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di Michele Paris
La drammatica situazione nel lager statunitense di Guantánamo è tornata in questi giorni ad occupare le prime pagine dei giornali in seguito all’invito fatto da un giudice federale americano al presidente Obama per fermare il sistematico abuso dei diritti umani dei detenuti che da mesi stanno attuando uno sciopero della fame. Il parere del giudice distrettuale del District of Columbia, Gladys Kessler, è stato espresso nell’ambito di un procedimento avviato dal detenuto Jihad Ahmed Mujstafa Diyab, un 41enne di nazionalità siriana “ospite” del carcere sull’isola di Cuba da quasi 11 anni.
I legali di Diyab avevano chiesto al tribunale americano di ordinare l’interruzione dell’alimentazione forzata, praticata al loro cliente con una modalità pressoché universalmente considerata come tortura. Il giudice Kessler ha fatto notare come la pratica dell’alimentazione forzata sia considerata una violazione dell’etica medica e, appunto, una forma di tortura anche dall’Associazione dei Medici Americani. “È perfettamente chiaro”, ha scritto il giudice Kessler in una sentenza di quattro pagine, “che l’alimentazione forzata risulta essere un procedimento doloroso, umiliante e degradante”.
Ciononostante, la richiesta del detenuto siriano è stata respinta e nessuna ingiunzione all’autorità militare di Guantánamo è stata emessa dal tribunale. Infatti, il giudice del District of Columbia ha affermato che le leggi federali non le consentono di intervenire per decidere delle condizioni dei detenuti definiti come “nemici in armi”.
Con una mossa decisamente insolita, tuttavia, il giudice Kessler ha concluso che il presidente Obama “ha l’autorità per decidere sulla questione”, citando un discorso dello scorso mese di maggio nel quale l’inquilino della Casa Bianca aveva espresso i propri dubbi sulla pratica dell’alimentazione forzata.
La posizione di Obama appare però molto più sfumata, dal momento che in un altro intervento pubblico aveva affermato di “non voler vedere morire questi individui”. Se il dilagare dello sciopero della fame a Guantánamo è infatti già un motivo di grave imbarazzo per il governo americano, l’eventuale morte di decine di detenuti che protestano contro il trattamento a loro riservato appare come un vero e proprio incubo da evitare a tutti i costi per le autorità militari e per l’amministrazione Obama.
Per questa ragione, appare estremamente improbabile che il presidente democratico possa dar seguito all’esortazione del giudice Kessler, preferendo piuttosto continuare ad autorizzare il nutrimento forzato dei detenuti e, viste anche le restrizioni imposte ai giornalisti, attendere che lo sciopero della fame venga sostanzialmente dimenticato dai media.
Che la pratica non verrà abbandonata risulta poi evidente anche dall’annuncio fatto recentemente dal colonnello Gregory Julian del Comando Meridionale degli Stati Uniti in occasione dell’inizio del Ramadan nella giornata di lunedì. Il responsabile della struttura di Guantánamo ha infatti reso noto che il personale del carcere è perfettamente attrezzato per somministrare l’alimentazione forzata ai detenuti nel rispetto del digiuno dall’alba al tramonto.
L’iniziativa è stata presa anche in risposta ad un secondo procedimento avviato dai legali del detenuto siriano Jihad Ahmed Mujstafa Diyab, il quale chiedeva allo stesso tribunale distrettuale di Washington di interrompere quanto meno l’alimentazione forzata nelle ore diurne durante il Ramadan.
Lo sciopero della fame in corso da parecchi mesi nel carcere di Guantánamo era scaturito da una protesta contro l’applicazione di regole detentive più dure e, in particolare, contro la profanazione da parte delle guardie americane delle copie del Corano a diposizione dei prigionieri nelle loro celle.
Più in generale, la forma di protesta già messa in atto varie volte negli anni scorsi è la diretta conseguenza del limbo legale in cui si trovano i detenuti, quasi tutti rinchiusi in condizioni estreme da un decennio senza essere mai stati accusati formalmente di alcun crimine e senza avere affrontato un qualsiasi procedimento penale.
Oltre 80 dei 166 detenuti sarebbero poi già stati autorizzati dallo stesso governo americano a lasciare il carcere ma il via libera definitivo continua ad essere negato, sia a causa dei disaccordi politici a Washington sia perché i loro paesi d’origine dove dovrebbero essere trasferiti - come ad esempio lo Yemen - vengono giudicati troppo instabili o tuttora interessati da una minacciosa presenza di gruppi terroristici.
