di Michele Paris

Il primo mese dall’entrata in vigore di una delle componenti fondamentali della cosiddetta “riforma” del sistema sanitario americano del presidente Obama è stato segnato da infinite polemiche e imbarazzi per un’amministrazione democratica che ha visto crollare rapidamente ogni pretesa di promuovere la nuova legge come un passo avanti nell’offrire una copertura assicurativa accessibile e di qualità per decine di milioni di americani.

Il primo ottobre scorso ha aperto i battenti il sito web HealthCare.gov grazie al quale coloro che risultano sprovvisti di una polizza sanitaria e sono obbligati per legge ad acquistarne una dalle compagnie private, potrebbero in teoria scegliere la più adatta alle proprie esigenze mediche ed economiche tra un ventaglio di piani messi a disposizione (“Exchanges”).

Il sito è risultato in realtà un fiasco clamoroso che ha costretto il governo di Washington a correre ai ripari per limitare i danni di fronte alle critiche alimentate dai repubblicani e dagli altri oppositori della legge. Lo stesso Obama ha più volte affrontato la questione in pubblico per assicurare che le difficoltà iniziali sono da attribuire a questioni tecniche più o meno facilmente risolvibili.

Il Ministero della Salute (Department of Health and Human Services, HHS) ha finora cercato di occultare la gravità degli impedimenti del sito che stanno rendendo più che difficoltosi i tentativi di quegli americani che dovrebbero dimostrare di avere acquistato una polizza entro poche settimane. Perciò, non è dato sapere quanti utenti siano riusciti finora ad ottenere una copertura sanitaria in questo modo, anche se alcuni documenti ufficiali da poco resi noti hanno rivelato come nelle prime 24 ore dal lancio di HealthCare.gov solo 6 americani avevano visto andare a buona fine la procedura di acquisto.

Altre rivelazioni giornalistiche hanno poi messo in luce come la Casa Bianca fosse perfettamente al corrente dei problemi successivamente emersi, come conferma una comunicazione inviata a fine agosto da CGI Federal - la compagnia informatica che si è assicurata l’appalto del progetto per il valore di quasi 100 milioni di dollari - al Centro per i Servizi di Medicare e Medicaid, responsabile dell’implementazione di questa sezione della legge, per avvertire che il sito era pronto soltanto al 55%.

Ciononostante, l’amministrazione democratica ha deciso di far partire il progetto alla data prevista, soprattutto per evitare possibili nuove polemiche da parte dei repubblicani già impegnati ad attaccare la legge con iniziative al Congresso nell’ambito dello “shutdown” e dell’innalzamento del tetto del debito federale.

Successivamente, il presidente Obama è finito ancor più nella bufera dopo che le compagnie assicurative hanno iniziato a inviare lettere di rescissione delle polizze sanitarie già esistenti a milioni di clienti. L’inquilino della Casa Bianca è stato così accusato di avere mentito spudoratamente agli americani, quando in più occasioni aveva promesso che “chi era soddisfatto del proprio piano sanitario avrebbe potuto conservarlo”. Gli studi interni al governo nei mesi successivi al passaggio della “riforma” avevano infatti mostrato come tra il 40% e il 67% dei detentori di polizze di compagnie private avrebbero perso la loro copertura con l’entrata in vigore della nuova legge.

Le azioni in corso da parte delle grandi compagnie sono la diretta conseguenza di una disposizione contenuta nella “riforma sanitaria” (“Obamacare”) che impone ad ogni piano assicurativo di includere almeno dieci “servizi essenziali”, tra cui le cure per la maternità, il trasporto ad una struttura di pronto soccorso, gli esami di laboratorio e i farmaci prescritti dal proprio medico.

Dal momento che milioni di polizze già stipulate da coloro che acquistano individualmente la propria copertura sanitaria non contengono tutti questi servizi, le compagnie sono state costrette a rescinderle. Questa spiacevole sorpresa, secondo alcune stime, potrebbe riguardare fino all’80% dei 14 milioni di americani che non sono coperti da una polizza fornita dai loro datori di lavoro o da programmi pubblici.

