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di Mario Lombardo
Con la vittoria del discusso imprenditore miliardario Horacio Cartes nelle elezioni presidenziali di domenica scorsa, il Partito Colorado conservatore è tornato al potere in Paraguay dopo la sconfitta nel voto del 2008 che aveva interrotto 61 anni consecutivi di dominio assoluto nel secondo paese più povero di tutto il Sudamerica. Cartes ha ottenuto il 46% dei consensi contro il 37% andati all’altro favorito della vigilia, il senatore Efraín Alegre, candidato di un altra formazione politica di destra, il partito Radicale Liberale.
Il 56enne neo-presidente appartiene alla ristrettissima élite paraguayana ed è entrato a far parte del Partito Colorado soltanto nel 2009. Tra le sue svariate proprietà spiccano banche, fondi di investimento, aziende agricole, piantagioni di tabacco e una delle più importanti squadre di calcio del paese.
I due candidati conservatori hanno staccato nettamente gli aspiranti alla presidenza di centro-sinistra. L’ex presentatore TV Mario Ferreiro dell’alleanza Avanza País si è fermato al 5,5%, mentre il candidato del Fronte Guasú, Aníbal Carrillo, ha raccolto appena il 3,5%. Quest’ultima coalizione è guidata dall’ex presidente e neo-senatore Fernando Lugo, in grado cinque anni fa di sconfiggere per la prima volta dopo oltre sei decenni il Partito Colorado.
Proprio la vicenda dell’ex vescovo paraguayano nell’estate del 2012 aveva posto le basi per il ribaltamento degli equilibri politici ad Asunción. Alleandosi con il Partito Radicale Liberale, nel 2008 Lugo aveva conquistato la presidenza grazie all’entusiasmo suscitato dalla promessa di riforme sociali e, soprattutto, di mettere mano alla riforma agraria in un paese dove l’1% della popolazione controlla il 77% delle terre coltivabili.
La presidenza Lugo era apparsa però da subito problematica. Alla mancanza di una vera e propria maggioranza politica in Parlamento si erano aggiunti ben presto i ripetuti scandali scoppiati in seguito alle rivelazioni di alcune donne che avevano sostenuto di avere dato alla luce figli illegittimi dell’ex vescovo cattolico.
Nonostante i modesti risultati concreti ottenuti dal suo governo, Lugo ha dovuto fare i conti inoltre con l’irriducibile opposizione dei poteri forti paraguayani e degli Stati Uniti, entrambi responsabili della sua rimozione dalla guida del paese lo scorso anno.
Utilizzando come pretesto i violenti scontri tra le forze di polizia e un centinaio di contadini che avevano occupato alcune terre di proprietà di un membro del Partito Colorado, nel giugno del 2012 la maggioranza di centro-destra del Parlamento aveva infatti aperto un rapido procedimento di impeachment contro Fernando Lugo, estromettendolo dal potere in quello che da molti è stato definito come un “golpe legislativo”, portato a termine con il tacito consenso di Washington.
Al posto di Lugo venne così installato il suo vice, Federico Franco, del Partito Radicale Liberale e il Paraguay, su iniziativa dei governi di sinistra al potere nei paesi vicini, è stato subito sospeso dalle organizzazioni latino-americane Mercosur (Mercato Comune del Sud), UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) e CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi) di cui è membro.
Dopo l’annuncio dei risultati del voto di domenica scorsa, Horacio Cartes ha però ricevuto i complimenti, tra gli altri, dei presidenti di Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela. Da Buenos Aires, in particolare, Cristina Kirchner ha espresso al neo-presidente paraguayano la speranza di vedere riammesso il suo paese nel Mercosur. Lo stesso Cartes, da parte sua, ha già fatto sapere di essere entrato in contatto con i vertici del Mercosur per ottenere la riammissione del Paraguay prima del suo insediamento ufficiale, previsto per il prossimo 15 agosto. Si potrebbe obiettare che l'elezione di Cartes é comunque stata la puntata finale di un film iniziato con il golpe istituzionale contro Lugo, ma va evidenziato come il processo unitario latinoamericano ha bisogno di non essere accusato di politicizzazione estrema nella scelta dei paesi che lo compongono
Il Paraguay, comunque, non rappresentando nessun peso politico particolare, all’interno dei fori della democrazia latinoamericana sarà del tutto ininfluente e si limiterà a svolgere il ruolo di ventriloquo di Washington, come già del resto già fa - e con molto maggior peso - il Messico, senza che ciò possa mettere in discussione l'impianto politico generale indipendentista del nuovo corso del subcontinente.
Per quanto attiene invece alla vicnda politica interna del Paraguay, Cartes ha un passato non esattamente immacolato, dal momento che è stato coinvolto in più di una vicenda giudiziaria ed è al centro di molti dubbi e sospetti. Come hanno rivelato alcuni documenti diplomatici pubblicati da WikiLeaks, ad esempio, Cartes venne identificato dalla DEA americana (Drug Enforcement Administration) come il vertice di un’organizzazione dedita al riciclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico e strettamente legata ai narcotrafficanti brasiliani. Nel 2000, inoltre, la polizia paraguayana sequestrò un aereo con un carico di cocaina e marijuana che era atterrato su una delle sue proprietà. Già nel 1989, invece, Cartes era finito in carcere per quasi un anno con l’accusa, successivamente caduta, di riciclaggio.
