di Carlo Musilli

Lo hanno trovato morto in bagno. Era nella sua casa vicino Ascot, a ovest di Londra. Si è suicidato o lo hanno suicidato? Per ora l'unica certezza è che Boris Berezovski non potrà più dar fastidio a nessuno, nemmeno a se stesso. Ex oligarca russo, ex eminenza grigia del Cremlino, aveva 67 anni. Entrato in contrasto con lo zar Vladimir Putin, da quasi 13 anni si era auto-esiliato in Gran Bretagna. Secondo quanto riferisce la Bbc, due giorni fa si è tolto la vita perché oppresso da debiti insostenibili. Depressione da default imminente, a quanto pare. O forse qualcosa di più complesso.

Difficile credere che il potere - o meglio, la sua mancanza - non c'entri nulla. Berezovski è stato il più grande e oscuro burattinaio della Russia post-sovietica, ma il teatrino gli è sfuggito di mano. Le marionette da lui stesso forgiate si sono trasformate in nemici invincibili. E ne hanno decretato la fine.

La polizia scientifica britannica ha confermato ieri di non aver trovato alcuna sostanza sospetta nella residenza di Berezovski. La causa della morte non è affatto chiara e le indagini proseguono. Certo, gli elementi che fanno pensare al suicidio non mancano.

Negli ultimi mesi all'ex oligarca erano stati diagnosticati problemi cardiaci. Una preoccupazione che si sommava a quella economica, probabilmente ancor più difficile da digerire. I guai finanziari lo avevano costretto a vendere diverse proprietà, fra cui il "Lenin Rosso" di Andy Warhol, piazzato per 202 mila dollari. Una bella sommetta per i comuni mortali, spiccioli per chi ha ancora velleità da magnate. Berezovski era lontano anni luce da una soluzione.

A fine gennaio la Corte suprema di Londra aveva congelato i suoi beni per 200 milioni di sterline su richiesta dell'ex convivente Elena Gorbunova, che chiedeva cinque milioni. Ma il colpo di grazia è arrivato da un altro vecchio amore, Roman Abramovich. Cresciuto all'ombra dell'ex eminenza grigia, l'anno scorso il patron del Chelsea aveva sconfitto il suo stesso creatore in una causa legale sulla cessione di pacchetti azionari di grosse compagnie russe. Berezovski era stato condannato a pagare le spese legali per decine di milioni di dollari.

Un colpo difficile da incassare per l'uomo che negli anni Novanta ha ridefinito i parametri della ricchezza e del potere in Russia. Laureato in matematica e noto accademico per vari anni, con la caduta dell'Urss si trasformò in uno dei primi alfieri del neocapitalismo post-sovietico. Fulminea quanto sospetta la sua ascesa economica: partita dalla compravendita di computer e dalle cooperative autorizzate da Gorbaciov, proseguita con i concessionari privati di automobili e culminata con il petrolio, le tv e l’Aeroflot.

Un cursus honorum che si accompagnò naturalmente all'affermazione nella vita politica. Su questo terreno, però, Berezovski rimase in secondo piano, almeno in apparenza. Il suo ambiente naturale non era il palcoscenico, ma la stanza dove si muovono i fili. Vero e proprio demiurgo di sovrani, fu tra i protagonisti della clamorosa rielezione alla presidenza di Boris Eltsin nel 1996. Una performance che gli valse la nomea di eminenza grigia del Cremlino.

Berezovsky fu artefice anche della supereroica presa del potere nel 2000 da parte dell'ex capo dei servizi segreti, Vladimir Putin. Inoltre, il suo nome fu associato sia alla pace raggiunta con i ribelli islamici in Cecenia, sia alla nuova guerra che scoppiò pochi anni dopo. In molti ritengono che ci sia lui dietro alla morte della giornalista dissidente Anna Politkovskaya e a quella di Alexandr Litvinenko (l'ex ufficiale del Kgb esiliato in terra inglese e avvelenato con il polonio), altro vecchio pupillo.

La magistratura russa crede perfino che sia responsabile delle proteste anti-Putin scoppiate nelle piazze russe l’inverno scorso. In tutto, nel suo Paese natale Berezovsky aveva accumulato condanne per 18 anni di carcere, subendo processi anche per frode e riciclaggio. Secondo alcune fonti, già in passato sarebbe stato vittima di un paio di tentativi d'assassinio.