Soprattutto, questi ultimi saranno obbligati ad acquistare una nuova polizza che rispetti gli standard di “Obamacare” pagando premi e costi vivi spesso molto più alti rispetto a quelli sostenuti finora. Molti altri, inoltre, non potranno nemmeno beneficiare dei sussidi federali previsti per l’acquisto di una nuova assicurazione sanitaria perché hanno un reddito considerato “troppo alto”, anche se si ritroveranno a dover pagare fino a centinaia di dollari in più al mese, talvolta per piani meno generosi.

Anche quanti rientrano invece nelle fasce di reddito che hanno diritto ai sussidi, potendo ottenere a volte un’assicurazione senza sborsare un solo dollaro, otterranno comunque piani di copertura ridotti all’osso e con spese consistenti in caso di necessità di cure o servizi non inclusi nelle polizze.

Come ha spiegato recentemente un articolo del Washington Post, i dieci “servizi essenziali” imposti da “Obamacare” determinano un aumento medio dei costi per le compagnie assicurative tra il 30% e il 50%. A ciò va aggiunto il fatto che esse non possono più escludere dalla copertura sanitaria coloro che hanno “condizioni pre-esistenti” di malattia, facendo lievitare ulteriormente i rischi e, dunque, anche i costi che verranno ovviamente scaricati sui loro clienti.

Come già ricordato, ad esclusione degli americani con redditi da fame, tutti sono obbligati ad acquistare una polizza assicurativa per non incorrere nel pagamento di una penale, così che le compagnie private si ritroveranno con decine di milioni di nuovi clienti e, oltretutto, senza significativi meccanismi di controllo sui premi da esigere.

Le difficoltà che sta incontrando l’amministrazione Obama in queste fasi di avvio della “riforma” approvata dal Congresso nel 2010 stanno inevitabilmente alimentando gli attacchi da destra dei repubblicani, i quali sfruttano politicamente una più che legittima avversione per la nuova legge sanitaria diffusa tra gli americani.

Soprattutto, però, le vicende di queste settimane confermano come “Obamacare” non abbia pressoché nulla a che vedere con il diritto ad una copertura sanitaria accessibile e di qualità per tutti gli americani.

La “riforma” voluta da Obama, infatti, non è altro che il risultato degli sforzi della classe politica e delle compagnie assicurative per ridurre i costi dell’assistenza sanitaria pubblica e privata, riducendo i servizi offerti ai cittadini e facendo aumentare i profitti delle stesse corporation che operano in questo settore.

di Michele Paris

Tra sabato e martedì prossimo andrà in scena a Pechino il terzo e più importante plenum del 18esimo Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), aperto nel novembre del 2012. La nuova leadership della seconda potenza economica del pianeta, secondo ogni previsione, presenterà ai quasi 400 membri del Comitato Centrale del partito i propri piani per liberalizzare ulteriormente il sistema economico e finanziario, da implementare tra profonde divisioni interne alla classe dirigente cinese e gravi tensioni che la nuova accelerazione capitalista provocherà tra la popolazione.

Come previsto dal protocollo del regime, le prime due riunioni plenarie del PCC seguite all’inaugurazione di un nuovo Congresso a durata quinquennale riguardano quasi interamente questioni relative alla nomina dei nuovi vertici del partito, mentre il terzo serve a introdurre la visione economica e politica della leadership entrante dopo che essa ha più o meno consolidato il proprio potere.

Le aspettative per l’evento che sta per aprirsi sono altissime sia in Cina che tra i governi e gli investitori stranieri, tanto che in questi giorni si stanno sprecando i paragoni con un episodio cruciale della storia recente di questo paese, vale a dire il terzo plenum nel 1978 quando Deng Xiaoping lanciò il proprio programma di riforme di libero mercato.

