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di Fabrizio Casari
Le rivelazioni fornite da Edward Snowden circa l’intesa ed estesa attività di spionaggio degli Stati Uniti a danno tanto dei paesi ritenuti “ostili” come di quelli “amici”, ha procurato un deciso smacco diplomatico per Barak Obama, che si è visto rifiutare con nettezza dal Brasile l’unico incontro fino ad ora programmato nell’agenda di Obama entro la fine del 2013. La data fissata era quella del prossimo 23 Ottobre. Era prevista una visita di Stato, cioè il massimo livello che gli Stati Uniti offrono ai loro ospiti stranieri. Ma Dijlma Roussef, energica ed orgogliosa Presidente del Brasile, ha rifiutato l’invito.
Poteva annullare l’incontro attraverso le sole vie diplomatiche e poteva farlo scegliendo una motivazione qualunque e già la cosa in sé avrebbe destato scalpore, non essendo certo una consuetudine quella di rifiutare una visita di Stato a Washington. Ma Dijlma ha invece scelto di rendere pubblico il gran rifiuto, facendolo accompagnare da un comunicato breve ma durissimo nel quale spiega le ragioni del rifiuto all’invito alla Casa Bianca. “Le pratiche illegali delle intercettazioni delle comunicazioni e dati dei cittadini, aziende e membri del governo brasiliano costituiscono un fatto grave, un attentato alla sovranità nazionale e sono incompatibili con la convivenza democratica tra paesi amici”.
Le rivelazioni di Snowden, pubblicate con particolare evidenza dal The Guardian e, successivamente, dal gigante televisivo brasiliano Rede Globo, dimostrano come la NSA si sia dedicata a spiare soprattutto la presidenza e la principale azienda petrolifera pubblica, la Petrobras, e le rivelazioni erano state oggetto di una presa di posizione durissima sia da parte della Presidente Roussef che del suo predecessore Lula Da Silva. Proprio la scorsa settimana, i due avevano sostenuto un incontro ed entrambi avevano convenuto come fossero indispensabili le scuse formali da parte di Obama.
Il Presidente statunitense, però, non ha ritenuto di pronunciarsi nei termini richiesti dal Brasile e si è limitato ad affidare ad una nota diffusa dalla Casa Bianca la sua “comprensione e dispiacere per le preoccupazioni che le rivelazioni di presunte attività di intelligence degli USA generino in Brasile”. Ma rifiutandosi di assumersi le proprie responsabilità e di indicare le misure che dovrebbe prendere al riguardo, si limita ad annunciare che “cercherà di superare questa fonte di tensioni bilaterali per le vie diplomatiche”. Riguardo il cosa fare e quando, il comunicato della Casa Bianca informa che Obama ha chiesto un’ampia revisione delle attività d’intelligence statunitensi, ma che il processo richiede "tempi lunghi”.Non poteva bastare e non è bastato. Il Brasile non è disponibile a recitare la parte della zolla d’erba nel "giardino di casa" e fa capire come il rifiuto da parte di Dijlma potrebbe essere solo l’inizio di una fase di rivisitazione dei rapporti politici e commerciali con gli Stati Uniti, benché da Washington si sarebbe fatta trapelare la disponibilità statunitense ad appoggiare la candidatura del Brasile ad un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Disponibilità difficile da credere e comunque tutta da verificare.
Brasilia ritiene però che l'eventuale disponibilità USA, ancorchè dubbia, non andrebbe sopravvalutata, giacchè un seggio gli spetterebbe di diritto non solo vista la sua dimensione ed il rilievo internazionale, ma anche perché sarebbe una posizione dalla quale parlerebbe l’intera comunità latinoamericana. Ed é proprio qui, infatti, che risiede la diffidenza di Washington, che vorrebbe utilizzare il Brasile come contraltare parziale alla Cina ma che teme che dare voce e rappresentanza formale in sede Onu alla nuova America Latina possa rappresentare un boomerang per i suoi disegni imperiali. Inoltre, la diplomazia brasiliana ha una storia di grande rilevanza e prestigio e già in diverse occasioni ha rappresentato un ostacolo ai piani di Washington.
L’ultima fu nel 2010, quando insieme alla Turchia il Brasile riuscì a proporre una via d’uscita diplomatica alla tensione crescente tra Occidente e Teheran sul nucleare iraniano. Gli Usa dovettero fare buon viso a cattiva sorte e Lula vide accrescere il suo prestigio internazionale. Ne seguì un significativo incremento del suo scambio commerciale tra Brasile e Iran, cosa certamente poco gradita a Washington.