Sulla base di tutto questo, destano qualche perplessità le ultime affermazioni del Cremlino, secondo cui Berezovsky avrebbe recentemente inviato una lettera a Putin "riconoscendo di aver commesso numerosi errori" e chiedendo "perdono". Dmitri Peskov, portavoce dello zar, ha detto che "voleva tornare in Russia prima di morire". Ma sembra che alla fine ci abbia ripensato.


di Mario Lombardo

La drammatica situazione dei detenuti accusati di terrorismo nel lager di Guantánamo è tornata ad occupare le pagine dei giornali americani in questi giorni in seguito al dilagare di un nuovo sciopero della fame tra gli ospiti della struttura americana sull’isola di Cuba aperta dall’amministrazione Bush ormai più di 11 anni fa. A riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sul dramma silenzioso dei 166 prigionieri trattati nel completo disprezzo delle più normali norme del diritto internazionale era stata una lettera scritta una settimana scorsa da oltre 50 avvocati difensori e indirizzata al neo-segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel.

Nella lettera, i legali dei detenuti sollecitavano un intervento del numero uno del Pentagono per risolvere le cause che hanno provocato fin dal 6 febbraio lo sciopero della fame, in seguito al quale molti prigionieri hanno già perso tra i 10 e i 14 chili, mentre altri sono stati ricoverati in grave stato di disidratazione.

Il motivo scatenante l’ennesima protesta a Guantánamo sarebbe il ricorso da parte delle guardie del carcere, negli ultimi mesi, a bruschi metodi nel trattamento dei detenuti, simili a quelli ampiamente adottati nel corso dei primi anni dopo l’apertura della struttura detentiva extra-territoriale. In particolare, le guardie avrebbero confiscato svariati effetti personali nelle celle dei prigionieri e controllato senza il dovuto rispetto tra le pagine delle copie del Corano a loro disposizione l’eventuale presenza di messaggi da scambiare e proibiti dal regolamento del carcere.

Sempre secondo gli avvocati difensori, nel carcere sarebbero avvenuti anche episodi di aperta rivolta, debitamente occultati dalle autorità, le quali avrebbero tra l’altro utilizzato proiettili di gomma per reprimere una protesta dei detenuti andata in scena in un’area comune della struttura.

Negli ultimi giorni, lo stesso Dipartimento della Difesa è stato costretto ad ammettere che è effettivamente in corso uno sciopero della fame tra i detenuti di Guantánamo. Il numero dei partecipanti alla protesta, secondo le autorità militari, sarebbe già passato dai 15 di venerdì scorso ai 25 di due giorni fa.

Nonostante sia impossibile conoscere la reale situazione nel carcere a causa della rigida censura che impone il governo USA, è praticamente certo che questi numeri siano abbondantemente sottostimati, anche perché il Pentagono considera un detenuto in sciopero della fame solo dopo che ha rifiutato nove pasti consecutivi. Secondo le testimonianze dei legali dei detenuti, riportate in questi giorni dai media d’oltreoceano, lo sciopero della fame si starebbe addirittura allargando a virtualmente tutta la popolazione del carcere.

Alcuni dei detenuti in sciopero, poi, sono già stati sottoposti ad alimentazione forzata, con i medici militari che stanno utilizzando un metodo che prevede l’inserimento di un apposito tubo nel naso del detenuto per far passare elementi nutritivi direttamente nello stomaco. Tale procedura è quasi universalmente considerata come una forma di tortura.

La rivolta in corso a Guantánamo ha spinto anche i vertici dell’esercito a rispondere alle accuse sollevate dai legali dei detenuti. Il portavoce della prigione, capitano Robert Durand, ha affermato ad esempio che le procedure di perquisizione delle celle e per l’esame delle copie del Corano non sono cambiate negli ultimi mesi.

A suo dire, perciò, i detenuti hanno interamente fabbricato l’accusa della profanazione del libro sacro ai musulmani per ottenere una qualche attenzione mediatica. Il comandante del Comando Meridionale, generale John Kelly, ha poi anch’esso sostenuto che il Corano nelle celle dei sospettati di terrorismo viene maneggiato secondo le regole previste e solo dagli interpreti del carcere, tutti di fede musulmana.

Al di là del vero o presunto abuso delle pagine del Corano, ad innescare la disperata protesta è stato in realtà il limbo legale senza via d’uscita nel quale si ritrovano le persone rinchiuse a Guantánamo. Lo stesso generale Kelly, nel corso di un’audizione alla commissione Forze Armate della Camera dei Rappresentanti di Washington, ha riconosciuto questa situazione, ammettendo che i detenuti “nutrivano un grande ottimismo circa la chiusura di Guantánamo… ma sono poi rimasti sconvolti quando il presidente [Obama] ha rinunciato” a mantenere la promessa di smantellare il carcere.