Se i contenuti delle proposte del presidente Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang saranno resi noti solo alla chiusura della seduta plenaria, le linee guida per il prossimo futuro del sistema economico cinese appaiono in gran parte scontate. La crescita, cioè, dovrebbe essere favorita attraverso una maggiore competitività, l’incoraggiamento del settore privato, la deregolamentazione del settore finanziario, lo stimolo ai consumi individuali e l’allentamento dei controlli governativi sul flusso di capitali, sui tassi di interesse e sui prezzi delle risorse energetiche.

Alcuni provvedimenti di questo genere erano stati peraltro già adottati lo scorso mese di luglio, quando, tra l’altro, è stato lanciato un progetto pilota per una Zona Economica Speciale a Shanghai per testare alcune delle “riforme” di libero mercato che dovrebbero essere adottate a livello nazionale, sia pure in maniera più laboriosa.

Più in generale, come ha spiegato al New York Times il presidente della compagnia di investimenti cinese Primavera Capital Group, la sfida della nuova dirigenza riguarderà “fondamentalmente il ruolo dello stato in un’economia moderna”. Le attenzioni dei vertici di Pechino saranno concentrate in particolare sui colossi pubblici su cui si è basata gran parte dell’impetuosa crescita della Cina negli ultimi decenni.

I piani del presidente Xi e del premier Li appaiono ovviamente tutt’altro che semplici, come dimostra la cautela dei loro predecessori - rispettivamente Hu Jintao e Wen Jabao - i quali avevano fatto anch’essi simili promesse un decennio fa, nonché le resistenze che un simile percorso sta già provocando nel partito.

Le grandi aziende statali, infatti, sono estremamente potenti ed hanno legami consolidati ad altissimo livello nel PCC. Esse e i loro referenti politici temono principalmente la concorrenza sia degli attori privati che delle compagnie straniere e la fine dei privilegi a loro riservati, come l’accesso al credito a bassissimo costo o la garanzia di operare spesso in regime di monopolio.

La disputa interna al PCC per la direzione da dare al paese, risoltasi almeno formalmente con il successo della fazione favorevole all’apertura dell’economia cinese, è apparsa evidente in particolare con la vicenda di Bo Xilai, l’ex potente segretario della città di Chongqing caduto in disgrazia.

La purga ai danni di quest’ultimo ha rappresentato un passaggio cruciale nel superamento almeno temporaneo delle resistenze alla liberalizzazione dell’economia che Bo impersonava. Come è noto, l’ex membro del Politburo è stato condannato all’ergastolo in appello per corruzione proprio un paio di settimane fa dopo che le sue speranze di entrare nel Comitato Permanente del Politburo del partito erano crollate già nel marzo del 2012.

In quell’occasione, Bo e la moglie, Gu Kailai, condannata a morte lo scorso anno con pena sospesa per l’assassinio di un uomo d’affari britannico, erano stati arrestati nell’ambito di un’indagine scaturita in gran parte da motivazioni politiche.

Probabilmente non a caso, poco prima dell’inizio dei guai giudiziari di Bo, la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto denominato “Cina 2030” in collaborazione con il Centro di Ricerca e Sviluppo del Consiglio di Stato (governo) cinese, nel quale venivano delineate con chiarezza le iniziative da perseguire per “ristrutturare” l’economia del paese e aprirla ai capitali stranieri.

Tra le proposte avanzate dallo studio vi era, appunto, lo smantellamento dei monopoli statali nei settori strategici dell’economia, a cui Bo Xilai era legato e che manifestavano una netta opposizione alla strada prospettata dalla Banca Mondiale, a sua volta portavoce degli ambienti economici e finanziari internazionali.

Bo, inoltre, era considerato anche il leader della “Nuova Sinistra” neo-maoista, presa di mira dalle fazioni rivali perché responsabile di avere alimentato tra le fasce più disagiate della popolazione pericolose aspettative legate ad una società più equa attraverso la difesa del ruolo assegnato alle grandi aziende statali.

