di Michele Paris

L’ennesimo annuncio fatto martedì dagli Stati Uniti del lancio di negoziati di pace con i Talebani è andato subito incontro ad alcuni prevedibili ostacoli che già avevano caratterizzato i precedenti tentativi e che mettono a forte rischio anche solo l’apertura di un serio tavolo di discussione tra le due parti in conflitto da quasi dodici anni.

Il primo round di colloqui andrà in scena nella giornata di giovedì a Doha, la capitale del Qatar, dove i Talebani afgani hanno aperto un loro ufficio di rappresentanza. A darne notizia sono stati per primi gli americani, seguiti poche ore più tardi da un comunicato di conferma letto in diretta TV da un portavoce degli stessi Talebani, Muhammad Naeem.

In esso, questi ultimi hanno affermato di essere disposti ad acconsentire a due delle tre condizioni preliminari imposte dagli Stati Uniti per l’avvio di un confronto, vale a dire la volontà di cercare “una soluzione politica e pacifica al conflitto” e il dissociamento di fatto da Al-Qaeda, sostenendo di “non consentire a nessuno di minacciare la sicurezza di altri paesi [con operazioni organizzate] dal territorio dell’Afghanistan”. Della terza condizione - il rispetto della Costituzione afgana, inclusi i diritti delle donne e delle minoranze etniche e religiose - non c’è stata invece traccia nel comunicato ufficiale.

La notizia dei colloqui è stata commentata positivamente dall’amministrazione Obama, con lo stesso presidente democratico che prima di lasciare l’Irlanda del Nord, dove martedì si è chiuso il vertice del G-8, l’ha definita “un primo importante passo verso la riconciliazione”, nonostante rimangano “numerosi ostacoli lungo la strada”.

Per rafforzare l’impressone di un qualche progresso in atto nel lungo conflitto, l’annuncio da parte degli Stati Uniti è giunto intenzionalmente in concomitanza con la cerimonia ufficiale per il trasferimento formale dei compiti della cosiddetta “sicurezza primaria” in Afghanistan dalle forze NATO all’esercito indigeno.

Le difficoltà evocate da Obama si sono comunque materializzate immediatamente, quando mercoledì il presidente Karzai ha dato notizia della sospensione improvvisa dei negoziati in corso tra il suo governo e quello USA per finalizzare un accordo che consenta la presenza indefinita di un certo numero di truppe americane in territorio afgano dopo il 2014, quando tutto il contingente straniero dovrebbe lasciare il paese.

Nel giustificare la decisione, il fantoccio di Washington a Kabul ha criticato apertamente l’amministrazione Obama per la politica “imprevedibile” e “contraddittoria” messa in atto in Afghanistan, con un chiaro riferimento alla sua irritazione per l’annuncio dei colloqui di Doha. Il timore principale di Karzai sembra essere quello di rimanere tagliato fuori da un accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani, dal momento che, in uno scenario nel quale questi ultimi dovessero tornare a giocare un ruolo di primo piano nel panorama politico afgano, i colossali benefici di cui ha goduto il presidente per oltre un decennio assieme alla sua cerchia di potere finirebbero per svanire.

Karzai, in realtà, si era più volte mostrato disponibile a trattare con i Talebani, come aveva confermato una sua visita a Doha a fine marzo per incontrare l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, durante la quale aveva invitato i membri del precedente regime fondamentalista a “tornare a casa nella loro terra”. Le trattative con i Talebani, però, dal suo punto di vista devono avvenire sotto la regia del governo di Kabul, mentre gli incontri di Doha con rappresentanti dell’amministrazione Obama dovrebbero essere soltanto un atto preliminare. I Talebani, invece, preferiscono discutere direttamente con gli USA, ben sapendo chi sia a muovere i fili a Kabul.

Il governo americano, in ogni caso, non deve avere preso troppo bene la reazione così dura di Karzai, la cui firma sul trattato che consentirà a qualche migliaia di truppe di rimanere indefinitamente in Afghanistan risulta fondamentale ai fini della propria strategia di lungo termine nella regione.

Avendo ormai preso atto dell’impossibilità di sconfiggere militarmente la resistenza all’occupazione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti intendono infatti coltivare rapporti con quelle fazioni talebane disposte a condividere il potere a Kabul con membri dell’attuale regime e, allo stesso tempo, ad accettare una presenza militare americana prolungata nel paese.

Uno scenario di questo genere è precisamente quello che Karzai aveva prospettato ai Talebani nella già ricordata trasferta di Doha meno di tre mesi fa, quando aveva affermato che gli americani “rimarranno anche dopo il 2014” e che essi “vogliono almeno cinque basi militari in diverse parti dell’Afghanistan, dal nord all’ovest del paese”.

La mancata integrazione di almeno una parte dei Talebani nel sistema politico afgano, assieme al ritiro totale delle forze di occupazione, invece, determinerebbe con ogni probabilità la fine del regime-fantoccio guidato da Karzai o dal successore che prenderà il suo posto dopo le elezioni presidenziali del prossimo anno, mettendo in serio pericolo la promozione degli interessi statunitensi in quest’area cruciale del pianeta.

L’importanza del raggiungimento di un trattato con Kabul per prolungare l’occupazione è stata confermata dagli stessi commenti rilasciati martedì dagli esponenti dell’amministrazione Obama sui colloqui di Doha, attentamente studiati, sia pure senza troppo successo, per non irritare Karzai. Gli USA hanno così ricordato che la discussione avrà obiettivi limitati e che di gran lunga più importanti saranno i negoziati di pace tra i Talebani e il governo Karzai. Quest’ultimo dovrebbe essere rappresentato dal cosiddetto Alto Consiglio per la Pace, i cui membri sono attesi dagli americani a Doha nelle prossime settimane.