A causa delle scarse informazioni che vengono dal lager, non è chiaro quale sia il numero di detenuti che stia prendendo parte allo sciopero della fame, anche se alcune testimonianze dei loro legali indicano la partecipazione di virtualmente tutta l’attuale popolazione carceraria di Guantánamo.
Secondo le informazioni fornite dai militari americani, i prigionieri per i quali è stata approvata la pratica dell’alimentazione forzata sono invece 45, anche se in realtà verrebbe eseguita su circa la metà di essi, poiché gli altri avrebbero deciso di nutrirsi in privato o di assumere volontariamente le sostanze nutrizionali somministrate per evitare una pratica al limite della tollerabilità.
Le modalità brutali con cui le autorità militari di Guantánamo praticano l’alimentazione forzata sui detenuti che rifiutano il cibo erano state rivelate da un documento ottenuto e pubblicato da Al-Jazeera lo scorso mese di maggio.
Secondo quanto stabilito dalla procedura, un detenuto risulta ufficialmente in sciopero della fame quando rifiuta almeno nove pasti consecutivi oppure scende a meno dell’85% del suo peso ideale. Quando le autorità mediche stabiliscono la necessità di procedere con l’alimentazione forzata, il detenuto viene immobilizzato ad una sedia con una maschera assicurata sulla bocca “per evitare che sputi o morda”. Successivamente viene inserito un tubo attraverso le narici per far passare gli elementi nutritivi direttamente nello stomaco.
La procedura richiede in media dai 20 ai 30 minuti ma il detenuto può rimanere legato anche fino a due ore, in attesa che una lastra confermi che le sostanze abbiano raggiunto effettivamente lo stomaco. Il detenuto viene poi trasferito in un’apposita cella dove è tenuto sotto osservazione da una guardia per un’altra ora, nel caso ci siano segnali di vomito o cerchi di provocarsi volontariamente il vomito. In questo caso, la procedura viene ripetuta per intero.
Il ricorso all’alimentazione forzata con metodi che causano sofferenze indicibili ha quindi come obiettivo quello di piegare la resistenza residua dei prigionieri, così da farli desistere da un’imbarazzante forma di protesta estrema contro una situazione ormai disperata e senza via d’uscita.
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di Mario Lombardo
Il New York Times è uscito domenica scorsa con una rivelazione probabilmente pilotata nella quale vengono delineati i contorni inquietanti dell’attività del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), ufficialmente deputato alla supervisione delle innumerevoli richieste di intercettazione delle comunicazioni elettroniche da parte delle varie agenzie di intelligence degli Stati Uniti.
Quella che sembra essere una nuova pubblicazione favorita dal governo per attenuare l’impatto di prossime esplosive rivelazioni basate sui documenti dell’ex contractor dell’NSA, Edward Snowden, ha descritto un Tribunale che, in totale segretezza, ha emesso decine di sentenze nelle quali sono stati ridefiniti drammaticamente i confini dell’intelligence americana grazie ad una nuova interpretazione della legislazione relativa alla sicurezza nazionale.
Basandosi sulle testimonianze di consueti anonimi funzionari governativi, il reporter del New York Times autore dell’articolo definisce il Tribunale per la Sorveglianza come una “Corte Suprema parallela” che funge da arbitro delle questioni che è chiamato a valutare, finendo così per “modellare le pratiche di intelligence per gli anni a venire”.
Questa trasformazione è stata favorita dagli stessi interventi legislativi degli anni scorsi che, secondo la versione ufficiale, avrebbero dovuto garantire maggiore rispetto per i diritti costituzionali e che hanno invece finito per codificare un sistema pseudo-legale segreto responsabile della sistematica violazione della privacy dei cittadini.
Dall’iniziale approvazione di singole richieste di intercettazione, il Tribunale è passato infatti non solo a dare il via libera a programmi indiscriminati di sorveglianza che coinvolgono centinaia di milioni di persone ma ha anche “regolarmente preso in considerazione questioni costituzionali più ampie, fissando importanti precedenti giudiziari”. Il tutto assegnando poteri di controllo e di sorveglianza sempre più vasti ad agenzie come l’NSA.