Ed ora, una delle conseguenze possibili nell’immediato, almeno sul piano della cooperazione commerciale a fini militari, potrebbe essere la sospensione della commessa per i caccia F16 che Brasilia avrebbe dovuto acquistare dagli Stati Uniti. Che senso avrebbe, affermano a Brasilia, fare affari sul terreno strategico con chi ci spia per controllarci e per procurarsi vantaggi illegittimi nelle trattative commerciali?L’affaire Snowden, così, rallenta inevitabilmente la marcia di riavvicinamento di Washington verso il Cono Sud dell’America Latina. Nel Vertice delle Americhe del 2009, Obama aveva promesso “un nuovo inizio” ai governi latinoamericani, ma non sembra esserci niente di nuovo nelle sue politiche, che anzi uniscono sinistramente identici metodi per “nemici” e “amici”.
Se per i paesi ostili restano in piedi le vecchie fobìe (come il blocco contro Cuba, rinnovato per un altro anno tre giorni orsono in quanto utile per “gli interessi nazionali” ) per quelli che si vorrebbero “amici” si montano nuove intromissioni tramite le agenzie di spionaggio.
Al punto che persino due amici storici come Messico e Colombia hanno preso posizioni durissime circa le prove che hanno dimostrato come i loro rispettivi governi siano stati spiati dalla NSA. Ma se per la Colombia risultano ipocrite le proteste, viste le basi militari e la sovranità politica da tempo consegnate a Washington e per il Messico di Pena Nieto, ultimo dei burattini del circo di Salinas De Gortari, il rischio è quello che la DEA possa decidere di non chiudere tutti e due gli occhi sul matrimonio tra narcos, forze armate e governo, nel caso del Brasile le cose sono decisamente diverse. La dignità e la sovranità del gigante carioca non sembrano acquistabili con una manciata di parole e qualche commessa industriale.
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di Michele Paris
Nella giornata di sabato, il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, e il Segretario di Stato americano, John Kerry, hanno annunciato il raggiungimento di un accordo sullo smantellamento delle armi chimiche in possesso del regime siriano. I progressi diplomatici registrati a Ginevra faranno comunque ben poco per ridurre il livello di violenza nel paese mediorientale e, nel prossimo futuro, potrebbero anzi essere sfruttati dall’amministrazione Obama proprio per giustificare un intervento militare volto a rimuovere il governo di Bashar al-Assad.
Dopo intensi colloqui portati avanti fin da venerdì nella città svizzera, Lavrov e Kerry hanno tenuto una conferenza stampa congiunta per rendere noti i punti principali di un accordo che dovrebbe ora essere seguito da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
A favorire un esito per il momento favorevole era stata la rinuncia da parte della delegazione statunitense alla richiesta di includere nel testo della risoluzione l’uso della forza in caso di mancato rispetto da parte della Siria delle condizioni poste per la consegna del proprio arsenale. Vista l’impossibilità di ottenere l’approvazione di Russia e Cina per un’eventuale operazione militare, la risoluzione da presentare all’ONU dovrebbe contenere un riferimento soltanto a possibili sanzioni nei confronti di Damasco.
Secondo quanto affermato da Kerry, la prima ispezione internazionale delle armi chimiche di Assad è prevista per il mese di novembre e l’intero arsenale dovrebbe essere distrutto entro la metà del 2014. Già la prossima settimana, il governo di Damasco dovrà fornire una lista delle proprie armi chimiche, comprese le località in cui esse vengono conservate e i siti di ricerca e produzione. Alle Nazioni Unite, intanto, il segretario generale Ban Ki-moon ha fatto sapere che la Siria ha formalmente aderito alla Convenzione sulle Armi Chimiche ed entrerà a farne parte in maniera definitiva il 14 ottobre.I dubbi sull’effettiva implementazione dell’accordo di Ginevra alle condizioni decise da Washington e Mosca sono comunque parecchi e legati in primo luogo ai tempi estremamente accelerati che sono stati previsti per un processo che, come risulta chiaro dai precedenti, in condizioni normali dovrebbe durare svariati anni.
Come ha spiegato domenica al New York Times l’esperta di armi chimiche, Amy Smithson, la situazione è “senza precedenti”, visto che si vorrebbe mandare in porto in pochi mesi un procedimento per il quale “servono probabilmente cinque o sei anni”, oltretutto in un paese dove è in corso una sanguinosa guerra civile.
