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di Mario Lombardo
Un articolo pubblicato questa settimana dal New York Times ha descritto nel dettaglio di come la principale agenzia di intelligence americana da più di un decennio stia trasferendo clandestinamente ingenti somme di denaro contante nelle casse del governo afgano del presidente Hamid Karzai. Secondo quanto rivelato dalle autorità di Kabul, le decine di milioni di dollari così versati servirebbero a coprire una serie di voci di spesa del governo, mentre in realtà finiscono per consolidare il potere della famiglia Karzai ed alimentare la corruzione ampiamente diffusa ad ogni livello del fragile stato centro-asiatico.
Il cosiddetto “denaro fantasma” - secondo la definizione dell’ex vice capo di gabinetto del presidente, Khalil Roman - viene consegnato in maniera segreta da funzionari della CIA direttamente negli uffici di Karzai in “valige, zaini e, occasionalmente, in buste di plastica con cadenza mensile”.
Il reporter Matthew Rosenberg del New York Times sostiene che con questi pagamenti la CIA intende mantenere la propria influenza sul regime di Kabul, acquistando di fatto libero accesso ai vertici del governo, anche se negli ultimi tempi Karzai sembra però tenere un atteggiamento di sfida nei confronti dei propri padroni di Washington.
Candidamente, l’articolo del giornale americano ammette che i soldi della CIA vengono in parte destinati al pagamento di politici e leader locali spesso coinvolti nel fiorente traffico di droga che prospera in Afghanistan o, addirittura, legati ai Talebani che gli USA dovrebbero combattere strenuamente. I finanziamenti della CIA, perciò, sostengono “reti clientelari che la diplomazia americana… cerca senza successo di smantellare, lasciando fondamentalmente il governo nelle mani di organizzazioni criminali”.
In definitiva, lo scenario così delineato sembra suggerire una certa schizofrenia della politica degli Stati Uniti in Afghanistan, con l’agenzia di Langley che agisce al di fuori di ogni supervisione e, apparentemente, in aperto contrasto con gli obiettivi del proprio governo. Le elargizioni di denaro per assicurarsi i favori di gruppi armati o fazioni all’interno di governi stranieri non sono d’altra parte una novità per la CIA che, sempre in Afghanistan, ha per così dire investito svariati milioni di dollari già durante l’invasione del 2001 per ottenere l’appoggio necessario nel paese per rovesciare il regime dei Talebani.
Il sistema dei pagamenti, inoltre, sembra essere stato manipolato dallo stesso Karzai, il quale a partire dalla fine del 2002 richiese espressamente alla CIA di ricevere presso i suoi uffici di Kabul tutto il denaro stanziato, così da centralizzarne la distribuzione ai vari “signori della guerra” sparsi nel paese e garantirsi la loro fedeltà.
Poi, prosegue il racconto del New York Times, nel dicembre 2002 gli iraniani si sono “presentati al palazzo presidenziale a bordo di un S.U.V. carico di denaro contante”. Per ammissione dello stesso Karzai, infatti, anche il governo di Teheran per anni ha finanziato Kabul per cercare di estendere la propria influenza in Afghanistan e sganciare quest’ultimo paese dalla dipendenza da Washington. La rivelazione dei pagamenti iraniani al governo afgano scatenò qualche anno fa una campagna piuttosto aggressiva da parte degli USA nei confronti della Repubblica Islamica, proprio mentre la CIA stava facendo la stessa cosa ma su scala ben superiore.
Al contrario degli Stati Uniti, comunque, l’Iran ha interrotto il flusso di denaro verso Kabul almeno a partire dallo scorso anno, quando Karzai ha siglato un accordo di partnership strategica con l’amministrazione Obama.
Se l’ammontare degli importi elargiti dalla CIA non è del tutto chiaro, alcun testimonianze indicano singoli trasferimenti che vanno da qualche centinaia di migliaia di dollari ad alcuni milioni. Tra gli uomini a libro paga della CIA vi sono ovviamente figure tutt’altro che irreprensibili, come il leader della minoranza uzbeka in Afghanistan, Abdul Rashid Dostum, al quale sarebbero stati pagati tra gli 80 mila e i 100 mila dollari al mese.