Nel 2004, infine, era stato il governo brasiliano ad accusarlo di essere a capo di un’organizzazione dedita al contrabbando di sigarette, mentre la sua ascesa politica sarebbe dovuta al sostegno del senatore del Partito Colorado, Juan Carlos Galaverna, coinvolto secondo le polizie e i servizi di intelligence stranieri nelle attività delle reti del narcotraffico attive in Paraguay.
Con queste credenziali, Horacio Cartes ha avuto il sostegno di un partito che è espressione dei grandi proprietari terrieri e del business agricolo del paese. Con quasi il 40% della popolazione che vive al di sotto della soglia ufficiale di povertà, il nuovo Presidente intende dedicarsi ora alla trasformazione dello stato in uno strumento volto a “creare le condizioni ideali perché il settore privato possa prosperare”.
Un’agenda improntata al neo-liberismo quella di Cartes che rischia di scontrarsi precocemente sia con i settori più tradizionalisti del partito che fu del dittatore Alfredo Stroessner (1954-1989) sia con la massa di contadini senza terra, alimentando uno scontro sociale già esploso in numerosi episodi di violenza. Di Stroessner, del resto, Cartes ha cantato le lodi a più riprese, a dimostrazione di come la continuità tra la dittatura e la democradura paraguayana si dispiega modificando solo la forma giuridica del suo dominio.
Il Presidente paraguayano potrà comunque contare sulla maggioranza assoluta conquistata sempre domenica dal Partito Colorado nella Camera bassa del Parlamento, mentre al Senato i seggi ottenuti dalla sua formazione politica sono stati 19 sui 45 complessivamente in palio.
Il voto di domenica è stato monitorato da delegazioni inviate dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), dall’Unione Europea e dall’UNASUR, le quali, malgrado qualche isolato episodio, non hanno rilevato significative irregolarità nell’accesso ai seggi. Ciononostante, alla vigilia delle elezioni presidenziali molti giornali avevano descritto il diffuso tentativo di comprare il voto degli elettori paraguayani da parte del Partito Colorado e di quello Radicale Liberale. Nulla che non fosse già ampiamente noto. Narcotrafficante, padrone di mezzo paese e amico di dittatori agli ordini di Washington, Cartes non poteva che vincere le elezioni.
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di Michele Paris
A più di una settimana dalle esplosioni alla maratona di Boston, l’individuazione dei due presunti responsabili dell’attentato continua a sollevare parecchi dubbi e perplessità. Svariate rivelazioni della stampa hanno infatti dimostrato come l’FBI fosse da tempo a conoscenza dei fratelli Tsarnaev, confermando come un altro atto terroristico - reale o fabbricato - messo in atto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio sia con ogni probabilità ancora una volta da attribuire a individui le cui attività, quantomeno, erano finite all’attenzione dell’apparato della sicurezza nazionale americana.
Per cominciare, il governo russo un paio di anni fa aveva richiesto all’FBI informazioni sul fratello maggiore - Tamerlan Tsarnaev, ucciso la settimana scorsa dalle forze di polizia USA - qualche mese prima di una sua visita ai familiari in Cecenia e in Dagestan perché sospettato di essere in contatto con la rete terroristica internazionale di matrice islamica.
Secondo l’FBI, la risposta alle autorità russe era stata inoltrata nell’estate del 2011 dopo che una ricerca tra i propri archivi non aveva evidenziato “alcuna attività terroristica, né sul fronte domestico né su quello estero”. Alcuni agenti sarebbero anche stati inviati a Boston con l’incarico di fare domande allo stesso Tamerlan e ad alcuni suoi familiari. I media russi hanno però scritto in questi giorni che i servizi di sicurezza di Mosca avevano nuovamente contattato l’FBI nel novembre scorso in merito al 26enne ceceno.
Soprattutto, la versione della polizia federale statunitense contrasta con quella fornita dai genitori dei due fratelli in un’intervista pubblicata nel fine settimana appena trascorso dal network Russia Today (RT). La madre, Zubeidat Tsarnaeva, ha infatti descritto frequenti contatti tra la sua famiglia e gli agenti dell’FBI, i quali avevano definito Tamerlan un “leader estremista” di cui temevano le attività”. Per la donna, dunque, i suoi due figli sarebbero stati “incastrati”, visto che il maggiore è stato “sotto il controllo dell’FBI per un periodo compreso tra i tre e i cinque anni”.
Il padre, inoltre, ha aggiunto che l’FBI aveva visitato la loro abitazione a Cambridge, nel Massachusetts, almeno cinque volte alla ricerca di Tamerlan, così da prevenire possibili “esplosioni nelle strade di Boston”.
Altri dubbi sul fatto che l’FBI fosse stato a conoscenza di possibili minacce terroristiche durante la maratona sono emersi in seguito a dichiarazioni come quella dell’allenatore della squadra di corsa campestre dell’Università di Mobile, nell’Alabama, che ha partecipato all’evento di lunedì scorso.