Proprio le difficoltà e gli ostacoli facilmente prevedibili lasciano intravedere la possibilità da parte americana di utilizzare l’accordo sulle armi chimiche di Assad come un nuovo strumento per giungere ad un’aggressione contro la Siria. L’entusiasmo con cui Kerry ha dato l’annuncio dell’intesa nella giornata di sabato e la responsabilità conferita in gran parte alla Russia per la sua implementazione sembrano rispondere perciò ad una strategia ben precisa.
In caso di rallentamento o stallo nello smantellamento dell’arsenale siriano, cioè, gli Stati Uniti potrebbero giustificare la necessità di attaccare il governo di Assad poiché la strada diplomatica sarebbe già stata battuta senza successo nonostante il pieno appoggio dato ad essa dal governo di Washington.
La possibilità dell’uso della forza, d’altra parte, non è svanita nonostante le richieste di Damasco e Mosca di negoziare senza la minaccia di un attacco. Subito dopo le parole di Kerry e Lavrov, infatti, il presidente Obama ha tenuto a precisare che gli USA continueranno a valutare l’ipotesi di agire militarmente in Siria anche senza l’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Se, infine, l’accordo sulle armi chimiche di Assad dovrebbe servire, secondo alcuni osservatori, a facilitare l’avvio di negoziati di pace attraverso la convocazione di una conferenza a Ginevra più volte rimandata negli ultimi mesi, gli Stati Uniti e i loro alleati non sembrano ancora impegnati seriamente per questo fine.
Ben lontani dal tentare di convincere i “ribelli” a sedersi al tavolo delle trattative con un regime che sta prevalendo dal punto di vista militare, così come dall’interrompere forniture di armi e finanziamenti destinati a formazioni in buona parte affiliate al terrorismo internazionale, i governi che li sostengono hanno lanciato segnali tutt’altro che pacifici in questi giorni.La scorsa settimana, ad esempio, è stata diffusa la notizia non solo che l’Arabia Saudita avrebbe incrementato il proprio impegno nel sostenere l’opposizione armata, ma che gli stessi Stati Uniti in concomitanza con il faccia a faccia Kerry-Lavrov hanno iniziato a trasferire armi direttamente ai “ribelli” dopo la promessa fatta pubblicamente qualche mese fa dal presidente Obama.
Washington, inoltre, continuerà a subire le pressioni sia dei “ribelli” che di paesi come Turchia o la stessa Arabia Saudita - per non parlare degli ambienti interni che da tempo vogliono una resa dei conti con il regime di Damasco - per decidere di intervenire militarmente in Siria e rimuovere Assad.
I vertici dell’opposizione sostenuta dall’Occidente non hanno infatti atteso a lungo per manifestare la loro contrarietà all’accordo di Ginevra, con i media di tutto il mondo che nel fine settimana hanno ampiamente riportato i malumori del presunto comandante delle forze “ribelli” secolari, generale Salim Idriss.
Gli Stati Uniti, in definitiva, saranno esposti a enormi pressioni nei prossimi mesi per sganciarsi dall’accordo con la Russia e tornare ai preparativi di un’aggressione militare che essi stessi hanno fin dall’inizio auspicato non tanto per punire Assad di un attacco con armi chimiche condotto con ogni probabilità proprio dai “ribelli”, bensì per determinare quel cambio di regime a Damasco che rimane in cima agli obiettivi americani per il Medio Oriente.
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di Michele Paris
Tra i più accesi sostenitori della presunta battaglia per la democrazia in corso da oltre due anni in Siria spicca uno dei principali alleati degli Stati Uniti in Medio Oriente: il regno Wahabita dell’Arabia Saudita. Se la monarchia assoluta del Golfo Persico continua ad operare attivamente per rimuovere un regime, come quello di Assad, da loro definito dittatoriale e intento a reprimere senza scrupoli la propria popolazione, le condizioni politiche, sociali e giudiziarie del regno non collocano certo il secondo produttore di petrolio del pianeta tra i modelli democratici. Ciononostante, il regime saudita continua ad essere tra i meno esposti alle pressioni internazionali per migliorare il rispetto dei diritti umani entro i propri confini.
