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di Michele Paris
Dopo più di 1.100 giorni di detenzione preventiva, l’ex analista dell’esercito americano Bradley Manning ha assistito all’avvio del proprio processo di fronte ad una corte marziale dove è sostanzialmente accusato di avere contribuito a far conoscere a tutto il pianeta alcuni dei crimini dell’imperialismo americano e la segretezza con cui Washington conduce i propri affari nel mondo.
Il procedimento a suo carico viene utilizzato dal governo USA per impartire una lezione inequivocabile a chiunque intenda mettere in piazza gli aspetti più oscuri del proprio operato, ricorrendo ad una serie di misure pseudo-legali per ottenere una condanna esemplare.
Le accuse rivolte contro il 25enne ex militare impiegato in Iraq sono ormai note e comprendono soprattutto il trasferimento di documenti riservati del governo americano a WikiLeaks, un’azione che avrebbe “favorito il nemico” e messo a rischio la vita di altri soldati del proprio paese. Nel corso delle udienze preliminari dei mesi scorsi, Manning si era dichiarato colpevole in maniera spontanea di alcuni capi di imputazione meno gravi ma l’accusa ha respinto ogni ipotesi di patteggiamento, preferendo cercare in aula una condanna al massimo della pena prevista, cioè l’ergastolo.
Il giudice militare che presiede la corte marziale, colonnello Denise Lind, in un’altra udienza aveva invece deciso di escludere dal procedimento qualsiasi discussione sulle motivazioni che hanno spinto Manning a sottrarre al governo e pubblicare circa 700 mila documenti riservati, limitando di fatto le sue possibilità di difesa e impedendo di far luce sul contenuto dei documenti stessi.
Nella prima giornata di dibattimento a Fort Meade, in Maryland, l’accusa, rappresentata dal capitano Joe Morrow, in poco meno di un’ora ha cercato deliberatamente di screditare Bradley Manning. A suo dire, quest’ultimo avrebbe “sistematicamente e indiscriminatamente” raccolto documenti riservati per metterli in rete con la consapevolezza di favorire “i nostri nemici”, a cominciare da Al-Qaeda.
Inoltre, il capitano Morrow ha affermato per la prima volta che Manning sarebbe entrato in contatto con WikiLeaks già nel novembre 2009, poco dopo il suo arrivo in Iraq, iniziando a fornire materiale classificato all’organizzazione fondata da Julian Assange anche dopo aver letto un rapporto della CIA nel quale si diceva che i “nemici degli Stati Uniti” potevano trarre vantaggio dall’attività di WikiLeaks.
Queste accuse contrastano con quanto sostenuto dalla difesa, cioè che Manning avrebbe selezionato con cura i documenti da pubblicare in rete, così da non creare situazioni di rischio per i soldati americani all’estero, e che la collaborazione con WikiLeaks sarebbe iniziata solo nel gennaio del 2010, qualche settimana dopo la morte in Iraq di una famiglia innocente, causata da un convoglio americano, che determinò l’affiorare nel giovane analista di un “senso di obbligo morale” per rivelare la realtà sul campo in Iraq.
Morrow, infine, ha ribadito che i documenti pubblicati da WikiLeaks sono stati esaminati dai vertici di Al-Qaeda, tra cui lo stesso Osama bin Laden, il quale era in possesso di una copia di essi in formato digitale. Questa affermazione sarebbe basata sui rilevamenti fatti dai componenti del commando americano che giustiziò il leader di Al-Qaeda in Pakistan nel 2011, alcuni dei quali dovrebbero testimoniare al processo contro Manning senza rivelare la propria identità e senza essere controinterrogati dalla difesa.
Oltre a ciò, molte altre decisioni prese dal giudice Lind durante le udienze preliminari confermano come la corte marziale di Bradley Manning sia ben lontana dal rappresentare un procedimento nel quale i diritti costituzionali dell’imputato vengono garantiti. Secondo il Center for Constitutional Rights, ad esempio, le udienze tenute prima dell’apertura del processo vero e proprio “sono state caratterizzate da misure più restrittive di quelle previste nei tribunali militari di Guantanamo”, mentre delle decine di migliaia di documenti presentati in relazione al caso Manning solo una minima parte sono stati resi pubblici o consegnati alla difesa.
Nell’aula di Fort Meade, inoltre, il governo ha allestito meno di venti posti per il pubblico e ha distribuito appena una decina di accrediti alla stampa. La gran parte dei giornali, perciò, baserà i propri resoconti del processo sui comunicati ufficiali. Un simile livello di segretezza testimonia delle inquietudini del governo e dei militari USA per un procedimento profondamente anti-democratico, nonché i timori per una possibile discussione pubblica dei crimini americani rivelati eroicamente da Bradley Manning.
Queste violazioni dei diritti di Manning si aggiungono oltretutto al trattamento a lui riservato fin dall’arresto in Iraq nel maggio del 2010. Dopo il trasferimento in Kuwait, Manning venne alla fine riportato in patria, rinchiuso in una cella presso una base dei Marines di Quantico, in Virginia, e qui sottoposto a trattamenti a dir poco degradanti e definiti come torture dalle stesse Nazioni Unite.