Con metodi adeguati a quelli di uno stato di polizia, ad esempio, il Tribunale ha creato una vera e propria “eccezione” al dettato del Quarto Emendamento - che protegge da perquisizioni e confische senza un valido motivo - facendo ricorso ad una dottrina legale usata per la prima volta dalla Corte Suprema nel 1989 secondo la quale le “esigenze speciali” della sicurezza nazionale nell’ambito della lotta al terrorismo giustificano appunto la sospensione di alcuni dei diritti democratici fondamentali riconosciuti dalla Costituzione americana.
Nonostante il presidente Obama e praticamente tutti i politici di Washington abbiano più volte garantito che i programmi di sorveglianza messi in atto dall’NSA siano perfettamente legali, poiché passerebbero attraverso un procedimento legale codificato, le modalità con cui opera il FISC non dovrebbero trovare alcuno spazio nell’ordinamento di un paese realmente democratico.
Innanzitutto, di fronte al Tribunale per la Sorveglianza appare soltanto una delle parti in causa, vale a dire il governo, mentre la parte oggetto delle intercettazioni non viene nemmeno messa al corrente del procedimento a suo carico. Le sentenze del Tribunale, inoltre, rimangono quasi sempre segrete e non vi è praticamente alcuna possibilità di presentare ricorso. Il FISC, infine, avalla di fatto ogni richiesta presentata dalle agenzie di intelligence, visto che a oltre trent’anni dalla sua creazione ha respinto soltanto una manciata delle quasi 34 mila finite alla propria attenzione.
Questo Tribunale, ironicamente, è il risultato di una legge approvata dal Congresso americano nel 1978 (Foreign Intelligence Surveillance Act, FISA) proprio allo scopo di evitare gli abusi del governo nell’ambito della sorveglianza dei cittadini. Il compito che svolge oggi, invece, è esattamente l’opposto di quello inteso originariamente, essendo esso diventato lo strumento giudiziario a disposizione del governo per fornire una facciata di legalità a metodi da stato di polizia.
L’iniziativa del Congresso, in ogni caso, era stata sponsorizzata dal senatore Ted Kennedy ed era scaturita dalle reazioni ai metodi illegali di monitoraggio dei propri rivali politici a cui aveva fatto ricorso il presidente Richard Nixon, i cui crimini che portarono all’impeachment e alle dimissioni impallidiscono di fronte agli abusi ed eccessi di cui si sono rese responsabili le amministrazioni repubblicana e democratica nell’ultimo decennio.
Allo scopo di rassicurare i lettori del New York Times, le fonti delle rivelazioni di domenica scorsa hanno comunque provato a garantire che gli 11 giudici del FISC, su richiesta delle compagnie private di telecomunicazioni, sono intervenuti “ripetutamente” per ordinare la distruzione di dati raccolti dall’NSA al di là del mandato pseudo-legale ottenuto dal Tribunale stesso.
Inoltre, come è stato ripetuto più volte in queste settimane, quelli ottenuti dall’intelligence USA sarebbero soltanto i cosiddetti “metadati” - come, per quanto riguarda le comunicazioni telefoniche, i numeri di telefono di chi chiama e di chi risponde, l’orario e la durata delle telefonate e le località in cui si trovano le persone interessate al momento delle chiamate - e non il contenuto delle comunicazioni o le identità degli utenti, così che le operazioni di sorveglianza non costituirebbero una violazione del Quarto Emendamento.
La distinzione appare tuttavia fuorviante. Dopo la raccolta in blocco di decine o centinaia di milioni di comunicazioni telefoniche ed elettroniche, l’esame del contenuto di esse può avere luogo solo se viene presentato un valido motivo che, tra l’altro, dovrebbe coinvolgere i sospettati in attività di terrorismo. Se però i parametri per ottenere quest’ultima autorizzazione sono simili a quelli stabiliti per avere il via libera alla prima fase delle intercettazioni indiscriminate, le garanzie legali per i cittadini risultano in sostanza inesistenti.
Eppure, secondo quanto contenuto negli emendamenti al FISA licenziati dal Congresso USA nel 2008, anche la raccolta degli stessi “metadati” dovrebbe essere consentita solo se essi vengono valutati “pertinenti” ad un’indagine su attività terroristiche. Anche in questo caso, però, il Tribunale per la Sorveglianza ha notevolmente ampliato i confini entro i quali rientra la definizione di “pertinente” fino a svuotarla di significato, consentendo l’intercettazione di massa delle comunicazioni dei cittadini americani.