A mettere in piazza una delle scomode realtà del sistema saudita, così come l’ipocrisia della retorica occidentale in merito alla promozione dei valori democratici, è stato un reportage pubblicato questa settimana dal quotidiano libanese Al Akhbar. Nel lungo articolo si cerca di fare luce su alcuni dei meccanismi repressivi del regime di Riyadh attraverso un’indagine sui detenuti politici che popolano le carceri del regno.
Le difficoltà incontrate dall’autore della ricerca sono state molteplici a causa della chiusura del paese mediorientale e dell’estrema segretezza con cui vengono attuate le politiche relative alla “sicurezza nazionale”. In primo luogo, è tutt’altro che certo il numero di prigionieri politici attualmente ospitati nelle carceri saudite. Svariati resoconti giornalistici indicano numeri estremamente diversi, che vanno dai duemila ai 40 mila detenuti, anche se alcuni attivisti locali stimano un totale di oltre 30 mila.
Waleed Abu al-Khair, fondatore dell’organizzazione indipendente Monitor of Human Rights in Saudi Arabia, afferma che è impossibile conoscere il numero esatto, poiché in questo paese esistono numerose carceri segrete. Inoltre, le informazioni sui detenuti vengono tenute nascoste non solo alle associazioni umanitarie ma spesso anche ai loro stessi familiari.
Secondo le autorità saudite, i detenuti politici sarebbero poco più di 2.300 e, ovviamente, essi non sono classificati come tali ma considerati indistintamente “terroristi”. Secondo al-Khair, coloro che effettivamente avrebbero legami con al-Qaeda o altre organizzazioni fondamentaliste violente sono solo una parte dei detenuti e nemmeno la più numerosa. Oltre a costoro ci sono infatti almeno altre due categorie di detenuti e cioè i “riformisti” - che si battono per la creazione di una monarchia costituzionale - e gli attivisti per i diritti umani. Le autorità, in definitiva, “non sostengono mai di avere arrestato riformatori o attivisti per i diritti umani, bensì sempre terroristi”.
Oltre a nascondere la costante repressione ai danni di chiunque venga percepito come una minaccia al regime, l’apparenza di una lotta condotta esclusivamente contro il terrorismo islamista serve anche ad occultare i legami quanto meno ambigui che Riyadh mantiene con i gruppi fondamentalisti stessi, di fatto appoggiati e finanziati nelle loro attività in paesi stranieri per promuovere gli interessi del regno, come in Cecenia o in Siria.Nella ricostruzione fatta da Al Akhbar delle politiche per la “sicurezza nazionale” saudite emerge come una buona parte dell’attuale popolazione carceraria del paese sia stata arrestata un decennio fa, in particolare in seguito all’esplosione di una ribellione interna, mentre solo negli ultimi anni è stato creato un apposito apparato pseudo-legale culminato nelle recenti leggi “anti-terrorismo”.
La monarchia saudita deve fare i conti soprattutto con la persistente inquietudine che attraversa le proprie province orientali dove vive una consistente e repressa minoranza sciita e dove si trovano ingenti giacimenti petroliferi. Il timore del contagio a queste zone delle proteste scoppiate nel 2011 nel Bahrain spinse anche il governo di Riyadh a inviare le proprie forze armate nel paese vicino per reprimere nel sangue la ribellione contro la casa regnante sunnita.
Tra le poche notizie che filtrano dall’Arabia Saudita, negli ultimi mesi ce ne sono state alcune che hanno confermato come la repressione del dissenso prosegua senza soste. Solo nel corso dell’estate, ad esempio, sette attivisti locali sono stati condannati fino a dieci anni di carcere per avere espresso le proprie opinioni sui social media. Tra le vicende riportate dalla stampa, vanno ricordate anche quelle di alcuni noti difensori dei diritti umani finiti agli arresti, assieme a decine di manifestanti che lo scorso mese di luglio chiedevano notizie sui loro familiari in carcere, spesso senza processo o addirittura dopo avere già scontato la loro pena.
La mano pesante delle autorità saudite si è fatta sentire specialmente dopo la diffusione in molti paesi mediorientali e nordafricani della cosiddetta “Primavera araba” nei primi mesi del 2011. Per prevenire contestazioni sul proprio territorio, le forze di sicurezza hanno così intensificato la repressione, soffocando sul nascere e in maniera violenta qualsiasi manifestazione di protesta e arrestando chiunque fosse anche solo sospettato di avere criticato il regime o avesse chiesto pacificamente delle riforme per il paese.