Le tendenze sempre più repressive di Washington nei confronti dei cosiddetti “whistleblower” come Manning è confermata d’altra parte dal numero record di procedimenti penali aperti dal governo a partire dal 2009 contro propri dipendenti. Allo stesso modo, è ormai chiaro come a fare le spese di questa offensiva contro la diffusione di notizie che riguardano la condotta del governo siano ormai anche giornali e siti web.
Oltre al tentativo di perseguire Assange e WikiLeaks tramite il processo a Manning e grazie alla collaborazione dei governi di Svezia e Gran Bretagna, proprio nelle scorse settimane è emerso che l’amministrazione Obama ha ottenuto in maniera segreta e illegale e-mail personali e registrazioni telefoniche di reporter dell’Associated Press e di Fox News nell’ambito di indagini su fughe di notizie dall’interno del governo.
Con il processo a Fort Meade che dovrebbe durare almeno tre mesi, nella giornata di martedì sono apparsi in aula alcuni testimoni dell’accusa, tra cui due analisti informatici dell’esercito che hanno esaminato i supporti elettronici utilizzati da Manning, trovando file creati nel novembre 2009 con informazioni per contattare Wikileaks, e Adrian Lamo, l’ex hacker che ha denunciato lo stesso Manning alle autorità dopo averlo conosciuto in una chat on-line.
Per quanto riguarda la sorte di Bradley Manning, in ogni caso, come ha scritto lunedì Julian Assange in un intervento sull’inizio della corte marziale pubblicato dal sito di WikiLeaks, “nessuno crede seriamente in un esito positivo”, visto che già “le udienze preliminari hanno metodicamente eliminato ogni incertezza, decretando un veto preventivo ad ogni strumento nelle mani della difesa”.
In riferimento all’impossibilità di Manning di citare le proprie intenzioni a discolpa delle sue azioni e al divieto di presentare testimoni o documenti che dimostrino come la pubblicazione dei documenti riservati non abbia provocato alcun danno, Assange propone poi un parallelo con un ipotetico processo per omicidio, nel quale le misure imposte dal tribunale militare di Fort Meade corrisponderebbero all’impossibilità di fare appello alla legittima difesa o, ancora più assurdamente, di dimostrare che la presunta vittima dell’imputato è in realtà ancora viva.
Quando comunicare con la stampa significa “favorire il nemico”, conclude Assange, è la stessa circolazione pubblica delle informazioni a diventare un atto criminale. Per questo motivo, “non è tanto Bradley Manning ad essere alla sbarra, poiché il suo processo si è chiuso da tempo… bensì gli stessi Stati Uniti d’America”, ovvero “un esercito i cui crimini sono stati smascherati e un governo che opera nella segretezza ed è in guerra con il proprio popolo.”
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di Michele Paris
La tensione in Turchia non accenna a diminuire. Gli scontri tra i manifestanti e le forze di polizia turche sono continuati per il quarto giorno consecutivo, espandendosi dal quartiere di Istanbul dove le proteste erano scoppiate lo scorso fine settimana ad altre zone della metropoli sul Bosforo e a svariate città del paese euro-asiatico.
L’esplosione della rabbia popolare contro il regime islamista guidato dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha portato alla luce tutte le contraddizioni delle politiche di un governo a lungo indicato come modello di sviluppo per il Medio Oriente e non solo, smascherando al contempo il carattere sempre più autoritario del premier Recep Tayyip Erdogan in un decennio di permanenza al potere.
Come è ormai noto, il caos nelle strade di Istanbul era iniziato in seguito all’intervento della polizia per reprimere una manifestazione contro un progetto edilizio promosso dal governo nel parco Gezi - località del distretto di Beyo?lu nella parte europea della città e associata ad importanti proteste popolari nella seconda metà del secolo scorso - dove è previsto l’abbattimento di un centro culturale per far posto ad una moschea, un complesso residenziale e un centro commerciale.
Nella giornata di venerdì, le forze di sicurezza avevano dunque attaccato i dimostranti, ricorrendo anche al lancio di gas lacrimogeni da elicotteri inviati a sorvolare la zona interessata dalle proteste. Concentratesi soprattutto nella Piazza Taksim, le manifestazioni e gli scontri con la polizia sono continuati fino a sabato, con centinaia di feriti e arresti, nonché, secondo quanto affermato da Amnesty International, due morti tra i contestatori.
La dura risposta del governo e la diffusa ostilità latente nei confronti del regime hanno determinato un rapido contagio delle proteste al resto della Turchia, così che manifestazioni in solidarietà con quella di Istanbul sono state indette in varie città, tra cui la capitale Ankara, Izmir, Adana e molte altre.
Domenica, poi, il ritiro della polizia da Piazza Taksim ha lasciato spazio alle celebrazioni dei manifestanti ma gli scontri, così come la repressione del governo, sono proseguiti altrove. L’uso di gas lacrimogeni e il ricorso ad arresti indiscriminati sono stati segnalati ad esempio nel quartiere Besiktas di Istanbul e a Izmir, sulla costa del Mare Egeo, dove una folla di persone ha dato fuoco alla sede locale del partito di Erdogan.