Queste ultime, in realtà, ben lontane dall’essere gestite nell’interesse pubblico, risultano essere pressoché esclusivamente strumenti per l’arricchimento di una cerchia relativamente ristretta legata ai vertici del Partito Comunista che si oppone perciò ai cambiamenti non per ragioni ideologiche ma esclusivamente per la difesa dei propri interessi. L’eliminazione di Bo ha dunque spianato la strada all’avanzamento delle “riforme” in senso capitalista che attendono la Cina nei prossimi anni.

I cambiamenti che verranno proposti nel corso del plenum del PCC che aprirà i battenti sabato, in ogni caso, sono state salutate in maniera euforica dalla stampa ufficiale di mezzo mondo, impegnata a spiegare come il rallentamento in corso dell’economia cinese abbia inevitabilmente spinto la nuova leadership di Pechino ad imprimere una svolta più decisa verso l’apertura del sistema.

Inoltre, senza timore di cadere in contraddizione, analisti e commentatori continuano a sottolineare come “riforme” che dovrebbero includere, tra l’altro, il ridimensionamento delle aziende pubbliche e una maggiore flessibilità della manodopera, abbiano l’obiettivo di ridurre il gap tra ricchi e poveri e creare maggiore occupazione.

In realtà, le liberalizzazioni si accompagneranno come di consueto ad inevitabili e massicce perdite di posti di lavoro, nonché ad un’ulteriore precarizzazione degli impieghi e ad un aggravamento delle disuguaglianze sociali. Come ha ricordato un’analisi di questa settimana della Associated Press, infatti, la precedente e più significativa fase di “riforme” economiche lanciata sul finire degli anni Novanta durante la premiership di Zhu Rongji, caratterizzata da un’ondata di privatizzazioni e progetti di “modernizzazione” delle compagnie statali, fu seguita dalla rovinosa perdita di milioni di posti di lavoro.

Per questa ragione, oltre a superare l’opposizione interna, la dirigenza cinese si troverà costretta a fronteggiare le resistenze e le tensioni sociali che si diffonderanno ben presto tra una sterminata popolazione che pagherà le conseguenze delle “riforme” stesse.

Assieme alla campagna lanciata dagli organi di propaganda del regime per presentare i piani che saranno in discussione al plenum come un passo avanti verso la creazione di un paese più prospero, i vertici del partito negli ultimi mesi hanno così proceduto a rafforzare il controllo sulla società cinese, intensificando la censura dei media e restringendo gli spazi a disposizione per qualsiasi opinione che possa alimentare pericolose illusioni di liberalizzazioni politiche o di un possibile percorso verso una sistema più equo.

di Michele Paris

Le previsioni della vigilia nella corsa alla carica di sindaco di New York sono state ampiamente rispettate nel voto di martedì con il candidato democratico, Bill de Blasio, che ha superato in maniera molto netta il suo sfidante repubblicano, Joseph Lhota. I risultati non ancora definitivi sono stati in gran parte determinati dalla diffusissima ostilità verso il primo cittadino uscente, il multi-miliardario Michael Bloomberg, contro il quale il neo-sindaco ha pressoché interamente costruito la sua campagna elettorale all’insegna della retorica progressista.

Il 52enne de Blasio si è imposto con un margine addirittura superiore a quello suggerito dai sondaggi, conquistando il 73% dei consensi contro poco meno del 25% del suo principale rivale. La vittoria di de Blasio è la più larga nella città di New York dal 1985, quando il democratico Ed Koch conquistò la carica di sindaco con oltre 60 punti percentuali di vantaggio. Residente nel quartiere lussuoso di Park Slope, a Brooklyn, De Blasio sarà inoltre il primo sindaco democratico dal 1994 e il primo proveniente da un “borough” diverso da Manhattan dal 1974.