In Arabia Saudita è comunque la situazione generale dei diritti umani ad essere estremamente preoccupante. Svariati rapporti di organizzazioni internazionali hanno messo in luce in questi anni come nel regno siano diffuse, tra l’altro, violenze e discriminazioni contro le donne, traffico di persone, violazioni sistematiche dei diritti dei minori ma anche dei lavoratori e della libertà religiosa.Di fronte all’evidenza di questa inquietante macchina della repressione, l’Arabia Saudita non viene punita in nessun modo dalla comunità internazionale. Al contrario, grazie soprattutto alle proprie riserve petrolifere e al ruolo di garante degli interessi occidentali in Medio Oriente, essa figura tra i più fedeli alleati degli Stati Uniti e dei governi europei. Oltre a garantire a Riyadh puntuali forniture degli armamenti più sofisticati, Washington ostenta spesso la partnership con il regno nell’ambito delle proprie campagne imperialiste nascoste dietro la retorica umanitaria e dei diritti democratici, come è avvenuto in Libia e sta avvenendo in Siria.
Secondo l’autore dell’indagine di Al Akhbar, nonostante sia ampiamente nota la situazione delle libertà politiche e sociali nel regno Wahabita, quest’ultimo gode del raro privilegio di non ricevere praticamente alcuna critica da parte dei governi occidentali, potendo così non solo “violare impunemente norme e convenzioni internazionali”, ma anche “svolgere in maniera aggressiva un ruolo di spicco nel condannare altri paesi della regione per i loro abusi”.
Infatti, come ha spiegato alla stessa testata libanese il ricercatore di Human Rights Watch per l’Arabia Saudita e la Giordania, Adam Coogle, tutto quello che il Dipartimento di Stato americano o l’Unione Europea esprimono nei confronti delle pratiche repressive di Riyadh è al massimo “preoccupazione” ma mai un’esplicita condanna.
Per Sevag Kechichian di Amnesty International, infine, i motivi della “copertura” garantita dagli USA e dai loro alleati all’Arabia Saudita sono chiarissimi e hanno a che fare “con il petrolio, con l’influenza esercitata nella regione e con la stretta partnership che la lega all’Occidente fin dai tempi della Guerra Fredda”. Questi sono alcuni dei motivi principali per cui una monarchia assoluta e oscurantista come quella saudita, qualsiasi abuso commetta, continua ad essere a tutt’oggi “praticamente intoccabile”.
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di Mario Lombardo
Le rivelazioni legate alle attività incostituzionali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) stanno continuando incessantemente in queste settimane nonostante l’attenzione dei media di tutto il mondo sia concentrata sulla crisi in Siria. La più recente notizia relativa all’indifferenza dell’NSA per le più normali regole democratiche e della privacy è stata diffusa martedì e descrive come l’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, abbia avuto accesso alle informazioni telefoniche di migliaia di utenti in contravvenzione anche delle già deboli limitazioni imposte dalla legge degli Stati Uniti.
Grazie al "Freedom of Information Act", una serie di documenti riservati sono stati finalmente declassificati in seguito ad una richiesta presentata dall’American Civil Liberties Union e dall’Electronic Frontier Foundation, tra cui un atto ufficiale del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) - incaricato di valutare e autorizzare segretamente le richieste di intercettazione sottoposte dalle varie agenzie governative - insolitamente critico dell’operato dell’NSA.
Nel documento, il giudice del FISC Reggie Walton rimprovera l’agenzia per avere setacciato dati telefonici di migliaia di americani senza ragione e in violazione delle esili norme sulla privacy fissate dallo stesso tribunale. Il periodo di tempo entro il quale ciò è avvenuto va dal maggio del 2006 al gennaio del 2009.
La condotta illegale degli agenti dell’NSA sarebbe stata rilevata dal Dipartimento di Giustizia che ha poi segnalato i fatti al FISC. Come fa notare eufemisticamente il Washington Post, il fatto che i vertici dell’NSA non abbiano mosso un dito per impedire questa ennesima violazione della privacy dei cittadini contraddice le loro pretese di condurre scrupolosi controlli interni per garantire la messa in atto di operazioni esclusivamente “legali”.