Come hanno affermato in queste settimane politici e membri dell’intelligence, infatti, mentre limitate informazioni relative ad un individuo possono non apparire “pertinenti” ai fini di un’indagine, ciò che sarebbe invece “pertinente” è l’intero quadro costruito con una valanga di dati raccolti indiscriminatamente e senza sospetti specifici. Questo metodo, secondo la caratterizzazione fatta al Wall Street Journal da un autore pentito del Patriot Act, il deputato repubblicano Jim Sensenbrenner, è un po’ come “rastrellare tutto l’oceano per essere certi di prendere un solo pesce”.
L’intero sistema di sorveglianza condotto dall’NSA con l’approvazione del FISC appare dunque sempre più in sintonia con l’ordinamento giudiziario di un moderno regime fascista, nel quale il controllo preventivo del comportamento e delle comunicazioni di virtualmente tutti i cittadini serve ad accumulare una quantità enorme di informazioni a cui attingere qualora si renda necessario reprimere non tanto una minaccia terroristica quanto ogni forma di dissenso interno.
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di Fabrizio Casari
E’ tutt’altro che semplice da risolvere il dilemma del futuro di Edward Snowden, l’ex informatico della NSA che dal 23 giugno scorso si trova in un terminal dell’aeroporto di Mosca. Apparentemente libero è in realtà intrappolato. Una condizione insolita, dal momento che gli è stato annullato il passaporto statunitense e che dunque, formalmente, per uscire da Mosca dovrà disporre di un salvacondotto diplomatico di un paese sovrano.
E qui cominciano i problemi, visto che i paesi ai quali l’ex informatico della NSA si è rivolto sono ben 27, ma solo tre - Venezuela, Nicaragua e Bolivia - hanno finora dato una disponibilità di massima alla concessione di asilo politico. Si potrebbe pensare che la disponibilità offerta dai tre paesi latinoamericani sia più che sufficiente per permettere a Snowden di lasciare Mosca, ma a ben vedere non è proprio così.
La pirateria aerea scatenata da Francia, Spagna, Italia e Austria la scorsa settimana, quando ritenendo che Snowden ne fosse ospite è stato negato il diritto di sorvolo all’aereo presidenziale della Repubblica boliviana con a bordo il suo presidente, Evo Morales, oltre a rappresentare una gravissima violazione delle Convenzioni e delle prassi internazionali e a ricordare il livello di vassallaggio dei paesi europei nei confronti degli Stati Uniti, è servita a ricordare come Washington non abbia nessuna intenzione di permettere all’ex analista della NSA di rifugiarsi in un altro paese. Il fatto che Obama avesse precedentemente dichiarato che non avrebbe fatto alzare in volo i caccia USA per bloccare Snowden è solo un artificio verbale; quali che saranno i modi, cercherà di bloccarlo con tutti i mezzi e grazie all’aiuto di tutti i suoi amici.
In un certo senso, l’ignobile azione europea ha evidenziato come la CIA e i suoi alleati europei non riescano a penetrare a fondo nella rete di protezione che i russi hanno steso intorno a Snowden, ma non si può escludere, in via ipotetica, che l’azione sia stata una mossa tattica. Che fossero certi della presenza a bordo dell’aereo presidenziale boliviano o no, l’occasione è stata sfruttata per indirizzare un messaggio chiaro a russi, cinesi e latinoamericani: gli USA non hanno intenzione di mollare Snowden e sono pronti anche ad azioni eclatanti per mettergli le mani addosso. E che le proteste - peraltro flebili - degli europei per essersi trovati a dover leggere sui giornali di tutto il mondo quello che già sapevano, cioè di essere spiati e controllati dagli USA, non mettono in discussione l’obbedienza dell’Europa verso gli Stati Uniti.
