuito l’indubbio merito di avere rivelato una parte dei contenuti del TPP è dovuto al fatto che le trattative continuano a svolgersi in maniera segreta quasi unicamente tra i governi e i rappresentanti di banche e corporations, mentre le popolazioni e, spesso, gli stessi parlamenti nazionali ne sono tenuti all’oscuro.

Tra le misure previste sulla proprietà intellettuale, così, ce ne sono alcune che, ad esempio, garantirebbero alle grandi compagnie farmaceutiche una sorta di monopolio a lungo termine sui brevetti, limitando in maniera drastica la possibilità da parte dei governi di accedere ai medicinali generici.

Il TPP favorirebbe di fatto anche una sorta di censura del web, dal momento che, secondo le proposte di Stati Uniti e Australia, i provider di servizi internet dei vari paesi potrebbero essere costretti a bloccare o monitorare l’accesso alla rete su richiesta delle corporation in caso queste ultime dovessero individuare una violazione dei diritti d’autore sui propri prodotti.

Ugualmente inquietanti sono poi le disposizioni che permetterebbero alle multinazionali di avviare azioni legali contro leggi e regolamentazioni dei paesi in cui esse hanno investito e che in qualche modo minacciano i loro profitti. A sentenziare su tali casi non sarebbero i giudici di un determinato paese, bensì un organo internazionale che agirebbe al di fuori del sistema legale del paese stesso.

Come ha precisato l’economista Marc Weisbrot in un recente commento apparso sul Guardian, le corporation potranno denunciare direttamente i governi, come già è previsto attualmente dal Trattato di Libero Scambio Nord Americano (NAFTA) e al contrario invece delle norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), secondo le quali deve essere obbligatoriamente un governo terzo ad intentare una causa di questo genere.

Tra le altre disposizioni previste dal TPP, vanno ricordate anche quelle che richiedono la sostanziale distruzione dei monopoli pubblici nei paesi firmatari dell’accordo, nonché l’allentamento delle protezioni per i lavoratoti e delle misure di regolamentazione ambientale e del settore finanziario. Il tutto, ancora una volta, per garantire mano libera alle grandi aziende private che aumenteranno il loro impegno nei paesi coperti dal trattato.

Queste ed altre misure controverse stanno però creando non poche frizioni tra gli Stati Uniti - definiti da alcuni negoziatori come “inflessibili” nel promuovere quelle condizioni che porterebbero vantaggi enormi per le proprie corporations - e gli altri paesi aderenti al TPP.

Il Giappone, ad esempio, teme che la soppressione delle tariffe che applica sulle importazioni agricole possa mettere in crisi il proprio settore primario dove, oltretutto, il Partito Liberal Democratico al governo trova la sua principale base elettorale. Tokyo, infatti, nonostante l’insistenza americana, aveva deciso di partecipare ai negoziati per il TPP solo nel marzo di quest’anno, superando sia pure a stento le tradizionali preoccupazioni espresse dalla propria classe rurale nei confronti dei trattati di libero scambio.

La Malaysia e il Vietnam, a loro volta, non sembrano voler cedere sulle privatizzazioni, visto che le aziende pubbliche in entrambi i paesi svolgono un ruolo fondamentale nelle loro economie, rappresentando, rispettivamente, la metà della capitalizzazione di borsa e il 40 per cento del PIL nazionale. Quasi unica eccezione è invece l’Australia del neo premier conservatore Tony Abbott, il quale ha finora assecondato pressoché ogni condizione imposta da Washington.

Negli Stati Uniti, intanto, per evitare una sia pur minima discussione pubblica sul TPP e per limitare al massimo le fughe di notizie relative ai contenuti, l’amministrazione Obama ha chiesto al Congresso di mettere in atto una procedura definita “Fast Track”, la quale si usa da quasi quarant’anni per arrivare ad un’approvazione rapida e senza intoppi dei trattati commerciali negoziati dal governo e quasi sempre profondamente impopolari. Grazie a questo espediente, Camera e Senato sono chiamati ad approvare il trattato in questione senza possibilità di discutere emendamenti.

Tuttavia, alla luce della crescente opposizione popolare dopo le rivelazioni di WikiLeaks e di altre testate giornalistiche, ma anche del tradizionale scetticismo per questo genere di accordi dell’ala libertaria del Partito Repubblicano, la garanzia del “Fast Track” al Congresso appare oggi tutt’altro che scontata per la Casa Bianca.

Circa un mese fa, addirittura, 151 deputati democratici e 23 repubblicani avevano indirizzato una lettera ai negoziatori americani del TPP per manifestare la loro opposizione al “Fast Track” nel caso del TPP. Oltre alle ragioni di natura ideologica, molti parlamentari di entrambi gli schieramenti sono preoccupati per la più che probabile perdita di posti di lavoro nei loro distretti elettorali in seguito all’abbattimento delle tariffe doganali sui prodotti stranieri che entreranno negli USA dopo la firma del trattato.

Per il presidente Obama, perciò, sembra sempre più probabile il materializzarsi dell’incubo di una maggioranza trasversale alla Camera dei Rappresentanti tra democratici “liberal” e repubblicani vicini ai Tea Party, la quale potrebbe aprire un qualche dibattito sul TPP, portando a modifiche indesiderate se non addirittura all’arenarsi del trattato stesso, nonché, soprattutto, facendo finalmente conoscere agli americani e al resto del mondo le gravissime conseguenze che esso comporterebbe in caso di approvazione.


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