Le anomalie riscontrate dal Dipartimento di Giustizia di Washington su cui si basa il documento firmato dal giudice Walton riguardano la compilazione da parte dell’NSA di una lista di quasi 18 mila numeri di telefono di individui potenzialmente collegati a minacce alla sicurezza nazionale che venivano confrontati con le conversazioni di praticamente tutti gli americani intercettate ogni giorno.Secondo il FISC, l’NSA aveva creato la suddetta lista di numeri da tenere sotto osservazione senza prestare la dovuta attenzione ai limiti di legge, vale a dire senza che vi fosse un “ragionevole sospetto” che gli stessi numeri telefonici fossero collegati ad attività terroristiche.
Per il giudice Walton, infatti, solo il 10% di queste utenze sollevavano dubbi legittimi di terrorismo, mentre gli altri erano finiti sotto la lente d’ingrandimento dell’NSA senza ragione o, più probabilmente, perché relativi a persone considerate una “minaccia” per la sicurezza del paese a causa di attività non legate al terrorismo e quindi intercettate in maniera illegittima anche secondo gli standard del governo americano.
Le critiche del giudice del FISC rivelano un sistematico superamento dei limiti imposti all’NSA, tanto che “le procedure per la difesa della privacy non hanno mai funzionato pienamente”, così che gli agenti hanno avuto regolarmente accesso ai dati telefonici “in violazione degli ordini del Tribunale”. Questa considerazione smentisce clamorosamente le dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti nelle quali è stato più volte assicurato lo scrupoloso rispetto dei limiti fissati dal governo e dal Congresso nella raccolta di informazioni sensibili.
Le irregolarità, come è facile prevedere, non hanno riguardato solo la questione sollevata dal giudice Walton, visto che un’indagine interna dell’NSA iniziata nel febbraio del 2009 e condotta in collaborazione con il Dipartimento di Stato aveva rilevato svariate altre infrazioni alle norme.
Le regole violate in questa circostanza dall’NSA, oltretutto, risultano esse stesse quanto meno discutibili e sono state al centro di accese polemiche nei mesi scorsi in quanto autorizzano la raccolta e la conservazione di “metadati” telefonici di qualsiasi utente americano o straniero.
La giustificazione addotta per queste attività illegali dal direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, risulta a dir poco assurda, come scrisse lo stesso giudice Walton, e cioè che il personale dell’agenzia riteneva che gli svariati database dei numeri telefonici a loro disposizione non fossero coperti dalle stesse norme della privacy e, quindi, quello contenente i già ricordati 18 mila numeri poteva essere consultato liberamente.
Un esponente dell’intelligence americana sentito nei giorni scorsi dal New York Times ha affermato invece, altrettanto assurdamente, che il comportamento illegale dell’NSA condannato nei documenti del FISC appena pubblicati non sarebbe stato intenzionale, bensì conseguenza soltanto di incomprensioni dovute a complesse problematiche di natura tecnica.Come ha confermato in questi mesi una lunga serie di rivelazioni emerse grazie all’ex contractor Edward Snowden, L’NSA opera in realtà pressoché integralmente al di fuori non solo di qualsiasi principio democratico ma anche delle stesse norme di legge create appositamente dal Congresso americano per legittimare il calpestamento delle garanzie costituzionali in nome della “guerra al terrore”.
A mettere in luce l’aspetto più inquietante della vicenda è stato lo stesso giudice del FISC, Reggie Walton, il quale nel suo parere del marzo 2009 esprimeva un profondo scetticismo circa l’utilità del programma di sorveglianza dell’NSA, sottolineando come simili operazioni fossero sfociate in appena tre “indagini preliminari” dell’FBI basate su intercettazioni raccolte nei modi descritti.
Quest’ultimo commento conferma dunque ancora una volta come l’apparato degno di uno stato di polizia creato da oltre un decennio negli Stati Uniti non abbia come scopo principale quello di combattere o prevenire minacce terroristiche, ma di esercitare un controllo pervasivo sulla popolazione per contrastare qualsiasi minaccia ad un governo sempre più screditato.
Le più recenti rivelazioni diffuse martedì seguono di meno di un mese la pubblicazione di un altro parere del Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera, questa volta risalente al 2011 e nel quale veniva nuovamente criticata l’NSA per ulteriori violazioni della legge in relazione ad un diverso programma di sorveglianza.
La settimana scorsa, infine, il britannico Guardian e il New York Times avevano pubblicato alcuni documenti ottenuti da Snowden che dimostravano come l’NSA abbia la facoltà di abbattere ogni protezione della privacy teoricamente garantita nelle comunicazioni Internet, essendo riuscita da tempo a neutralizzare i sistemi di crittografia comunemente usati sia negli USA che a livello internazionale.
