di Mario Lombardo

Nonostante una serie di nuove proteste popolari, questa settimana il governo israeliano ha approvato quasi all’unanimità una bozza di bilancio all’insegna dell’austerity per gli anni 2013 e 2014 che dovrà essere approvata dalla Knesset (Parlamento) entro l’estate. Autore principale del pacchetto da oltre 106 miliardi di dollari, che contiene pesanti tagli di spesa e aumenti del carico fiscale, è il neo-ministro delle Finanze Yair Lapid, recentemente catapultato al centro della scena politica di Israele dopo una campagna elettorale condotta in nome del rilancio di una classe media sempre più in affanno.

Il punto più controverso del nuovo bilancio dello stato di Israele, contro il quale si è espresso un solo membro del gabinetto Netanyahu, è stato il taglio agli stanziamenti destinati alle forze armate che continuano a rappresentare il più importante capitolo di spesa del governo con 14,5 miliardi di dollari per il 2013 e 14,8 miliardi per il 2014.

Dopo un acceso confronto tra il ministro della Difesa, Moshe Ya’alon, e il ministro delle Finanze Lapid, a trovare un compromesso è stato il primo ministro con una proposta che ha fissato i tagli a poco più di 820 milioni di dollari invece dei quasi 1,1 miliardi inizialmente previsti. Oltretutto, ha promesso Netanyahu, il bilancio militare tornerà a crescere significativamente tra il 2015 e il 2018.

Per il resto, invece, quella che spicca è una serie di misure di rigore che il governo, di fronte alla massiccia opposizione popolare, ha affermato essere necessarie per fronteggiare un deficit più consistente di quanto si credeva. L’implementazione delle misure appena approvate dal gabinetto Netanyahu dovrebbe ridurre il deficit al 3% del PIL nel 2014 dopo aver toccato il 4,65% nel 2012.

I tagli complessivi alla spesa pubblica dovrebbero ammontare a quasi 2 miliardi di dollari nel 2013 e a 5 miliardi il prossimo anno. In particolare, ad essere pesantemente colpiti saranno i benefit erogati per i minori, quelli per i progetti legati ai trasporti pubblici, i sussidi destinati ai programmi dopo-scuola, ma anche i fondi previsti per le scuole religiose. Sul fronte delle tasse, l’IVA salirà dal 17% al 18%, l’imposta sui redditi personali e sugli immobili aumenterà dell’1,5%, mentre quella sulle aziende dell’1%.

Secondo i calcoli di alcuni analisti, l’intera manovra costerà ad ogni famiglia israeliana circa un mese di stipendio medio all’anno. La bozza approvata dal governo questa settimana dovrà ora confluire in un disegno di legge da presentare alla Knesset non oltre il 10 giugno. Il Parlamento avrà tempo fino al 30 dello stesso mese per approvarla ed entrerà in vigore a partire dal primo agosto prossimo.

Già le indiscrezioni sul contenuto del nuovo bilancio avevano portato nelle piazze delle principali città di Israele oltre 15 mila manifestanti nello scorso fine settimana. Sui social media, inoltre, la rabbia di lavoratori e classe media è stata rivolta soprattutto al ministro delle Finanze, Yair Lapid, ex giornalista televisivo e leader della formazione centrista Yesh Atid (“Esiste un Futuro”).

Quest’ultimo, infatti, aveva ampiamente beneficiato delle proteste senza precedenti che nell’estate del 2011 intendevano chiedere misure concrete per porre un freno al crescente costo della vita e alle disuguaglianze sociali dilaganti. Lapid aveva raccolto le richieste avanzate in particolare dalle sezioni della classe media urbana colpite dalla crisi economica e sociale, promettendo di invertire il loro declino e di riaprire i cordoni della borsa colpendo i redditi più elevati.

Nelle elezioni anticipate dello scorso gennaio, così, il movimento di Lapid aveva ottenuto un risultato sorprendente, piazzandosi secondo per numero di consensi e seggi parlamentari, dietro alla lista unitaria di estrema destra formata dal Likud di Netanyahu e dal partito Israel Beiteinu dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman.

L’evoluzione di Lapid e di Yesh Atid dopo il voto, oltre ad avere mostrato l’opportunismo politico del nuovo ministro delle Finanze, è risultata esemplare dei limiti stessi della democrazia parlamentare israeliana e non solo, totalmente incapace di interpretare le necessità e le aspirazioni della grandissima maggioranza della popolazione in un sistema monopolizzato dai grandi interessi economici e finanziari.

Assieme all’altra sorpresa uscita dalle elezioni - il partito di estrema destra “Focolare Ebraico” guidato dall’ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett - Lapid è entrato infatti in una coalizione di governo con Netanyahu nonostante le evidenti differenze emerse in campagna elettorale sia in ambito economico sia relativamente alla questione palestinese.