Un altro personaggio discutibile che si è arricchito enormemente grazie alla gestione diretta del denaro della CIA è Mohammed Zia Salehi, responsabile amministrativo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, l’organo di governo attraverso il quale passano i pagamenti. Salehi, ricorda il New York Times, venne arrestato nel 2010 perché al centro di un’indagine americana su un traffico di droga e denaro sporco nella quale erano coinvolti anche i Talebani.
La sua detenzione non durò però a lungo, dal momento che il presidente Karzai intervenne in prima persona per ordinarne la liberazione mentre, successivamente, i vertici della CIA si sarebbero adoperati con l’amministrazione Obama affinché l’intera indagine venisse abbandonata.
Le rivelazioni della testata newyorchese sono state confermate nella giornata di lunedì dallo stesso Hamid Karzai, il quale nel corso di una visita in Finlandia ha ribadito che il denaro della CIA è stato utilizzato a “svariati fini” ed ha espresso gratitudine agli Stati Uniti per il supporto finanziario. Da Kabul, inoltre, una dichiarazione ufficiale emessa dal palazzo presidenziale ha elencato alcune voci di spesa che i fondi americani avrebbero coperto, tra cui l’assistenza ai soldati afgani feriti e i sussidi al pagamento degli affitti.
La notizia o, meglio, la conferma ufficiale dei continui pagamenti da parte della CIA al governo fantoccio dell’Afghanistan in questi anni contribuisce dunque a smascherare qualsiasi residua pretesa da parte statunitense di operare in questo paese per la promozione dei principi democratici o di una qualche efficienza nella gestione dell’apparato dello stato.
Installato dagli americani alla guida del paese all’indomani dell’invasione seguita ai fatti dell’11 settembre, Hamid Karzai, oltre ad avere garantito l’arricchimento dei propri familiari e della sua cerchia di potere, presiede infatti ad un regime autoritario e violento, nonché, grazie anche ai fiumi di denaro garantiti dalla CIA, costantemente agli ultimi posti dell’indice mondiale relativo ai livelli di corruzione.
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di Mario Lombardo
A giudicare dai commenti entusiastici apparsi occasionalmente negli ultimi quattro anni sui media di mezzo mondo, la maggioranza di centro-sinistra al governo in Islanda avrebbe dovuto incassare una chiara approvazione dagli elettori per l’eccezionale equità con cui avrebbe gestito le conseguenze della rovinosa crisi finanziaria che nel 2008 mise in ginocchio il piccolo paese dell’Europa settentrionale. I risultati del voto di sabato scorso, al contrario, hanno inflitto una severissima lezione alla coalizione formata dall’Alleanza Socialdemocratica e dalla Sinistra-Movimento Verde, riportando al potere i due partiti di centro-destra che avevano presieduto al tracollo del sistema economico e finanziario islandese.
La premier socialdemocratica Jóhanna Sigurðardóttir aveva assunto la guida del paese dopo il trionfo elettorale del 2009 sull’onda del diffuso malcontento nei confronti di un governo che aveva messo in atto spregiudicate e rovinose politiche di deregulation dell’industria finanziaria. In un clima simile, le tre principali banche islandesi - Glittnir, Kaupthing e Landsbanki - nel 2008 erano finite per crollare sotto il peso di un debito enorme, costringendo il nuovo gabinetto ad intervenire con la ricapitalizzazione degli istituti in crisi.
Il significato del rovescio patito alle urne dal governo Sigurðardóttir è stato riassunto da un’analisi pubblicata lunedì da Bloomberg News, secondo la quale, nonostante “gli elogi del Fondo Monetario Internazionale per le politiche di gestione della crisi messe in atto dal governo, incluse misure sul controllo dei capitali e l’accollamento di una parte delle perdite ai creditori, gli elettori si sono mostrati più ricettivi verso le promesse dell’opposizione di migliorare le loro condizioni di vita”.