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di Michele Paris
A seguito della proposta lanciata dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare di fermare l’aggressione militare americana contro la Siria, il governo francese ha annunciato martedì di volere trasformare l’ipotesi di porre l’arsenale chimico di Damasco sotto il controllo internazionale in una risoluzione da presentare al Consiglio di Sicurezza ONU. Le intenzioni di Parigi, però, non sono dirette ad evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente, bensì a gettare basi teoricamente più solide per un intervento armato contro il regime di Assad, legittimato in apparenza da un mandato autorevole come quello delle Nazioni Unite.
A dare notizia del proposito della Francia è stato martedì il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, il quale ha fatto sapere che il governo Socialista redigerà un testo che, a suo dire, dovrebbe servire a “misurare le intenzioni” di Russia e Cina che, dopo avere finora impedito l’approvazione di qualsiasi misura per facilitare la rimozione di Assad, hanno dato la loro approvazione al piano sul monitoraggio delle armi chimiche siriane.
Come è noto, quest’ultimo era scaturito lunedì da una frase del segretario di Stato americano, John Kerry, che ha avuto conseguenze inaspettate. Rispondendo alla domanda di un reporter nel corso di una conferenza stampa a Londra, il capo della diplomazia USA aveva cioè affermato, con ogni probabilità in maniera retorica, che per evitare un attacco contro il proprio paese, Assad avrebbe dovuto “consegnare ogni sua arma chimica alla comunità internazionale entro la prossima settimana”.
Sul volo di ritorno dalla Gran Bretagna, Kerry è stato poi raggiunto telefonicamente dal suo omologo russo Lavrov che gli ha comunicato la nuova proposta, rivelata pubblicamente ancora prima dell’arrivo dell’ex senatore democratico negli Stati Uniti.
Con una mossa che ha allo stesso tempo messo in imbarazzo un governo di Washington sempre più in confusione e offerto una via d’uscita alla Casa Bianca quanto meno per ritardare un’operazione militare profondamente impopolare, Lavrov ha annunciato di volere lavorare con Damasco per studiare un meccanismo che porti l’arsenale siriano sotto la supervisione ONU, nonché alla sua distruzione finale.
Il piano russo è stato immediatamente accettato dal ministro degli Esteri di Assad, Walid al-Moallem, e poco dopo ha ricevuto da più parti una sostanziale approvazione, a cominciare da Teheran e Pechino ma anche da svariati governi occidentali dimostratisi molto cauti nei giorni scorsi nei confronti delle mire belliche statunitensi.
Le diverse motivazioni dietro l’accettazione della proposta Lavrov da parte di sostenitori e oppositori di Assad sono apparse però quasi subito evidenti, gettando più di un’ombra sulle probabilità di riuscita del piano.
Ciò è risultato chiaro proprio dalla presa di posizione di martedì del ministro degli Esteri francese Fabius, il cui proposito di ratificare con spirito bipartisan un piano apparentemente condiviso da tutte le parti in causa attraverso un voto ONU è stato contraddetto dal probabile contenuto che avrà la risoluzione a cui si sta lavorando a Parigi.
Il testo prefigurato da Fabius, infatti, dovrebbe finire per condannare ugualmente il “massacro del 21 agosto [a Ghouta, presso Damasco, con armi chimiche] commesso dal regime siriano” anche senza prove concrete della responsabilità di quest’ultimo.
Inoltre, se Assad non dovesse adeguarsi alle indicazioni contenute nella risoluzione, sarebbero previste “serie conseguenze”, cioè verrebbe giustificato l’uso della forza, come accadde al regime di Saddam Hussein nonostante la collaborazione mostrata con gli ispettori ONU alla ricerca di armi di distruzione di massa in Iraq.In sostanza, la Francia e l’Occidente in generale sarebbero pronti a sfruttare ogni possibile controversia o incertezza nel processo di smantellamento dell’arsenale bellico siriano per puntare il dito contro un regime non disposto a collaborare con la comunità internazionale, così da avere la copertura necessaria per condurre un’operazione militare volta al cambio di regime che Parigi e Washington stanno faticando in questi giorni a giustificare.
Tale eventualità, anche dando per scontato che Damasco e i vari governi coinvolti riescano a raggiungere un difficile accordo, sembra tanto più probabile quanto appare complesso e pieno di ostacoli il processo di individuazione, catalogazione e trasferimento delle armi chimiche in possesso di Assad.