Netanyahu, quindi, dopo avere provocato una crisi di governo pilotata nell’ottobre del 2012 a causa dell’impossibilità di fare approvare durissime misure di austerity all’interno della propria coalizione, all’indomani del voto anticipato di gennaio, pur vedendo indebolito il proprio partito, è riuscito a far passare quelle stesse misure grazie alla personalità politica che le aveva maggiormente criticate in campagna elettorale.

In altre parole, dopo avere costruito la sua rapida ascesa politica sulla ferma opposizione alle misure di rigore proposte e implementate da Netanyahu, Yair Lapid è diventato in sostanza lo strumento principale per l’adozione di nuovi tagli alla spesa e aumenti delle tasse che penalizzeranno soprattutto la sua stessa base elettorale.

Secondo molti osservatori, tutto ciò sarebbe una mossa astuta di Netanyahu, il quale è riuscito a utilizzare una quasi sconfitta elettorale per avanzare la propria agenda reazionaria, cooptando il suo principale rivale in un nuovo governo di coalizione e determinando per quest’ultimo un prevedibile, e tutt’altro che sgradito, crollo nel gradimento popolare.

Le manifestazioni di piazza degli ultimi giorni, infine, se pure consistenti per gli standard israeliani, sono risultate decisamente più contenute rispetto al movimento di protesta scoppiato due anni fa. Lo sconforto di buona parte dei manifestanti del 2011 è dovuto senza dubbio proprio alla delusione prodotta dal voltafaccia di Yair Lapid, il quale da parte sua ha indicato come necessari i tagli al bilancio decisi in questi giorni, primo passo indispensabile verso illusorie “riforme” future che dovrebbero migliorare le condizioni di vita della classe media israeliana.

di Michele Paris

La scadenza dei termini previsti per la presentazione delle candidature preliminari alla presidenza dell’Iran è stata segnata sabato scorso da un’importante sorpresa dell’ultimo minuto che ha immediatamente scatenato una valanga di commenti e congetture sia a Teheran che in Occidente. La candidatura alla guida del paese del 78enne ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, se confermata, oltre a rianimare una campagna elettorale che sembrava essere dominata quasi esclusivamente dagli uomini espressione dell’establishment conservatore iraniano, solleva infatti una serie di interessanti interrogativi sulla direzione che potrebbe intraprendere la Repubblica Islamica nel prossimo futuro.

Importante figura della Rivoluzione Islamica del 1979 e già presidente per due mandati tra il 1989 e il 1997, Rafsanjani viene universalmente considerato come un politico pragmatico e moderato, relativamente disponibile ad accogliere alcune delle istanze del movimento riformista iraniano, pur rimanendo una personalità di primo piano della gerarchia religiosa sciita.

La candidatura di Rafsanjani e quelle di altri 685 aspiranti alla presidenza saranno esaminate dal Consiglio dei Guardiani, il quale valuterà una serie di requisiti dei candidati stessi - tra cui il rispetto dei principi della fede musulmana e degli elementi fondanti la Repubblica Islamica - per poi autorizzare entro il 23 maggio l’apparizione del nome di una parte di essi sulle schede elettorali il prossimo 14 giugno.

La riapparizione di Rafsanjani sulla scena politica iraniana, in ogni caso, rappresenta già di per se un dato significativo, vista la pesante sconfitta che aveva patito da Mahmoud Ahmadinejad nel ballottaggio delle presidenziali del 2005, nonché, soprattutto, la sua sostanziale emarginazione dopo il voto contestato del 2009 e il sostegno fornito al cosiddetto “Movimento Verde” guidato dai candidati sconfitti Mehdi Karroubi e Mir-Hossein Mousavi.

Con questi ultimi due leader ancora agli arresti domiciliari, proprio Rafsanjani viene indicato come l’unica speranza per i riformisti, tanto più che il loro tradizionale beniamino, l’ex presidente Sayyed Mohammad Khatami, dopo avere alimentato qualche illusione nei mesi scorsi ha deciso anche questa volta di declinare gli inviti a correre per la guida del paese.

In particolare, il candidato Rafsanjani potrebbe facilmente intercettare una parte del voto della borghesia urbana che condivide il suo desiderio di stabilire rapporti più distesi con l’Occidente, in funzione di un’apertura dell’economia iraniana al capitale internazionale.

Per l’Occidente, inoltre, una eventuale nuova presidenza Rafsanjani rappresenterebbe un’occasione per allentare le tensioni con l’Iran, così come accadde in parte durante i suoi due mandati negli anni Novanta, caratterizzati da sforzi diplomatici che sarebbero poi stati raccolti dal suo successore, Khatami.