Sul percorso di riconciliazione promosso dagli Stati Uniti pesa però anche l’incognita delle intenzioni dei Talebani. Innanzitutto, sono in molti a nutrire dubbi sull’effettiva autorità della delegazione talebana a Doha e sul fatto che essa rappresenti realmente i vertici degli “studenti del Corano”. Simili sospetti sono più che legittimi, soprattutto alla luce delle trattative segrete condotte nel recente passato a Kabul con un presunto comandante di primo piano dei Talebani che nel 2010 si rivelò essere un impostore.

Per cercare di fugare ogni dubbio in questo senso, gli americani hanno assicurato nei giorni scorsi che la Commissione Politica dei Talebani con la quale terranno i primi colloqui giovedì in Qatar è stata pienamente autorizzata da tutte le fazioni del movimento e dal suo leader, il Mullah Muhammad Omar.

Inoltre, l’obiettivo dei colloqui per i Talebani coincide a fatica con quello degli Stati Uniti. L’incontro di Doha potrebbe infatti servire unicamente come palcoscenico di rilievo per guadagnare una qualche legittimità a livello internazionale in vista di un prossimo ritorno al potere a Kabul e, soprattutto, la ferma volontà americana di mantenere un consistente numero di propri soldati in Afghanistan dopo il 2014 si scontra in maniera evidente con i progetti talebani per il futuro del paese.

Questa realtà è apparsa in tutta la sua chiarezza proprio all’indomani dell’annuncio del vertice in Qatar, quando i Talebani hanno rivendicato un nuovo attacco contro gli occupanti, questa volta con il lancio di due missili sulla pista di atterraggio della base militare di Bagram, uccidendo quattro soldati americani.

Oltre a confermare che non ci saranno sconti sul campo di battaglia anche se i colloqui di pace dovessero proseguire, il testo della rivendicazione talebana dell’azione di mercoledì ha precisamente preso di mira il punto cardine dei piani degli Stati Uniti per il futuro dell’Afghanistan e da cui gli americani non saranno disposti a transigere nel corso dei negoziati, cioè la conservazione di una presenza militare di lungo periodo nel tormentato paese centro-asiatico.

di Mario Lombardo

Alla recente pubblicazione di documenti riservati che descrivono i programmi di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutto il pianeta, messi in atto dai vari organi dell’apparato della sicurezza degli Stati Uniti, si sono accompagnate in questi giorni altre rivelazioni che confermano come il governo di Washington stia procedendo a passo spedito verso la schedatura della maggior parte della popolazione americana al fine di controllare e reprimere ogni forma di dissenso.

In particolare, due ricerche apparse nei giorni scorsi su altrettanti giornali d’oltreoceano hanno alzato il velo sulla raccolta sistematica di campioni di DNA di persone non necessariamente sospettate di un qualche crimine e di immagini di individui da inserire in un sempre più sofisticato programma di riconoscimento facciale a cui possono attingere le autorità di polizia nell’ambito di qualsiasi indagine.

L’attenzione su quest’ultimo programma condotto in maniera silenziosa da vari Stati americani è stata portata da un articolo pubblicato lunedì dal Washington Post. Il database a disposizione delle autorità statali conserva oggi oltre 120 milioni di volti di persone, le cui immagini sono state in gran parte raccolte in relazione al rilascio di patenti di guida, ufficialmente per prevenire o risolvere frodi in questo ambito.

Le fotografie riportate sui documenti di identità vengono così acquisite dalle autorità e archiviate. Le immagini, tuttavia, possono essere ottenute anche in seguito al semplice fermo di una persona per il solo controllo dei documenti. In varie indagini, inoltre, le forze di polizia hanno ricavato immagini personali dai social network per poi inserirle in un programma di riconoscimento facciale con l’obiettivo di identificare i sospettati di un determinato crimine.

Come ha sottolineato il Washington Post, l’utilizzo di queste tecniche non risponde più soltanto a esigenze investigative, dal momento che nei database finiscono spesso “immagini di persone che non sono mai state arrestate”, i cui volti entrano comunque a far parte di una “raccolta digitale perpetua”. Ad essa, l’FBI e altre autorità federali possono così accedere facilmente e da qualsiasi località tramite un personal computer.

Attualmente, gli Stati che utilizzano tecnologie di riconoscimento facciale per i propri registri delle patenti di guida sono 37, di cui almeno 26 consentono alle autorità di polizia federali, statali e locali di accedervi per cercare eventuali corrispondenze con persone sotto indagine.

L’attuale livello tecnologico non sembra garantire in molti casi un riconoscimento definitivo, soprattutto se la qualità dell’immagine a disposizione delle autorità non è ottimale, ma sarebbero già allo studio nuovi software che permettono un’identificazione precisa anche quando, ad esempio, un individuo entra per pochi secondi nell’inquadratura di una telecamera di sorveglianza oppure in caso di leggere variazioni dell’aspetto fisico.

Alcuni Stati per il momento impediscono alle autorità di polizia di fare ricerche nei database dei registri automobilistici ma la tendenza generale va in direzione esattamente opposta. Tanto più che la legge sull’immigrazione all’esame del Congresso proprio in questi giorni prevede, secondo il Washington Post, “la drammatica espansione dei sistemi elettronici di verifica fotografica, verosimilmente grazie all’accesso ai registri delle patenti di guida”.