Subito dopo il suo insediamento nel gennaio del 2009, infatti, Obama aveva emesso una direttiva per disporre la chiusura della struttura detentiva entro un anno. Questo impegno è però svanito ben presto in seguito alle resistenze del Congresso - dove sono state approvate disposizioni per impedire il trasferimento dei detenuti accusati di terrorismo in territorio americano per affrontare un processo in un tribunale civile - e, più in generale, al continuo ricorso da parte dell’amministrazione democratica agli stessi metodi illegali inaugurati dal presidente Bush nell’ambito della cosiddetta “guerra al terrore”.

Così, solo una manciata di detenuti ha finora potuto lasciare l’isola, mentre circa la metà di quelli ancora rinchiusi si trova nell’incredibile situazione di non potere ottenere l’autorizzazione al rilascio pur essendo stati praticamente scagionati da ogni accusa da parte dello stesso governo americano. La motivazione ufficiale, per questi casi, è che la situazione interna dei paesi in cui i detenuti dovrebbero essere trasferiti rimane troppo instabile, come ad esempio in Yemen.

Quasi tutti gli ospiti di Guantánamo, comunque, sono detenuti da 11 anni o poco meno senza essere mai stati accusati formalmente di nessun reato né, tantomeno, senza essere stati sottoposti nemmeno ad un processo-farsa come quello previsto nell’ambito degli speciali tribunali militari, appositamente creati dall’amministrazione Bush e riproposti da Obama dopo una serie di cambiamenti puramente cosmetici per dare una parvenza di legalità al vergognoso sistema delle detenzioni indefinite.

di Michele Paris

La prima attesissima visita ufficiale in Israele da presidente degli Stati Uniti di Barack Obama si è aperta mercoledì con l’arrivo dell’inquilino della Casa Bianca all’aeroporto internazionale di Tel Aviv, da dove ha immediatamente raggiunto Gerusalemme in elicottero per un lungo faccia a faccia ed una cena con il primo ministro, Benjamin Netanyahu.

La vigilia della due giorni in Israele è stata preceduta da ripetuti avvertimenti dei portavoce del governo di Washington a non aspettarsi nuove proposte concrete da parte del presidente democratico ai suoi interlocutori - soprattutto attorno alla questione palestinese - lasciando intendere come il vero scopo della visita non sia altro che il coordinamento tra i due alleati dell’approccio alle crisi in Siria e Iran, ma anche la dimostrazione che, nonostante i dissapori di questi anni, i due alleati rimangono fermamente sulla stessa lunghezza d’onda.

Superate più o meno agevolmente le preoccupazioni elettorali di entrambi i leader, la visita di Obama in Israele era stata programmata agli albori del suo secondo mandato principalmente per rassicurare le potenti lobbies israeliane, preoccupate per una presunta insufficiente fedeltà del presidente al principale alleato americano in Medio Oriente. Nelle parole dei comunicati ufficiali, la visita in corso sarebbe perciò l’occasione per Obama di “connettersi con il popolo di Israele”.

Su questo messaggio ha infatti insistito il presidente appena sbarcato a Tel Aviv mercoledì, sostenendo già sulla pista dell’aeroporto la sua volontà di “riaffermare il legame indissolubile e l’alleanza eterna tra le nostre due nazioni”. Obama ha poi annunciato che “la pace deve giungere in Terra Santa”, proprio mentre i due governi continuano al contrario a manovrare per la destabilizzazione della regione e a progettare nuove e rovinose guerre in Siria e in Iran.

Non a caso, il legame militare tra Washington e Tel Aviv è stato subito mostrato all’opinione pubblica internazionale con l’ispezione da parte di Obama di una batteria del sistema di difesa anti-missilistico di Israele denominato “Iron Dome”, trasportato appositamente in un hangar dell’aeroporto.

Finanziato in buona parte proprio dagli Stati Uniti, questo strumento viene presentato come un mezzo efficace per intercettare e distruggere i missili lanciati da coloro che, a Gaza e in Libano, desidererebbero l’annientamento dello stato ebraico, mentre in realtà non è altro che un sistema che dovrebbe consentire a Israele di condurre liberamente le proprie politiche aggressive e guerrafondaie nella regione limitando al minimo i danni collaterali causati dalla reazione di paesi ed entità vicine.