Di evidenti origini italiane, protagonista in passato di severe critiche alla politica statunitense in Centroamerica (venne accusato, tra l'altro, di essere troppo amico dei sandinisti in Nicaragua) de Blasio orbita da tempo attorno all’establishment democratico newyorchese. Nel 2000 guidò con successo la campagna di Hillary Clinton per un seggio al Senato nello Stato di New York per poi essere eletto al consiglio municipale della metropoli di cui è ora diventato sindaco. Nel 2009 ottenne poi una certa popolarità facendosi interprete delle critiche nei confronti di Bloomberg per avere abolito il tetto massimo di due mandati alla carica di sindaco.

Il trampolino di lancio verso l’élite della politica di New York è stato però il ruolo di “public advocate”, una carica elettiva che dovrebbe agire da tramite tra i cittadini e l’amministrazione comunale, a cui è inoltre assegnato il ruolo di controllo sulle agenzie municipali e di indagine sulle segnalazioni degli elettori in merito a disfunzioni dei servizi pubblici.

Inizialmente, tuttavia, de Blasio era considerato tutt’altro che favorito per la conquista della “City Hall”, dal momento che le simpatie dei grandi finanziatori newyorchesi erano andate precocemente alla presidente del Consiglio Comunale, Christine Quinn. Quest’ultima è stata però danneggiata dalla sua sostanziale identificazione con lo stesso Bloomberg, mentre l’altro favorito fino all’estate, l’ex deputato Anthony Weiner, avrebbe visto anch’egli svanire le possibilità di diventare sindaco in seguito ad un nuovo scandalo sessuale dopo quello che in precedenza lo aveva costretto a dimettersi dalla Camera dei Rappresentanti di Washington.

Le primarie democratiche di settembre, così, si sono trasformate in un trionfo per de Blasio, il quale ha addirittura superato la soglia del 40% che gli ha consentito di evitare un secondo turno di ballottaggio. Gli entusiasmi attorno la sua candidatura sono stati però quasi interamente una creazione dei media, come conferma anche il fatto che nelle primarie aveva votato appena il 20% degli elettori registrati, cioè circa il 3% di tutti i newyorchesi.

Pur senza dati ufficiali, anche l’elezione vera e propria di martedì è stata con ogni probabilità segnata da una debolissima affluenza, come hanno affermato ai giornali locali molti degli scrutatori impiegati nei 1.200 seggi cittadini.

Se però la vittoria di Di Blasio rappresenta una chiara disponibilità dell’elettorato ad una svolta progressista e, quindi, al rifiuto delle politiche implementate da Boomberg, non si deve per questo ritenere che il nuovo sindaco newyorkese rivolterà come un guanto la città. Al di là della retorica “progressista” e il ripetuto ricorso allo slogan delle “Due Città” per descrivere le gigantesche disparità economiche e sociali che caratterizzano New York, la natura del neo-sindaco de Blasio è d’altra parte apparsa evidente nelle ultime settimane di campagna elettorale.

Una volta assicurata la nomination democratica grazie alle promesse di far fronte al disagio economico di milioni di newyorchesi e alle ingiustizie sociali, de Blasio non ha perso tempo a rassicurare i poteri forti della città. Durante i mesi di settembre e ottobre, infatti, i ricchi newyorchesi si sono precipitati a staccare sostanziosi assegni per il candidato teoricamente più a “sinistra” tra quelli in corsa per la carica di sindaco dopo una serie di incontri con i vertici dell’élite economica e finanziaria.

De Blasio non è stato dunque percepito come una minaccia dai milionari e miliardari che popolano New York, tanto che i loro contributi hanno permesso al candidato democratico di accumulare un vantaggio economico decisivo sui rivali. De Blasio, la cui immagine di politico “liberal” tornerà utile per contenere le tensioni sociali nella metropoli, ha potuto cioè contare su oltre dieci milioni di dollari da spendere in campagna elettorale, contro poco più dei tre milioni di Lhota.

De Blasio, a sua volta, si è dato da fare per proiettare un’immagine di sé tutt’altro che minacciosa, giungendo a definirsi “conservatore sulle questioni fiscali” nel corso di un recente incontro pubblico.