In definitiva, il quadro legale in questo ambito risulta del tutto insufficiente e, come per la gigantesca banca dati delle comunicazioni elettroniche monitorate dalla NSA, l’utilizzo della tecnologia per il riconoscimento facciale da parte delle autorità va ben oltre le esigenze investigative su determinati crimini. Questo programma, infatti, potrebbe essere utilizzato, e con ogni probabilità viene già usato, in occasione di manifestazioni di protesta anti-governative, di scioperi o altri eventi di massa, durante i quali le immagini dei partecipanti possono essere raccolte da agenti di sicurezza o da telecamere di sorveglianza per essere poi conservate in un database nazionale a disposizione delle forze di polizia.

Come conferma l’articolo del Washington Post, d’altra parte, i programmi di riconoscimento facciale operano all’interno di archivi ben più consistenti di quello prodotto dai registri automobilistici dei vari Stati. L’archivio più grande è quello del Dipartimento di Stato, il quale raccoglie circa 230 milioni di immagini di cittadini americani in possesso di un passaporto e di stranieri che hanno richiesto un visto d’ingresso negli USA.

Complessivamente, gli uffici dei registri automobilistici, il Dipartimento di Stato, il sistema giudiziario, l’FBI e il Pentagono conservano qualcosa come 400 milioni di volti di americani e di cittadini di altri paesi. Queste immagini sono state ottenute in grandissima parte in violazione del Quarto Emendamento della Costituzione USA, senza cioè che le persone ritratte abbiano commesso alcun crimine e senza essere state informate dalle autorità americane.

L’altro programma di schedatura della popolazione, come già anticipato, è quello della raccolta del DNA. In questo caso era stato il New York Times a descrivere la scorsa settimana come le varie autorità di polizia del paese stiano da qualche tempo procedendo alla creazione di un vasto archivio in cui finiscono a tempo indeterminato campioni di DNA non solo di persone indagate per un crimine ma, in alcuni casi, anche di testimoni o addirittura vittime, il tutto a loro insaputa.

A preoccupare sono soprattutto le nuove banche dati di DNA create dalle forze di polizia locali, le quali operano pressoché in totale libertà e senza rispettare i diritti dei cittadini, al contrario degli archivi statali e federali, definiti dal NYT “altamente regolamentati”.

I numeri nel caso del DNA sono inferiori rispetto alle immagini della banca dati per il riconoscimento facciale, anche se in alcuni casi tutt’altro che trascurabili. La città di New York, ad esempio, possiede un database con 11 mila campioni, mentre l’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Orange, in California, può vantarne più di 90 mila. Secondo una ricerca dell’Electronic Privacy Information Center il cosiddetto Combined DNA Indexing System - il database creato dall’FBI - è aumentato notevolmente negli ultimi anni e a livello nazionale contiene ora più di 11 milioni di profili.

Questi numeri aumenteranno vertiginosamente nel prossimo futuro grazie anche ad una sentenza della Corte Suprema di qualche giorno fa che rappresenta un nuovo aperto attacco ai diritti costituzionali degli americani. Il più importante tribunale degli Stati Uniti ha cioè approvato la raccolta di DNA di individui fermati dalla polizia e non ancora condannati, nonché la conservazione dei campioni e l’utilizzo in indagini di casi irrisolti, in relazione ai quali essi non sono sospettati.

Per il giudice Anthony Kennedy, che ha scritto il verdetto, l’ottenimento del DNA è una procedura compatibile con il dettato del Quarto Emendamento e sarebbe una pratica assimilabile, ad esempio, alla raccolta delle impronte digitali. Per il giudice di estrema destra Antonin Scalia che ha votato con la minoranza della Corte, invece, in seguito al verdetto nel caso Maryland contro King “il DNA potrà essere raccolto e inserito in una banca dati nazionale nell’eventualità che si venga arrestati, giustamente o meno, per qualsiasi ragione”, compresa la partecipazione ad una manifestazione contro il governo.

DNA e riconoscimento facciale, quindi, sono parte integrante dei programmi messi in atto da almeno un decennio dal governo americano con il pretesto della lotta al terrorismo e alla criminalità, ma in realtà destinati al controllo pervasivo di una popolazione sempre meno disponibile ad accettare in maniera passiva le politiche impopolari di una classe dirigente ampiamente screditata ed espressione unica della ristretta oligarchia economico e finanziaria che decide le sorti del paese.

di Vincenzo Maddaloni

C’è un legame tra la copertura dei media occidentali alle proteste turche, le previsioni di Goldman Sachs su un crollo dell’economia turca e il fatto che il sistema bancario turco sia diventato l’interfaccia tramite cui l’Iran aggira le sanzioni economiche? Finora i fatti direbbero di sì, almeno per restare tra coloro che sanno che al di sopra del reale c'è il possibile.

Che Recep Tayyip Erdogan e il suo modello di Turchia fossero inclusi nell’elenco dei silurabili se n’era avuto sentore l’anno scorso,quando proprio qui, su “Altrenotizie” scrissi dell’articolo di David Goldman sul Middle East Quarterly, perché in esso si sentenziava l’imminente collasso del “miracolo economico” turco e lo si paragonava a quello argentino del 2000 e a quello messicano del 1994, entrambi avvenuti dopo periodi di espansione economica.