Quest’ultimo principio, da affermare a tutti i costi per mantenere un’incontrastata superiorità militare in Medio Oriente, è anche alla base delle continue minacce di un’aggressione militare preventiva per distruggere il programma nucleare dell’Iran, anche se per il quale non esistono prove che sia diretto alla creazione di armi atomiche.

Il nucleare iraniano è in ogni caso uno dei punti centrali del vertice Obama-Netanyahu, attorno al quale i due governi hanno una sostanziale identità di vedute. Entrambi intendono cioè sfruttare il programma nucleare civile di Teheran per giungere all’obiettivo ultimo di rimuovere l’attuale regime della Repubblica Islamica, contro il quale le rispettive agenzie di intelligence conducono da tempo operazioni clandestine di sabotaggio.

Le differenze emerse apertamente finora tra i due leader sembrano piuttosto di natura tattica, con Netanyahu che, almeno pubblicamente, ha manifestato una maggiore impazienza per l’adozione di misure estreme contro l’Iran, laddove Obama ha espresso toni relativamente più moderati, sostenendo di puntare ad una soluzione diplomatica della crisi pur mantenendo “sul tavolo qualsiasi opzione”.

Approfittando forse anche della recente débacle elettorale di Netanyahu, costretto a formare un governo di coalizione con alcune formazioni politiche moderate, Obama ha probabilmente provato a convincere il primo ministro israeliano ad attendere che la diplomazia faccia il proprio corso prima di ricorrere ad un’opzione militare che gli USA non hanno peraltro mai escluso.

A tal proposito, un messaggio di conciliazione, anche se da qualche osservatore considerato in contrasto con la posizione di Netanyahu, era stato lanciato da Obama nei giorni scorsi in un’intervista rilasciata alla rete televisiva israeliana Channel 2. In essa, il presidente democratico aveva per la prima volta formulato un termine temporale per il raggiungimento della capacità di costruire un’arma nucleare da parte iraniana.

Anche se per Obama la data limite in questo senso cadrebbe tra un anno o poco più, a differenza di Netanyahu che riteneva più probabile la prossima estate, l’adeguamento da parte dell’inquilino della Casa Bianca alla retorica dell’alleato può essere considerato sia come un invito a superare le divisioni sia come un via libera ad un eventuale attacco israeliano unilaterale contro la Repubblica Islamica.

Pressoché identiche sono poi le vedute di USA e Israele sulla Siria, dal momento che entrambi i governi hanno deciso da tempo di mettere da parte le esitazioni e di adoperarsi per un cambio di regime a Damasco, valutando più importanti i vantaggi strategici di una tale soluzione rispetto non solo al rischio di un predominio di forze integraliste nel dopo Assad ma anche alla devastazione sociale e alle decine di migliaia di morti provocati dal conflitto in atto.

Il coordinamento delle operazioni da condurre nei prossimi mesi per garantire un esito della guerra civile il più favorevole possibile agli interessi di Washington e Tel Aviv è stato perciò con ogni probabilità oggetto di discussione tra Obama e Netanyahu.

Nel corso della conferenza stampa congiunta tra i due leader nella serata di mercoledì, il presidente statunitense ha poi ribadito l’impegno del suo paese per la sicurezza di Israele, dipingendo come al solito un quadro regionale nel quale sarebbe lo stato ebraico ad essere seriamente minacciato e non, come accade in realtà, esso stesso la principale minaccia alla stabilità mediorientale.

Di fronte alla stampa internazionale, Obama ha inoltre affermato l’interesse americano per la creazione di uno stato palestinese forte e sovrano, anche se in realtà nessun serio sforzo viene dedicato in questa visita alla riapertura dei negoziati di pace con l’Autorità Palestinese. Questo punto era stato al centro della politica estera di Obama all’inizio del suo primo mandato ma è stato sostanzialmente messo da parte fin dal 2010, quando i colloqui si sono arenati attorno alla questione del blocco degli insediamenti illegali di Israele nei territori occupati.

Pressato da esigenze interne e da un Congresso totalmente appiattito sulle posizioni più estreme della destra sionista, Obama ha ormai del tutto abbandonato ogni tentativo di spingere Netanyahu a fare qualche concessione ai palestinesi per tornare al tavolo delle trattative. Il presidente americano, inoltre, si trova ora di fronte un primo ministro che ha appena creato un nuovo esecutivo del quale fanno parte politici contrari ad una soluzione basata sulla creazione di due stati e totalmente a favore dell’espansione degli insediamenti considerati fuori legge da tutta la comunità internazionale.