Secondo quanto affermato in un’intervista al quotidiano turco Hürriyet da una deputata del Partito Popolare Repubblicano (CHP) all’opposizione, ad Ankara ci sarebbero stati addirittura 1.500 arresti. I manifestanti finiti in manette sarebbero stati privati dell’assistenza di un legale e poi costretti a firmare testimonianze giurate per ammettere fatti mai commessi.
Il premier Erdogan, da parte sua, ha parlato in diretta TV nella giornata di sabato, respingendo qualsiasi critica al suo governo, pur ammettendo “errori” da parte delle forze di polizia, e promettendo di portare a termine il progetto edilizio contestato.
Il premier islamista, dopo avere definito i “social media la più grande minaccia alla società” per avere favorito il diffondersi delle proteste, ha poi assurdamente accusato “forze esterne” di avere fomentato le contestazioni, riecheggiando singolarmente la tesi sostenuta con maggiore ragione da Assad in Siria per descrivere la crisi che sta affrontando da oltre due anni il suo regime anche a causa delle manovre del governo turco.
Quello che sta vivendo la Turchia in questi giorni, in ogni caso, va ben al di là delle proteste di un gruppo di attivisti che cerca di fermare la trasformazione di un parco di Istanbul e, nelle parole del veterano giornalista Cengiz Çandar, appare “senza precedenti negli ultimi 40 anni” di storia del paese.
A determinare l’esplosione della rabbia sopita tra la popolazione turca sono una serie di fattori, che vanno dalle conseguenze di un modello neo-liberista - che ha dato l’illusione di una crescita economica generalizzata - al crescente autoritarismo e all’islamizzazione strisciante di una società tradizionalmente secolare; dal sostegno incondizionato del governo di Ankara ai gruppi fondamentalisti sunniti in guerra contro Assad in Siria agli stessi grandiosi progetti di trasformazione urbana spesso messi in atto contro il volere della popolazione e della società civile.
A produrre una virulenta reazione nei confronti delle politiche del governo ha contribuito anche l’immediata partecipazione alle proteste spontanee dei partiti di opposizione, a cominciare dal CHP. Un’evoluzione, quest’ultima, che è la diretta conseguenza di un durissimo confronto in atto tra la classe dirigente turca fin dall’ascesa al potere di Erdogan e dell’AKP nel 2003, segnato da una battaglia per la marginalizzazione delle forze secolari eredi della rivoluzione borghese del padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal (Atatürk).
Ancora più decisivi sono però gli effetti delle politiche di classe messe in atto da Erdogan, visibili, tra l’altro, proprio nella trasformazione di Istanbul, epicentro delle proteste di questi giorni, portata avanti all’insegna del capitalismo più sfrenato e, frequentemente, nell’interesse di una cerchia di uomini d’affari vicini al governo o di esponenti del governo stesso, come nel caso del progetto del parco Gezi, appaltato ad una società di proprietà del genero dell’attuale primo ministro.
Le scosse che stanno facendo tremare un governo ritenuto ancora relativamente solido mettono poi in una situazione di grave disagio gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Ankara, come ha suggerito il consueto comunicato di circostanza emesso dal Dipartimento di Stato americano, “preoccupato” per l’uso della forza contro le proteste di piazza.
I toni volutamente blandi di Washington ricordano quelli utilizzati, ad esempio, nella primavera del 2011 durante il soffocamento della rivolta interna da parte di un altro regime alleato, quello del Bahrain, e, in contrasto con le aperte minacce lanciate nei confronti di Damasco e precedentemente di Tripoli, rivelano ancora una volta il doppio standard degli USA nel rispondere alla repressione messa in atto da paesi alleati o considerati nemici.
Le contraddizioni dell’atteggiamento di Washington e di Ankara, perciò, hanno dato la possibilità allo stesso governo siriano di mettere in imbarazzo il vicino settentrionale. Nella giornata di sabato, così, le dichiarazioni del ministro dell’Informazione di Damasco, Omran al-Zoubi, hanno ricalcato quelle costantemente rilasciate dalle autorità turche negli ultimi ventiquattro mesi a proposito della crisi in Siria.
Secondo Zoubi “le aspirazioni del popolo turco non meritano tutta questa violenza” e se Erdogan non è in grado di rispondere pacificamente alle richieste dei manifestanti “dovrebbe farsi da parte”, visto che la brutale repressione messa in atto in questi giorni dimostra come il premier sia ormai “disconnesso dalla realtà”.
Proprio la strategia siriana del governo di Ankara rischia ora di fare esplodere definitivamente la società turca, in larga misura contraria ad un coinvolgimento del proprio paese in un conflitto che sta alimentando pericolosamente il terrorismo islamista, mettendo in pericolo gli stessi progetti di permanenza al potere di Erdogan oltre il 2015, quando dovrebbero entrare in vigore riforme costituzionali per introdurre un sistema presidenziale fortemente voluto proprio dal primo ministro per consolidare l’impronta autoritaria data al paese nell’ultimo decennio.
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di Mario Lombardo
Nella primissima mattinata di mercoledì, gli Stati Uniti hanno lanciato un bombardamento in una località del Waziristan del Nord che ha assassinato il numero due dei talebani attivi nel paese centro-asiatico e almeno altre quattro persone. L’operazione condotta dalla CIA, che ha interrotto un periodo relativamente lungo senza incursioni di droni in territorio pakistano, rappresenta con ogni probabilità un messaggio lanciato da Washington al Primo Ministro entrante, Nawaz Sharif, e contraddice la promessa fatta la settimana scorsa dal presidente Obama di porre un freno alla valanga di eccessi e illegalità messe in atto in oltre un decennio di “guerra al terrore”.
La vittima più illustre del blitz americano di questa settimana è Wali ur-Rehman, il secondo in comando della coalizione di gruppi militanti integralisti Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), più comunemente conosciuti come Talebani Pakistani, operanti nelle Aree Tribali al confine con l’Afghanistan.
Secondo le testimonianze riportate dai media occidentali, attorno alle tre del mattino di mercoledì alcuni missili sono caduti su un’abitazione alla periferia di Miranshah, la principale città del Waziristan del Nord, uccidendo, oltre a Rehman, due jihadisti uzbeki e ferendo almeno tre bambini.
La morte di Rehman è stata inizialmente confermata dalle autorità pakistane e solo giovedì dal portavoce ufficiale di TTP, Ehsanullah Ehsan. Sulla testa di Rehman era stata messa una taglia di 5 milioni di dollari dagli Stati Uniti, i quali lo accusavano di avere organizzato svariati attacchi contro le forze di occupazione americane in Afghanistan e di essere coinvolto nell’attentato suicida commesso da un doppio agente giordano nel dicembre 2009 che uccise sette dipendenti della CIA in una base della provincia di Khost, al confine con il Pakistan.
Soprattutto, però, Rehman era considerato relativamente moderato rispetto al leader dei Talebani Pakistani e suo diretto superiore, Hakimullah Mehsud. La sua morte, perciò, potrebbe rendere ancora più improbabile l’avvio di un già complicatissimo processo di riconciliazione con il governo civile di Islamabad.
Nei commenti pubblicati in questi giorni dai giornali americani, Rehman viene definito come un militante in grado di risolvere pacificamente le dispute tra le varie fazioni jihadiste, nonché contrario agli attacchi indiscriminati contro i civili spesso portati a termine dai Talebani. Inoltre, lo stesso comandante sembrava avere legami con svariati partiti religiosi pakistani che si erano offerti di mediare tra il governo e i Talebani.
Una qualche speranza di trovare un’intesa per far diminuire il livello di violenza in Pakistan era emersa in seguito al successo nelle elezioni dell’11 maggio scorso della Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N) di Nawaz Sharif, il quale in campagna elettorale aveva più volte criticato l’uso dei droni nel proprio paese da parte degli Stati Uniti e lasciato intravedere la volontà di aprire un dialogo proprio con Tehrik-i-Taliban.
All’inizio della scorsa settimana, ad esempio, il premier in pectore aveva ribadito pubblicamente la necessità di perseguire un processo di pace “per il progresso e lo sviluppo del paese”, aggiungendo che il suo governo si adopererà per “il dialogo, rispondendo all’offerta di pace dei Talebani”.
In una dichiarazione rilasciata giovedì al quotidiano pakistano The Express Tribune, il portavoce di TTP ha però inevitabilmente annunciato che la sua organizzazione intende ritirare l’offerta di dialogo fatta al nuovo governo. Ehsan, inoltre, ha attribuito l’intera responsabilità degli attacchi con i droni nelle Aree Tribali all’esecutivo di Islamabad, colpevole di passare agli americani informazioni cruciali per localizzare i militanti.
L’assassinio di Rehman da parte degli americani, perciò, sembra assestare un colpo mortale alle già esili prospettive di pace che avrebbero potuto teoricamente determinare una limitazione delle attività “anti-terroristiche” americane in territorio pakistano.
Dal momento che Nawaz sta per ultimare le trattative attorno alla formazione del suo prossimo governo, l’incursione con i droni della CIA di mercoledì può dunque essere considerata come un messaggio preliminare lanciato da Washington a Islamabad a non abbassare la guardia nella lotta all’integralismo islamico in Pakistan, ovvero a non deviare dalla strada percorsa dal precedente gabinetto, fedele esecutore delle politiche statunitensi nonostante la diffusa ostilità della popolazione.
Il ritorno dei droni nei cieli del Pakistan questa settimana, come anticipato in precedenza, giunge poi a pochi giorni di distanza da un importante quanto contraddittorio discorso tenuto da Obama presso la National Defense University di Washington. Nel suo intervento di giovedì scorso, l’inquilino della Casa Bianca aveva in sostanza ammesso la totale illegalità dei metodi più discussi utilizzati dagli Stati Uniti, compresa la sua amministrazione, nell’ambito della “guerra al terrore”.
Esprimendo le inquietudini di alcune sezioni della classe dirigente d’oltreoceano, preoccupate per il venir meno della legittimità di un sistema di potere che ha ormai istituzionalizzato il ricorso a metodi di governo profondamente antidemocratici, Obama si era perciò impegnato a modificare, tra l’altro, la gestione del programma “anti-terrorismo” basato sull’impiego dei droni.
In particolare, il presidente democratico aveva annunciato una revisione di questo stesso programma, così da renderlo più trasparente, sottraendolo in alcuni casi alla CIA - incaricata delle incursioni in Pakistan - per assegnarne la completa responsabilità al Dipartimento della Difesa.
Sia pure limitata e del tutto inadeguata a mettere fine ad un programma palesemente illegale, questa presunta svolta prospettata da Obama è apparsa da subito poco più che una farsa. Infatti, come ha spiegato giovedì il New York Times, “fin dai giorni successivi al discorso del presidente, membri della sua amministrazione hanno chiarito dietro le quinte che i nuovi standard [per la gestione della campagna con i droni] non sarebbero stati applicati al programma condotto dalla CIA in Pakistan”, almeno “fino a quando le truppe americane rimarranno in Afghanistan”.
Questa eccezione per “il teatro di guerra afgano” - all’interno del quale, per gli USA, rientra anche il Pakistan - è stata alla fine confermata dall’incursione di mercoledì che ha eliminato il numero due dei Talebani Pakistani.
Nonostante le promesse di maggiore trasparenza e l’affermazione inequivocabile fatta da Obama circa l’incompatibilità con la democrazia degli assassini con i droni, gli Stati Uniti hanno così già chiarito che questa campagna di morte illegale nel territorio di un paese sovrano continuerà ancora a lungo.
Secondo alcune stime, la CIA ha condotto più di 360 attacchi con i droni in Pakistan a partire dal 2004, uccidendo migliaia di civili innocenti, considerati nient’altro che “danni collaterali” di assassini mirati di semplici militanti o, in misura decisamente minore, di esponenti di spicco delle formazioni jihadiste attive al confine con l’Afghanistan.
Come ha messo in luce un rapporto di qualche mese fa delle università di New York e Stanford, la campagna con i droni in Pakistan non causa soltanto un numero altissimo di morti tra i civili ma ha ormai trasformato la vita dei residenti delle zone colpite in un vero e proprio incubo. Qui, infatti, adulti e bambini vivono in uno stato di perenne terrore, con “la consapevolezza di essere totalmente indifesi” di fronte ad un attacco dal cielo che potrebbe giungere in qualsiasi momento.
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di Michele Paris
Il prossimo 4 giugno, il cosiddetto gruppo CP931 dell’Unione Europea, incaricato della stesura dell’elenco delle organizzazioni terroristiche, prenderà in considerazione l’eventuale aggiunta ad esso del partito e milizia sciita libanese Hezbollah. Ad aprire la procedura di valutazione è stato recentemente il governo britannico dopo avere incassato l’appoggio di Francia e Germania. L’iniziativa è legata direttamente all’evoluzione della crisi in Siria e si basa su accuse a dir poco discutibili rivolte contro il “Partito di Dio” per avere commesso atti di terrorismo sul suolo europeo.
A indicare un cambiamento di atteggiamento da parte di Berlino e Parigi sono stati i rispettivi ministri degli Esteri - Guido Westerwelle e Laurent Fabius - i quali settimana scorsa, rinnegando le posizioni precedentemente assunte dai loro paesi, hanno manifestato il proprio favore all’aggiunta dell’ala militare di Hezbollah alla lista nera dell’Unione Europea.
Singolarmente, alcuni paesi europei considerano già almeno in parte Hezbollah come un gruppo terrorista. La Gran Bretagna, ad esempio, classifica in questo modo l’ala militare del partito libanese, mentre Francia e Olanda - assieme a Stati Uniti, Canada, Israele e Bahrain - hanno bollato come terrorista l’intera organizzazione sciita guidata fin dal 1992 da Sayyed Hassan Nasrallah.
Altri governi, invece, nutrono molti dubbi circa la designazione di Hezbollah, sia per il timore di destabilizzare ulteriormente il Libano sia per non mettere in pericolo la missione di “peacekeeping” delle Nazioni Unite nel sud di quest’ultimo paese, nella quale sono schierati contingenti di molti paesi europei. Le procedure dell’UE prevedono la necessità di un voto unanime da parte di tutti e 27 i paesi membri per includere una qualsiasi organizzazione nella lista dei gruppi considerati di natura terroristica.
La proposta avanzata da Londra, Berlino e Parigi, in ogni caso, si basa su motivazioni del tutto fuorvianti e scaturisce da calcoli puramente politici. Oltretutto, pur mantenendo una efficientissima milizia armata dedita alla difesa dell’integrità territoriale del Libano, Hezbollah si è da tempo trasformato in uno dei principali partiti politici del proprio paese, dove gestisce una fitta rete di servizi sociali per la comunità sciita.
I fatti che hanno fornito l’occasione a questi governi europei di spingere per la designazione di Hezbollah riguardano in primo luogo un attentato risalente all’estate del 2012 le cui responsabilità sono tutte da dimostrare. L’episodio in questione è l’esplosione di un autobus di turisti israeliani avvenuta nel luglio dello scorso anno nella località bulgara di Burgas, sul Mar Nero, nella quale morirono sei persone.
Dietro le pressioni di Stati Uniti e Israele, nel mese di febbraio l’allora ministro dell’Interno di Sofia, Tsvetan Tsvetanov, in una conferenza stampa indicò Hezbollah, sia pure senza esprimere certezza, come il probabile responsabile dell’attentato terroristico. Tsvetanov non fornì alcuna prova concreta a sostegno della sua tesi, affermando per due volte che il coinvolgimento di membri di Hezbollah era soltanto una “ragionevole supposizione”.
Un articolo del New York Times avrebbe successivamente rivelato come dietro alle conclusioni degli investigatori bulgari riportate da Tsvetanov c’erano informazioni provenienti da “fonti segrete” e da “agenzie di intelligence europee” che avevano semplicemente collegato gli autori materiali dell’attentato di Burgas al Libano.
Soprattutto, una serie di analisi del giornalista investigativo americano Gareth Porter ha messo in luce come le accuse contro Hezbollah si basino esclusivamente su “ipotesi”, tanto che lo stesso magistrato bulgaro incaricato dell’indagine aveva sottolineato in un’intervista nel mese di gennaio che “le prove disponibili sono troppo esili per indicare un responsabile certo”.
Oltre ai fatti di Burgas, i paesi che insistono per aggiungere Hezbollah alla lista UE delle organizzazioni terroriste faranno poi riferimento anche alla recente condanna a Cipro di un individuo con doppia cittadinanza libanese e svedese, accusato di avere monitorato per conto di Hezbollah alcune località turistiche dell’isola frequentate da israeliani per individuare potenziali obiettivi di attentati finora mai messi in atto.
Soprattutto, però, l’offensiva europea contro Hezbollah coincide con una serie di sconfitte patite sul campo dai “ribelli” siriani in parte a causa proprio della partecipazione al conflitto di un certo numero di affiliati alla milizia sciita libanese a fianco del regime di Assad, il quale, assieme all’Iran, rappresenta il suo principale sponsor.
Tutt’altro che casualmente, infatti, la questione dell’aggiunta di Hezbollah alla lita nera UE sta per essere discussa pochi giorni dopo la decisione di Bruxelles di cancellare l’embargo sulla fornitura di armi ai “ribelli”, anche in questo caso in seguito alle pressioni di Francia e Gran Bretagna. Che le due questioni siano collegate lo ha confermato anche lo stesso ministro francese Fabius, il quale aveva annunciato in maniera ufficiale la nuova posizione del suo governo su Hezbollah a margine dell’incontro dei cosiddetti “Amici della Siria”, andato in scena settimana scorsa ad Amman, in Giordania.
Il marchio del terrorismo eventualmente affibbiato al “Partito di Dio” da parte dell’Europa, perciò, rientrerebbe più in generale nel disegno Occidentale e israeliano di spezzare l’asse della “resistenza” in Medio Oriente, formato appunto da Siria, Hezbollah e Iran, tutti al centro delle manovre militari, diplomatiche ed economiche degli Stati Uniti e dei loro alleati.
I tentativi di screditare, se non addirittura annientare, Hezbollah sono d’altra parte numerosi, tra cui spicca il cosiddetto Tribunale Speciale per il Libano, creato sotto l’egida delle Nazioni Unite appositamente per assegnare all’organizzazione sciita la responsabilità dell’assassinio nel febbraio 2005 dell’ex primo ministro sunnita di Beirut, Rafik Hariri.
In particolare, l’emarginazione di Hezbollah finirebbe per beneficiare Israele, come dimostrano i ripetuti bombardamenti illegali condotti negli ultimi mesi da Tel Aviv in territorio siriano, ufficialmente decisi per impedire il trasferimento di armi alla milizia/partito libanese.
Proprio l’inevitabile collegamento tra l’iniziativa di Bruxelles nei confronti di Hezbollah e la vicenda siriana consente di mettere in evidenza ancora una volta il cinismo e l’ipocrisia degli USA e dei governi europei. Mentre Londra, Parigi e Berlino insitono per bollare come terrorista l’ala militare di un partito che è parte integrante della struttura politica di un paese sovrano, e che sta intervenendo in maniera limitata a fianco di un alleato, questi stessi governi favoriscono l’afflusso in Siria di migliaia di terroristi provenienti da vari paesi europei e asiatici, responsabili principali di un’escalation di violenze che sembra non avere fine.
L’unico provvedimento adottato per dare l’impressione di voler modificare questo scenario è stato puramente di facciata, vale a dire l’aggiunta alla lista delle organizzazioni terroristiche del solo Fronte al-Nusra attivo in Siria, una delle tante formazioni jihadiste che operano per rimuovere il regime di Assad in collaborazione con l’Occidente e le monarchie assolute del Golfo Persico e che beneficeranno a breve della decisione di Bruxelles di abolire l’embargo sulle armi destinate ai “ribelli”.
Se la messa fuori legge dell’ala militare di Hezbollah in Europa sembrava improbabile fino a qualche mese fa, il cambiamento della posizione di paesi del peso di Francia e Germania rende decisamente più probabile una decisione di questo genere. Dopo l’incontro dell’apposito gruppo di lavoro europeo del 4 giugno, inoltre, la questione dovrebbe essere discussa a livello di ministri degli Esteri il 24 dello stesso mese, prima di una decisione finale durante l’estate.
L’aggiunta di Hezbollah alla lista nera di Bruxelles renderebbe pressoché impossibile l’attività di questa organizzazione in Europa, dove grazie ad una rete ben consolidata di propri affiliati può attualmente raccogliere donazioni in maniera legale.
Come ha spiegato, tra gli altri, l’analista del NATO Defense College, Jean-Loup Samaan, in un articolo apparso martedì sulla testata on-line Al-Monitor, Hezbollah appare però come un’organizzazione centralizzata con un organismo direttivo che esercita il proprio controllo su tutte le attività, sia in ambito militare che politico e sociale.
Un’eventuale decisione dell’UE riguardante la sola ala militare, quindi, potrebbe consentire a quella sociale o caritativa di proseguire la propria attività in territorio europeo, così che un’ipotesi percorribile potrebbe essere quella di inserire un certo numero di esponenti di Hezbollah in una lista di persone sottoposte a sanzioni, come è già accaduto nel recente passato.
La distinzione tra l’unità militare e quella politico/sociale di Hezbollah, con ogni probabilità, appare comunque di importanza relativa per Gran Bretagna, Francia e Germania, dal momento che il processo appena avviato all’interno dell’UE non è altro che un primo passo verso la totale messa al bando di un’organizzazione che, assieme al regime siriano sotto assedio, rappresenta uno dei principali ostacoli alla promozione dei loro interessi strategici nella regione mediorientale.
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di Michele Paris
Dopo una lunga e faticosa discussione, i ministri degli Esteri dell’Unione Europea nella serata di lunedì hanno di fatto deciso di dare il via libera alla fornitura di armi letali all’opposizione siriana a partire dalle prossime settimane. L’annullamento dell’embargo sugli equipaggiamenti militari, così come quello sul petrolio proveniente dai territori controllati dai “ribelli” deciso qualche settimana fa, contribuirà ad aumentare ulteriormente le violenze in Siria e a favorire il dominio dei gruppi legati al terrorismo islamista sunnita.
Il tutto proprio mentre il summit di Ginevra in fase di preparazione per cercare una soluzione negoziata alla crisi sta assumendo sempre più i contorni di uno strumento nelle mani di Washington per dare la spallata finale al regime di Bashar al-Assad.
Alla scadenza fissata per venerdì prossimo dell’embargo sulle spedizioni di armi deciso da Bruxelles nel 2012, dunque, i paesi più attivi nell’incoraggiare l’Unione Europea ad assumere una posizione più dura nei confronti di Damasco avranno facoltà di procedere senza alcun vincolo. A spingere in questo senso sono state soprattutto Gran Bretagna e Francia, appoggiate, una volta superate le perplessità espresse in precedenza, dalla Germania.
Contro la soppressione dell’embargo si sono invece espressi in particolare i governi di Austria, Svezia, Repubblica Ceca e Finlandia, ufficialmente preoccupati per la possibilità che le armi da inviare in Siria possano finire nelle mani di gruppi jihadisti. Simili scrupoli continuano ad essere espressi pubblicamente nonostante l’Unione Europea sia schierata fin dall’inizio della crisi a fianco della Turchia e delle monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico che, con la supervisione americana, finanziano e armano queste formazioni radicali, alimentando le violenze in Siria.
Senza un accordo unanime, l’UE avrebbe corso il rischio di vedere svanire anche le sanzioni economiche applicate alla cerchia di potere di Assad, così che queste ultime sono state alla fine separate dall’embargo sulle armi e approvate in tarda serata. L’esito del vertice di Bruxelles ha così prodotto uno scenario - definito nel corso della giornata di lunedì come una “catastrofe” per la politica estera UE dal ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselbon - nel quale ogni paese potrà decidere autonomamente sulla spedizione di “tecnologia militare” all’opposizione siriana.
In maniera informale, i ministri riuniti a Bruxelles si sarebbero comunque accordati per attendere fino al primo agosto prima di valutare l’opportunità di fornire armi ai “ribelli”, teoricamente per dare tempo al processo diplomatico in corso e che dovrebbe portare al summit “Ginevra II” entro la metà di giugno.
Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha assurdamente sostenuto che la fine dell’embargo servirebbe perciò a favorire una soluzione politica della crisi, mentre più realisticamente il prossimo flusso di armi verso i “ribelli” siriani serve a riequilibrare le sorti del conflitto, nelle ultime settimane decisamente favorevole alle forze del regime anche grazie al supporto di Hezbollah sul campo e al sostegno militare di Russia e Iran.
Sempre nella giornata di lunedì, poi, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha incontrato a Parigi il suo omologo russo, Sergei Lavrov, ed esponenti del governo francese, ufficialmente per discutere dei preparativi della conferenza di Ginevra. A quest’ultimo evento Damasco ha annunciato la propria partecipazione tramite un comunicato del ministro degli Esteri, Walid al-Moallem, rilasciato domenica nel corso di una visita a Baghdad.
Più complicata appare invece la situazione nel campo avverso, dal momento che l’opposizione continua ad essere attraversata da profonde divisioni che impediscono la selezione di nuovi vertici graditi a tutte le fazioni che la compongono, nonostante i ripetuti inviti dei loro sponsor occidentali a creare una leadership presentabile alla comunità internazionale in vista di un maggiore impegno nella rimozione del regime.