Goldman prevedeva che «la velocità e la magnitudo della battuta d’arresto», avrebbero potuto «facilmente erodere la capacità dell’AKP di governare con il pragmatismo piuttosto che con l’ideologia islamista»; sicché era ipotizzabile anche in Turchia un’esplosione religiosa che - prevedeva ancora Goldman -  avrebbe impedito al premier Erdogan «di utilizzare gli incentivi economici per disinnescare il separatismo curdo, contenere l’opposizione interna e far conquistare alla Turchia un ruolo di primo piano in Medio Oriente». Insomma, ci sarebbero stati tutti i presupposti, lasciava intendere Goldman, perché nella Regione si scatenasse un’altra guerra.

Quello che Goldman non diceva era che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan governava con un grande sostegno popolare raggiunto con il successo di un’economia che, viaggiando con ritmi cinesi, gli aveva permesso di vincere tre elezioni di fila. E così, forte del consenso delle masse, egli in dieci anni di continuo governo aveva potuto devitalizzare di molto il potere della vecchia guardia dei militari filo atlantici e laici, modificando così l’assetto degli equilibri politici sul Bosforo. Beninteso, pure la Turchia ha accusato i colpi della recessione, un rallentamento dell’economia turca c’è stato, ma non con la tragicità indicata da Goldman, poiché il tasso di crescita della Turchia previsto per il 2013 (tra il 4 e il 5 per cento) resta ancora alto rispetto agli standard europei.

Pertanto, fino a pochi mesi fa Erdogan era considerato un vincente, l’uomo che aveva tutte le credenziali per essere accreditato come il leader (musulmano), l’unico in grado di rasserenare quel clima d’incertezza politica che s’è creato con la “primavera araba” in tutto il Medio Oriente e non soltanto in esso.

Sicché appare quanto mai strano che quella che era iniziata come una protesta contro l'abbattimento degli alberi di un parco - Gezi Parki - adiacente a piazza Taksim, nel cuore della Istanbul moderna, sia rapidamente cresciuta fino a diventare una rivolta contro il governo del premier. Infatti, per più giorni la stampa internazionale ha raccontato le battaglie urbane di piazza Taksim, ha denunciato la dura repressione delle forze dell’ordine non soltanto ad Istanbul, ma anche  nella capitale Ankara.

Naturalmente, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu aveva attaccato «certi circoli» dei media internazionali, che a suo giudizio sono impegnati a danneggiare l’immagine della Turchia. «Se facciamo un paragone», aveva detto il ministro alla tv privata Haber Turk, «il resoconto dei media internazionali sulle proteste di Piazza Taksim è molto diverso dalla realtà di ciò che accade».  Anche l’agenzia di Stato Anadolu ha lanciato una campagna contro i media internazionali, per denunciare la copertura «diffamante» che si dava della protesta di Piazza Taksim.

La campagna ha avuto la sua piattaforma principale su Twitter, dove molti messaggi con l’hashtag «YouCANTstopTurkishSuccess» hanno attaccato i media internazionali per il modo in cui hanno dato notizia delle proteste, come se si trattasse di una guerra civile o una rivolta in stile arabo. Campagne analoghe sono state lanciate con hashtag come «GoHomeLiarCNNbbcANDreuters» (andate via Cnn, Bbc e Reuters bugiarde) e «occupyLondon», che prendeva di mira il G8 che sarà ospitato dalla capitale britannica.

Tuttavia prima di esprimere un giudizio, non andrebbe dimenticato che la Turchia ha ottantacinque milioni di abitanti a schiacciante maggioranza islamica, che è il secondo paese Nato per potenza militare e che ha un forte orgoglio nazionale, memore della storia imperiale ottomana. Insomma ha un “curriculum” degno di una nazione che aspira a un ruolo di leader in un’area delicata com’è il Medio Oriente, e che poteva avvalersi finora pochi mesi fa del forte sostegno degli Stati Uniti.

Poi il rapporto è mutato. Il vertice del maggio scorso tra il presidente americano e il premier turco sulla Siria, ma soprattutto sugli scambi economici tra Stati Uniti e Turchia, ha dato risultati più ambigui di quanto sia emerso dall'ufficialità. Più che dalla guerra siriana ora i sonni di Erdogan sono turbati dal rischio di un fiasco sul fronte economico che in prospettiva potrebbe essergli fatale. Si tenga a mente che le sue vittorie travolgenti e quelle del partito islamico conservatore Akp si sono fondate in questo decennio sui successi economici (una crescita media dal 2002 a oggi del 5,2 per cento annuo), non sulla religione o sui progetti di ricostituire una sfera di influenza neo-ottomana, come molti commentatori lasciano intendere.

Sicché, pur di mantenere alta la crescita economica, Erdogan ha aperto persino all’Iran. L’idea è chiara: offrire agli iraniani la licenza bancaria turca perché essi possano concludere le transazioni commerciali quando scatteranno le sanzioni internazionali contro la banca centrale iraniana, e inoltre perché essi possano con i proventi petroliferi finanziare le numerose società iraniane che operano in e dalla Turchia.

Infatti non sono soltanto le grandi banche come la Tejarat Bank e la Pasargad Bank di Teheran a  correre ad Istanbul, ma già più di duemila società commerciali persiane hanno aperto filiali in Turchia. Tant’è che sono diventati ormai moltitudine i turchi che sono partner commerciali e bancari degli iraniani. Stando così le cose non ci vuol molto a capire la nevrosi di Israele che da anni si inventa pretesti per coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra contro gli Ayatollah.

Recep Tayyip Erdogan gliene ha offerti parecchi. Infatti, é Recep Tayyip Erdogan che chiede a viva voce il riconoscimento dello Stato palestinese. «Non è un’opzione, è un dovere», dichiara il primo ministro turco nel suo intervento alla Lega Araba durante il quale afferma che il contenzioso palestinese non è una questione da classificare come «ordinaria amministrazione» perché riguarda «la dignità dell’essere umano». E così, il 20 di settembre di due anni fa il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen poté presentarsi al Palazzo di Vetro e richiedere il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente, il 194° membro delle Nazioni Unite.