La collocazione ideologica di Rafsanjani e la sua candidatura direttamente in competizione con varie personalità conservatrici rende dunque piuttosto enigmatica una sua dichiarazione rilasciata qualche tempo fa, cioè che avrebbe preso parte alla corsa alla presidenza solo con il via libera della Guida Suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei.

Come ha ipotizzato qualche giorno fa un articolo apparso sulla testata on-line Al-Monitor, questa affermazione da parte di un politico senza una vera e propria base di potere nel paese potrebbe essere stata rilasciata semplicemente per prevenire i prevedibili attacchi dei suoi rivali conservatori e per cercare di impedire l’annullamento della sua candidatura da parte del Consiglio dei Guardiani.

Allo stesso tempo, tuttavia, una qualche approvazione da parte di Khamenei per la candidatura di Rafsanjani sembra essere più che probabile. Anche se la Guida Suprema, pur non sostenendo apertamente alcun candidato, continua a mandare segnali per invitare gli elettori a scegliere un presidente dalle qualità ben differenti da quelle attribuibili a Rafsanjani, è possibile che la sua approvazione all’apparizione di quest’ultimo sulle schede elettorali risponda alla necessità di acconsentire alle richieste di una parte dell’élite iraniana che condivide la visione pragmatica dell’ex presidente in ambito economico e diplomatico.

Il via libera alla candidatura di Rafsanjani potrebbe anche rappresentare un segnale all’Occidente, in vista forse di concreti passi avanti verso un accordo sull’annosa questione del nucleare dopo le elezioni presidenziali. Per altri osservatori, infine, Khamenei avrebbe consentito a Rafsanjani di partecipare alla corsa per la successione ad Ahmadinejad solo per alzare il livello di partecipazione al voto, così da legittimare l’evento elettorale stesso di fronte all’opinione pubblica domestica e internazionale dopo il caos del 2009.

Le reali possibilità di Rafsanjani di conquistare la presidenza o quanto meno di accedere al secondo turno - nel caso riesca a conquistare l’approvazione del Consiglio dei Guardiani - sono comunque tutte da verificare. Oltre a quello che potrebbe eventualmente ricevere da Khamenei, sarà da valutare anche l’entità dell’appoggio che riuscirà ad ottenere dai riformisti e dai conservatori più moderati.

Soprattutto, bisognerà poi attendere la risposta dei cosiddetti “principalisti” - la fazione più fedele all’ayatollah Khamenei - e la loro capacità di coalizzarsi attorno ad un candidato forte che partirebbe senza dubbio da favorito nella corsa alla presidenza.

Tra i nomi più probabili spiccano quelli del capo dei negoziatori sul nucleare, Saeed Jalili, considerato da molti il favorito di Khamenei; l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati; l’ex presidente del Parlamento, Gholam Haddad Adel, e il carismatico sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf.

Gli schieramenti che dovrebbero fare capo approssimativamente a Rafsanjani e al blocco conservatore potrebbero infine dover fare i conti con il candidato di Ahmadinejad, il suo controverso capo di gabinetto Esfandiar Rahim Mashaei. Esaurito il limite dei due mandati consecutivi previsto dalla Costituzione, Ahmadinejad da tempo sostiene Mashaei apertamente e in violazione di quanto previsto dalla legge iraniana, indicandolo come il suo più qualificato successore, in grado di proseguire le politiche di sostegno alle classi più disagiate che hanno in parte caratterizzato i primi anni della sua presidenza.

Su Mashaei pesa però la profonda ostilità nutrita dalla classe dirigente conservatrice, nonché dai riformatori, per Ahmadinejad e per le sue politiche populiste, tanto che sono in pochi a scommettere su un’approvazione della sua candidatura da parte del Consiglio dei Guardiani. Mashaei viene infatti accusato di far parte di una sorta di setta “deviazionista”, poiché incoraggerebbe, tra l’altro, un’esperienza religiosa diretta a discapito della gerarchia clericale sciita e sarebbe responsabile di privilegiare un nazionalismo che fa riferimento al periodo pre-islamico.

L’ostilità dei conservatori verso Mashaei e, in buon parte, Rafsanjani è apparsa evidente nella giornata di martedì, quando, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa iraniana Mehr, un centinaio di parlamentari ha consegnato una petizione al Consiglio dei Guardiani per escludere entrambi i candidati dalla competizione elettorale di giugno, citando il “deviazionismo” del primo e il ruolo giocato dal secondo nella “sedizione” del 2009.

I timori nutriti nei confronti di Mashaei dall’establishment conservatore, in realtà, riguardano più che altro le scelte in ambito economico, dal momento che esso e la borghesia imprenditoriale iraniana intendono liquidare definitivamente le politiche promosse da Ahmadinejad e fatte di limitati sussidi per l’acquisto di beni di prima necessità, prestiti a tassi accessibili e sovvenzioni in denaro destinate agli iraniani più poveri.

Nonostante gli attacchi subiti dalle fazioni politiche antagoniste nell’ultima fase della sua presidenza, Ahmadinejad continua con ogni probabilità a godere di una certa popolarità tra le fasce più povere della popolazione, così che l’eventuale partecipazione alle elezioni presidenziali di Mashaei costituirebbe una seria minaccia per i candidati conservatori o per lo stesso Rafsanjani.

La sua esclusione, perciò, appare a molti scontata, anche se una decisione in questo senso del Consiglio dei Guardiani difficilmente farebbe desistere il sempre più combattivo Ahmadinejad, il quale infatti ha più volte lasciato intendere di essere pronto a rivelare prove esplosive su episodi di corruzione che coinvolgono i vertici della Repubblica Islamica o, addirittura, a far scendere i propri sostenitori nelle piazze delle città iraniane.

di Michele Paris

Il sistematico disprezzo per i più basilari principi costituzionali da parte dell’amministrazione Obama è stato confermato in questi giorni dalla diffusione della notizia che il Dipartimento di Giustizia americano ha intercettato e monitorato segretamente e illegalmente per un periodo di due mesi le conversazioni telefoniche di redattori e giornalisti della Associated Press, la più importante agenzia di stampa del paese.

A rendere pubblico l’ennesimo abuso del governo di Washington è stata una lettera inviata dal presidente della stessa agenzia, Gary Pruitt, al ministro della Giustizia, Eric Holder, nella quale lamenta una “intrusione massiccia e senza precedenti” nella propria attività di raccolta delle notizie.

Secondo quanto riferito dalla Associated Press, venerdì scorso il Dipartimento di Giustizia ha informato i vertici dell’agenzia di stampa che oltre venti linee telefoniche dei propri uffici, ma anche delle abitazioni e i cellulari di alcuni giornalisti, erano state sottoposte ad intercettazione tra il mese aprile e maggio del 2012 in maniera del tutto segreta e senza rispetto per le norme legali previste.

I reporter interessati sarebbero un centinaio e gli uffici monitorati dagli investigatori federali quelli della sede centrale di New York e delle redazioni di Washington e Hartford, nel Connecticut, nonché la postazione riservata all’agenzia nella sala stampa della Camera dei Rappresentanti al Congresso.

Anche se il Dipartimento di Giustizia non ha specificato il motivo della propria operazione illegale, la Associated Press e gli altri media d’oltreoceano hanno facilmente collegato i fatti alla pubblicazione, avvenuta il 7 maggio del 2012, della notizia dello smantellamento da parte della CIA di un complotto terroristico ideato da un affiliato ad Al-Qaeda in Yemen per fare esplodere un aereo di linea diretto negli Stati Uniti.

L’agenzia di stampa, in realtà, aveva inizialmente evitato di pubblicare la notizia dietro richiesta della Casa Bianca e della CIA, poiché l’operazione dell’intelligenze americana era ancora in corso. Una volta conclusasi, grazie al coinvolgimento di un doppio agente della CIA, la Associated Press decise di procedere alla pubblicazione della rivelazione con un giorno di anticipo rispetto a quanto chiesto dall’amministrazione Obama, la quale voleva invece attendere che venisse emesso un comunicato ufficiale da parte delle autorità governative.

Perciò, il Dipartimento di Giustizia ha subito aperto un’indagine per individuare la fonte della rivelazione, coerentemente con la politica messa in atto dall’attuale inquilino della Casa Bianca, volta a punire i responsabili di qualsiasi fuga di notizie all’interno del governo federale e a scoraggiare eventuali futuri comportamenti di questo genere.

L’atteggiamento vendicativo dell’amministrazione Obama è confermato dal numero di procedimenti legali aperti fin dal 2009 ai danni dei cosiddetti “whistleblowers”, cioè dipendenti federali che decidono di fornire informazioni riservate alla stampa, spesso riguardanti crimini o malefatte del governo. I sei procedimenti finora avviati - il più celebre dei quali è quello contro l’ex analista dell’esercito, Bradley Manning, tenuto in carcere per oltre mille giorni senza condanna e attualmente sotto corte marziale per avere passato documenti riservati a WikiLeaks - risultano infatti essere il doppio di quelli intentati da tutte le precedenti amministrazioni combinate.