Con queste premesse, è apparsa scontata la scelta della Casa Bianca di limitare al minimo indispensabile gli incontri con i vertici palestinesi nel corso della visita di questa settimana. Nella giornata di giovedì, Obama vedrà a Ramallah - dove mercoledì in centinaia hanno manifestato contro il presidente USA - il numero uno dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), e il primo ministro, Salaam Fayyad, mentre tornerà ancora in Cisgiordania venerdì per visitare la Basilica della Natività a Betlemme.

Nessuna visita è prevista invece, ad esempio, alla Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme Est o in zone che implicherebbero il passaggio attraverso il muro che separa Israele dalla Cisgiordania, né tantomeno il governo americano ha accettato un incontro del presidente con i familiari dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.

Dal punto di vista mediatico, il momento clou della trasferta in Israele di Obama è il discorso che terrà giovedì in un centro congressi di Gerusalemme di fronte ad una platea di studenti accuratamente selezionati. Questo evento, considerato da molti il corrispondente del noto discorso tenuto al Cairo nel 2009 davanti a studenti musulmani, è stato valutato come un’alternativa più sicura ad un intervento alla Knesset (Parlamento), dove la diffidenza nei confronti di Obama tra la destra israeliana rimane ampiamente diffusa.

Le poco meno di 48 ore trascorse in Israele si concluderanno infine venerdì, quando il presidente democratico si sposterà ad Amman per incontrare un’altra pedina fondamentale nelle strategie americane in evoluzione in Medio Oriente, il sovrano hascemita di Giordania Abdullah II.

di Michele Paris

La settimana appena iniziata dovrebbe finalmente segnare la nascita di un governo parallelo in Siria guidato dai leader dell’opposizione ufficiale al regime di Bashar al-Assad e al servizio dell’Occidente. Gli ennesimi negoziati per raggiungere un punto d’incontro tra le varie fazioni “ribelli” si sono aperti lunedì a Istanbul, anche se le divisioni al loro interno sul modo migliore per ottenere una maggiore assistenza economica e militare dagli sponsor stranieri minacciano ancora una volta di far saltare un possibile cruciale accordo da presentare alla comunità internazionale.

A produrre la principale frattura all’interno della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione era stato l’attuale presidente, l’ex imam sunnita e già funzionario della Shell, Moaz al-Khatib. Quest’ultimo, infatti, da qualche tempo ha aperto uno spiraglio di dialogo con le forze del regime, riflettendo l’auspicio di svariati governi occidentali di raggiungere una qualche soluzione politica del conflitto con il consenso della Russia, uno dei pochi alleati rimasti al presidente siriano Assad.

A questo proposito, Khatib starebbe continuando nel suo sforzo di convincere alcuni esponenti della cerchia di potere di Assad ad accettare l’ingresso in un nuovo governo di transizione con i membri dell’opposizione. In molti all’interno della Coalizione e sul campo in Siria si oppongono però a queste aperture, soprattutto tra coloro che fanno riferimento a gruppi islamisti legati alle dittature sunnite del Golfo Persico (Arabia Saudita, Qatar), i quali non intendono abbandonare la lotta armata fino alla rimozione del regime alauita (sciita) di Damasco.

La necessità di avere ancora del tempo a disposizione per provare a formare un gabinetto che includa uomini vicini ad Assad era stato il motivo del rinvio voluto da Khatib del vertice dell’opposizione in programma già un paio di settimane fa. Il presidente della Coalizione, però, sembra avere infine ceduto alle pressioni e avrebbe dato ora il suo assenso alla nomina di un esecutivo provvisorio guidato da un primo ministro scelto dai 73 membri del gruppo di cui è a capo.

Questo passo è d’altra parte considerato fondamentale per i ribelli, poiché aprirebbe la strada al riconoscimento formale da parte dell’Occidente. I governi di Washington, Londra e Parigi, infatti, hanno bisogno di presentare all’opinione pubblica internazionale l’immagine di un’opposizione non solo unita ma anche organizzata in modo tale da essere teoricamente in grado di fornire adeguati servizi alla popolazione nelle aree della Siria strappate al controllo governativo. In questo modo, le tenui resistenze alla fornitura di armamenti ai ribelli manifestate da alcuni paesi occidentali verrebbero con ogni probabilità superate.