Il neo-sindaco, oltre ad attrarre il voto delle minoranze anche grazie alla puntuale esibizione della sua famiglia multirazziale, ha comunque fatto breccia tra una parte degli elettori che auspicano una svolta nella gestione della città dopo 12 anni di un’amministrazione come quella di Bloomberg che ha favorito pressoché unicamente le fasce di reddito più elevate .

Le proposte avanzate nelle scorse settimane per alzare le tasse su chi guadagna oltre 500 mila dollari l’anno così da finanziare le scuole dell’infanzia, mettere fine all’impopolare pratica della polizia definita “stop-and-frisk” - secondo la quale gli agenti hanno la facoltà di fermare e perquisire chiunque anche senza chiari sospetti che abbia commesso un qualsiasi reato - ed espandere l’edilizia popolare in una città dove gli affitti hanno raggiunto livelli stratosferici, hanno chiaramente risposto ad un’esigenza diffusa tra moltissimi newyorchesi.

Le possibilità di vedere implementate queste promesse sono però scarse, anche perché alcune di esse, come l’aumento del carico fiscale per i più ricchi, dovranno essere approvate dal parlamento statale e dal governatore democratico, Andrew Cuomo, tutt’altro che entusiasti nei confronti di una simile prospettiva.

Nella giornata di martedì si sono tenute anche altre importanti consultazioni elettorali negli Stati Uniti, tra cui quelle per la carica di governatore degli stati di New Jersey e Virginia. Nel primo caso, il repubblicano Chris Christie è stato rieletto senza difficoltà anche grazie allo scarso impegno dei democratici dello stato che negli ultimi quattro anni hanno collaborato nell’implementazione delle politiche “pro-business” di un governatore considerato da molti come un possibile pretendente alla Casa Bianca nel 2016.

In Virginia, invece, ad imporsi di misura è stato il democratico Terry McAuliffe, uomo dei Clinton che non aveva mai ricoperto cariche elettive e che ha beneficiato sia del massiccio sforzo del suo partito sia dell’identificazione del suo avversario, il procuratore generale dello stato Ken Cuccinelli, con l’estrema destra dei Tea Party.

A Detroit, infine, è stato eletto il primo sindaco bianco da decenni nonostante la nettissima prevalenza di abitanti di colore nella città del Michigan. L’ex dirigente medico Michael Duggan ha battuto il suo compagno di partito, lo sceriffo democratico della contea di Wayne, Bennie Napoleon, grazie ad una campagna elettorale che ha capitalizzato l’odio nei confronti del commissario speciale Kevin Orr, nominato dal governatore repubblicano per gestire il rovinoso processo di bancarotta che l’ex metropoli dell’auto sta affrontando proprio in queste settimane.

di Emanuela Muzzi

Londra. Sembrava, in prima istanza, che i quotidiani britannici avessero accettato silenti la Royal Charter. Ora che è stato posto il sigillo ufficiale di Sua Maestà all’istituzione di un corpo "indipendente" di controllo della stampa nel Regno Unito varata dal Privy Council, (il consiglio degli "advisor" della corona), gli editori d’Oltremanica sono su tutte le furie. Dopo un sonnellino ed una timida reazione, si sono svegliati in corner e hanno tentato il calcio d’angolo appellandosi alla Royal Court of Justice: causa persa.

Sebbene a detta della vice leader dei Labours e ministro ombra per la Cultura Harriet Harman le modalità di l’istituzione dell’organo di controllo creato per assicurare che la stampa inglese aderisca agli standard di legge, sono ancora in fase di discussione e definizione, l’ editto sembra essere ad un passo dal rush finale.

Va chiarito che la Royal Charter non è assolutamente uno strumento legislativo che ha lo scopo di riformare la stampa britannica. Anzi, quotidiani e gruppi editoriali inglesi sono chiamati ad elaborare i propri organi di controllo seguendo il principio della ‘self regulation’.