Il metodo utilizzato contro la Associated Press segna inoltre un’escalation dell’aggressività del governo americano, il quale ha in questo caso deciso deliberatamente di bypassare la “normale” pratica utilizzata per entrare in possesso di materiale informativo appartenente ad un organo di stampa.

Solitamente, infatti, le autorità federali notificano anticipatamente ad una testata la necessità di ottenere registrazioni telefoniche o e-mail per motivi quasi sempre legati alle necessità dell’anti-terrorismo, così che su tale richiesta possano svolgersi negoziati tra le due parti oppure per consentire un ricorso in tribunale.

Come hanno ipotizzato alcuni giornali americani nei giorni scorsi, appare estremamente probabile che questo metodo arbitrario di intercettazione delle comunicazioni dei media da parte del governo venga utilizzato in maniera più o meno diffusa. Il New York Times, ad esempio, ha provato a chiedere senza successo al Dipartimento di Giustizia se a essere finiti sotto il controllo federale siano anche i propri uffici, dal momento che un’indagine dovrebbe essere in corso sulle rivelazioni contenute in un articolo e in un libro del reporter David Sanger su un’operazione dell’intelligence americana e israeliana per sabotare le centrifughe nucleari dell’Iran.

In seguito alla diffusione della notizia relativa alla Associated Press, in ogni caso, il Dipartimento di Giustizia è stato costretto ad ammettere l’appropriazione delle comunicazioni telefoniche dell’agenzia, rilasciando, come di consueto per l’amministrazione Obama, una dichiarazione dai risvolti orwelliani.

Parlando di una palese e gravissima violazione della legge e dei diritti garantiti dal Primo e dal Quarto Emendamento alla Costituzione (liberta di parola; difesa da perquisizioni e confische ingiustificate), il Dipartimento guidato da Eric Holder ha cioè difeso il proprio operato, affermando che, “poiché abbiamo a cuore la libertà della stampa, siamo attenti a cercare sempre di trovare il giusto compromesso tra il libero flusso delle informazioni e la corretta ed efficace amministrazione della giustizia”.

La notizia delle intercettazioni ai danni della Associated Press non deve comunque sorprendere, visto il controllo sistematico delle comunicazioni elettroniche virtualmente di tutti i cittadini americani messo in atto dal governo americano con l’espansione delle prerogative attribuite all’esecutivo nell’ambito della “guerra al terrore”.

Sulla questione dell’ostacolo alla pubblicazione di notizie riservate, invece, gli stessi media più importanti negli Stati Uniti spesso sono tutt’altro che vittime innocenti, come dimostrano i rapporti da molti di essi regolarmente intrattenuti con la Casa Bianca ed altre agenzie governative per trattare l’eventuale pubblicazione di materiale sensibile.

La stessa Associated Press che denuncia il Dipartimento di Giustizia per l’inopportuna intromissione nella propria attività, come anticipato in precedenza aveva in realtà accettato la “richiesta” del governo e della CIA di ritardare la pubblicazione delle notizie in suo possesso sul presunto attentato progettato in Yemen, negando la tempestiva diffusione di informazioni di estrema rilevanza.

Ancora più sconcertante è poi l’atteggiamento tenuto dal New York Times, teoricamente il baluardo del pensiero liberal americano. Per sua stessa ammissione, il quotidiano newyorchese aveva ad esempio preso accordi con l’amministrazione Obama circa i documenti riservati ottenuti da WikiLeaks da pubblicare od occultare, ufficialmente per proteggere agenti dell’intelligence e funzionari di un governo i cui crimini stavano per essere resi pubblici.

In quell’occasione, l’allora direttore Bill Keller, giunse ad affermare, in un editoriale scritto per giustificare l’inaccettabile comportamento del suo giornale, che “la libertà di stampa comporta la libertà di NON pubblicare determinate informazioni”, ovviamente quando ciò venga richiesto dal governo.

Qualche anno prima, d’altra parte, lo stesso Keller aveva già dimostrato come il New York Times si era ormai avviato verso la sua trasformazione in poco più che un organo della propaganda del governo, proprio in concomitanza con l’adozione da parte di quest’ultimo di metodi sempre più autoritari e anti-democratici.

Nel 2004, infatti, il New York Times aveva deciso di non pubblicare le informazioni in proprio possesso sull’esistenza di un programma segreto e illegale di intercettazione delle comunicazioni telefoniche ed elettroniche di qualsiasi cittadino americano. Il programma era condotto senza alcuna garanzia legale dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) ed era stato autorizzato da un ordine esecutivo emanato dall’amministrazione Bush.

Pur consapevole della grave minaccia ai diritti democratici rappresentato dal programma, il Times si piegò alle richieste della Casa Bianca, evitando di pubblicare la notizia alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2004, consentendo con ogni probabilità la rielezione del presidente repubblicano. La notizia delle intercettazioni sarebbe infine uscita solo nel dicembre dell’anno successivo, quando l’amministrazione Bush, di fatto protetta dal principale giornale di orientamento “progressista” degli Stati Uniti, stava per chiedere ad un tribunale di bloccarne definitivamente la pubblicazione.

di Mario Lombardo

Le elezioni parlamentari anticipate di domenica scorsa in Bulgaria sono state segnate da un livello record di astensionismo in un paese attraversato da un profondissimo sconforto e da un’ostilità diffusa verso l’intera classe dirigente, prodotti da anni di politiche regressive, messe in atto da tutti gli schieramenti succedutisi al governo. Con il conteggio pressoché ultimato delle schede, il maggior numero di consensi è andato al partito di governo di centro-destra Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria (GERB) dell’ex premier Boyko Borisov.

Quest’ultimo si era dimesso a fine febbraio in seguito ad un’ondata di proteste popolari contro il massiccio rincaro dei costi dell’energia elettrica nel paese più povero dell’Unione Europea e, più in generale, contro le durissime misure di austerity messe in atto dietro indicazione degli ambienti finanziari internazionali.

Borisov era stato così rimpiazzato da un esecutivo di transizione, guidato dall’ex membro di GERB diventato “indipendente”, Marin Raykov, ugualmente incapace di rispondere alle richieste dei bulgari che hanno continuato a manifestare nelle principali città del paese.

L’umiliazione patita da Borisov - ex guardia del corpo del dittatore Todor Zhivkov prima del crollo dell’Unione Sovietica - sembrava dover mettere addirittura fine alla sua carriera politica, ma il risultato del voto dell’altro giorno ha decretato il suo ritorno sulla scena a Sofia, anche se non necessariamente alla guida del prossimo governo.

Quella di GERB, infatti, è stata una prestazione tutt’altro che entusiasmante. Innanzitutto, il 30,7% dei voti raccolti dal partito di Borisov segna una perdita di ben 9 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2009 che lo portarono al potere. L’astensionismo ha poi sfiorato addirittura il 50%, determinando per GERB una perdita nel numero dei voti complessivi ancora più significativa.

Il partito di governo, infine, potrà contare soltanto su una maggioranza relativa all’Assemblea Nazionale, con prospettive di formare un esecutivo, per quanto si è potuto vedere nelle prime ore dopo il voto, ben poco incoraggianti. Nonostante il relativo successo, GERB rimane infatti estremamente impopolare nel paese, tanto che le formazioni minori in grado domenica di superare la soglia di sbarramento del 4% hanno già escluso l’ipotesi di entrare in una coalizione di governo con il principale partito conservatore bulgaro.

Come ha affermato un analista locale un un’intervista pubblicata lunedì dalla Associated Press, “per la prima volta in 23 anni si è assistito al secondo successo consecutivo del partito al potere, ma stranamente si è formato attorno ad esso una sorta di cordone sanitario”, così che, malgrado la vittoria, GERB “non sarà nella posizione di modellare il futuro del paese”.

A conferma di ciò, non appena sono stati diffusi i primi risultati del voto, una consistente folla di manifestanti si è riversata per le strade di Sofia per protestare contro un futuro governo guidato da GERB. I manifestanti hanno gridato più volte la parola “Mafia” all’indirizzo dei politici prima di dover fronteggiare le cariche delle forze dell’ordine.

Se i vertici di GERB non riusciranno a formare un governo di coalizione o di minoranza, il presidente bulgaro Rosen Plevneliev - anch’egli di GERB - assegnerà probabilmente un incarico esplorativo al leader del secondo partito per numero di voti, quello Socialista (BSP). Quest’ultimo ha ottenuto il 27% dei suffragi e il suo numero uno, Sergei Stanishev, ha già rilasciato dichiarazioni di apertura verso tutti partiti, ad esclusione di GERB, disponibili ad entrare in un suo futuro gabinetto.

Secondo i dati della Commissione Elettorale Centrale, gli altri partiti che si sono assicurati una rappresentanza in Parlamento sono soltanto il Movimento per i Diritti e le Libertà (DPS), che rappresenta la minoranza turca (10,7%), e il partito ultra-nazionalista ATAKA (7,4%), entrambi in flessione rispetto all’appuntamento elettorale di quattro anni fa.