Questa strategia appare tuttavia sempre più come una manovra di facciata, dal momento che l’autorità sul campo della Coalizione - formata principalmente da islamisti legati ai Fratelli Musulmani, dissidenti screditati in esilio e uomini a libro paga dei servizi segreti occidentali - rimane quasi nulla, in particolare sui gruppi terroristi islamici come il Fronte al-Nusra che continuano ad essere utilizzati come avanguardie nella guerra contro le forze del regime. Come ha scritto domenica il Wall Street Journal, infatti, “i guerriglieri ribelli rifiutano sempre più l’autorità dei membri dell’opposizione, soprattutto di quelli che si trovano all’estero. Le fazioni islamiste, in particolare, stanno già creando proprie strutture politiche”, verosimilmente all’insegna del settarismo sunnita.

Qualsiasi governo dovesse uscire dal vertice di Istanbul superando le divisioni interne, in ogni caso, non sarebbe altro che un rappresentante dei governi occidentali che intendono promuovere i propri interessi nella Siria del dopo Assad, a cominciare dagli Stati Uniti, i quali avevano patrocinato la creazione della stessa Coalizione Nazionale lo scorso novembre in un hotel di lusso a Doha, in Qatar, per rimpiazzare l’ormai screditato e inefficace Consiglio Nazionale Siriano.

Dopo due anni di guerra, i ribelli controllano un’ampia sezione di territorio siriano nel nord del paese al confine con la Turchia, un’altra porzione di territorio a est vicino all’Iraq e buona parte della città più popolosa, Aleppo, e di Raqqa, capoluogo dell’omonimo distretto settentrionale. Inoltre, in seguito a scontri con le forze di sicurezza del regime, i ribelli hanno anche messo le mani su alcune località meridionali nei pressi delle Alture del Golan occupate da Israele, tra cui, secondo quanto riportato in questi giorni dai media internazionale, un complesso dell’intelligence militare sull’altopiano di Hawran conquistato domenica scorsa.

L’impegno in quest’area dell’opposizione armata, la quale recentemente ha anche preso in ostaggio e poi rilasciato alcuni caschi blu filippini dispiegati nelle Alture del Golan, ha già provocato tensioni tra Damasco e Tel Aviv ed è tutt’altro che da escludere che le provocazioni dei ribelli intendano produrre una reazione da parte di Israele per aprire un nuovo fronte in cui impegnare l’esercito regolare.

Gli sforzi per la creazione di un governo provvisorio vanno di pari passo con quelli messi in atto in questi giorni dai governi di Francia e Gran Bretagna per convincere gli altri membri dell’Unione Europea a cancellare l’embargo sul trasferimento di armi in Siria attualmente in vigore. Parigi e Londra hanno fatto sapere nel corso del summit di Bruxelles della settimana scorsa di essere pronti a prendere provvedimenti unilaterali nel caso a fine maggio l’UE dovesse prolungare nuovamente l’embargo per entrambe le parti impegnate nel conflitto.

Particolarmente assurdo è stato il discorso a sostegno della fornitura diretta di armi all’opposizione siriana fatto dal primo ministro britannico, David Cameron. Secondo quest’ultimo, pur essendo “una soluzione politica e non militare” ciò che serve in Siria, essa sarebbe più probabile se le forze democratiche dell’opposizione fossero rafforzate, cioè se venissero rifornite di armi letali.

In altre parole, il premier conservatore ha affermato di auspicare una soluzione politica, e quindi pacifica, per la crisi siriana promuovendo al contempo un flusso di armi nel paese che farebbe aumentare ulteriormente un livello di violenza già drammatico. Armi, oltretutto, che andrebbero a finire in buona parte nelle mani di gruppi estremisti già responsabili di innumerevoli stragi di civili e non esattamente disponibili ad un accordo politico per porre fine al conflitto.

A guidare i contrari all’abrogazione dell’embargo sono per ora i governi di Germania e dei paesi scandinavi. Berlino, in particolare, teme che un aggravarsi del conflitto potrebbe portare al precipitare della situazione in Siria, provocando un muro contro muro tra l’Occidente e la Russia, con la quale il governo tedesco non intende guastare la fruttuosa cooperazione economica ed energetica che lega i due paesi.

Nel fine settimana, poi, alcuni giornali hanno riportato quelle che sarebbero le perplessità di molti diplomatici occidentali e arabi nei confronti della posizione ancora relativamente attendista di Washington, da dove l’amministrazione Obama continua ad opporsi alla fornitura diretta di armi ai ribelli. Le dichiarazioni quasi sempre anonime raccolte servono però più che altro a confondere le idee e a mascherare una realtà nella quale gli Stati Uniti sono da tempo in prima linea nella campagna internazionale per rimuovere Assad.