Dunque, nelle operazioni si sorveglianza, monitoraggio ed eventuale intervento per sequestrare Snowden, Washington, Bruxelles e i suoi altri alleati agiranno di concerto. Certo, il trattamento riservato alla Bolivia difficilmente potrebbe essere tollerato da Mosca o Pechino, ma qualunque altro paese latinoamericano, per forza politica e militare oggettiva, potrebbe incorrere nella stessa sorte. E anche una eventuale reazione politico-diplomatica dell’America Latina nel suo complesso, per quanto possa preoccupare la casa Bianca, troverà comunque i paesi satelliti di Wahington (Messico, Colombia, Cile) pronti a rompere l’unità continentale nella reazione contro l’arroganza imperiale.
La palla ora è nel campo russo e la soluzione non è affatto semplice. Intanto perché la rotta naturale di un volo che da Mosca volesse raggiungere il Centro e Sud America vede il sorvolo dell’Italia, successivamente dell’Oceano e prima o poi entra nello spazio aereo statunitense. A meno di non voler passare dal Nord Africa per raggiungere l’Oceano e recarsi verso il Sudamerica (operazione difficile e volo non privo d’incognite simili a quello che sorvolerebbe l’Europa) Mosca dovrebbe assumersi la responsabilità di una crisi politico-diplomatica con Washington. Cosa tutto sommato difficile da credere, anche perché il Cremlino ha avuto già da Snowden tutte le informazioni che gli interessavano.
Discorso simile vale per la Cina, che non solo ha beffato gli USA con una notevole operazione d’intelligence facendo arrivare clandestinamente Snowden a Hong-Kong e ha ottenuto le informazioni che voleva, ma che si è anche aggiudicata un successo politico e mediatico facendo uscire le rivelazioni dell’ex informatico della NSA proprio mente si aprivano i colloqui tra Cina e Usa con questi ultimi che accusavano i cinesi di cyber spionaggio!
E’ ovvio che al momento i dirigenti cinesi si ritengano più che soddisfatti: hanno ottenuto un successo d’intelligence, politico e diplomatico e con le ombre suscitate sui colloqui tra Bruxelles e Washington relativi ai negoziati sul Trattato di libero scambio hanno alzato l’asticella di un possibile accordo tra Europa e USA, traendone così un indiretto vantaggio commerciale. Non sembra quindi ipotizzabile un ulteriore intervento che al momento potrebbe solo danneggiarli.
Senza quindi la partecipazione di Mosca o Pechino nell’operazione, Daniel Ortega, Nicolas Maduro ed Evo Morales non dispongono di grandi margini di manovra per concretizzare la loro disponibilità alla concessione dell’asilo politico. Lo dimostra il caso di Julian Assange, che resta sì ospite dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, ma che non riesce ad uscirne per recarsi a Quito. A Ortega, Maduro e Morales non manca certo il coraggio politico e altrettanto definito risulta il comune senso della solidarietà, al pari dell'avversione per l'arroganza statunitense. Ma la volontà politica e il senso di giustizia potrebbero non bastare.
Il Presidente boliviano, che pure come reazione all’affronto subito nei cieli europei non ha scartato la possibilità di chiudere l’ambasciata statunitense a La Paz, sa che gli stati Uniti sono comunque il terzo partner commerciale delle esportazioni boliviane (1760 milioni di dollari nel 2012). E lo stesso Venezuela, impegnato in una delicata riapertura di dialogo con gli Stati Uniti, ha nel mercato statunitense il suo primo partner commerciale, al quale vende 900.000 barili di petrolio al giorno.
Idem dicasi per Ortega, che ha reso nota la lettera con la quale Snowden chiede asilo e che si è detto pronto ad accoglierlo "con molto piacere", ma che pure sa di avere negli Stati Uniti il suo primo partner commerciale (29% delle sue esportazioni) e riceve da essi ulteriori 25 milioni di dollari annui in prestiti e donazioni cui è difficilissimo rinunciare. Non a caso il Presidente del Nicaragua ha precisato che l’asilo sarà possibile “se si verranno a creare le condizioni”, intendendo con ciò che la disponibilità del Nicaragua è legata ad un accordo internazionale che veda comunque gli Stati Uniti disponibili, pur se non certo contenti.
Snowden quindi, potrà lasciare l’aeroporto di Mosca solo sulla base di un accordo politico con Washington oppure con una azione d’intelligence gestita da Mosca, che però scaricherebbe volentieri in America Latina l’ormai scomodissimo ospite. Ma sarebbe ingeneroso chiedere a dei piccoli paesi di assumere su di essi uno scontro virulento con il gigante mondiale in nome del rispetto dei principi del Diritto Internazionale quando i più potenti se ne lavano le mani.