Le parole di Stanishev rivelano come il Partito Socialista sia dunque pronto a trasformarsi nuovamente nello strumento della classe dirigente bulgara dopo una campagna elettorale all’insegna delle critiche al governo uscente per l’eccessivo rigore che ha depresso e impoverito il paese. Le élite economiche del paese dell’Europa Orientale e Bruxelles, con ogni probabilità, sembrano infatti preferire un governo socialista, perché considerato maggiormente in grado di tenere a freno il malcontento e le tensioni sociali esplose nei mesi scorsi rispetto a Borisov e il suo partito, anche grazie alla stretta collaborazione con le associazioni sindacali.

Il risultato elettorale del BSP, peraltro, dimostra un sostanziale discredito anche dei post-comunisti tra la popolazione. Anche se i socialisti hanno fatto segnare quasi dieci punti percentuali in più del 2009, i sondaggi del marzo scorso dopo le dimissioni di Borisov indicavano un sostanziale vantaggio e la possibilità di formare una comoda maggioranza di governo.

Il rapido declino con l’approssimarsi del voto, assieme alla riabilitazione di Borisov, ha perciò mostrato quale sia il livello di gradimento di un partito, come quello Socialista, protagonista negli ultimi due decenni di esperienze di governo caratterizzate dalle stesse politiche di rigore e di liberalizzazione dell’economia che hanno prodotto l’attuale situazione di crisi in Bulgaria.

Le misure di austerity introdotte anche in questo paese, oltre a scatenare massicce proteste e ad aver causato la morte di almeno sette persone che negli ultimi mesi si sono date fuoco, hanno fatto in modo che a tutt’oggi quasi la metà della popolazione sia costretta a vivere al di sotto della soglia di povertà o sia sul punto di scivolarvi, mentre per i cittadini più anziani la quota sale addirittura al di sopra del 60%.

Il panorama politico bulgaro, inoltre, è stato caratterizzato in questi anni da una serie di scandali e accuse di corruzione soprattutto nei confronti del partito di governo, così che le numerose segnalazioni di brogli elettorali nella giornata di domenica sono apparse ben poco sorprendenti. Secondo i media locali, ad esempio, 17 persone sarebbero state arrestate dopo aver cercato di comprare il voto degli elettori per i partiti di cui erano al servizio.

L’episodio più grave, anche se messo in dubbio da alcuni giornali, è stato però quello del ritrovamento di ben 350 mila schede illegali in una fabbrica tipografica appartenente ad un consigliere comunale del partito GERB e pronte ad essere distribuite in svariati seggi elettorali. La notizia, su cui sta indagando la magistratura bulgara, è stata apertamente utilizzata dal leader socialista Stanishev per accusare il rivale Borisov di voler manipolare l’esito del voto, mentre l’ex primo ministro ha fermamente respinto ogni responsabilità.

di Michele Paris

In un clima di violenza diffusa e con un dispiegamento di forze di sicurezza senza precedenti, nelle elezioni di sabato gli elettori pakistani hanno offerto una terza occasione di formare il governo del paese all’ex premier conservatore Nawaz Sharif. Il suo partito - Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N) - dovrebbe infatti conquistare circa 130 dei 268 seggi disponibili all’Assemblea Nazionale, staccando nettamente le altre due principali formazioni, il partito Tehreek-e-Insaf (PTI) dell’ex stella del cricket, Imran Khan, e il Partito Popolare Pakistano (PPP) attualmente al potere.

Al contrario di quanto avevano indicato gli sparuti sondaggi della vigilia, Nawaz e il suo partito hanno ottenuto una vittoria con un margine di vantaggio consistente, soprattutto grazie al dominio fatto registrare nella roccaforte del Punjab, frustrando le ambizioni del PTI di giocare almeno il ruolo di ago della bilancia nel dopo-elezioni.

Malgrado le minacce e le intimidazioni dei Talebani pakistani, l’affluenza è stata molto più alta rispetto al 44% del precedente appuntamento elettorale del 2008. Secondo un portavoce della Commissione Elettorale citato dalla BBC, tra il 60% e l’80% dei votanti si sarebbe recato alle urne nella giornata di sabato.

Anche le ultime ore prima dell’apertura dei seggi erano state segnate da violenze, con 11 morti e 40 feriti in un’esplosione nella megalopoli di Karachi contro una sede del Partito Nazionale Awami (ANP), formazione di ispirazione secolare facente parte della coalizione di governo uscente teoricamente di centro-sinistra. Altri attacchi terroristici sono stati poi registrati nella provincia sud-occidentale del Belucistan e nella città di Peshawar, non lontano dal confine con l’Afghanistan.

Numerose sono state anche le segnalazioni di brogli, soprattutto a Karachi, dove i risultati in decine di seggi sono stati invalidati.