E’ ancora Recep Tayyip Erdogan che lancia un messaggio a Israele tutt’altro che conciliante. Non ci sarà - avverte - nessuna normalizzazione tra la Turchia e lo Stato ebraico di Israele, se quest’ultimo non rispetterà le condizioni poste da Ankara e cioè le scuse per l’attacco alla flottiglia umanitaria, l’indennizzo delle vittime e la revoca dell’embargo su Gaza. Se si pensa che ancora in anni recenti la marina israeliana e quella turca compivano le manovre congiunte sotto l’egida della Nato, si può capire l’ansia di Tel Aviv quando si era saputo che nei radar della flotta turca, le navi e gli aerei israeliani non erano più segnalati come «amici», ma come «ostili». Le scuse arriveranno soltanto nel marzo di quest’anno.

E’ Benjamin Netanyahu a pronunciarle al telefono che gli aveva messo in mano Barack Obama. Il premier israeliano sapeva quello che doveva dire, sebbene né lui né Avigdor Lieberman (l’alleato politico e leader ultranazionalista) l’avrebbero mai voluto dire. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha ascoltato Netanyahu mentre si scusava «con il popolo turco per ogni errore che potrebbe aver causato la perdita di vite umane» e prometteva che i due Paesi avrebbero trovato un accordo per risarcire le vittime. All’aeroporto di Tel Aviv - così imponendo - il Presidente americano prima di risalire sull’Air Force One alla fine di una visita di tre giorni in Israele, si era accaparrato un risultato importante, poiché l’alleanza tra lo Stato ebraico e la Turchia (ne sono tuttora convinti i generali del Pentagono) andava ristabilita per poter affrontare la crisi siriana e la questione dell’atomica iraniana.

Facile da dire, difficile da attuare l’alleanza, se si pensa che  soltanto pochi giorni prima della famosa telefonata, Erdogan aveva definito il sionismo «un crimine contro l’umanità». Dopotutto sono le divergenze tra i due Stati che hanno spinto la banca d’affari e di investimenti Goldman Sachs a consigliare ai propri clienti di liberarsi in fretta di tutti i titoli della seconda più grande banca privata turca, la “Garanti Bakasi”. L’obiettivo s’era rivelato da subito non facile da raggiungere perché la Turchia - come detto - è al quinto posto, tra i grandi dell’economia mondiale. Pertanto, per rassicurare i suoi clienti più perplessi e incoraggiare quelli ancora indecisi si era ricorsi all’ “autorevole” David Goldman, il quale nell’ormai famoso articolo sul Middle East Quarterly aveva predetto il crollo economico della Turchia nel 2012, convincendo i clienti più dubbiosi, almeno così sostengono al Goldman Sachs Group.

Stando così le cose, ci vuole poco a capire perché gli spasmi di protagonismo di Erdogan abbiano cominciato ad irritare anche gli Stati Uniti. Ne è una testimonianza l’incontro di Washington del 16 maggio scorso durante il quale egli aveva chiesto a Obama che la Turchia non restasse fuori dalla Translatlantic Trade and Investment Partnership, il progetto di zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. Ma il Presidente americano oggi più di quel giorno di maggio continua ad esitare, sebbene la sua esclusione potrebbe portare a una contrazione del 2,5% del Pil turco. Se ciò accadesse si confermerebbe  il catastrofico scenario evocato da  David Goldman.

Dopodiché il 27 maggio, undici giorni dopo l’incontro con Obama a Washington, sono cominciate le manifestazioni nel cuore di Istanbul con l'obiettivo di impedire l'abbattimento dei seicento alberi di Gezi Parki per permettere l'ammodernamento di piazza Taksim pianificato da Governo. Con il passare dei giorni le proteste si sono allargate anche in altre città, in particolare nella capitale Ankara e a Smirne. L'escalation si è avuta il 31 maggio con la diffusione planetaria delle immagini delle cariche della polizia contro i manifestanti, con il massiccio uso dei lacrimogeni e dei cannoni ad acqua.

Tra i tanti messaggi di condanna c’è anche quello del Parlamento Ue nel quale si esprime preoccupazione per «l'uso sproporzionato ed eccessivo della forza» da parte della polizia turca e si deplorano, «le reazioni del governo turco e del primo ministro Erdogan». Nel comunicato infatti si accusa come mai era accaduto prima, lo stesso premier di acuire la polarizzazione della situazione. Per completare il quadro sarebbe interessante conoscere le intenzioni di Mark Patterson, il lobbista della Goldman Sachs che è alla testa dello staff del segretario del Tesoro Jacob Joseph Lew.

Si tenga a mente che molti sono gli ex funzionari della Goldman Sachs presenti nella amministrazione di Barack Obama, sebbene nella campagna presidenziale egli avesse promesso che l’influenza dei lobbisti nella sua amministrazione sarebbe stata ridimensionata. L’ U.S. News & World Report ne fornisce un lungo elenco. Sicché tutto lascia pensare che Erdogan rischi davvero di soccombere, e con lui il suo modello turco. Chissà se è hanno già individuato il sostituto. Bisognerebbe chiederlo alla Goldman Sachs.