D’altra parte, un’operazione ad alto rischio come questa, di solito prima la si fa, poi, eventualmente e se serve, la si annuncia, non il contrario.
Al momento, quindi, per Snoweden a Mosca sembra ripetersi il destino di Assange a Londra. Un meccanismo forse inevitabile per chi, pur meritorio dell’ammirazione di tutti, di fronte alla “ragion di stato”, da risorsa per alcuni è diventato ormai un problema per quasi tutti.
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di Michele Paris
Dopo che le rivelazioni di Edward Snowden hanno reso pubblica la complicità delle più importanti compagnie tecnologiche americane nell’attuazione dei programmi clandestini di sorveglianza e intercettazione dell’NSA, i vertici della Silicon Valley si sono affrettati ad affermare il fermo impegno per la difesa della privacy dei loro clienti, sostenendo che la necessaria collaborazione con l’apparato dell’intelligence è limitata alle sole richieste del governo e alle ingiunzioni emesse da un apposito tribunale federale.
Almeno un paio di indagini giornalistiche nelle ultime settimane hanno però messo in luce una realtà decisamente più complessa di quella descritta da Facebook, Google o Microsoft, nella quale cioè la stretta collaborazione tra le agenzie del governo addette alla sorveglianza informatica dei cittadini e l’avanguardia dell’industria tecnologica statunitense sembra essere una pratica molto ben consolidata.
Come ha spiegato un articolo apparso questa settimana sul sito web dell’agenzia di stampa Reuters, innanzitutto, il rapporto tra l’intelligence USA e la Silicon Valley risale addirittura alla nascita stessa di quello che è forse il più famoso distretto industriale del pianeta.
La CIA e i militari furono cioè i primi importanti clienti delle compagnie tecnologiche nate in California tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso con lo scopo, appunto, di “risolvere i problemi legati alla difesa”. La partnership tra queste due realtà divenne ancora più stretta con la nascita di Internet, per poi subire un’ulteriore accelerata negli ultimi anni in concomitanza con l’aumentare delle necessità di sicurezza informatica, tanto che la spesa federale in questo ambito sfiorerà nel 2014 i 12 miliardi di dollari contro gli 8,6 del 2010.
Questa collaborazione ha portato inevitabilmente ad uno scambio continuo di personale esperto nella gestione di un numero sempre crescente di informazioni raccolte dagli utenti. Un esempio peculiare di ciò è stato rivelato per la prima volta dal New York Times lo scorso mese di giugno, quando si è saputo che il capo della sicurezza informatica di Facebook, Max Kelly, lasciò la compagnia nel 2010 per essere assunto proprio nell’NSA per svolgere sostanzialmente lo stesso incarico, ma questa volta a favore del governo.
D’altra parte, come hanno commentato i due autori dell’articolo del quotidiano newyorchese, NSA e Silicon Valley “sono continuamente alla ricerca di metodi per raccogliere, analizzare e sfruttare vaste quantità di dati relative a milioni di americani. L’unica differenza è che l’NSA lo fa per questioni di intelligence, mentre la Silicon Valley per i soldi”.
L’intelligence a stelle e strisce investe quindi massicciamente in nuove compagnie tecnologiche che possono tornare utili per le proprie esigenze, mentre allo stesso modo spinge le aziende che già operano in questo ambito ad assumere ex membri delle forze armate o dei servizi segreti, senza tralasciare ovviamente la creazione di una vasta rete di contatti con i massimi dirigenti della Silicon Valley.
Sia la Reuters che il New York Times hanno descritto l’attività di un fondo finanziato dalla CIA denominato “In-Q-Tel”, destinato a compagnie che realizzano prodotti “nell’interesse” dell’agenzia di Langley. “In-Q-Tel”, aggiunge la Reuters, spesso opera modesti investimenti a favore di alcune compagnie in cambio dell’aggiunta ai loro prodotti di “requisiti specifici” che tornino utili per i propri fini. A volte, invece, la CIA chiede di avere accesso al “software code” dei prodotti di queste compagnie, così da individuare eventuali punti deboli che possano essere sfruttati per penetrare i software stessi una volta installati.