Un delegato del PTI ha rivelato al quotidiano pakistano Express Tribune che le violazioni e gli abusi comunicati alla Commissione Elettorale sono stati più di 800. Anche per questo motivo, il dato definitivo del voto sarà annunciato solo tra alcuni giorni.

Relativamente deludente è stata poi la prestazione del PTI di Imran Khan, il quale secondo i media avrebbe dovuto beneficiare in termini elettorali della grave caduta da una piattaforma provvisoria, patita martedì scorso nel corso di un comizio a Lahore. Dopo una campagna elettorale basata sulla lotta alla corruzione e sulla necessità di cambiamento, trovando un qualche seguito tra i giovani e la borghesia urbana, il suo partito si è aggiudicato una trentina di seggi.

Il PTI, il cui leader ha escluso l’ingresso in una coalizione di governo con il PML-N, dovrebbe però conquistare il controllo della delicata provincia Khyber Pakhtunkhwa, situata al confine nord-occidentale con l’Afghanistan e teatro delle operazioni “anti-terrorismo” degli Stati Uniti, oggetto delle accese critiche dello stesso Imran prima del voto.

Sconfitto pesantemente come previsto è stato il PPP del presidente Asif Ali Zardari, il cui numero di seggi secondo le proiezioni dovrebbe essere di poco superiore ai 30, circa il doppio di quelli attribuiti al principale alleato di governo, il Movimento Muttahida Qaumi (MQM). Oltre al profondo malcontento provocato dai cinque anni di governo, segnati da politiche che hanno impoverito la gran parte della popolazione pakistana e dalla stretta collaborazione con Washington, il PPP e gli altri partiti secolari sono stati anche penalizzati dagli attacchi contro i loro candidati condotti dai Talebani, responsabili inoltre giovedì scorso del rapimento di uno dei figli dell’ex primo ministro, Yousaf Raza Gilani, anch’egli candidato all’Assemblea Nazionale.

A testimoniare il declino del PPP è stata la pesante sconfitta patita addirittura dal primo ministro uscente, Raja Pervaiz Ashraf, incapace di mantenere il suo seggio in Parlamento nel distretto di Rawalpindi.

Nawaz Sharif, da parte sua, è considerato non sufficientemente duro con l’integralismo islamista che opera nel paese, tanto che viene guardato ufficialmente con qualche sospetto dagli Stati Uniti e dall’Occidente. I suoi tentativi di ridurre l’influenza dei militari, tradizionale bastione dell’alleanza del Pakistan con gli USA, portarono inoltre alla sua umiliante deposizione nel 1999 - seguita dall’arresto e dall’esilio in Arabia Saudita - in seguito ad un colpo di stato che installò al potere il generale Musharraf, successivamente allineatosi alle richieste americane dopo l’invasione dell’Afghanistan nell’autunno del 2001.

Come ha evidenziato un’analisi del Washington Post di qualche giorno fa, Nawaz si sarebbe però ora trasformato in uno “statista maturo”, pronto a guidare il Pakistan in un momento in cui “la complicata alleanza con gli Stati Uniti appare sempre più vitale per combattere l’estremismo islamista e per portare a termine la guerra in Afghanistan”.

In altre parole, nonostante la retorica anti-americana utilizzata in campagna elettorale, Nawaz Sharif sarà pronto ad un accomodamento con il principale alleato di Islamabad, assicurando inoltre, vista la sua tradizionale predisposizione per politiche “business-friendly”, la prossima implementazione di misure economiche impopolari, come previsto dall’accordo in fase di definizione con il Fondo Monetario Internazionale per l’erogazione di un prestito di emergenza da 5 miliardi di dollari al Pakistan.

Il successo di sabato, tuttavia, non dovrebbe consentire al PML-N di Nawaz di contare su una maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale, costringendolo a cercare alleati per formare il suo terzo governo del Pakistan, dopo quelli presieduti tra il 1990 e il 1993 e tra il 1997 e l’ottobre del 1999.

Anche se la stampa internazionale ha elogiato il Pakistan per il primo trasferimento di poteri della propria storia portato a termine in maniera pacifica e secondo le regole democratiche, il paese centro-asiatico continua a versare in una situazione di grave crisi economica e sociale, nonché a trovarsi perennemente sull’orlo della guerra civile e attraversato da violenze settarie.

Tornando al governo in Pakistan, dunque, Nawaz Sharif dovrà fare i conti con problematiche gigantesche, difficilmente risolvibili con un’agenda che prevede liberalizzazioni e deregulation in ambito economico, percorrendo inoltre un sentiero molto stretto tra le tensioni sociali crescenti, le pressioni americane e la volontà delle potenti Forze Armate di non perdere il ruolo di primo piano giocato durante tutta la travagliata storia di questo paese.


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