In altre parole, a fronte della linea dura tenuta nei confronti dei creditori stranieri che cercavano il rimborso delle perdite subite con il crollo delle banche islandesi e di iniziative in buona parte di facciata, come la riscrittura della Costituzione o il processo tenuto lo scorso anno ai danni dell’ex premier, Geir Haarde, per le sue responsabilità nel crollo finanziario, anche il governo “progressista” islandese ha in definitiva operato per il salvataggio del sistema economico domestico facendone pagare il prezzo alla maggioranza della popolazione.
Inoltre, se il livello di disoccupazione è attualmente sceso attorno al 5% rispetto al 7,3% del 2009 e a quasi l’8% del 2010, esso rimane nettamente superiore a quello del 2007 e, in ogni caso, la discesa è dovuta in buona parte alla massiccia emigrazione che ha segnato l’Islanda in questi ultimi anni.
Come altrove in Europa, anche il governo di Reykjavik ha poi messo in atto pesanti tagli allo stato sociale, in particolare nei settori della sanità, dell’educazione e dei servizi sociali in genere. Soprattutto, il valore della corona è crollato e buona parte degli islandesi che aveva ottenuto prestiti legati a valute straniere si è ritrovata con un livello spropositato di indebitamento. Parallelamente, l’inflazione ha fatto segnare una sensibile impennata, determinando un aumento vertiginoso del costo dei beni di prima necessità e dei livelli di povertà nel paese.
In questo scenario, i due partiti che hanno formato la coalizione di governo fin dal 2009 (Alleanza Socialdemocratica e Sinistra-Movimento Verde) hanno perso in questa tornata elettorale rispettivamente il 17% e l’11% dei consensi, assicurandosi appena 16 seggi (9 e 7) sui 63 totali dell’Althing (Parlamento) islandese. Pur senza suscitare particolare entusiasmo, saranno così i due partiti di centro-destra usciti vincitori dal voto di sabato ad avere i numeri per mettere assieme una coalizione di governo in maniera agevole.
Il Partito dell’Indipendenza ha superato di solo 3 punti percentuali la propria peggiore prestazione di sempre fatta segnare nel 2009, assestandosi al 26,7%, mentre il Partito Progressista ha ottenuto il 24,4% dei voti e un +10% rispetto a quattro anni fa. Le due formazioni politiche si sono aggiudicate 19 seggi ciascuna e il leader del Partito dell’Indipendenza, Bjarni Benediktsson, dovrebbe ora essere incaricato dal presidente islandese di formare il nuovo esecutivo.
L’elevato astensionismo e lo spostamento complessivo del voto indicano comunque una diffusa sfiducia nei confronti del tradizionale establishment politico del paese. I quattro principali partiti, infatti, nel 2009 avevano ottenuto quasi il 90% dei voti espressi, mentre in questa occasione si sono fermati appena al di sotto del 75%.
Il voto di protesta è andato a due nuovi partiti che non rappresentano alcuna reale alternativa ma che sono stati in grado di superare la soglia di sbarramento del 5%, necessaria per conquistare seggi: il partito Futuro Luminoso (8,2%, 6 seggi) e il Partito Pirata dell’ex portavoce di WikiLeaks, Birgitta Jönsdóttir (5,1%, 3 seggi). Quasi il 12% dei consensi espressi, infine, è andato a formazioni minori che, singolarmente, si sono fermate al di sotto del 5%.
A pesare sull’esito del voto sono state le promesse elettorali dei due partiti che hanno ottenuto i maggiori consensi. Il Partito dell’Indipendenza e quello Progressista si sono impegnati ad abbassare la pressione fiscale, ad intraprendere misure per alleviare il peso degli onerosi mutui contratti da molti islandesi e a rallentare il processo di adesione all’Unione Europea avviato dal governo uscente.
Alla luce della profonda crisi che continua ad attraversare i paesi dell’eurozona, la maggior parte della popolazione vede correttamente un eventuale ingresso del proprio paese nella moneta unica come un’ulteriore seria minaccia alle proprie condizioni di vita. Forti resistenze all’integrazione europea sono manifestate anche dalla potente industria ittica islandese che rappresenta il 10% dell’economia del paese e il 25% dell’export complessivo.
Le ambiziose promesse elettorali, in ogni caso, difficilmente potranno essere mantenute dal governo entrante. Ad esempio, l’eliminazione delle misure di controllo dei capitali per stimolare gli investimenti esteri e la crescita economica rischia di provocare piuttosto una fuga dei capitali stessi, mentre una parziale cancellazione dei debiti detenuti dai sottoscrittori di mutui potrebbe ugualmente avere conseguenze indesiderate, dal momento che, come ha ricordato un economista di Danske Bank in un’intervista a Bloomberg News, “se i loro ‘asset’ venissero intaccati, gli investitori internazionali non lo dimenticherebbero tanto facilmente”.
Lo stesso primo ministro in pectore Benediktsson, subito dopo la chiusura delle urne, ha fatto così intravedere una più che probabile marcia indietro dalle promesse fatte in campagna elettorale, affermando che il suo partito “non avanzerà proposte che non potranno essere attuate”.
Ciò che si prospetta per l’Islanda nel prossimo futuro, in definitiva, sono perciò le stesse politiche anti-sociali perseguite finora, così che gli elettori, dopo avere assegnato la maggioranza in parlamento a due partiti che “hanno promesso la luna”, come ha sostenuto domenica il commentatore locale Egill Helgason in un’intervista al Wall Street Journal, scopriranno ben presto che ben poco potrà essere in realtà mantenuto.
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di Michele Paris
In concomitanza con una serie di rovesci militari patiti recentemente dall’opposizione islamista nel conflitto con il regime siriano di Bashar al-Assad, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente negli ultimi giorni hanno rinvigorito la campagna mediatica per denunciare un più che improbabile utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco. Ad avviare la più recente offensiva erano stati la settimana scorsa i governi di Francia e Gran Bretagna, seguiti poi dai vertici militari israeliani, i quali avevano annunciato il rinvenimento di prove dell’utilizzo di ordigni chimici da parte delle forze armate del governo siriano. Le presunte “prove” presentate da Tel Aviv consisterebbero nell’analisi di immagini fotografiche e non meglio definiti “rilevamenti diretti”.
Secondo l’interpretazione del governo israeliano, il presidente Assad avrebbe fatto un limitato uso di queste armi per testare la reazione americana, dopo che Obama la scorsa estate aveva affermato che ciò avrebbe rappresentato il superamento di una “linea rossa”, portando ad un possibile intervento militare diretto in Siria.
In realtà, l’uscita degli israeliani è apparsa piuttosto come un tentativo di forzare la mano all’amministrazione Obama a Washington, da dove inizialmente le reazioni alle dichiarazioni dell’alleato erano state molto tiepide per poi cambiare registro nei giorni successivi.
Giovedì, infatti, la Casa Bianca ha inviato una lettera al Congresso nella quale sostiene che l’intelligence USA ha valutato “con un certo grado di certezza” che il regime siriano ha fatto un uso limitato di armi chimiche. Sulla stessa linea è apparso anche il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, il quale, nel corso di una trasferta in Medio Oriente per promuovere accordi di vendita di armi per decine di miliardi di dollari a Israele e alle monarchie assolute del Golfo, pur concedendo che Washington “non può confermare l’origine delle armi chimiche, molto probabilmente” esse sono state impiegate dal regime.
Anche il premier britannico, David Cameron, ha citato infine le “prove limitate” dell’uso di armi chimiche, “probabilmente” da parte di Assad.
Oltre a non avere presentato alcuna prova concreta sull’utilizzo di armi chimiche in riferimento ad un episodio avvenuto lo scorso mese di marzo in una località nei pressi di Aleppo, gli Stati Uniti e i governi alleati anche nelle loro dichiarazioni ufficiali mostrano di non avere nessuna certezza sull’accaduto.
Ciononostante, a dieci anni dall’invasione illegale dell’Iraq basata su false accuse al regime di Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa, l’amministrazione Obama appare sul punto di scatenare una nuova rovinosa guerra in Medio Oriente utilizzando le stesse motivazioni.
Il governo di Assad, da parte sua, continua a sostenere che un attacco con una testata chimica è stato condotto dalle forze ribelli contro un check-point dell’esercito regolare nel quale sarebbero stati uccisi alcuni militari. Per fare chiarezza su questi fatti, Assad chiede da tempo un’ispezione dell’ONU, così come desidererebbero Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Questi ultimi governi, però, continuano a bloccare un accordo al Palazzo di Vetro perché intendono garantire al team da inviare in Siria il libero accesso a qualsiasi area e struttura del paese.
La risposta del governo siriano alle accuse è stata prevedibilmente molto dura, con il ministro dell’Informazione, Omran al-Zoubi, che in un’intervista pubblicata sabato dal network Russia Today ha bollato come “menzogne” le insinuazioni di USA e Israele.
Il governo di Mosca, a sua volta, aveva già in precedenza sottolineato l’utilizzo strumentale dell’accusa diretta verso Damasco di avere utilizzato armi chimiche da parte degli Stati Uniti, colpevoli inoltre di voler politicizzare la possibile indagine delle Nazioni Unite. Washington, Londra e Parigi, infatti, hanno tutta l’intenzione di sfruttare un’eventuale team dell’ONU in Siria per aumentare le pressioni su Damasco, istituendo un regime di ispezioni simile a quello che spianò la strada all’invasione dell’Iraq nel 2003.
Le accuse rivolte dagli Stati Uniti alla Siria di avere fatto ricorso ad armi chimiche appaiono in ogni caso perfettamente in linea con il cinismo che contraddistingue la politica estera di Washington, dal momento che, limitandosi agli eventi dell’ultimo decennio, sono state le forze armate di questo paese ad essersi rese responsabili dell’utilizzo di ordigni letali in Medio Oriente, causando morte e distruzione. Emblematiche dei crimini commessi dall’imperialismo statunitense a fronte delle motivazioni “umanitarie” sono ad esempio le operazioni militari condotte dagli americani durante l’assedio di Fallujah, in Iraq, dove è stato ampiamente documentato l’uso di napalm e fosforo bianco.
Nonostante la campagna orchestrata per raccogliere il consenso della comunità internazionale attorno ad un intervento esterno in Siria, gli Stati Uniti sono ben consapevoli dei rischi che comporterebbe una decisione prematura. Qualche giorno fa, infatti, il presidente Obama ha annunciato per ora una risposta “prudente” alle “prove” dell’uso di armi chimiche.
Queste parole sono state pronunciate nel corso di una dichiarazione rilasciata poco prima di un vertice a Washington con il sovrano di Giordania, Abdullah II, il cui regime è in prima linea - assieme a Turchia, Arabia Saudita e Qatar - nel sostenere l’opposizione armata al governo di Damasco. Le parole di Obama sono state poi seguite dagli inviti alla prudenza del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, il quale ha apertamente ricordato la lezione dell’Iraq. Simili avvertimenti servono in realtà soltanto a disorientare l’opinione pubblica, dal momento che la strategia messa in atto dalla Casa Bianca sembra ricalcare in buona parte quella dell’amministrazione Bush.
Prima di procedere con iniziative concrete per dare la spallata finale al regime di Assad, tuttavia, gli Stati Uniti, i governi occidentali e quelli mediorientali devono sciogliere soprattutto il dilemma rappresentato dalla continua espansione dell’influenza jihadista tra l’opposizione armata che essi finanziano e armano in Siria, nonché le rivalità tra gli sponsor di quest’ultima.
Per cercare di trovare una politica unitaria e di dirimere una situazione estremamente delicata che fa intravedere un possibile regime nel post-Assad dominato da forze integraliste anti-occidentali e anti-israeliane, il presidente Obama, prima del vertice con Abdullah di Giordania, aveva già incontrato i leader di Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mentre ai primi di maggio è in programma un incontro con il premier turco, Recep Tayyip Erdogan.
Dietro alle dichiarazioni di facciata e ai finti scrupoli per la sorte della popolazione siriana, gli Stati Uniti stanno dunque guidando i preparativi per un nuovo intervento armato in Medio Oriente, così da rimuovere il regime di Damasco e isolare ulteriormente l’alleato di Assad – l’Iran – ultimo vero ostacolo al controllo americano delle risorse energetiche della regione.
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di Michele Paris
Pochi giorni dopo le esplosioni alla maratona di Boston e la cattura e l’uccisione dei due giovani di origine cecena accusati dell’attentato, il governo canadese ha annunciato l’arresto di due presunti affiliati ad Al-Qaeda che stavano progettando un altro atto terroristico contro un treno che collega New York e Toronto. Le scarsissime prove presentate dalla polizia del Canada e il tempismo dell’operazione autorizzano però più di un sospetto, visto che essa è stata condotta proprio alla vigilia della discussione in Parlamento di una nuova legge che dovrebbe assegnare poteri eccezionali alle forze di sicurezza in materia di anti-terrorismo.
In una conferenza stampa ben propagandata, la cosiddetta Royal Canadian Mounted Police lunedì ha dunque rivelato l’arresto del 30enne Chiheb Esseghaier e del 35enne Raed Jaser, i quali il giorno successivo sono apparsi per la prima volta di fronte ad un giudice per ascoltare le gravi accuse mosse nei loro confronti.
I due sospettati avrebbero sorvegliato per mesi la rete ferroviaria che serve la città di Toronto con l’intento di progettare l’esplosione o il deragliamento di un convoglio. A guidare le loro azioni sarebbero stati “elementi di Al-Qaeda localizzabili in Iran”. Ricalcando le dichiarazioni frequentemente rilasciate dagli agenti dell’FBI negli Stati Uniti dopo operazioni che si scoprono non essere altro che montature, la polizia canadese ha assicurato che i passeggeri non sono in realtà mai stati esposti ad un “pericolo imminente”, dal momento che i due sospettati erano costantemente sotto osservazione degli agenti e, inoltre, erano stati preparati piani di emergenza per evitare qualsiasi inconveniente.
I documenti del procedimento giudiziario già avviato hanno poi evidenziato un aspetto ancora più interessante in relazione al periodo durante il quale Esseghaier e Jaser avrebbero complottato per colpire la rete ferroviaria pubblica. I due, cioè, avrebbero collaborato a Toronto e a Montréal per fini terroristici a partire dal 1° aprile e fino al 25 settembre dello scorso anno. Jaser, in particolare, pare abbia cessato queste “attività illegali” a settembre, mentre Esseghaier è accusato di avere partecipato ad “azioni terroristiche” fino alla metà di febbraio.
Questo dato, assieme al fatto che i due sospettati erano sotto sorveglianza almeno fin dall’agosto scorso, conferma come le autorità canadesi abbiano con ogni probabilità deciso di procedere con gli arresti e con la rivelazione del “complotto” in concomitanza con l’arrivo in Parlamento del “Combating Terrorism Act” (Legge S-7), la legge anti-terrorismo voluta dal governo federale guidato dal premier ultra-conservatore Stephen Harper.
A sollevare un dubbio più che legittimo in proposito è stato anche John Norris, il legale di uno dei due arrestati e già noto per aver difeso qualche anno fa un ex detenuto nel lager di Guantánamo. Norris ha sottolineato non solo come la polizia abbia chiarito che “non ci sono stati rischi per la sicurezza pubblica”, ma anche la “perfetta coincidenza” delle accuse con il dibattito parlamentare in corso a Ottawa e la quasi concomitanza degli arresti con i fatti di Boston.
Le circostanze dei due arresti, oltretutto, fanno pensare ad un lungo periodo nel quale i due accusati sono rimasti indisturbati prima di finire improvvisamente sotto custodia. Esseghaier, originario della Tunisia e iscritto ad un dottorato in una prestigiosa università del Quebec, è stato arrestato lunedì poco dopo l’ora di pranzo mentre si trovava in tutta tranquillità in un McDonald’s della principale stazione ferroviaria di Montréal, mentre Jaser è finito in manette sul posto di lavoro a North York, nei pressi di Toronto, in seguito ad un blitz condotto con un massiccio dispiegamento di forze di polizia.
A rendere la vicenda ancora più sospetta è anche il fatto che il governo Harper aveva annunciato proprio venerdì scorso un cambiamento nell’ordine dei lavori della Camera dei Comuni canadese, programmando per lunedì l’inizio della terza e ultima lettura della controversa Legge S-7. Questo provvedimento, che intende rispolverare alcune misure già adottate in Canada dopo l’11 settembre 2001 e cessate nel 2007, era stato introdotto per la prima volta ben cinque anni fa e la più recente discussione su di esso era iniziata nel febbraio 2012.
Tra le misure più anti-democratiche in esso contenute spicca quella che consente la detenzione preventiva e senza accuse formali per un periodo massimo di tre giorni di chiunque sia sospettato di essere coinvolto in attività terroristiche. Inoltre, chiunque sia ritenuto a conoscenza di un atto terroristico può essere costretto a rispondere alle domande della polizia e, nel caso dovesse rifiutarsi, potrebbe essere incarcerato fino a dodici mesi anche senza essere indagato di nessun crimine.
Altre misure prevedono infine l’innalzamento della pena fino a 14 anni per favoreggiamento di attività terroristiche e l’introduzione di un nuovo reato, che scatterebbe quando cittadini canadesi si recano all’estero con lo scopo di commettere atti di terrorismo o per entrare in contatto con organizzazioni terroristiche.
I due sospettati arrestati lunedì, in ogni caso, hanno respinto fermamente le accuse sollevate nei loro confronti, così come amici e familiari si sono mostrati del tutto increduli. Il collegamento con Al-Qaeda in Iran appare inoltre poco credibile, dal momento che la Repubblica Islamica sciita nutre tradizionalmente ben poca simpatia per il fondamentalismo sunnita.
Anche se il governo di Ottawa ha affermato di non avere trovato prove del coinvolgimento del regime di Teheran nel piano terroristico di Esseghaier e Jaser, simili insinuazioni contribuiscono ad alimentare la campagna anti-iraniana in atto da tempo soprattutto negli Stati Uniti.
Dopo le bombe alla maratona e la messa in stato d’assedio di Boston, Washington ha subito sfruttato l’occasione per sottolineare la partnership con il Canada nella lotta al terrorismo e la necessità di tenere alta la guardia con la continua implementazione di misure anti-democratiche per garantire la “sicurezza” della popolazione.
L’ambasciatore americano in Canada, David Jacobson, in una dichiarazione ufficiale emessa lunedì scorso si è così affrettato ad affermare che l’arresto dei due presunti terroristi è stato “il risultato di una intensa collaborazione” tra i due paesi vicini, non mancando poi di ricordare “le reali e serie minacce” che essi si troverebbero a dover fronteggiare.
Non meno degli Stati Uniti, il Canada di Stephen Harper ha d’altra parte sfruttato in questi anni la minaccia terroristica – spesso fabbricata ad arte – per giustificare l’adozione di politiche imperialiste all’estero e, sul fronte domestico, di misure più appropriate ad uno stato di polizia che ad un paese autenticamente democratico.
A perseguire questa linea non è però solo il Partito Conservatore attualmente al potere, ma anche lo storico Partito Liberale Canadese di centro-sinistra, il cui governo guidato dall’allora premier, Jean Chrétien, nel 2001 partecipò all’invasione dell’Afghanistan e mise in atto misure gravemente lesive dei diritti democratici in seguito agli attentati dell’11 settembre. Il Partito Liberale, non a caso, ha già annunciato il proprio voto favorevole anche alla Legge S-7 proposta da Harper e in discussione questa settimana sull’onda emotiva creata ad arte con l’annuncio dell’ennesima quanto fantomatica minaccia “terroristica”.
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di Rosa Ana De Santis
La pratica di beatificazione di Monsignor Oscar Romero, il martire di El Salvador che aveva denunciato gli orrori della dittatura militare e aveva difeso strenuamente il popolo oppresso, era ferma dal 1997. Papa Francesco, finalmente e per primo, riapre la causa e ne invoca subito la beatificazione.
Prima di essere brutalmente assassinato dagli squadroni della morte di Roberto D’Abuisson, Monsignor Romero, aveva cercato aiuto dal Vaticano. Pur bussando alla porta di Giovanni Paolo per avere sostegno nella denuncia della barbarie che avveniva in Salvador e in tanto Sudamerica, rimase però inascoltato e ai margini della Chiesa di Roma per lungo tempo. La sua fede nella giustizia risultava troppo infarcita di “politica” ed era poco “in linea” con la mission politica del papato di Woytila, impegnato fino in fondo nella mistica anti-comunista e filo americana e molto poco sensibile all’imperialismo del Sud del Mondo.
Eppure Romero, è bene ricordarlo, era un sacerdote conservatore vicino all’Opus Dei, non era mai entrato nelle file dei sacerdoti armati della teologia della liberazione così diffusa nel continente latinoamericano. Della Teologia della Liberazione, anzi, ne era tenace oppositore, ed era rimasto sempre a fare il prete e ad onorare con coerenza i valori cristiani. Ma la realtà del dominio genocida dei militari salvadoregni aveva avuto il sopravvento sulle questioni teologiche e quanto vide lo obbligò moralmente a denunciare le violazioni dei diritti della sua gente, le diseguaglianze sociali, la barbarie della dittatura e le complicità omertose internazionali.
Furono denunce gridate dal pulpito della sua chiesa come attraverso i canali stabiliti dal Vaticano, ma furono soprattutto le sue prediche nella sua chiesa gremita di fedeli che lo resero intollerabile al governo del democristiano Napoleon Duarte e dei suoi complici paramilitari, tutti agli ordini degli Stati Uniti.Romero da quel pulpito denunciava e su quel pulpito venne assassinato il 24 marzo del 1980, con un ostia in mano e sull’altare, mentre pronunciava le sue ultime parole: “In nome di Dio vi prego, vi scongiuro, vi ordino: cessi la repressione”. Il proiettile dei sicari arrivò a chiusura della frase mentre i fedeli attoniti correvano a soccorrerlo. Fu tutto inutile. Per paradosso della storia, o per ipocrisia congenita, Duarte divenne Segretario dell'Internazionale della Democrazia Cristiana.
L’annuncio dello sblocco voluto da Bergoglio arriva a Bari per bocca del postulatore, arcivescovo Vincenzo Paglia, nel momento in cui vengono celebrati i venti anni della morta di don Tonino Bello, un altro prossimo beato. Il segno del rinnovamento che ha accompagnato la nomina di Papa Francesco non è solo questione di stile, di linguaggio e di comportamenti più sobri e meno cerimoniosi. Avviene, evidentemente, con delle scelte concrete e coraggiose che segnano profonda discontinuità rispetto al passato, sia con il papato di Joseph Ratzinger che con il ventennio di Wojtyla che lo ha preceduto e che ha caratterizzato una fase marcatamente politica e temporale della storia della Chiesa.
Papa Bergoglio pone le basi non soltanto di una Chiesa più umile e vicina all’autenticità del messaggio cristiano, ma di una vera famiglia spirituale dove i martiri come Romero sono santi subito, anche quando sono scomodi negli equilibri dei poteri politici o forse soprattutto in questo caso.
L’annuncio della beatificazione di Oscar Arnulfo Romero arriva come un risarcimento spirituale per il popolo del Salvador e di tutta l’America Latina che dall’anno della sua morte celebra già nelle chiese Monsignor Romero come icona di giustizia e come martire contemporaneo. Ma la beatificazione di Romero è una benedizione più per la Chiesa e la Curia romana che ha incensato santi d’ogni sorta, guaritori e vergini, stigmate, figure controverse come Josemaría Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus dei canonizzato da Wojtyla in velocità, lasciando fuori la porta chi ha dato la sua vita per gli ultimi, chi ha denunciato i farisei, chi ha combattuto contro Erode fino a morire in croce con l’ultima omelia per la giustizia e il coraggio sulle labbra. Una di quelle denunce che in Argentina il gesuita Bergoglio avrà ascoltato mille e una volta. Papa Francesco ha deciso di riparare alle sordità del passato e ad aprire la porta a un santo degli ultimi e con lui, come in molti sperano, agli ultimi.