Frequentemente, addirittura, sono le stesse compagnie a segnalare queste vulnerabilità dei software al governo ancora prima che ai loro clienti, in modo che possano essere utilizzate “sia a scopi difensivi che offensivi”.
Ancora più della CIA, in questo modo opera l’NSA, i cui “investimenti” nella Silicon Valley rimangono segreti, anche se alcuni analisti indipendenti stimano una spesa annua che va dagli 8 ai 10 miliardi di dollari. Fonti anonime dell’industria tecnologica americana hanno rivelato al New York Times che le compagnie, nonostante sostengano pubblicamente di collaborare con il governo solo quando non possono farne a meno, creano talvolta in maniera segreta dei gruppi di lavoro formati da esperti informatici con l’obiettivo di “trovare dei modi per collaborare maggiormente con l’NSA e per rendere più semplice a quest’ultima agenzia l’accesso alle informazioni dei loro clienti”.
Assieme ad alcuni dei suoi più immediati sottoposti, lo stesso direttore dell’NSA, nonché comandante del “Cyber-comando” del Pentagono, generale Keith Alexander, è poi impegnato in prima persona in un’attività di pubbliche relazioni e di reclutamento di personale qualificato nella Silicon Valley. L’obiettivo di una sua partecipazione ad una recente conferenza a Las Vegas, ad esempio, era appunto quello di “assoldare hacker per l’NSA”.
Uno dei suoi predecessori, Kenneth Minihan, dopo avere lasciato l’agenzia durante le fasi finali dell’amministrazione Clinton passò invece ad occuparsi della rete di contatti nella Silicon Valley, mentre oggi è alla guida della compagnia Paladin Capital Group, specializzata nel finanziare “start-up” che offrano “soluzioni high-tech all’NSA e alle altre agenzie di intelligence” americane. Nel concreto, commenta il New York Times, Minihan funge da avanguardia dell’NSA nel tentativo di “trarre vantaggio dalle più nuove tecnologie per analizzare e sfruttare la vastissima quantità di informazioni provenienti dagli Stati Uniti e dal resto del pianeta”.
L’influenza esercitata dall’intelligence americana sulle società della Silicon Valley è stata descritta nel dettaglio dalla Reuters, basandosi in particolare sulle rivelazioni di Joe Harding, già ufficiale dello Stato Maggiore negli anni Novanta e successivamente passato alle dipendenze di un contractor del Pentagono.
Secondo Harding, cioè, le agenzie di intelligence USA “hanno più volte convinto le compagnie tecnologiche a modificare i propri prodotti software e hardware per facilitare il monitoraggio di obiettivi stranieri”. Ad esempio, alcuni anni fa un’agenzia di intelligence pagò 50 mila dollari ad una singola compagnia per installare dei chip manipolati su computer destinati ad un cliente in un paese estero, così da usare le macchine per attività di spionaggio.
Un altro anonimo agente segreto tuttora operativo ha poi rivelato come il governo ricorra spesso a società terze per mettere in atto le proprie strategie, in parte per evitare conseguenze spiacevoli alle grandi compagnie nel caso la loro collaborazione con il governo dovesse trapelare.
Un caso riportato dalla Reuters riguarda una compagnia rivenditrice di computer creata appositamente dal governo una decina di anni fa per distribuire PC portatili a governi di paesi asiatici. Questa compagnia acquistava i pezzi dalla società Tadpole Computer di Cupertino, la quale aggiungeva alle macchine prodotte un software segreto che permetteva agli analisti dell’intelligence USA di accedervi in maniera remota.
Questa pratica sembra essere tuttora diffusa, come dimostra un catalogo di prodotti software visionato dalla Reuters, nel quale le compagnie appaltatrici del Pentagono offrono puntualmente dei sistemi che consentono di penetrare i prodotti informatici di qualsiasi azienda.
Ben lontane dall’essere vittime innocenti o, quanto meno, partner riluttanti dell’apparato dell’intelligence degli Stati Uniti nella messa in atto di operazioni di sorveglianza palesemente illegali, buona parte delle fiorenti aziende della Silicon Valley operano dunque da tempo in simbiosi con il governo di Washington, sfruttando questa relazione sia per aumentare i loro profitti sia per ottimizzare la raccolta di preziose informazioni personali sui loro ignari clienti.