Sull’incontro di Ginevra - promosso a inizio mese da Kerry e Lavrov - pesa comunque la principale condizione imposta esplicitamente dall’opposizione e indirettamente dagli USA, cioè le dimissioni di Assad prima di avviare un qualsiasi processo di transizione. Inoltre, da decidere sarà anche l’eventuale partecipazione dell’Iran, alla quale si oppongono in molti, a cominciare dalla Francia. Il ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, ritiene infatti Teheran un fattore destabilizzante nell’incerto processo diplomatico in atto.
La richiesta preventiva di escludere dal futuro della Siria una delle due parti - il presidente Assad, il cui regime è con ogni probabilità più popolare nel paese rispetto ai “ribelli” sostenuti dall’Occidente e dalle dittature sunnite mediorientali - e dalle trattative il principale alleato di Damasco (l’Iran) testimonia a sufficienza del singolare concetto di negoziato che sembrano avere i governi di Washington, Parigi e Londra, il cui obiettivo è chiaramente quello di utilizzare “Ginevra II” per imporre il proprio volere a Damasco o, in caso di fallimento, per compiere un ulteriore passo verso un intervento esterno in Siria.
Con la conferenza nella città elvetica già quasi morta in partenza, i preparativi per una nuova guerra in Medio Oriente avanzano senza sosta, nonostante qualche barlume di ripensamento e i timori diffusi un po’ ovunque in Occidente per il probabile prevalere di formazioni integraliste nel dopo Assad.
Uno dei maggiori falchi in politica estera del Congresso americano, il senatore repubblicano dell’Arizona John McCain, lunedì ha così attraversato il confine turco per recarsi in Siria accompagnato dal comandante del cosiddetto “Libero Esercito della Siria”, generale Salem Idris. Qui l’ex candidato alla Casa Bianca ha incontrato i leader di 18 milizie anti-Assad a cui ha promesso un maggiore impegno da parte degli Stati Uniti. Il blitz di McCain ricorda minacciosamente quello che lo vide protagonista in territorio libico nel 2011 alla vigilia della campagna imperialista guidata dal suo paese per rovesciare il regime di Gheddafi.
Negli ultimi giorni, inoltre, sono tornate a circolare anche le accuse dell’utilizzo di armi chimiche da parte del regime, un’eventualità definita lo scorso anno dal presidente Obama come una “linea rossa” che Assad non potrebbe oltrepassare senza incorrere in una qualche ritorsione militare. In particolare, la questione è riapparsa con la pubblicazione di un lungo articolo realizzato da Jean-Philippe Rémy di Le Monde dopo due mesi trascorsi come reporter “embedded” tra i “ribelli”. Secondo il giornalista francese, le forze fedeli ad Assad avrebbero usato gas tossici in misura limitata a Jobar, un sobborgo della capitale siriana, causando morti e feriti.
Queste accuse sono state immediatamente raccolte dal governo di Parigi, tanto che lo stesso ministro Fabius ha parlato di “sospetti crescenti” sull’uso di ordigni chimici, anche se ha poi ammesso che serviranno “verifiche molto scrupolose” per far luce sulle responsabilità. Alcune settimane fa, va ricordato, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva affermato che, in seguito all’indagine condotta dalla commissione delle Nazioni Unite sulla violazione dei diritti umani in Siria, erano emersi “forti e concreti sospetti, anche se non ancora prove incontrovertibili, sull’uso di gas sarin da parte dell’opposizione e dei ribelli, ma non da parte delle forze governative”.
Mentre si continua a cercare di fabbricare un motivo per scatenare un attacco contro la Siria, la Giordania ha fatto sapere un paio di giorni fa di essere in trattativa con “governi amici” per installare missili Patriot sul proprio territorio, come ha già fatto recentemente anche la Turchia.
A livello ufficiale, simili iniziative avrebbero uno scopo puramente difensivo, anche se in realtà i missili rientrerebbero nel quadro dell’implementazione di un’eventuale no-fly zone, i cui effetti devastanti si sono visti drammaticamente durante l’aggressione contro la Libia un paio di anni fa.
Proprio la Giordania, d’altra parte, gioca un ruolo fondamentale nelle mire occidentali sulla Siria, come conferma la presenza sul proprio territorio di almeno 200 soldati americani delle forze speciali, ma anche la recente rivelazione che Amman starebbe già concedendo a Israele di operare una propria flotta di droni nel suo spazio aereo per monitorare la situazione oltre il confine settentrionale in previsione di nuove incursioni aeree totalmente illegali.
Dietro la facciata dello sforzo diplomatico di Ginevra, insomma, le forze coalizzate per abbattere il regime di Assad continuano a preparare un nuovo rovinoso conflitto in cui rischiano di essere trascinati tutti i paesi della regione mediorientale. Il Libano, in particolare, appare sempre più vicino a ricadere nel baratro della guerra civile sull’onda degli eventi in Siria.
A testimonianza della situazione sempre più precaria in questo paese, domenica scorsa due missili sono caduti su edifici civili in un quartiere a sud di Beirut, considerato una roccaforte di Hezbollah, mentre martedì tre soldati dell’esercito libanese sono rimasti uccisi in una sparatoria presso un checkpoint nella Valle della Bekaa, non lontano dal confine con la Siria.