Il problema è che non si sa ancora con quale modalità verranno effettuate le nomine dei membri di quest’organo di controllo il cui fine, apparentemente, sarebbe quello di evitare il ripetersi di scandali, corruzione, illegalità, intercettazioni selvagge e giù di lì (sempre più in basso) in stile News of the World: il tabloid degli scandali. La stampan "Made in Murdoch", del resto, è un brand indimenticabile, un imprinting alle news a all’informazione tutta di cui non ci potremo mai liberare.

E mentre il cuore di Westminster batte per le vittime della mala stampa, fuori la tradizione dello scandalo continua; l’ultima news in stile Murdoch sbatte i mostri in prima pagina: la "roscia di fuoco", Rebekah Brooks, ex boss di News International e Andrew Coulson, ex responsabile della comunicazione del Primo Ministro David Cameron ed ex editore di News of the World, avevano una tresca. Da sei anni, mica da ieri.

Queste sì che sono news; cose importanti da sapere, informazioni chiave per gli inglesi che ormai non hanno neanche i soldi per pagare le bollette del gas (aumenti del 10%) e per mandare i figli all’università (6.000 pound all’anno), e che registrano un tasso di disoccupazione del 7.7%. Sì meglio non pensarci, pensiamo alla tresca tra i vip, trai potenti, tra la gente che ormai ha creato una upper class coperta dai media e una sottoclasse di affezionati lettori che sognano un mondo che li esclude senza possibilità di appello o ricorso.

Il cuore del problema è questo: la vendita delle news al popolino affamato di evasione. Finché faceva comodo alla politica e ai vip, il sistema delle news violente andava bene; finché non ha infranto pesantemente la legge ed il senso comune, si poteva anche sopportare.

Adesso, nonostante il processo Murdoch sia finito e la Leveson Inquiry abbia raggiunto il suo scopo, i politici inglesi hanno pensato bene di cogliere l’occasione per riesumare la tradizione puritana mettendo un recinto di contenimento alla stampa tutta. Attenzione però: la Royal Charter è un provvedimento emendabile. Si può migliorare in Parlamento, si può sempre trasformare il recinto in filo spinato.

di Michele Paris

Con una decisione senza precedenti a livello nazionale, il Congresso degli Stati Uniti ha consentito qualche giorno fa la riduzione automatica dei fondi per il programma pubblico di aiuti alimentari (“food stamps”) destinati ad ampi strati della popolazione americana del tutto esclusi dalla “ripresa” economica teoricamente in atto. I tagli ammontano a ben 11 miliardi di dollari nei prossimi tre anni e sono scattati in seguito all’esaurimento dei fondi stanziati da Camera e Senato all’interno del pacchetto di stimolo all’economia approvato in seguito all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.

Il programma di assistenza alimentare - ufficialmente denominato Supplemental Nutrition Assistance Program (SNAP) - era nato durante la Grande Depressione e garantisce oggi la possibilità di acquistare cibo a qualcosa come 48 milioni di americani a basso reddito o senza alcuna entrata.

I “food stamps” erano stati originariamente introdotti dall’amministrazione Roosevelt per far fronte ad una situazione di povertà dilagante sul finire degli anni Trenta del Secolo scorso e, in questi anni, sono tornati ad essere per molti un mezzo di sussistenza fondamentale alla luce delle conseguenze della nuova gravissima crisi del capitalismo americano e internazionale.

Nel solo anno fiscale da poco terminato, il governo federale ha così distribuito aiuti alimentari per quasi 75 miliardi di dollari e ogni americano ha ricevuto in media poco più di 134 dollari al mese. A testimonianza delle drammatiche condizioni in cui versano milioni di persone a causa della crisi economica, a tutt’oggi più del 15% della popolazione degli Stati Uniti beneficia dei “food stamps”. Secondo i dati dello stesso governo di Washington, addirittura, circa 7 milioni di americani contano sui “food stamps” come unica fonte di entrate.

A causa dei tagli entrati in vigore nel fine settimana, nei prossimi tre anni una famiglia composta da tre persone perderà 300 dollari all’anno in buoni alimentari. Soprattutto, la ferocia della classe politica d’oltreoceano farà in modo che a breve verrà deciso un ulteriore ridimensionamento di questa voce di spesa. Infatti, nell’ambito della nuova legge relativa al settore agricolo USA - visto che i “food stamps” sono gestiti dal Dipartimento dell’Agricoltura - i due rami del Congresso hanno già approvato separatamente altrettante misure che contengono altri tagli.

Particolarmente dura appare la versione della Camera a maggioranza repubblicana, il cui provvedimento prevede una riduzione dei fondi per 40 miliardi di dollari in dieci anni, escludendo 2 milioni di americani a bassissimo reddito dall’accesso ai programmi alimentari. Il pacchetto votato dal Senato a maggioranza democratica, invece, di miliardi di dollari per i “food stamps” intende tagliarne 4.

La notizia del ridimensionamento dei buoni alimentari è passata sotto silenzio su quasi tutta la stampa americana, impegnata al contrario a celebrare la recente decisione della Federal Reserve di continuare ad immettere sui mercati finanziari 85 miliardi di dollari ogni mese.

Tra i pochi giornali a dare un qualche rilievo alla notizia è stato il News Tribune dello stato di Washington, il quale ha ricordato come, nelle probabili intenzioni del Congresso, la riduzione dei benefit alimentari dovrebbe essere la conseguenza di un’economia in ripresa. Ciò conferma ancora una volta il divario incolmabile esistente tra la classe politica e la grande maggioranza della popolazione, dal momento che la prima misura i progressi economici del paese unicamente con i dati relativi all’andamento della borsa e ai profitti delle corporations, entrambi a livelli da record.

Oltre a riportare le drammatiche testimonianze di coloro che, spesso assieme ai loro figli di pochi anni, vedranno minacciata la propria sicurezza alimentare nell’immediato futuro, i reporter del News Tribune hanno poi evidenziato la gravità della situazione in stati come California e Texas, dove in cinque anni i beneficiari di “food stamps” sono aumentati di 2,5 milioni, ricordando inoltre che le stesse statistiche governative avevano già rilevato come l’SNAP raramente garantiva valori nutrizionali adeguati anche prima dei tagli.

Per la testata con sede a Tacoma, l’impatto della riduzione dei “food stamps” non si farà sentire soltanto su coloro che ne beneficiano, visto che alcuni studi hanno dimostrato come ogni 5 dollari spesi in buoni alimentari ne vengano generati 9 in attività economiche collegate.

La classe dirigente americana, dunque, non solo è del tutto insensibile ai bisogni elementari della popolazione americana in difficoltà ma ad essi risulta addirittura ostile, togliendo letteralmente il pane di bocca a milioni di poveri, disoccupati, madri single e disabili, mentre continua ad assicurare un flusso di denaro ininterrotto ai colossi dell’industria finanziaria.

I tagli ai “food stamps”, come è noto, giungono nel pieno di un vero e proprio assalto alla spesa pubblica destinata ai programmi sociali negli Stati Uniti. Proprio la settimana scorsa, tra l’altro, ha tenuto la prima seduta una speciale commissione del Congresso che ha l’incarico di trovare un accordo bipartisan sul debito federale e che potrebbe di fatto gettare le basi per lo smantellamento dei programmi pubblici di assistenza Medicare, Medicaid e Social Security.

Il 31 dicembre prossimo, infine, sempre tra l’indifferenza di politici e media ufficiali, cesseranno definitivamente anche i sussidi di disoccupazione addizionali stanziati a livello federale per far fronte all’interruzione avvenuta già da tempo in molti stati di questo genere di aiuti, gettando nella povertà altri milioni di americani senza la minima speranza di trovare un lavoro ben retribuito.


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