Se, inoltre, le condizioni imposte dall’Occidente per intraprendere un percorso di questo genere dovessero prevedere il passaggio attraverso una risoluzione ONU come quella prospettata dal ministro francese Fabius, Russia e Cina ricorrerebbero con ogni probabilità al loro diritto di veto, facendo naufragare l’intero progetto.
L’obiettivo immediato dell’amministrazione Obama, in ogni caso, sembra essere quello di impedire che il processo messo in moto dalle parole incaute di Kerry finisca per togliere l’opzione militare dal dibattito in corso sulla Siria. Inizialmente, addirittura, dal Dipartimento di Stato erano giunte tempestive rettifiche alla frase del Segretario per chiarire come l’ipotesi che Assad consegni le proprie armi chimiche per evitare la guerra fosse puramente “retorica”.
In seguito alla mossa di Lavrov, tuttavia, questa proposta è diventata in fretta la notizia del giorno, con politici ed esponenti di governi di mezzo mondo che hanno espresso almeno la loro disponibilità a valutare un accordo con Damasco negoziato dal Cremlino.
Numerosi membri del Congresso americano, ad esempio, hanno preso la palla al balzo manifestando il loro ottimismo per una soluzione pacifica, soprattutto coloro che sembravano intenzionati a votare contro la richiesta di autorizzazione all’uso della forza in Siria e che temevano di essere criticati dalla Casa Bianca per non avere saputo rispondere in maniera ferma ad un presunto attacco con armi chimiche.
Lo stesso presidente Obama, alla fine, ha preso atto della nuova situazione e nella serata di lunedì ha anch’egli definito “fattibile” la proposta Lavrov. L’inversione di marcia del presidente è giunta significativamente al termine di una giornata trascorsa nel tentativo di convincere i “congressmen” americani ad approvare l’aggressione contro la Siria e alla sua frenata deve avere contribuito anche la pubblicazione di ulteriori sondaggi sui media americani che hanno evidenziato nuovamente la freddezza della popolazione per un’altra guerra imperialista nascosta dietro motivazioni umanitarie.
Obama ha comunque tutt’altro che abbandonato i propositi di guerra, tanto che alla CNN ha chiarito come un accordo accettabile sulle armi chimiche di Assad possa essere raggiunto solo mantenendo viva la “minaccia militare” contro Damasco.
Il primo effetto concreto dell’ipotesi circolata lunedì è stato così il rinvio del voto previsto per mercoledì al Senato americano sull’autorizzazione all’uso della forza in Siria secondo il testo approvato settimana scorsa dalla commissione Esteri.
Ad annunciarlo è stato il leader democratico di maggioranza, Harry Reid, dopo avere incassato nel corso della giornata alcune defezioni di compagni di partito contrari alla guerra e in previsione di una umiliante sconfitta per Obama nel ramo del Congresso dove i numeri sembravano essere più favorevoli alla Casa Bianca.
Gli sforzi del governo americano per giungere ad un intervento militare non saranno comunque interrotti nei prossimi giorni, durante i quali è facile prevedere l’insorgere di “complicazioni” al piano Lavrov o di novità sul campo che accelererebbero nuovamente i preparativi di guerra.La propaganda di Washington, perciò, non sembra dover cessare in seguito ai nuovi sviluppi favoriti dalla Russia, come ha confermato lunedì la consigliera per la sicurezza nazionale di Obama, il falco degli interventi umanitari Susan Rice. In un intervento presso il think tank "New America Foundation", quest’ultima ha infatti ribadito la necessità di un’aggressione militare contro la Siria facendo riferimento cinicamente ai bambini morti nell’attacco a Ghouta del 21 agosto condotto con buone probabilità proprio dai “ribelli” appoggiati dall’Occidente.
Nella stessa uscita pubblica, l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite ha inoltre affermato che l’uso di armi chimiche deve essere punito anche perché potrebbe diventare “una minaccia diretta per il nostro principale alleato nella regione”, vale a dire Israele.
Curiosamente, queste ultime parole della Rice sono giunte poco dopo la rivelazione da parte del network Russia Today di una possibile nuova provocazione dei “ribelli” siriani, i quali starebbero valutando l’ipotesi di lanciare un attacco con armi chimiche contro Israele da località sotto il controllo del regime, così da far ricadere ancora una volta la colpa su Assad e spianare definitivamente la strada verso una guerra totale nel paese mediorientale.