Quest’ultimo ha raccontato di aver visto svariati agenti con cani in grado di fiutare esplosivi sia alla partenza della maratona che sul traguardo, ma anche cecchini sui tetti degli edifici circostanti. Avendo partecipato a decine di maratone negli Stati Uniti e in Europa, l’allenatore ha definito come insolite queste misure di sicurezza, mentre gli agenti impegnati avevano cercato di rassicurare i partecipanti dicendo che si trattava soltanto di normali esercitazioni.
Questa testimonianza va considerata con la massima attenzione e potrebbe dare credito alla tesi di qualche commentatore che, soprattutto nei siti di news alternativi, ha fatto notare come negli ultimi anni l’FBI abbia condotto una lunga serie di operazioni per incastrare potenziali terroristi che, da soli, mai avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza nazionale.
In quelle che vengono definite “sting operations”, gli agenti federali individuano quasi sempre giovani disadattati appartenenti ad una minoranza etnica o religiosa e che hanno manifestato opinioni relativamente estremiste, per poi coinvolgerli in un complotto terroristico fornendo loro tutti gli strumenti necessari, compresi finti esplosivi. Simili operazioni hanno già portato a numerose pesanti condanne e, secondo alcuni, non è da escludere che in più di una circostanza l’esito finale possa essere risultato tutt’altro che inoffensivo per la sicurezza degli americani.
Ancora più inquietante è infine la ricostruzione fatta dal sito DebkaFile che vanta legami con l’intelligence e gli ambienti militari israeliani. Anche se spesso dall’attendibilità non esattamente indiscutibile, DebkaFile sostiene che i fratelli Tsarnaev erano agenti che stavano facendo il doppio gioco. Assoldati dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita per penetrare la rete jihadista Wahabita che si è diffusa nella regione del Caucaso russo, Tamerlan e il 19enne Dzhokhar avrebbero finito per tradire la loro missione, offrendo i loro servizi al terrorismo islamico.
Questa versione, a sua volta, ha il merito di ricordare gli effetti indesiderati dell’utilizzo delle reti terroristiche islamiche fatto dagli Stati Uniti, i quali le indicano alternativamente come il proprio nemico giurato oppure le sfruttano più o meno apertamente per raggiungere i propri obiettivi strategici. Nel caso del terrorismo ceceno, i cui affiliati stanno partecipando con l’appoggio americano al conflitto in Siria per rovesciare il regime di Assad, è ampiamente documentato il sostegno di Washington alle forze separatiste che negli anni Novanta hanno combattuto contro l’esercito russo.
Coloro che si aspettano qualche risposta ai dubbi sui fatti di Boston del 15 aprile scorso dall’interrogatorio di Dzhokhar Tsarnaev resteranno con ogni probabilità delusi. Il giovane accusato dell’attentato è tuttora ricoverato in condizioni critiche in un ospedale di Boston, dove agenti della sicurezza degli Stati Uniti gli starebbero però già ponendo domande sull’accaduto. Se il sindaco della metropoli del Massachusetts, Tom Menino, ha sostenuto che il giovane, viste le sue condizioni, potrebbe non essere mai più in grado di sostenere un interrogatorio, la ABC lunedì ha rivelato che Dzhokhar sarebbe “cosciente” e starebbe “rispondendo sporadicamente e per iscritto alle domande” postegli.
Al di là della sua capacità di esprimersi dopo le ferite riportate nello scontro a fuoco con la polizia prima della cattura, le risposte più significative di Dzhokhar Tsarnaev sono destinate a rimanere segrete. Infatti, l’amministrazione Obama ha deciso di negargli i cosiddetti “Miranda rights”, vale a dire i diritti garantiti dalla Costituzione di ottenere l’assistenza di un legale, il quale potrebbe rivelare pubblicamente il contenuto delle domande poste al sospettato, e di rimanere in silenzio, come stabilito da una sentenza della Corte Suprema del 1966 (“Miranda contro Arizona”).
Questa misura profondamente antidemocratica adottata dal presidente Obama poggia su un’altra sentenza del supremo tribunale americano emessa nel 1984 (“New York contro Quarles”) e viene giustificata dalle necessità di sicurezza nazionale in presenza di accuse legate ad attività terroristiche. Quella che dovrebbe rappresentare un’eccezione, si è però di fatto trasformata in un mezzo per svuotare la Costituzione stessa, dal momento che l’FBI è ormai autorizzato a continuare i propri interrogatori senza leggere ai detenuti i propri diritti anche per ottenere informazioni non collegate ad una minaccia imminente.
Dal Congresso americano, poi, stanno giungendo appelli di senatori e deputati repubblicani per definire Dzhokhar Tsarnaev come “nemico in armi”, così da consegnarlo alle autorità militari e, privato di tutti i diritti costituzionali, sottoporlo a detenzione indefinita. La Casa Bianca, tuttavia, ha fatto sapere di voler processare il giovane di origine cecena in un tribunale civile, dal momento che, come ha fatto notare lunedì il New York Times, “gli Stati Uniti sono impegnati in un conflitto armato con Al-Qaeda e non con ogni musulmano estremista” e “non ci sono prove che suggeriscano una sua affiliazione ad Al-Qaeda”.
Il trattamento dell’unico sospettato per i fatti di Boston non è che l’ennesima conferma del preoccupante deterioramento dei diritti democratici negli Stati Uniti in questi anni. Una situazione resa ancora più evidente dall’incredibile stato di assedio a cui è stata sottoposta la città di Boston e alcuni sui sobborghi la scorsa settimana durante l’operazione che ha portato all’uccisione di Tamerlan Tsarnaev e all’arresto del fratello.
Con la pressoché totale approvazione dei media ufficiali, più di un milione di persone sono state costrette a rimanere nelle loro case, mentre svariate abitazioni nella località di Watertown sono state sottoposte a perquisizioni arbitrarie senza alcun mandato di un giudice. Inoltre, nelle strade deserte il dispiegamento di forze di polizia, elicotteri, armi e mezzi pesanti per la cattura di un 19enne sembrava più adatto ad un teatro di guerra come Kabul o Baghdad che ad una città della East Coast statunitense.
Il senso di panico alimentato nella popolazione dalle autorità e dai media ha finito comunque per produrre un consenso diffuso per l’operato delle forze di polizia, tanto che, una volta conclusa l’operazione, per le strade di Boston in molti hanno festeggiato l’arresto di Dzhokhar Tsarnaev sventolando bandiere americane.
Una risposta all’attentato, quella messa in atto dal governo americano, che è sembrata in ogni caso assumere quasi i contorni di una prova generale di un’operazione su vasta scala in un contesto urbano volta a reprimere una rivolta popolare che, come è ben consapevole la classe dirigente di Washington, potrebbe esplodere in un futuro non troppo lontano a causa delle politiche anti-sociali messe in atto in questi anni per salvare il sistema capitalistico dalla crisi strutturale in atto.
Il pretesto della “guerra al terrore” e i metodi pseudo-legali adottati per combatterla da oltre un decennio, d’altra parte, hanno prodotto la militarizzazione della società americana e gettato le basi per la creazione di uno stato di polizia, assegnando al governo poteri senza precedenti per affrontare le minacce domestiche che si presenteranno con l’intensificarsi delle tensioni sociali nel paese.
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di Michele Paris
Il Gran Premio di automobilismo in programma domenica prossima nel Bahrain andrà regolarmente in scena per il secondo anno consecutivo nonostante la persistente repressione messa in atto dal regime fin dal febbraio del 2011 contro i manifestanti che chiedono riforme e maggiori diritti democratici. In vista dello svolgimento delle prove e della gara vera e propria, gli attivisti del piccolo paese mediorientale hanno programmato nuove manifestazioni di protesta, già accolte con il consueto pugno di ferro dalle forze di sicurezza, nonché dalla sostanziale indifferenza dei vertici della Formula 1.
Già nei giorni precedenti l’arrivo delle varie scuderie in Bahrain, il regime guidato dal sovrano Hamad bin Isa al-Khalifa aveva adottato misure estreme nei confronti degli oppositori. Come ha raccontato mercoledì al Guardian l’attivista Ala’a Shehabi, sono stati presi provvedimenti per tenere i manifestanti lontani dalla capitale, Manama, mentre è stato imposto il divieto assoluto di organizzare qualsiasi forma di protesta. Di conseguenza, contestazioni e scontri con le forze di polizia sono stati registrati finora in località periferiche, lontano dagli occhi dei giornalisti giunti in Bahrain, così da non mettere troppo in imbarazzo il governo e gli organizzatori del Gran Premio.
A descrivere le attività delle forze del regime nei giorni scorsi è stato il portavoce dell’ONG Bahrain Center for Human Rights, Said Yousif, secondo il quale la nuova ondata di repressione in previsione della gara di automobilismo è iniziata “due settimane fa, in particolare nei villaggi che si trovano nelle vicinanze del circuito. 65 persone sono state arrestate, mentre i leader dell’opposizione, prima di venire rilasciati, hanno subito percosse e torture così da mostrare a tutti i segni” del trattamento a loro riservato.
Inoltre, per disperdere le proteste, la polizia ha fatto ampio uso di gas lacrimogeni, spesso sparati alla testa di alcuni manifestanti, come ha rivelato Human Rights Watch basandosi su testimonianze raccolte nel paese. La stessa organizzazione a difesa dei diritti umani giovedì ha poi emesso un comunicato sul proprio sito web, condannando l’organismo internazionale che governa la Formula 1, poiché “non ha fatto nulla per evitare gli abusi che sono stati commessi e che sono da ricondurre direttamente all’evento” sportivo.
Il disinteresse mostrato dai dirigenti della Formula 1 per la sorte degli attivisti e della maggioranza della popolazione del Bahrain appare tanto più grave alla luce del pesante bilancio degli scontri che erano avvenuti nell’edizione dello scorso anno. In quell’occasione, infatti, la risposta delle forze di sicurezza alle proteste prima della gara causò la morte di un manifestante, ucciso con un arma da fuoco dalla polizia dopo essere stato arrestato e picchiato brutalmente.
Secondo la responsabile per il Medio Oriente di Human Rights Watch, Sarah Leah Whitson, “gli organi della Formula 1 preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia e rischiare che la gara venga disputata nonostante la repressione che l’evento stesso ha provocato”.
Le massime autorità dell’automobilismo internazionale, da parte loro, stanno cercando di mantenere un basso profilo in questi giorni e, quando pressati dalla stampa, hanno rilasciato dichiarazioni che celano a malapena il loro esclusivo interesse per le ragioni commerciali legate all’evento.
Il boss della Formula 1, il miliardario ultra-reazionario Bernie Ecclestone, qualche giorno fa aveva ad esempio affermato che in Bahrain non era in corso nessuna dimostrazione contro il regime, nonostante fossero già avvenuti arresti e violenti scontri nel paese.
Successivamente, l’imprenditore britannico - noto per avere definito Adolf Hitler “un uomo capace di ottenere risultati” e per avere spiegato che la democrazia è un sistema che “non è stato in grado di produrre cose positive in molti paesi” - è stato costretto a fare una parziale marcia indietro, sostenendo inoltre di essere disponibile ad incontrare i leader dell’opposizione al regime sunnita stretto alleato degli Stati Uniti e dell’Occidente.
Ecclestone ha poi ribadito quali siano le priorità dell’organismo di cui è a capo, aggiungendo che il suo desiderio e quello dei suoi colleghi d’affari è che “non ci siano problemi, che non si vedano persone che discutono o si scontrano per cose che noi non comprendiamo”.
Alla vigilia del Gran Premio del 2012, Ecclestone aveva effettivamente ricevuto a Londra e a Manama rappresentanti delle opposizioni ma dopo i colloqui aveva affermato che “risultava veramente difficile decidere chi avesse ragione e chi torto” tra i manifestanti sottoposti a continue violenze ed abusi da una parte e un regime dittatoriale che garantisce ai vertici dell’automobilismo mondiale guadagni milionari dall’altra.
Le questioni che il quarto uomo più ricco di Gran Bretagna afferma di faticare a comprendere sono in realtà evidenti a tutta la comunità internazionale, visto che le notizie degli assassini, delle torture, degli arresti arbitrari e delle discriminazioni ai danni degli oppositori del regime e della maggioranza sciita della popolazione del Bahrain sono state riportate dai media di tutto il mondo negli ultimi due anni, così come più di un titolo ha ricevuto nel marzo del 2011 l’ingresso nel paese delle forze armate saudite e di altri paesi del Golfo Persico per reprimere nel sangue le proteste di piazza.
A rompere il silenzio sul Bahrain è stato poi in questi giorni anche Jean Todt, presidente della Federazione Internazionale dell’Automobile (FIA) ed ex direttore generale del team Ferrari, il quale in una lettera alle locali ONG ha assurdamente comunicato che “il Gran Premio può avere un effetto positivo e benefico su una situazione nella quale gli scontri, il malessere sociale e le tensioni stanno causando sofferenze”.
La pretesa di Todt è semplicemente ridicola, dal momento che questa manifestazione, oltre ad avere determinato un’intensificazione della repressione del regime, finisce per beneficiare esclusivamente una ristretta cerchia di multi-miliardari che incassano somme astronomiche grazie al giro d’affari prodotto dalla gara.
La competizione nel Bahrain, secondo alcune stime, frutterebbe circa 40 milioni di sterline alla Formula 1, mentre l’evento muove complessivamente centinaia di milioni di dollari. Di fronte a queste cifre, è facile comprendere le ragioni per cui la gara è stata reinserita nel calendario della Formula 1 nel 2012 dopo la cancellazione dell’anno precedente.
Lo svolgimento dell’evento sportivo più prestigioso che ospita il Bahrain, infine, non ha contribuito minimamente al miglioramento della situazione nel paese, né a spingere la monarchia assoluta a fare concessioni significative. Come ha evidenziato ancora Human Rights Watch giovedì, infatti, “al contrario dell’impunità garantita alle forze di sicurezza [responsabili materiali della repressione delle proteste], il sistema giudiziario del Bahrain continua a perseguire i manifestanti pacifici”.
Lo scorso 7 gennaio, ad esempio, la Corte di Cassazione ha confermato lunghe condanne detentive per 13 dissidenti – tra cui 7 ergastoli – colpevoli soltanto “di avere esercitato pacificamente il loro diritto di espressione e di assemblea nel corso delle proteste del 2011”.
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di Michele Paris
Il think tank americano Constitution Project ha presentato ufficialmente martedì i risultati di un’importante indagine condotta per oltre due anni da un’apposita “task force” sulle condizioni di detenzione e i metodi utilizzati durante gli interrogatori dalle autorità degli Stati Uniti nell’ambito della ultra-decennale “guerra al terrore”. Il materiale così portato a conoscenza del pubblico indica la massiccia presenza di prove che giustificherebbero ampiamente l’apertura di processi per crimini di guerra contro i massimi vertici delle ultime tre amministrazioni - Clinton, Bush jr. e Obama - che si sono succedute alla guida del paese.
Lo studio indipendente di 577 pagine è basato su documenti di dominio pubblico e su centinaia di interviste con ex detenuti accusati di terrorismo, ex militari e membri dell’intelligence, ma anche politici americani e di altri paesi. Il gruppo di lavoro - presieduto da due ex parlamentari, il repubblicano Asa Hutchinson e il democratico James R. Jones - non ha però avuto accesso a documenti classificati, né ha avuto la facoltà di ordinare testimonianze di personalità coinvolte in arresti o interrogatori arbitrari.
La sola introduzione del rapporto è sufficiente a rendere l’idea della gravità dei fatti presi in considerazione e del punto fino a cui la classe politica americana si è spinta in questi anni, giustificando pratiche criminali con la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini. Gli autori dello studio scrivono infatti che “gli eventi esaminati non hanno precedenti nella storia degli Stati Uniti.
Nel corso dei numerosi conflitti nella storia del paese non ci sono dubbi che alcuni americani abbiano commesso atti brutali nei confronti di prigionieri, così come lo hanno fatto gli eserciti e i governi. Ci sono però prove che mai abbia avuto luogo una meticolosa e dettagliata discussione - che coinvolge direttamente un presidente e i suoi principali consiglieri - sull’opportunità e la legalità di atti volti ad infliggere dolore su alcuni detenuti sotto la nostra custodia come dopo l’11 settembre”.
Le varie sezioni dell’indagine appena pubblicata offrono la possibilità di analizzare le pratiche illegali messe in atto in Iraq, in Afghanistan, nel lager di Guantánamo, così come nei cosiddetti “buchi neri”, vale a dire le prigioni clandestine operate dalla CIA in paesi stranieri e dove sono stati condotti interrogatori “estremi” su persone sottoposte a “rendition”. Ancora, gli undici membri della “task force” hanno studiato il ruolo avuto dai medici nel corso delle torture e la presunta efficacia di questi metodi per ottenere informazioni dai detenuti, affermando di non aver riscontrato prove circa la loro utilità nello sventare ulteriori trame terroristiche.
Rompendo qualsiasi incertezza sulla natura degli interrogatori operati dalla CIA, il rapporto sostiene che il governo americano si è “indiscutibilmente” reso responsabile di atti di tortura, con l’approvazione ottenuta “dai più alti vertici della nazione”. Al contrario di quanto stabilito dai pareri legali degli esperti dell’amministrazione Bush dopo l’11 settembre, dunque, la pratica del “waterboarding” o annegamento simulato, la privazione del sonno, l’esposizione continua a musica ad altissimo volume, la permanenza forzata in posizioni estremamente scomode ed altro ancora rappresentano senza dubbio pratiche di tortura secondo il diritto internazionale.
Ancora meno dubbi ci sono poi sugli episodi che hanno evidenziato brutali percosse, in alcuni casi tali da portare alla morte dei sospettati sotto custodia, come accadde nel dicembre del 2002 ad un detenuto 22enne identificato col solo nome di Dilawar, picchiato selvaggiamente presso la base di Bagram, in Afghanistan, nonostante non avesse commesso alcun crimine.
I sospettati sottoposti a simili trattamenti, inoltre, sono stati spesso vittime di “extraordinary renditions”, iniziate già sul finire degli anni Novanta durante la presidenza Clinton. L’allora presidente democratico approvava personalmente ogni singola “rendition”, una pratica a cui avrebbe poi fatto massiccio ricorso il suo successore all’indomani degli attacchi contro il World Trade Center e il Pentagono.
Oltre a fornire un resoconto dettagliato dei trattamenti riservati ai detenuti nelle mani dell’apparato della sicurezza americano, la commissione istituita dal Constitution Project fa notare come gli Stati Uniti siano firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite Contro la Tortura, il cui dettato impone oltretutto una tempestiva indagine in caso di accuse di torture, nonché adeguati risarcimenti per le vittime.
“Nonostante la situazione del tutto straordinaria” venutasi a creare dopo l’11 settembre, si legge ancora nel rapporto, “l’amministrazione Obama si è rifiutata di intraprendere o commissionare un’indagine speciale su quello che è successo, perché giudicata “improduttiva” e perché ha ritenuto più opportuno ‘guardare avanti’ piuttosto che rispolverare il passato”.
Obama, infatti, fin dal 2009, si è opposto a qualsiasi ipotesi di perseguire i responsabili degli abusi all’interno dell’amministrazione Bush, così come di lanciare una speciale commissione sulle torture e le “renditions” come veniva chiesto da più parti nella società civile e tra i suoi stessi colleghi democratici.
Il motivo di questo rifiuto è dovuto all’adozione da parte della sua stessa amministrazione di molti dei metodi illegali nella “guerra al terrore” usati in precedenza. Obama, anzi, si è spinto ben oltre gli eccessi del presidente repubblicano, giungendo ad esempio ad affermare l’autorità del potere esecutivo di ordinare unilateralmente l’assassinio di qualsiasi persona sospettata di terrorismo ovunque nel mondo - cittadini USA compresi - senza presentare prove di colpevolezza e senza passare attraverso un qualsiasi procedimento giudiziario.
Se le prove dei crimini commessi da tutti i vertici delle ultime amministrazioni americane emergono chiaramente dall’indagine appena pubblicata, i loro autori hanno rilasciato commenti piuttosto cauti e hanno evitato di fare raccomandazioni esplicite. L’ex numero uno della DEA (Drug Enforcement Administration) e già sottosegretario al Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, Asa Hutchinson, ha inoltre sostenuto che, “nonostante tutti fossero coinvolti nelle decisioni, a partire dal presidente Bush, essi hanno agito in buona fede, nel disperato tentativo di evitare nuovi attacchi”.
Oltre a questa colossale manipolazione della realtà, l’ex deputato repubblicano dell’Arkansas ha poi aggiunto che gli Stati Uniti hanno “imparato dalla storia”, occultando deliberatamente la continua erosione dei diritti democratici avvenuta durante l’amministrazione Obama.
Il contenuto dello studio promosso dal Constitution Project, secondo gli stessi autori, dovrebbe infine essere supportato dalla diffusione pubblica di un altro rapporto ben più dettagliato di circa seimila pagine sugli abusi della CIA. Quest’ultimo è stato condotto dalla Commissione per i Servizi Segreti del Senato grazie all’analisi di una miriade di documenti classificati dell’agenzia di Langley, ma continua a rimanere segreto impedendo alla popolazione americana di conoscere interamente la gravità dei crimini commessi in questi anni in nome della cosiddetta guerra al terrorismo internazionale.
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di Fabrizio Casari
Gli scontri in Venezuela, voluti dal candidato della Casa Bianca e dell’oligarchia locale orfana dei profitti petroliferi, non hanno raggiunto, al momento, i risultati politici sperati. La campagna per il disconoscimento della vittoria di Maduro non ottiene significative adesioni internazionali. La grancassa propagandistica ci prova; apparentemente, ricontare le schede elettorali in presenza di risultati contestati sembrerebbe un atto di buonsenso.
Ignorando i report positivi degli osservatori internazionali presenti ed evitando di domandarsi cosa accadrebbe se in ogni paese, ad ogni elezione o referendum, il conteggio ufficiale e il controllo degli organi costituzionalmente preposti venissero di fatto disconosciuti, si tenta di far passare il concetto per il quale ricontare è norma di buonsenso, utile svelenire il clima e ad offrire certezze. Ma nel caso del Venezuela si tratta di ben altro. Lungi dal voler offrire una controprova di democrazia, la contestazione dei risultati elettorali è il primo atto del sovvertimento della stessa. Non é un caso che il candidato dell'oligarchia non abbia intentato nessun ricorso formale, preferendo invitare a "scaricare la rabbia" per le strade. Otto morti, sessanta feriti e 150 arresti. Una militante chavista é stata bruciata viva e si trova in coma, gli ambulatori popolari sono stati assaltati dai cosiddetti "democratici". Capriles risponderà presto di quanto successo.
Per inciso, tra gli specialisti di sistemi elettorali si ritiene che quello venezuelano sia tra i più sicuri a prova di frode. I tre livelli diversi d’identificazione rendono sostanzialmente impossibile votare più di una volta e l’alterazione reciproca tra il voto informatico e quello cartaceo risulta impossibile.
Ebbene, le urne venezuelane hanno confermato il sostegno popolare al progetto chavista. Quasi 300.000 voti di differenza possono sembrare pochi, certo; ma averli o non averli fa la differenza tra vincere e perdere. Così come con soli 45 mila lo stesso Capries vinse le elezioni a governatore nello stato di Miranda. Allora però, l'esiguo vantaggio gli apparve sufficiente e le macchine, oggi considerate inaffidabili, allora gli sembrarono perfette. Nella maggior parte dei paesi dove si vota con un sistema uninominale, spesso sono una manciata di voti a decidere vincitori e sconfitti. In Venezuela, invece, pare debbano essere una manciata di oligarchi a decidere quanto conti il voto popolare.
Quello che dev’esser chiaro, però, è che quanto avviene a Caracas non è il frutto di un risultato precario, né una reazione istintiva di fronte ad una vittoria attesa o a frodi che non vi sono state, bensì l’applicazione di un piano precedentemente predisposto e rigorosamente applicato.
A meno che la vittoria di Maduro non fosse stata schiacciante, infatti, il piano (noto e ampiamente denunciato) stabilito a Washington alla vigilia del voto, era molto chiaro. Prevedeva, in caso di sconfitta di misura di Capriles, il non riconoscimento della vittoria del chavismo e proteste e violenze di ogni tipo per far piombare il paese nel caos e aprire a scenari di sovversione autentica.
Del resto la dinamica del Colpo di Stato è l’unica strategia che a Washington conoscono e che, da sempre, applicano nel laboratorio latinoamericano. Le varianti sono il putch immediato o quella di non riconoscere la validità del voto con annessa l’organizzazione di violenze diffuse che portino il paese nel caos e nel sangue e che producano l’intervento dei militari amici degli USA.
Ma quali che siano le modalità che di volta in volta, in linea con le circostanze, si scelgano, l’idea dominante è quella di sovvertire con la violenza il responso popolare e riportare i paesi “ostili” sotto il controllo di Washington. Negli ultimi anni li hanno organizzati in Venezuela, Honduras, Paraguay, Ecuador e Bolivia, ma solo in Honduras e Paraguay, dove la sinistra era più debole, hanno avuto successo.
Gli Usa, autonominatisi abusivamente specialisti della democrazia, usano infatti sovvertirla quando essa produce risultati a loro non graditi. Hanno bisogno di quinte colonne all’interno, ma queste non mancano mai e, nel caso del Venezuela, la tendenza golpista e fascistoide dell’opposizione è insopprimibile.
In questa occasione, come già ampiamente denunciato dal governo nei giorni precedenti al voto, gli step del piano destabilizzatore erano tre: non riconoscere la validità del voto e sollecitare altri paesi a seguire le indicazioni di Stati Uniti e Spagna nel chiedere di ricontare le schede; scatenare incidenti allo scopo di inibire la comunità internazionale a riconoscere Maduro quale nuovo Presidente; fare leva su alcuni alti ufficiali dell’esercito affinché prendessero posizione a favore di Capriles e aprissero un varco nelle file delle forze armate. Il tempo è un elemento decisivo: o si ribalta il tutto nelle 48 ore successive, oppure la partita è persa.
Passaggi diversi e successivi che dovevano portare ad un unico obiettivo: negare la validità del responso elettorale e, con essa, sospendere la sovranità popolare del Venezuela, consegnandola ad una sorta di protettorato internazionale che dovrebbe decidere modalità e caratteristiche della sua prossima fase politica e istituzionale.
Non è un caso che si usi all’uopo un cialtrone come Insulza, il Segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani: l’OSA continua ad essere la facciata pubblica della covert diplomacy statunitense e viene storicamente usata per dare una patina di legalità alle ingerenze della Casa Bianca.
Benchè il senatore Usa Bill Richardson, a capo della delegazione di osservatori dell’OSA, abbia definito “trasparente e corretto” il voto, Insulza anche in questa occasione si è prestato alle esigenze di Washington tenendo in mano il cappello, evitando persino di consultare i governi che compongono l’organismo che dirige per paura che gli ordinino di rispettare il suo mandato.
Tutta l'America Latina (così come l'Unione Europea) ha infatti riconosciuto immediatamente la vittoria di Maduro e la sua legittima elezione alla Presidenza, ma Insulza, esperto di veleggiamenti verso porti sicuri, invece di rappresentare i paesi membri dell’organismo che dirige preferisce prendere ordini da Washington.
Sul piano interno il governo venezuelano ha trovato il sostegno popolare e quello delle Forze Armate e, pur cercando di non inasprire la situazione, ha già chiaramente indicato come la radicalizzazione delle proteste verrà affrontata con la radicalizzazione delle misure destinate a farvi fronte. Messaggio chiaro e forte, arrivato sia al quartier generale del proconsole dell’impero che ai suoi sponsor.
Superata la fase istituzionale dell’insediamento e rimessi al loro posto squadristi e golpisti, la direzione politica del paese dovrà però dedicarsi ad una riflessione profonda. La distanza tra quanto il chavismo si aspettava e quanto ha ottenuto è considerevole. Circa seicentomila voti mancano all’appello ed è innegabile quindi che il gruppo dirigente bolivariano abbia bisogno di resettarsi di fronte al nuovo corso.
C’è una destra che dispone di un blocco sociale storico nel paese e di un alleato poderoso all’estero e che aumenta i suoi consensi con il perdurare dei problemi atavici del Venezuela – delinquenza e corruzione diffuse in primo luogo – che si aggiungono al passo rallentato delle riforme a seguito di una situazione economica difficile, con soglie tra il 30 e il 40 per cento d’inflazione.
Tipica espressione di una burguesia compradora, priva di spessore politico e programmatico, capace solo di vendere gli interessi nazionali sperando in cambio di mantenersi il ruolo di raccoglitore le briciole che cadono dalla tavola dell'impero, quella venezuelana é una destra reazionaria e golpista, espressione di una cultura oligarchica che si alimenta con l’odio di classe e il revanscismo, che non può però essere contrastata solo ideologicamente.
Indagare sul perché si siano persi voti può essere l’inizio di un processo che metta al centro dell’agire politico il bisogno di rinnovare ed innovare, di adeguare e sperimentare le nuove forme della relazione tra popolo, governo e partito. Potrebbe forse servire una diversa organizzazione politica che porti a sintesi le esigenze di rinnovamento e ampliamento del processo bolivariano, saranno i venezuelani a decidere quale direzione intraprendere.
Ma nulla di quello che c’è da fare potrà essere fatto senza un gruppo dirigente coeso e in grado di capire il valore assoluto e strategico dell’unità interna, a maggior ragione di fronte alla sfida difficilissima di far sopravvivere il chavismo senza Chavez.
Riuscire a fare a meno di Chavez, in un paese che il Comandante ha forgiato, non è operazione semplice. Recuperarne il carisma è impossibile, imitarlo é inutile; continuarne l’opera e cercare persino di migliorarla appare però improcrastinabile.
Il Venezuela continuerà ad essere il punto decisivo dello scontro tra democrazia e restaurazione imperiale in America Latina. La crisi del socialismo venezuelano avrebbe ricadute pesanti su tutto il subcontinente ed è proprio per questo che gli Usa tentano il tutto per tutto a Caracas. Spetta dunque ai paesi amici sostenere in ogni modo gli sforzi per rinsaldare la rivoluzione bolivariana. Lo sanno perfettamente e sono già all’opera.
A Caracas si gioca il tempo decisivo per la secolare partita tra annessionismo statunitense e indipendenza latinoamericana. Chi vince o perde in Venezuela, crea le condizioni per poter vincere o perdere in tutto il continente.