Se pure a livello ufficiale hanno finora stanziato denaro solo a fini “umanitari” e fornito ai ribelli materiale “non letale”, gli USA, tra l’altro, hanno assunto la direzione del traffico di armi dirette in Siria e provenienti da Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, così come hanno inviato unità speciali della CIA in Giordania per addestrare centinaia di guerriglieri da impiegare nella guerra contro Assad.

La politica sconsiderata così perseguita dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Siria, e le conseguenze ancora più pesanti che attendono questo paese, è riconosciuta indirettamente anche da personaggi di spicco come il generale James Mattis, numero uno del Comando Centrale americano che include le forze armate stanziate in Medio Oriente. Secondo l’alto ufficiale statunitense, infatti, la caduta di Assad “non rappresenterà la fine [della crisi in Siria], bensì creerà le condizioni per la continuazione del conflitto settario nel paese e probabilmente nell’intera regione”.

Il generale Mattis ha poi aggiunto, nel corso di una recente audizione al Senato USA, che il crollo del regime di Damasco spingerebbe l’Iran ad intensificare il proprio impegno a favore delle milizie sciite armate in Siria per creare una situazione simile a quella del Libano con Hezbollah ma anche ad intensificare gli sforzi per aumentare la propria influenza in Iraq, in Bahrain, in Yemen e altrove.

Uno scenario del tutto probabile quello dipinto dal generale americano, ma che, oltre a rivelare ancora una volta la vera natura degli interessi strategici in gioco nella crisi siriana, manca di evidenziare come una simile reazione da parte di Teheran non sarebbe altro che l’inevitabile risposta al disegno occidentale e arabo-sunnita volto ad isolare la Repubblica Islamica sciita, eliminando l’alleato Assad attraverso l’appoggio garantito a gruppi armati profondamente reazionari presentati in maniera instancabile all’opinione pubblica internazionale come veri e propri campioni di progresso e democrazia.

di Michele Paris

La prevista ascesa di Xi Jinping al vertice del potere in Cina ha segnato il proprio punto d’arrivo nella giornata di giovedì, quando l’Assemblea Nazionale del Popolo lo ha eletto alla presidenza della Repubblica Popolare. Il nuovo leader si era già garantito le ben più importanti nomine di capo del Partito Comunista e delle Forze Armate durante la prima fase del decennale processo di transizione all’interno della classe dirigente cinese, andato in scena lo scorso novembre durante il 18esimo congresso del partito stesso.

Nella Grande Sala del Popolo, lo spettacolo meticolosamente coreografato di quella che secondo la versione ufficiale dovrebbe essere un’elezione ha garantito a Xi, unico candidato alla presidenza, 2.952 voti dei delegati del partito. Un solo voto contrario è stato invece espresso, mentre 3 sono stati gli astenuti. Il nuovo leader ha così diligentemente ringraziato i membri dell’Assemblea per poi stringere la mano al suo predecessore, Hu Jintao, seduto al suo fianco.

Assieme alla nomina del neo-presidente, il corpo legislativo cinese ha anche approvato una serie di misure volte a razionalizzare gli organi di governo, accorpando alcuni ministeri e agenzie statali. Le fasi finali di questa sessione del parlamento prevedono venerdì la nomina a primo ministro del numero due del Partito Comunista, Li Keqiang, e sabato la scelta del governatore della Banca Centrale e degli altri ministri del nuovo governo.

La Cina che il 59enne Xi Jinping ha preso in mano già da qualche mese si trova di fronte una serie di problematiche senza precedenti, causate da un’economia globale in continuo affanno e dalle contraddizioni di un sistema nominalmente egalitario ma che continua a produrre enormi disparità sociali e di reddito.

Ben consapevole della crescente avversione della maggioranza della popolazione per una classe dirigente vista come corrotta, al di sopra della legge e che utilizza le strutture e gli organi dello stato per arricchirsi enormemente, fin dallo scorso novembre Xi ha cercato di mettere in atto una serie di misure di facciata per contenere gli sprechi e gli abusi e per dare un’immagine di sobrietà ai funzionari di vertice del partito.

Allo stesso tempo, la nuova dirigenze cinese si trova a dover rispondere ai grandi interessi economici indigeni e agli ambienti finanziari internazionali, i quali chiedono a gran voce una svolta più decisa verso la liberalizzazione del mercato interno e lo smantellamento dei rimanenti monopoli pubblici.