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di Michele Paris
Alla scadenza dell’ultimatum imposto lunedì al presidente Mohamed Mursi per rispondere alle richieste dei milioni di manifestanti scesi nelle piazze a partire dal giorno precedente, i militari egiziani hanno come previsto ripreso in mano la guida del paese nordafricano. Dopo una giornata segnata da nuove gravissime tensioni, il capo delle Forze Armate e ministro della Difesa, generale Abdel Fattah al-Sisi, nella serata di giovedì ha così annunciato in diretta televisiva il fallimento del presidente islamista di fronte al popolo egiziano, decretando la sua deposizione dopo appena un anno dall’insediamento.
Il percorso tracciato dai militari dopo il golpe prevede la sospensione della Costituzione e la nomina a capo dello stato ad interim del presidente della Suprema Corte Costituzionale, Adly Mansour, nonché la creazione di un governo tecnico che rimarrà in carica fino a che verranno indette nuove elezioni parlamentari e presidenziali.
L’annuncio dei generali è giunto al termine di una giornata nella quale soldati e carri armati erano stati dispiegati nei pressi della TV di stato e del palazzo presidenziale, così come nelle piazze del Cairo e delle altri principali città del paese per prevenire nuovi possibili scontri.
La decisione proclamata dal generale al-Sisi è stata presa dopo intense consultazioni con i leader religiosi e politici, alcuni dei quali sono apparsi al suo fianco in diretta TV, così da dare l’impressione di unità in un momento estremamente delicato per il più popoloso paese arabo.
L’intervento delle Forze Armate, infatti, è stato deciso per compattare i vertici delle istituzioni egiziane e fornire l’illusione di venire incontro alle domande di cambiamento e democrazia espresse dalla folla oceanica di manifestanti che ha protestato in questi giorni contro il regime islamista di Mursi. Una volta ottenuto il consenso del maggior numero possibile di forze politiche e di leader religiosi per la “road map” dei militari, perciò, le proteste di piazza non verranno più tollerate, come dimostra appunto il massiccio dispiegamento di soldati nella giornata di mercoledì.
Le scene di giubilo al Cairo e un po’ ovunque in Egitto dopo la rimozione del presidente saranno dunque di breve durata, dal momento che il colpo di mano dei militari non porterà in nessun modo ad una svolta democratica nel paese, nonostante l’ostilità diffusa nei confronti di Mursi e i Fratelli Musulmani.
Il golpe, inoltre, ha ricevuto con ogni probabilità l’avallo degli Stati Uniti, anch’essi estremamente preoccupati per la rabbia dilagante tra la popolazione verso un regime sempre più autoritario e incapace di alleviare le sofferenze provocate da un’economia in profonda crisi.
Dopo gli inviti rivolti nei giorni scorsi a Mursi per ascoltare le richieste dei manifestanti, mercoledì l’amministrazione Obama ha emesso comunicati molto blandi in relazione alla situazione in Egitto, con la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, che ha ad esempio manifestato la generica “preoccupazione” di Washington per i fatti che stanno accadendo nel paese alleato.
Sulla presa di posizione degli USA a fianco dei militari, sia pure in maniera non ufficiale, hanno pesato le considerazioni di natura strategica in relazione ai propri interessi nella regione e alla necessità di garantire la “sicurezza” di Israele, obiettivi che sarebbero stati messi a rischio con il persistere delle proteste e l’esplodere di una nuova rivoluzione impossibile da controllare.
Inoltre, nonostante la partnership costruita con Mursi e i Fratelli Musulmani in questi mesi, a Washington e Tel Aviv è rimasta una certa diffidenza nei confronti del nuovo regime del Cairo, soprattutto alla luce dei successi fatti segnare dai movimenti islamisti in altri paesi arabi.
Gli effetti dell’iniziativa delle Forze Armate egiziane saranno comunque tutti da verificare già a partire dalle prossime ore. Per quanto riguarda la sorte dell’ormai ex presidente Mursi, i media locali non hanno per ora parlato di un suo arresto, anche se sarebbe stato trasferito in una caserma della Guardia Repubblicana.
I sostenitori dei Fratelli Musulmani, invece, hanno manifestato la volontà di difendere fino alla fine il proprio presidente eletto, facendo così presagire possibili nuove violenze in un paese ancora ben lontano dal vedere la fine del caos scoppiato due anni e mezzo fa con la caduta di Hosni Mubarak.