 

www.vincenzomaddaloni.it



di Mario Lombardo

Tra le misure di sicurezza adottate in occasione del G-8 di questa settimana in Irlanda del Nord, potrebbero essercene alcune che rientrano a fatica in questa definizione e che, a differenza di altre utili per tenere lontane scomode manifestazioni di protesta, con ogni probabilità gli illustri ospiti del governo britannico non gradirebbero particolarmente. L’ennesima rivelazione del Guardian sullo scandalo intercettazioni ha infatti raccontato lunedì di come Londra metta sotto controllo i telefoni e i computer dei partecipanti a simili eventi, in particolare di due vertici del G-20 organizzati qualche anno fa nella capitale del Regno Unito.

La nuova esclusiva del Guardian si basa sempre sui documenti ottenuti dall’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden, e rivela un altro aspetto dell’apparato della sorveglianza costruito dagli Stati Uniti e al quale la Gran Bretagna partecipa attivamente, quello destinato cioè al controllo dei vertici di altri governi, indipendentemente dal fatto che essi siano considerati rivali o alleati.

La diffusione dei nuovi documenti riservati rischia di mettere in grave imbarazzo il governo conservatore di David Cameron proprio mentre quest’ultimo è impegnato ad accogliere i propri colleghi del G-8, molti dei quali già presenti a Londra nel 2009, andando ad aggiungersi alle questioni affrontate nel vertice organizzato nei pressi di Belfast.

L’operazione descritta dal Guardian è stata opera del cosiddetto GCHQ (Government Communications Headquarters), l’agenzia britannica corrispondente all’NSA americana, con la quale condivide e collabora nel controllo pervasivo delle comunicazioni elettroniche domestiche e internazionali.

Il piano del GCHQ consisteva sostanzialmente in un vero e proprio test delle “innovative capacità di intelligence per intercettare le comunicazioni delle delegazioni ospiti” del G-20 andato in scena nell’aprile 2009 e del summit dei ministri delle Finanze del G-20 del settembre successivo. Il motivo delle intercettazione di membri di governi stranieri sembra essere stato quello di acquisire informazioni sensibili che sarebbero tornate utili al governo di Londra in vista degli incontri ufficiali.

Il programma dell’operazione, secondo il Guardian, includeva in primo luogo il monitoraggio della posta elettronica dei delegati, compresa l’appropriazione dei dati di log in, da ottenere anche tramite la creazione di finti internet cafés, dei cui servizi i partecipanti al G-20 venivano incoraggiati ad usufruire. Inoltre, l’apparato della sicurezza britannico sarebbe penetrato nei sistemi di sicurezza degli smartphone personali dei rappresentanti del G-20, sempre con lo scopo di controllare e-mail e telefonate.

Le comunicazioni così intercettate sarebbero state analizzate da una squadra di 45 analisti attiva 24 ore su 24. L’intera operazione aveva l’approvazione del governo laburista dell’epoca, guidato dal primo ministro Gordon Brown. Le informazioni, infatti, erano state poi passate a quest’ultimo e ad alcuni ministri del suo gabinetto, a cominciare dall’allora ministro degli Esteri, David Miliband.

In particolare, un documento rivelato da Edward Snowden fa riferimento ad uno strumento di sorveglianza “utilizzato in molte occasioni durante recenti conferenze in Gran Bretagna” e che permette di “acquisire messaggi di posta elettronica senza rimuoverli dal server remoto”, così che gli intercettatori sono in grado di leggere le e-mail ancora prima degli intercettati. Le informazioni relative ai log in ottenute grazie alla messa in scena degli internet cafés, inoltre, hanno consentito di avere “opzioni di intelligence relativamente ai delegati anche dopo la fine della conferenza”.

Uno degli obiettivi più importanti dei servizi di sicurezza britannici era ovviamente l’allora presidente russo, Dmitry Medvedev, il quale, assieme agli altri delegati del governo di Mosca, si è visto inconsapevolmente intercettare le proprie telefonate dalla stessa NSA americana in collaborazione con il GCHQ.

I documenti relativi all’operazione indicano una durata di essa di almeno sei mesi, mentre il programma di monitoraggio nel vertice dei ministri delle Finanze del settembre 2009 a Londra prevedeva, tra l’altro, una particolare attenzione per i delegati turchi. Il ministro di Ankara, Mehmet Simsek, e altri 15 colleghi e delegati vari venivano indicati come “possibili obiettivi”, così da “appurare la posizione della Turchia in relazione agli accordi presi nel summit di aprile” e testare la disponibilità del paese euro-asiatico “a cooperare con il resto dei membri del G-20”.

Nel corso del vertice di settembre, il GCHQ avrebbe fatto ricorso anche ad una nuova tecnica, studiata per fornire ai propri analisti un resoconto in tempo reale di ogni telefonata fatta o ricevuta dai delegati, il cui contenuto veniva proiettato su uno schermo di 15 metri quadrati presso il centro operativo dell’agenzia governativa. I dati ottenuti in questo modo sarebbero stati poi tempestivamente invitati ai rappresentanti britannici al G-20, ritrovatisi perciò in una posizione di vantaggio nei negoziati.

La descrizione del programma di intercettazioni messo in atto dal governo di Londra, come afferma lo stesso Guardian, conferma dunque un sospetto di lunga data, vale a dire l’esistenza di simili attività di spionaggio nel corso di summit internazionali. Nello specifico, la più recente rivelazione dimostra come anche in Gran Bretagna questi metodi illegali condotti da agenzie di intelligence dietro le spalle della popolazione vengano usati e giustificati da governi di qualsiasi orientamento politico.

Come emerge dai documenti resi noti da Snowden, inoltre, i G-20 del 2009 sono stati un banco di prova per valutare l’efficienza degli strumenti e delle tecniche impiegate dal GCHQ, così da perfezionarli nel futuro a seconda delle esigenze della classe dirigente britannica.

La scelta dei delicati summit di Londra del 2009 da parte delle autorità britanniche, infine, appare tutt’altro che casuale, dal momento che essi avvennero a pochi mesi dal tracollo finanziario che ha scatenato la più grave crisi economica dagli anni Trenta del secolo scorso. I vertici, infatti, furono caratterizzati da profonde divergenze tra le varie potenze del pianeta su come rispondere alla situazione di panico diffuso, nonché dall’emergere di rivalità sopite e rinvigorite dalla crisi del capitalismo globale. Da qui la necessità, secondo Washington e Londra, di acquisire un vantaggio strategico in previsione delle complicate trattative con alleati e rivali.

Oltre ai partecipanti del G-20, secondo i documenti ottenuti dal Guardian, le autorità di Londra hanno spiato sempre nel 2009 anche i convenuti nell’isola caraibica di Trinidad per un summit del Commonwealth britannico, l’organizzazione che raccoglie le ex colonie del Regno Unito più il Ruanda e il Mozambico.

L’uso di sofisticati strumenti tecnologici di sorveglianza delle comunicazioni di organi di governo non beneficia però esclusivamente Stati Uniti o Gran Bretagna. Un recente articolo apparso sul quotidiano australiano The Age ha infatti rivelato come almeno anche un altro stretto alleato di Washington abbia ottenuto importanti vantaggi dai programmi dell’NSA recentemente smascherati.

Un anonimo funzionario del governo di Canberra ha cioè affermato come le attività dell’intelligence americana siano state “assolutamente decisive” per fare ottenere all’Australia un seggio provvisorio per gli anni 2013 e 2014 al Consiglio di Sicurezza ONU. Queste dichiarazioni non spiegano il modo in cui il governo laburista del premier Julia Gillard abbia tratto vantaggio dall’operato dell’NSA ma, anche alla luce dell’articolo di lunedì del Guardian, è più che lecito ipotizzare il ricorso a pratiche illegali nella campagna diplomatica che ha portato al voto dell’ottobre scorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la scelta dei membri provvisori del Consiglio di Sicurezza.

In ogni caso, tutte le rivelazioni dei giorni scorsi sono con ogni probabilità solo la punta dell’iceberg, dal momento che gli Stati Uniti, assieme ai governi loro alleati, continuano a fare affidamento su sistemi di monitoraggio ben più invasivi di quelli resi noti da Snowden, i quali, già di per sé, indicano abbondantemente come il processo di creazione di uno stato di polizia sia giunto ormai ad uno stadio avanzato.

di Michele Paris

Con un risultato a sorpresa, l’11esima elezione presidenziale della storia della Repubblica Islamica dell’Iran ha decretato la nettissima vittoria del candidato moderato Hassan Rouhani. Contrariamente alla maggior parte delle tesi sostenute da media e commentatori occidentali, il voto nel paese mediorientale è stato contrassegnato da una sostenuta partecipazione popolare e da una sostanziale libertà di scelta degli elettori, confermando la relativa apertura del sistema politico iraniano, soprattutto in relazione a quello delle vicine monarchie dittatoriali del Golfo Persico alleate di Stati Uniti ed Europa.

Anche se ben lontana dai livelli del 2009, quando sfiorò l’85%, l’affluenza alle urne nella giornata di venerdì ha superato le aspettative, assestandosi attorno al 72% nonostante l’esclusione preventiva da parte del Consiglio dei Guardiani di due candidati considerati tra i più popolari, l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e il capo di gabinetto di Ahmadinejad, Esfandiar Rahim Mashaei. Le lunghe code al di fuori dei seggi hanno addirittura costretto il governo iraniano a prolungare l’orario del voto fino alla serata di venerdì.

Favorito dall’abbandono alla vigilia dell’unico candidato con credenziali “riformiste, l’ex vice-presidente Mohammad Reza Aref, già dopo lo spoglio delle prime schede Rouhani aveva fatto intravedere una solida performance. Alla fine, il Ministero dell’Interno di Teheran lo ha dichiarato vincitore già al primo turno con il 50,7% dei consensi, vale a dire oltre 18 milioni di voti espressi.

Sulla candidatura di Rouhani sono chiaramente confluiti i suffragi dell’elettorato che si riconosce nel movimento “riformista” grazie all’appoggio pubblico ricevuto settimana scorsa di Rafsanjani e dell’altro ex presidente, Mohammad Khatami. Il largo successo di Rouhani, tuttavia, ha evidenziato anche un significativo sostegno ricevuto dall’elettorato rurale e dalle classi urbane più disagiate, penalizzate da un’economia in grave crisi a causa delle sanzioni occidentali e dal progressivo abbandono delle politiche populiste promosse durante i primi anni dell’amministrazione Ahmadinejad.

Il voto di venerdì, inoltre, è stato segnato dal clamoroso fallimento dei candidati conservatori, indicati da molti, soprattutto in Occidente, come i favoriti per il successo grazie all’appoggio, peraltro mai dichiarato pubblicamente, di Khamenei. L’attuale negoziatore sul nucleare, Saeed Jalili, ha in particolare pagato la linea dura che ha ispirato la sua campagna elettorale, riuscendo a raccogliere poco più dell’11% dei consensi, meno anche dell’altro presunto favorito, il sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, fermatosi al 16,6%.

Ancora più indietro sono finiti gli altri tre candidati ammessi dal Consiglio dei Guardiani: l’ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohsen Rezaee (10,6%), l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati (6,2%), e l’ex ministro del Petrolio, Seyed Mohammad Qarazi (1,2%).

Se la decisione di ammettere alla competizione solo candidati che non rappresentavano una minaccia al sistema era stata presa a maggio dai vertici della Repubblica Islamica tramite la selezione del Consiglio dei Guardiani, la scelta del presidente tra i rimanenti candidati - espressione di diverse posizioni ideologiche - è stata dunque interamente nelle mani degli elettori iraniani.

La vittoria di Rouhani è stata favorita anche dalle divisioni nel campo conservatore o “principalista”, nel quel il ritiro a pochi giorni dal voto dell’ex presidente del Parlamento (Majilis), Gholam Haddad Adel, ha contribuito ben poco a unificare il voto attorno ad un unico candidato.

Queste divisioni hanno mostrato a loro volta le differenze che caratterizzano le varie fazioni dell’establishment conservatore iraniano, soprattutto in relazione ai rapporti con l’Occidente e alle trattative sulla questione del nucleare. Proprio la possibile evoluzione dell’Iran attorno a quest’ultima vicenda, oltre che alla crisi in Siria, è stata al centro delle speculazioni dei media occidentali dopo l’affermazione di Rouhani, il quale durante la campagna elettorale ha frequentemente criticato la gestione sia della politica estera ed economica del governo uscente che dei colloqui sul nucleare del capo-negoziatore Jalili.

Le sue posizioni moderate, il sostegno ricevuto dal movimento “riformista” e il precedente dell’accordo siglato sulla sospensione delle attività legate al nucleare quando era alla guida dei negoziati con l’Occidente fa infatti sperare in molti in un ammorbidimento dell’atteggiamento della delegazione iraniana nei futuri colloqui. La linea diplomatica che seguirà il paese, tuttavia, verrà in ultima analisi stabilita dallo stesso Khamenei.

Rouhani è comunque una personalità totalmente integrata nel sistema della Repubblica Islamica, come confermano i numerosi incarichi che ricopre all’interno dei vari organi che ne compongono la struttura del potere. Rouhani è infatti membro dell’Assemblea degli Esperti fin dal 1999, del Consiglio per il Discernimento dal 1991, del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale dal 1989 (di cui è stato segretario, e quindi capo negoziatore per il nucleare, tra il 1989 e il 2005) e vice-presidente del Parlamento in due occasioni.

Come ha riportato l’agenzia di stampa ISNA, nella sua prima dichiarazione televisiva dopo l’elezione, il presidente-eletto ha sottolineato la sua vicinanza all’ayatollah Khamenei, esprimendo il suo apprezzamento per la Guida Suprema e per “la nazione iraniana che ha risposto positivamente” all’appello di quest’ultimo di recarsi in massa alle urne.

Lo stesso Khamenei, a sua volta, nella giornata di sabato si è congratulato con Rouhani per il successo elettorale, aggiungendo che il vero vincitore è stato il popolo iraniano, il quale “con prudenza e giudizio ha affrontato la guerra di nervi lanciata dai lacchè dell’egemonia globale”.

Al di là della retorica post-elettorale di Khamenei, è possibile che l’atteggiamento iraniano di fronte all’Occidente sarà di maggiore disponibilità nei prossimi mesi, rappresentando perciò una sfida per gli Stati Uniti e i loro alleati, responsabili di un’escalation di minacce, intimidazioni e sanzioni senza precedenti nei confronti di Teheran.

L’elezione sostanzialmente libera di un presidente moderato, ben disposto verso il dialogo con la comunità internazionale e appoggiato da un movimento “riformista” che trova il favore dell’Occidente dovrebbe infatti rendere più complicato per Washington o Tel Aviv decidere un’eventuale azione militare per risolvere la questione del nucleare iraniano.

Se Rouhani, con l’approvazione di Khamenei, dovesse mantenere le promesse elettorali e cercare più attivamente una soluzione diplomatica alla crisi sul nucleare, la palla passerebbe ancora una volta nel campo dell’Occidente, da dove le manovre per forzare un cambio di regime a Teheran o la ricerca di una sottomissione incondizionata al proprio dettato verrebbero smascherate clamorosamente.

Il successo della presidenza Rouhani, in ogni caso, dipenderà anche dall’impatto sulla maggioranza della popolazione delle politiche economiche che verranno adottate per far fronte alla crisi e, soprattutto, dall’equilibrio che il suo governo riuscirà a stabilire con gli altri centri di potere della Repubblica islamica.

Come hanno ricordato gli ex funzionari del Dipartimento di Stato USA, Flynt e Hillary Mann Leverett, sul loro blog GoingToTehran alla vigilia del voto, i presidenti dell’Iran devono infatti tradizionalmente fare i conti innanzitutto con la figura della Guida Suprema, il cui compito è quello di assicurare che le politiche messe in atto dal governo non mettano a rischio “l’identità e la sicurezza a lungo termine della Repubblica”.

Inoltre, come hanno dimostrato le difficoltà incontrare dall’amministrazione Ahmadinejad in questi ultimi anni, il presidente nel proprio operato potrebbe essere seriamente ostacolato dal Parlamento, presieduto dal potente speaker Ali Larijani, impegnato nel tentativo di ridimensionare i poteri della più importante carica esecutiva del paese.

All’interno di questi vincoli dovrà perciò muoversi il pragmatico e conciliatore Rouhani, la cui gestione sul fronte domestico e internazionale contribuirà a modellare il futuro della Repubblica Islamica dell’Iran nei prossimi quattro anni.


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