Definito pressoché universalmente un “riformista moderato”, secondo molti commentatori Xi Jinping appare meglio attrezzato di Hu Jintao per traghettare pacificamente un paese di oltre un miliardo e duecento milioni di abitanti verso un’ulteriore apertura al capitale internazionale. Il suo compito, che secondo i media dovrebbe essere quello di adottare le “riforme” necessarie per ridare slancio alla crescita economica, appare tuttavia complicato.

Non solo tali misure dovranno essere implementate tenendo conto degli interessi delle varie fazioni all’interno del partito, ma anche di fronte ad una crescente resistenza tra la popolazione nei confronti di politiche che, inevitabilmente e al contrario di quanto viene affermato a livello ufficiale, aumenteranno ulteriormente il divario nelle condizioni di vita tra una ristretta classe privilegiata e la maggioranza dei cinesi.

Le campagne anti-corruzione intraprese recentemente, assieme all’irrigidimento della posizione di Pechino riguardo alle contese territoriali con i paesi vicini e alimentate dagli Stati Uniti - prima fra tutte quella con il Giappone per le Isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi) nel Mar Cinese Orientale - servono precisamente allo scopo di sviare l’attenzione del popolo dalle difficoltà economiche e dalla gravità delle conseguenze che produrranno le annunciate “riforme” economiche e ad unire il paese all’insegna del populismo e del nazionalismo.

L’influenza delle fazioni che si spartiscono il potere all’interno del partito, e di cui Xi dovrà tenere conto, è poi apparsa evidente nella giornata di giovedì con la nomina a vice-presidente di Li Yuanchao. Questa posizione viene assegnata solitamente ad uno dei sette membri del Comitato Permanente del Politburo del Partito, l’organo che di fatto governa la Cina, del quale Li invece non fa parte.

Quest’ultimo viene però considerato uno stretto alleato di Hu Jintao e la sua elezioni a vice-presidente, secondo i giornali occidentali, sarebbe una sorte di premio di consolazione per il presidente uscente, dal momento che il Comitato Permanente, rinnovato lo scorso novembre, è dominato da una maggioranza di fedelissimi di Jiang Zemin, un altro ex presidente che continua a manovrare dietro le quinte.

La direzione che prenderà Xi Jinping, in ogni caso, sembra essere inequivocabilmente quella di un progressivo disimpegno dello stato in ambito economico. Come ha scritto giovedì Francesco Sisci sulla testata on-line Asia Times, infatti, mentre “le riforme del 1998 furono intraprese per dare maggiore potere economico alle aziende statali”, tanto che “un decennio più tardi esse avrebbero finito per dominare l’economia cinese, creando monopoli e marginalizzando le compagnie private”, oggi “la vera urgenza è quella di dare spazio al mercato”.

Se un massiccio programma di privatizzazioni è stato in realtà portato avanti negli ultimi due decenni, è altrettanto vero che i colossi statali rimasti rappresentano attualmente, per la fazione “riformista” della classe dirigente cinese, un ostacolo da rimuovere.

Contemporaneamente, la nuova leadership del Partito Comunista, secondo quanto indicato all’Assemblea del Popolo dal premier uscente, Wen Jiabao, dovrebbe agire per fronteggiare la crisi sociale che affligge il paese, migliorando, ad esempio, l’accesso alle cure mediche e all’educazione, creando più in generale un’economia più equa e bilanciata.

Una simile evoluzione del sistema, tuttavia, comporterebbe la trasformazione di un modello economico basato fin qui sullo sfruttamento di una vasta manodopera a basso costo per la produzione di beni destinati all’esportazione. Lo stimolo ai consumi domestici per ridurre la dipendenza dell’economia cinese dall’andamento dei mercati esteri richiederebbe al contrario un sensibile innalzamento dei livelli medi delle retribuzioni, causando una perdita di competitività dell’export, proprio mentre si sta facendo sentire sempre di più la concorrenza di altri paesi del sud-est asiatico con costi del lavoro ad un livello infimo.

Questa contraddizione risulterà difficile da sciogliere per la nuova leadership di Xi Jinping, la quale sarà chiamata alla fine ad operare scelte impopolari che con ogni probabilità faranno aumentare ulteriormente le tensioni sociali che già attraversano il paese. Una prospettiva di cui i vertici del partito sono ben coscienti e pronti a contrastare senza scrupoli, come dimostra il crescente bilancio destinato all’apparato della sicurezza interna, da tre anni ormai decisamente superiore sia alla spesa militare complessiva che a quella prevista per il rafforzamento di uno stato sociale che, nella vuota retorica di Pechino, dovrebbe essere il punto centrale per la creazione di una società più equa nella cosiddetta Repubblica Popolare Cinese.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy