- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Il 13 giugno scorso, la Casa Bianca ha dato l’annuncio ufficiale del proprio cambio di marcia in relazione al coinvolgimento nel conflitto in corso in Siria, rendendo nota la decisione di fornire armi direttamente ai “ribelli” in lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Come giustificazione, l’amministrazione Obama ha indicato il possesso di presunte prove dell’uso di armi chimiche da parte delle forze armate di Damasco, prove che però non sembrano più consistenti di quelle sulle armi di distruzioni di massa impiegate un decennio fa dall’amministrazione Bush per invadere illegalmente l’Iraq di Saddam Hussein.
Il sospetto ampiamente diffuso che gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, abbiano ancora una volta gettato con l’inganno le basi per una rovinosa guerra in Medio Oriente è stato confermato nei giorni scorsi anche dai pareri di una serie di esperti indipendenti e delle stesse Nazioni Unite.
Un’indagine di qualche giorno fa del Washington Post, ad esempio, ha ricordato che i campioni di sangue, tessuti biologici e ambientali raccolti in Siria dagli USA, dalla Francia e dalla Gran Bretagna sono stati di “utilità limitata” per gli ispettori ONU incaricati di determinare i responsabili dell’uso di armi chimiche in Siria. La natura degli stessi campioni ottenuti tramite i “ribelli” e la segretezza delle modalità di raccolta hanno poi contribuito a rendere ancora più dubbie le accuse rivolte contro Assad.
Anche se in Siria è stato segnalato finora un numero esiguo di operazioni condotte con armi chimiche e i decessi per questo motivo sarebbero relativamente limitati, la questione della responsabilità è di fondamentale importanza. Infatti, nel tentativo di stabilire un pretesto per giustificare un maggiore coinvolgimento nel paese a fianco dell’opposizione, il presidente Obama la scorsa estate aveva minacciato il regime di Damasco a non oltrepassare la “linea rossa” dell’uso di armi chimiche per non incorrere nella reazione americana.
In concomitanza con lo svanire delle prospettive di vittoria sul campo dei “ribelli”, a partire dai primi mesi del 2013 i governi occidentali hanno così iniziato ad agitare lo spettro delle armi chimiche fino alla definitiva presa di posizione di Washington un paio di settimane fa che potrebbe a breve imprimere una svolta alle sorti del sanguinoso conflitto.
In seguito alle accuse di USA, Francia e Gran Bretagna, le Nazioni Unite avevano incaricato una speciale commissione di indagare sull’impiego di armi chimiche in Siria ma le ricerche non avevano portato a conclusioni definitive. Anzi, un membro della commissione stessa, l’ex giudice del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva lasciato intendere che a utilizzare armi chimiche in maniera limitata erano stati probabilmente i “ribelli” e non le forze del regime.Il sospetto espresso da Carla Del Ponte che le formazioni, in gran parte integraliste, che si battono contro Assad si siano impossessate di armi chimiche negli arsenali del regime, oppure le abbiano ricevute da altri paesi come la Libia, per poi utilizzarle in maniera limitata, così da scatenare una campagna internazionale contro Assad, è condiviso ormai anche da esperti autorevoli.
In un’intervista al Washington Post, lo scienziato e diplomatico svedese Rolf Ekéus, già a capo degli ispettori ONU in Iraq negli anni Novanta, ha affermato che, “se i gruppi di opposizione sentono affermare dalla Casa Bianca che l’uso di gas nervino è da considerarsi una linea rossa, è evidente che essi hanno tutto l’interesse nel dimostrare che qualche tipo di arma chimica è stata impiegata”.
L’opinione di Ekéus appare di primaria importanza vista la sua esperienza con i metodi manipolativi dei governi americani. Secondo quanto riportato dalla stampa britannica negli anni Novanta, infatti, il diplomatico svedese subì pesanti pressioni da parte del presidente Clinton per impedire la certificazione di paese privo di armi di distruzioni di massa dell’Iraq di Saddam Hussein, nonostante le indagini degli ispettori non avessero riscontrato alcuna presenza di questi ordigni.
Nel caso della Siria, inoltre, l’inesistenza di prove della responsabilità di Assad è confermata dal fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a sostenere di non essere intenzionati a rendere note nemmeno agli ispettori ONU le modalità con cui i campioni biologici sono stati ottenuti sul campo. La ragione ufficiale della segretezza sarebbe la necessità di non compromettere operazioni di intelligence sotto copertura ancora in corso.
Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dopo le dichiarazioni della Casa Bianca del 13 giugno scorso aveva rilasciato un prudente comunicato ufficiale nel quale sosteneva che “la validità delle informazioni diffuse non può essere garantita in assenza di prove convincenti sulla catena di persone o enti che hanno avuto in custodia i campioni”. “Per questa ragione”, proseguiva il segretario generale, continuava ad esserci “la necessità di un’indagine sul campo in Siria”, affinché anche gli ispettori dell’ONU “possano raccogliere i loro campioni”.
Sia i governi occidentali che il regime di Assad chiedono da mesi un’indagine in Siria da parte delle Nazioni Unite ma Damasco ha finora impedito l’accesso agli ispettori a causa del mancato accordo sul loro mandato, visto che per gli USA e i loro alleati essi dovrebbero avere accesso illimitato nel paese e non soltanto ai luoghi dove è stato segnalato l’uso di armi chimiche.
Senza un punto di incontro su questo aspetto, le presunte prove raccolte finora si sono basate su interviste con medici e vittime di agenti chimici in paesi come Turchia, Libano o Giordania, mentre i campioni ottenuti da Washington, Parigi e Londra, come già ricordato, sono stati raccolti dai gruppi “ribelli” che hanno tutto l’interesse a vedere Assad sul banco degli imputati.
Un altro contributo all’insegna dell’estremo scetticismo sulle responsabilità dell’uso di armi chimiche in Siria è stato infine quello di Jean Pascal Zanders, esperto nel settore e fino al mese scorso membro dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza dell’Unione Europea (EUISS). Il ricercatore belga, come ha riportato ancora il Washington Post, negli ultimi mesi ha infatti esaminato attentamente una serie di immagini, filmati e notizie reperite su internet in relazione agli attacchi con armi chimiche segnalati in Siria.Secondo Zanders, il quale condusse un’indagine sui massacri condotti dal governo iracheno contro la minoranza curda a fine anni Ottanta, il materiale esaminato non mostra sulle vittime i tradizionali sintomi dell’uso di armi chimiche. Questo ricercatore conclude affermando che allo stato attuale delle informazioni presentate “è dunque impossibile raggiungere una conclusione definitiva” e che l’intero processo in corso appare di natura esclusivamente “politica”.
Dopo l’ennesimo tentativo di manipolare la realtà dei fatti per scatenare un’altra guerra imperialista in Medio Oriente, così, gli Stati Uniti e gli altri cosiddetti “Amici della Siria” si sono riuniti sabato in Qatar per dare il via libera a nuove massicce forniture di armi letali ai gruppi “ribelli” anti-Assad.
I destinatari degli equipaggiamenti militari saranno in primo luogo formazioni estremiste profondamente impopolari tra la popolazione siriana e già protagoniste di numerose operazioni di chiaro stampo terroristico in oltre due anni di conflitto. La pretesa occidentale di rafforzare i gruppi moderati e secolari continua d’altra parte ad essere smentita non solo dai fatti sul campo ma anche da una lunga serie di indagini giornalistiche, condotte anche da testate non esattamente allineate al regime di Damasco.
Tra le più recenti va segnalata almeno quella della scorsa settimana di due inviati della Reuters in Siria, dove hanno documentato il progressivo e inesorabile prevalere delle milizie jihadiste nella lotta per rovesciare Assad. I due gruppi più influenti che finiranno in qualche modo per beneficiare delle spedizioni di armi decise questo mese dal governo americano sono attualmente Ahrar al-Sham e l’ormai famigerato Fronte al-Nusra, apertamente affiliato ad Al-Qaeda e responsabile, tra l’alto, di una lunga serie di attentati suicidi che hanno causato centinaia di vittime civili.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nel corso di una delle audizioni promosse in questi giorni dal Congresso americano per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle reali implicazioni dei programmi di intercettazione messi in atto dall’NSA, il direttore dell’FBI, Robert Mueller, ha per la prima volta ammesso l’utilizzo di droni sul territorio degli Stati Uniti con funzioni di sorveglianza.
Durante la sua testimonianza di fronte alla commissione Giustizia del Senato, il capo della polizia federale americana ha risposto affermativamente ad una domanda postagli dal senatore repubblicano dell’Iowa, Chuck Grassley, sul ricorso ai droni da parte dell’FBI. Quando, subito dopo, la senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha chiesto a Mueller di chiarire la sua affermazione, quest’ultimo ha aggiunto che i droni negli USA “vengono usati molto raramente e in genere in caso di particolari incidenti nei quali si rendono necessarie le capacità” di questi strumenti.
Senza fornire esempi di questi “incidenti”, Mueller ha poi spiegato ai membri del Congresso che l’FBI sta elaborando delle linee guida per l’uso dei droni in territorio americano, anche se “alcune leggi sulla sorveglianza aerea e sulla privacy relativamente a elicotteri e piccoli velivoli potrebbero essere adattate ai droni”. Dalle parole di Mueller appare perciò chiaro come l’impiego di droni nei cieli USA venga attualmente deciso al di fuori di ogni regolamentazione legale. Un’eventuale legislazione che il numero uno dell’FBI ha detto di auspicare nel prossimo futuro, peraltro, servirebbe soltanto a dare una parvenza di legittimità ad una pratica gravemente lesiva della privacy e ancora una volta contraria ai principi costituzionali.
Per prevenire ovvie polemiche, lo stesso “Bureau” dopo la testimonianza di Mueller ha diffuso una dichiarazione ufficiale, spiegando che “i droni sono consentiti per ottenere informazioni cruciali che, diversamente, potrebbero essere reperite solo mettendo a rischio il personale di polizia”. Come esempio dell’uso fatto finora, l’FBI ha poi fatto riferimento ad un episodio accaduto quest’anno in Alabama, nel quale le forze di polizia, grazie ad un drone, sono venute a conoscenza di un nascondiglio dove veniva tenuto nascosto un ostaggio di 5 anni.
L’FBI, infine, ha fatto sapere che per il momento ogni operazione condotta con i droni sul suolo americano viene preventivamente approvata dalla Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia federale che regola e sovrintende all’aviazione civile negli Stati Uniti.
Come per i programmi di sorveglianza elettronica dell’NSA rivelati in questi giorni dall’ex contractor Edward Snowden, il governo americano giustifica ufficialmente anche l’uso dei droni con la necessità di avere a disposizione strumenti più efficaci per combattere la criminalità o la minaccia terroristica. Questi velivoli, tuttavia, forniscono uno strumento di controllo formidabile della vita e dell’attività di qualsiasi cittadino che venga considerato una “minaccia” per il paese.Ugualmente, come la presunta legalità dei programmi dell’NSA si basa in gran parte sulle deliberazioni del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale opera in gran segreto assecondando ogni richiesta di intercettazione del governo, il ricorso ai droni avverrebbe solo dopo l’autorizzazione di un ente federale amministrativo come l’FAA. Questo espediente, a detta del direttore dell’FBI, sarebbe sufficiente a garantire la legittimità del programma.
Il tentativo di Mueller di minimizzare l’impiego dei droni con funzioni di sorveglianza negli Stati Uniti è comunque da considerare con estremo sospetto, visto che, quanto meno, a inizio anno l’FAA aveva fatto sapere di avere approvato in meno di sei anni quasi 1500 richieste di vari enti per operare questo genere di velivoli.
Da quanto si evince da alcune indagini giornalistiche e sparute dichiarazioni di politici o amministratori locali, l’uso dei droni in territorio americano viene oggi già consentito per i più svariati motivi, tra cui il monitoraggio del confine con il Messico per combattere l’immigrazione clandestina.
Gli Stati Uniti potrebbero però venire invasi a breve da un numero elevatissimo di droni, in gran parte con compiti di sorveglianza, dopo che il Congresso ha fissato al settembre 2015 l’apertura dei cieli a velivoli comandati a distanza che consentono un risparmio notevole di costi per le agenzie governative e per i singoli Stati. Entro questa data, l’FAA dovrà preparare un sistema di regolamentazione complessivo relativamente ai droni per uso domestico.
Significativamente poi, anche per i droni, come per i programmi di sorveglianza e intercettazione, il banco di prova per l’utilizzo domestico sono state le guerre condotte dagli Stati Uniti all’estero, in particolare in Pakistan e in Yemen dove questi strumenti di morte hanno causato migliaia di vittime civili.
Metodi di controllo e di repressione violenta di ogni forma di resistenza contro l’occupazione americana di un paese straniero oppure di rivolte contro regimi autoritari collusi con l’imperialismo di Washington, verranno perciò messi in atto con maggiore frequenza anche in patria per contrastare un dissenso interno destinato a crescere nel prossimo futuro con l’aumentare delle tensioni sociali.
Le dichiarazioni rilasciate mercoledì da Mueller, in ogni caso, potrebbero essere state orchestrate appositamente per prevenire lo shock di possibili nuove pubblicazioni di documenti passati da Snowden al quotidiano britannico Guardian proprio sull’uso dei droni negli USA con funzioni di sorveglianza.
Più in generale, l’intervento al Congresso del direttore dell’FBI, così come nei giorni precedenti di altre personalità dell’apparato della sicurezza degli Stati Uniti, a cominciare dal capo dell’NSA, generale Keith Alexander, fa parte della campagna in atto per difendere strenuamente il ricorso a programmi di sorveglianza palesemente illegali.Lo zelo con cui i politici di entrambi gli schieramenti e gran parte dei media “mainstream” stanno cercando di giustificare la violazione sistematica dei principi costituzionali degli Stati Uniti e della privacy dei cittadini di tutto il mondo dimostrano il panico diffuso tra la classe dirigente americana dopo le rivelazioni di Snowden.
La tesi sostenuta a oltranza della necessità di accettare una trascurabile invasione della sfera privata per vivere in un paese sicuro serve infatti a nascondere la realtà di un governo sempre più autoritario e invasivo che può continuare a mettere in atto politiche profondamente impopolari sia sul fronte domestico che internazionale solo grazie all’inganno, alla segretezza e, appunto, all’adozione di colossali programmi di sorveglianza per reprimere il dissenso.
Lo stesso presidente Obama, perciò, è da giorni in prima linea nel propagandare la presunta legalità dell’operato di agenzie come l’NSA. Sia alla vigilia della sua partenza per il G-8 in Irlanda del Nord, sia durante la recentissima visita a Berlino, l’inquilino della Casa Bianca si è sentito in dovere di difendere pubblicamente le intercettazioni e i programmi di sorveglianza.
Obama li ha così definiti strumenti fondamentali nella “guerra al terrore”, come dimostrerebbero i circa 50 attentati che essi, secondo la versione offerta al pubblico, hanno permesso di sventare negli ultimi anni. Ironicamente, le parole del presidente sono giunte solo pochi giorni dopo l’annuncio di un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Questa decisione si concretizzerà nella fornitura di armi letali proprio a formazioni dominate da gruppi terroristici, i quali, d’altra parte, da tempo vengono considerati alternativamente nemici o partner più o meno ufficiali a seconda delle necessità degli interessi strategici di Washington.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’ennesimo annuncio fatto martedì dagli Stati Uniti del lancio di negoziati di pace con i Talebani è andato subito incontro ad alcuni prevedibili ostacoli che già avevano caratterizzato i precedenti tentativi e che mettono a forte rischio anche solo l’apertura di un serio tavolo di discussione tra le due parti in conflitto da quasi dodici anni.
Il primo round di colloqui andrà in scena nella giornata di giovedì a Doha, la capitale del Qatar, dove i Talebani afgani hanno aperto un loro ufficio di rappresentanza. A darne notizia sono stati per primi gli americani, seguiti poche ore più tardi da un comunicato di conferma letto in diretta TV da un portavoce degli stessi Talebani, Muhammad Naeem.
In esso, questi ultimi hanno affermato di essere disposti ad acconsentire a due delle tre condizioni preliminari imposte dagli Stati Uniti per l’avvio di un confronto, vale a dire la volontà di cercare “una soluzione politica e pacifica al conflitto” e il dissociamento di fatto da Al-Qaeda, sostenendo di “non consentire a nessuno di minacciare la sicurezza di altri paesi [con operazioni organizzate] dal territorio dell’Afghanistan”. Della terza condizione - il rispetto della Costituzione afgana, inclusi i diritti delle donne e delle minoranze etniche e religiose - non c’è stata invece traccia nel comunicato ufficiale.
La notizia dei colloqui è stata commentata positivamente dall’amministrazione Obama, con lo stesso presidente democratico che prima di lasciare l’Irlanda del Nord, dove martedì si è chiuso il vertice del G-8, l’ha definita “un primo importante passo verso la riconciliazione”, nonostante rimangano “numerosi ostacoli lungo la strada”.
Per rafforzare l’impressone di un qualche progresso in atto nel lungo conflitto, l’annuncio da parte degli Stati Uniti è giunto intenzionalmente in concomitanza con la cerimonia ufficiale per il trasferimento formale dei compiti della cosiddetta “sicurezza primaria” in Afghanistan dalle forze NATO all’esercito indigeno.
Le difficoltà evocate da Obama si sono comunque materializzate immediatamente, quando mercoledì il presidente Karzai ha dato notizia della sospensione improvvisa dei negoziati in corso tra il suo governo e quello USA per finalizzare un accordo che consenta la presenza indefinita di un certo numero di truppe americane in territorio afgano dopo il 2014, quando tutto il contingente straniero dovrebbe lasciare il paese.
Nel giustificare la decisione, il fantoccio di Washington a Kabul ha criticato apertamente l’amministrazione Obama per la politica “imprevedibile” e “contraddittoria” messa in atto in Afghanistan, con un chiaro riferimento alla sua irritazione per l’annuncio dei colloqui di Doha. Il timore principale di Karzai sembra essere quello di rimanere tagliato fuori da un accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani, dal momento che, in uno scenario nel quale questi ultimi dovessero tornare a giocare un ruolo di primo piano nel panorama politico afgano, i colossali benefici di cui ha goduto il presidente per oltre un decennio assieme alla sua cerchia di potere finirebbero per svanire.Karzai, in realtà, si era più volte mostrato disponibile a trattare con i Talebani, come aveva confermato una sua visita a Doha a fine marzo per incontrare l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, durante la quale aveva invitato i membri del precedente regime fondamentalista a “tornare a casa nella loro terra”. Le trattative con i Talebani, però, dal suo punto di vista devono avvenire sotto la regia del governo di Kabul, mentre gli incontri di Doha con rappresentanti dell’amministrazione Obama dovrebbero essere soltanto un atto preliminare. I Talebani, invece, preferiscono discutere direttamente con gli USA, ben sapendo chi sia a muovere i fili a Kabul.
Il governo americano, in ogni caso, non deve avere preso troppo bene la reazione così dura di Karzai, la cui firma sul trattato che consentirà a qualche migliaia di truppe di rimanere indefinitamente in Afghanistan risulta fondamentale ai fini della propria strategia di lungo termine nella regione.
Avendo ormai preso atto dell’impossibilità di sconfiggere militarmente la resistenza all’occupazione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti intendono infatti coltivare rapporti con quelle fazioni talebane disposte a condividere il potere a Kabul con membri dell’attuale regime e, allo stesso tempo, ad accettare una presenza militare americana prolungata nel paese.
Uno scenario di questo genere è precisamente quello che Karzai aveva prospettato ai Talebani nella già ricordata trasferta di Doha meno di tre mesi fa, quando aveva affermato che gli americani “rimarranno anche dopo il 2014” e che essi “vogliono almeno cinque basi militari in diverse parti dell’Afghanistan, dal nord all’ovest del paese”.
La mancata integrazione di almeno una parte dei Talebani nel sistema politico afgano, assieme al ritiro totale delle forze di occupazione, invece, determinerebbe con ogni probabilità la fine del regime-fantoccio guidato da Karzai o dal successore che prenderà il suo posto dopo le elezioni presidenziali del prossimo anno, mettendo in serio pericolo la promozione degli interessi statunitensi in quest’area cruciale del pianeta.
L’importanza del raggiungimento di un trattato con Kabul per prolungare l’occupazione è stata confermata dagli stessi commenti rilasciati martedì dagli esponenti dell’amministrazione Obama sui colloqui di Doha, attentamente studiati, sia pure senza troppo successo, per non irritare Karzai. Gli USA hanno così ricordato che la discussione avrà obiettivi limitati e che di gran lunga più importanti saranno i negoziati di pace tra i Talebani e il governo Karzai. Quest’ultimo dovrebbe essere rappresentato dal cosiddetto Alto Consiglio per la Pace, i cui membri sono attesi dagli americani a Doha nelle prossime settimane.
Sul percorso di riconciliazione promosso dagli Stati Uniti pesa però anche l’incognita delle intenzioni dei Talebani. Innanzitutto, sono in molti a nutrire dubbi sull’effettiva autorità della delegazione talebana a Doha e sul fatto che essa rappresenti realmente i vertici degli “studenti del Corano”. Simili sospetti sono più che legittimi, soprattutto alla luce delle trattative segrete condotte nel recente passato a Kabul con un presunto comandante di primo piano dei Talebani che nel 2010 si rivelò essere un impostore.Per cercare di fugare ogni dubbio in questo senso, gli americani hanno assicurato nei giorni scorsi che la Commissione Politica dei Talebani con la quale terranno i primi colloqui giovedì in Qatar è stata pienamente autorizzata da tutte le fazioni del movimento e dal suo leader, il Mullah Muhammad Omar.
Inoltre, l’obiettivo dei colloqui per i Talebani coincide a fatica con quello degli Stati Uniti. L’incontro di Doha potrebbe infatti servire unicamente come palcoscenico di rilievo per guadagnare una qualche legittimità a livello internazionale in vista di un prossimo ritorno al potere a Kabul e, soprattutto, la ferma volontà americana di mantenere un consistente numero di propri soldati in Afghanistan dopo il 2014 si scontra in maniera evidente con i progetti talebani per il futuro del paese.
Questa realtà è apparsa in tutta la sua chiarezza proprio all’indomani dell’annuncio del vertice in Qatar, quando i Talebani hanno rivendicato un nuovo attacco contro gli occupanti, questa volta con il lancio di due missili sulla pista di atterraggio della base militare di Bagram, uccidendo quattro soldati americani.
Oltre a confermare che non ci saranno sconti sul campo di battaglia anche se i colloqui di pace dovessero proseguire, il testo della rivendicazione talebana dell’azione di mercoledì ha precisamente preso di mira il punto cardine dei piani degli Stati Uniti per il futuro dell’Afghanistan e da cui gli americani non saranno disposti a transigere nel corso dei negoziati, cioè la conservazione di una presenza militare di lungo periodo nel tormentato paese centro-asiatico.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Alla recente pubblicazione di documenti riservati che descrivono i programmi di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutto il pianeta, messi in atto dai vari organi dell’apparato della sicurezza degli Stati Uniti, si sono accompagnate in questi giorni altre rivelazioni che confermano come il governo di Washington stia procedendo a passo spedito verso la schedatura della maggior parte della popolazione americana al fine di controllare e reprimere ogni forma di dissenso.
In particolare, due ricerche apparse nei giorni scorsi su altrettanti giornali d’oltreoceano hanno alzato il velo sulla raccolta sistematica di campioni di DNA di persone non necessariamente sospettate di un qualche crimine e di immagini di individui da inserire in un sempre più sofisticato programma di riconoscimento facciale a cui possono attingere le autorità di polizia nell’ambito di qualsiasi indagine.
L’attenzione su quest’ultimo programma condotto in maniera silenziosa da vari Stati americani è stata portata da un articolo pubblicato lunedì dal Washington Post. Il database a disposizione delle autorità statali conserva oggi oltre 120 milioni di volti di persone, le cui immagini sono state in gran parte raccolte in relazione al rilascio di patenti di guida, ufficialmente per prevenire o risolvere frodi in questo ambito.
Le fotografie riportate sui documenti di identità vengono così acquisite dalle autorità e archiviate. Le immagini, tuttavia, possono essere ottenute anche in seguito al semplice fermo di una persona per il solo controllo dei documenti. In varie indagini, inoltre, le forze di polizia hanno ricavato immagini personali dai social network per poi inserirle in un programma di riconoscimento facciale con l’obiettivo di identificare i sospettati di un determinato crimine.
Come ha sottolineato il Washington Post, l’utilizzo di queste tecniche non risponde più soltanto a esigenze investigative, dal momento che nei database finiscono spesso “immagini di persone che non sono mai state arrestate”, i cui volti entrano comunque a far parte di una “raccolta digitale perpetua”. Ad essa, l’FBI e altre autorità federali possono così accedere facilmente e da qualsiasi località tramite un personal computer.Attualmente, gli Stati che utilizzano tecnologie di riconoscimento facciale per i propri registri delle patenti di guida sono 37, di cui almeno 26 consentono alle autorità di polizia federali, statali e locali di accedervi per cercare eventuali corrispondenze con persone sotto indagine.
L’attuale livello tecnologico non sembra garantire in molti casi un riconoscimento definitivo, soprattutto se la qualità dell’immagine a disposizione delle autorità non è ottimale, ma sarebbero già allo studio nuovi software che permettono un’identificazione precisa anche quando, ad esempio, un individuo entra per pochi secondi nell’inquadratura di una telecamera di sorveglianza oppure in caso di leggere variazioni dell’aspetto fisico.
Alcuni Stati per il momento impediscono alle autorità di polizia di fare ricerche nei database dei registri automobilistici ma la tendenza generale va in direzione esattamente opposta. Tanto più che la legge sull’immigrazione all’esame del Congresso proprio in questi giorni prevede, secondo il Washington Post, “la drammatica espansione dei sistemi elettronici di verifica fotografica, verosimilmente grazie all’accesso ai registri delle patenti di guida”.
In definitiva, il quadro legale in questo ambito risulta del tutto insufficiente e, come per la gigantesca banca dati delle comunicazioni elettroniche monitorate dalla NSA, l’utilizzo della tecnologia per il riconoscimento facciale da parte delle autorità va ben oltre le esigenze investigative su determinati crimini. Questo programma, infatti, potrebbe essere utilizzato, e con ogni probabilità viene già usato, in occasione di manifestazioni di protesta anti-governative, di scioperi o altri eventi di massa, durante i quali le immagini dei partecipanti possono essere raccolte da agenti di sicurezza o da telecamere di sorveglianza per essere poi conservate in un database nazionale a disposizione delle forze di polizia.
Come conferma l’articolo del Washington Post, d’altra parte, i programmi di riconoscimento facciale operano all’interno di archivi ben più consistenti di quello prodotto dai registri automobilistici dei vari Stati. L’archivio più grande è quello del Dipartimento di Stato, il quale raccoglie circa 230 milioni di immagini di cittadini americani in possesso di un passaporto e di stranieri che hanno richiesto un visto d’ingresso negli USA.
Complessivamente, gli uffici dei registri automobilistici, il Dipartimento di Stato, il sistema giudiziario, l’FBI e il Pentagono conservano qualcosa come 400 milioni di volti di americani e di cittadini di altri paesi. Queste immagini sono state ottenute in grandissima parte in violazione del Quarto Emendamento della Costituzione USA, senza cioè che le persone ritratte abbiano commesso alcun crimine e senza essere state informate dalle autorità americane.
L’altro programma di schedatura della popolazione, come già anticipato, è quello della raccolta del DNA. In questo caso era stato il New York Times a descrivere la scorsa settimana come le varie autorità di polizia del paese stiano da qualche tempo procedendo alla creazione di un vasto archivio in cui finiscono a tempo indeterminato campioni di DNA non solo di persone indagate per un crimine ma, in alcuni casi, anche di testimoni o addirittura vittime, il tutto a loro insaputa.
A preoccupare sono soprattutto le nuove banche dati di DNA create dalle forze di polizia locali, le quali operano pressoché in totale libertà e senza rispettare i diritti dei cittadini, al contrario degli archivi statali e federali, definiti dal NYT “altamente regolamentati”.I numeri nel caso del DNA sono inferiori rispetto alle immagini della banca dati per il riconoscimento facciale, anche se in alcuni casi tutt’altro che trascurabili. La città di New York, ad esempio, possiede un database con 11 mila campioni, mentre l’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Orange, in California, può vantarne più di 90 mila. Secondo una ricerca dell’Electronic Privacy Information Center il cosiddetto Combined DNA Indexing System - il database creato dall’FBI - è aumentato notevolmente negli ultimi anni e a livello nazionale contiene ora più di 11 milioni di profili.
Questi numeri aumenteranno vertiginosamente nel prossimo futuro grazie anche ad una sentenza della Corte Suprema di qualche giorno fa che rappresenta un nuovo aperto attacco ai diritti costituzionali degli americani. Il più importante tribunale degli Stati Uniti ha cioè approvato la raccolta di DNA di individui fermati dalla polizia e non ancora condannati, nonché la conservazione dei campioni e l’utilizzo in indagini di casi irrisolti, in relazione ai quali essi non sono sospettati.
Per il giudice Anthony Kennedy, che ha scritto il verdetto, l’ottenimento del DNA è una procedura compatibile con il dettato del Quarto Emendamento e sarebbe una pratica assimilabile, ad esempio, alla raccolta delle impronte digitali. Per il giudice di estrema destra Antonin Scalia che ha votato con la minoranza della Corte, invece, in seguito al verdetto nel caso Maryland contro King “il DNA potrà essere raccolto e inserito in una banca dati nazionale nell’eventualità che si venga arrestati, giustamente o meno, per qualsiasi ragione”, compresa la partecipazione ad una manifestazione contro il governo.
DNA e riconoscimento facciale, quindi, sono parte integrante dei programmi messi in atto da almeno un decennio dal governo americano con il pretesto della lotta al terrorismo e alla criminalità, ma in realtà destinati al controllo pervasivo di una popolazione sempre meno disponibile ad accettare in maniera passiva le politiche impopolari di una classe dirigente ampiamente screditata ed espressione unica della ristretta oligarchia economico e finanziaria che decide le sorti del paese.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Vincenzo Maddaloni
C’è un legame tra la copertura dei media occidentali alle proteste turche, le previsioni di Goldman Sachs su un crollo dell’economia turca e il fatto che il sistema bancario turco sia diventato l’interfaccia tramite cui l’Iran aggira le sanzioni economiche? Finora i fatti direbbero di sì, almeno per restare tra coloro che sanno che al di sopra del reale c'è il possibile.
Che Recep Tayyip Erdogan e il suo modello di Turchia fossero inclusi nell’elenco dei silurabili se n’era avuto sentore l’anno scorso,quando proprio qui, su “Altrenotizie” scrissi dell’articolo di David Goldman sul Middle East Quarterly, perché in esso si sentenziava l’imminente collasso del “miracolo economico” turco e lo si paragonava a quello argentino del 2000 e a quello messicano del 1994, entrambi avvenuti dopo periodi di espansione economica.
Goldman prevedeva che «la velocità e la magnitudo della battuta d’arresto», avrebbero potuto «facilmente erodere la capacità dell’AKP di governare con il pragmatismo piuttosto che con l’ideologia islamista»; sicché era ipotizzabile anche in Turchia un’esplosione religiosa che - prevedeva ancora Goldman - avrebbe impedito al premier Erdogan «di utilizzare gli incentivi economici per disinnescare il separatismo curdo, contenere l’opposizione interna e far conquistare alla Turchia un ruolo di primo piano in Medio Oriente». Insomma, ci sarebbero stati tutti i presupposti, lasciava intendere Goldman, perché nella Regione si scatenasse un’altra guerra.
Quello che Goldman non diceva era che il primo ministro Recep Tayyip Erdogan governava con un grande sostegno popolare raggiunto con il successo di un’economia che, viaggiando con ritmi cinesi, gli aveva permesso di vincere tre elezioni di fila. E così, forte del consenso delle masse, egli in dieci anni di continuo governo aveva potuto devitalizzare di molto il potere della vecchia guardia dei militari filo atlantici e laici, modificando così l’assetto degli equilibri politici sul Bosforo. Beninteso, pure la Turchia ha accusato i colpi della recessione, un rallentamento dell’economia turca c’è stato, ma non con la tragicità indicata da Goldman, poiché il tasso di crescita della Turchia previsto per il 2013 (tra il 4 e il 5 per cento) resta ancora alto rispetto agli standard europei.Pertanto, fino a pochi mesi fa Erdogan era considerato un vincente, l’uomo che aveva tutte le credenziali per essere accreditato come il leader (musulmano), l’unico in grado di rasserenare quel clima d’incertezza politica che s’è creato con la “primavera araba” in tutto il Medio Oriente e non soltanto in esso.
Sicché appare quanto mai strano che quella che era iniziata come una protesta contro l'abbattimento degli alberi di un parco - Gezi Parki - adiacente a piazza Taksim, nel cuore della Istanbul moderna, sia rapidamente cresciuta fino a diventare una rivolta contro il governo del premier. Infatti, per più giorni la stampa internazionale ha raccontato le battaglie urbane di piazza Taksim, ha denunciato la dura repressione delle forze dell’ordine non soltanto ad Istanbul, ma anche nella capitale Ankara.
Naturalmente, il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu aveva attaccato «certi circoli» dei media internazionali, che a suo giudizio sono impegnati a danneggiare l’immagine della Turchia. «Se facciamo un paragone», aveva detto il ministro alla tv privata Haber Turk, «il resoconto dei media internazionali sulle proteste di Piazza Taksim è molto diverso dalla realtà di ciò che accade». Anche l’agenzia di Stato Anadolu ha lanciato una campagna contro i media internazionali, per denunciare la copertura «diffamante» che si dava della protesta di Piazza Taksim.
La campagna ha avuto la sua piattaforma principale su Twitter, dove molti messaggi con l’hashtag «YouCANTstopTurkishSuccess» hanno attaccato i media internazionali per il modo in cui hanno dato notizia delle proteste, come se si trattasse di una guerra civile o una rivolta in stile arabo. Campagne analoghe sono state lanciate con hashtag come «GoHomeLiarCNNbbcANDreuters» (andate via Cnn, Bbc e Reuters bugiarde) e «occupyLondon», che prendeva di mira il G8 che sarà ospitato dalla capitale britannica.
Tuttavia prima di esprimere un giudizio, non andrebbe dimenticato che la Turchia ha ottantacinque milioni di abitanti a schiacciante maggioranza islamica, che è il secondo paese Nato per potenza militare e che ha un forte orgoglio nazionale, memore della storia imperiale ottomana. Insomma ha un “curriculum” degno di una nazione che aspira a un ruolo di leader in un’area delicata com’è il Medio Oriente, e che poteva avvalersi finora pochi mesi fa del forte sostegno degli Stati Uniti.
Poi il rapporto è mutato. Il vertice del maggio scorso tra il presidente americano e il premier turco sulla Siria, ma soprattutto sugli scambi economici tra Stati Uniti e Turchia, ha dato risultati più ambigui di quanto sia emerso dall'ufficialità. Più che dalla guerra siriana ora i sonni di Erdogan sono turbati dal rischio di un fiasco sul fronte economico che in prospettiva potrebbe essergli fatale. Si tenga a mente che le sue vittorie travolgenti e quelle del partito islamico conservatore Akp si sono fondate in questo decennio sui successi economici (una crescita media dal 2002 a oggi del 5,2 per cento annuo), non sulla religione o sui progetti di ricostituire una sfera di influenza neo-ottomana, come molti commentatori lasciano intendere.Sicché, pur di mantenere alta la crescita economica, Erdogan ha aperto persino all’Iran. L’idea è chiara: offrire agli iraniani la licenza bancaria turca perché essi possano concludere le transazioni commerciali quando scatteranno le sanzioni internazionali contro la banca centrale iraniana, e inoltre perché essi possano con i proventi petroliferi finanziare le numerose società iraniane che operano in e dalla Turchia.
Infatti non sono soltanto le grandi banche come la Tejarat Bank e la Pasargad Bank di Teheran a correre ad Istanbul, ma già più di duemila società commerciali persiane hanno aperto filiali in Turchia. Tant’è che sono diventati ormai moltitudine i turchi che sono partner commerciali e bancari degli iraniani. Stando così le cose non ci vuol molto a capire la nevrosi di Israele che da anni si inventa pretesti per coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra contro gli Ayatollah.
Recep Tayyip Erdogan gliene ha offerti parecchi. Infatti, é Recep Tayyip Erdogan che chiede a viva voce il riconoscimento dello Stato palestinese. «Non è un’opzione, è un dovere», dichiara il primo ministro turco nel suo intervento alla Lega Araba durante il quale afferma che il contenzioso palestinese non è una questione da classificare come «ordinaria amministrazione» perché riguarda «la dignità dell’essere umano». E così, il 20 di settembre di due anni fa il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen poté presentarsi al Palazzo di Vetro e richiedere il riconoscimento della Palestina come Stato indipendente, il 194° membro delle Nazioni Unite.
E’ ancora Recep Tayyip Erdogan che lancia un messaggio a Israele tutt’altro che conciliante. Non ci sarà - avverte - nessuna normalizzazione tra la Turchia e lo Stato ebraico di Israele, se quest’ultimo non rispetterà le condizioni poste da Ankara e cioè le scuse per l’attacco alla flottiglia umanitaria, l’indennizzo delle vittime e la revoca dell’embargo su Gaza. Se si pensa che ancora in anni recenti la marina israeliana e quella turca compivano le manovre congiunte sotto l’egida della Nato, si può capire l’ansia di Tel Aviv quando si era saputo che nei radar della flotta turca, le navi e gli aerei israeliani non erano più segnalati come «amici», ma come «ostili». Le scuse arriveranno soltanto nel marzo di quest’anno.
E’ Benjamin Netanyahu a pronunciarle al telefono che gli aveva messo in mano Barack Obama. Il premier israeliano sapeva quello che doveva dire, sebbene né lui né Avigdor Lieberman (l’alleato politico e leader ultranazionalista) l’avrebbero mai voluto dire. Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha ascoltato Netanyahu mentre si scusava «con il popolo turco per ogni errore che potrebbe aver causato la perdita di vite umane» e prometteva che i due Paesi avrebbero trovato un accordo per risarcire le vittime. All’aeroporto di Tel Aviv - così imponendo - il Presidente americano prima di risalire sull’Air Force One alla fine di una visita di tre giorni in Israele, si era accaparrato un risultato importante, poiché l’alleanza tra lo Stato ebraico e la Turchia (ne sono tuttora convinti i generali del Pentagono) andava ristabilita per poter affrontare la crisi siriana e la questione dell’atomica iraniana.
Facile da dire, difficile da attuare l’alleanza, se si pensa che soltanto pochi giorni prima della famosa telefonata, Erdogan aveva definito il sionismo «un crimine contro l’umanità». Dopotutto sono le divergenze tra i due Stati che hanno spinto la banca d’affari e di investimenti Goldman Sachs a consigliare ai propri clienti di liberarsi in fretta di tutti i titoli della seconda più grande banca privata turca, la “Garanti Bakasi”. L’obiettivo s’era rivelato da subito non facile da raggiungere perché la Turchia - come detto - è al quinto posto, tra i grandi dell’economia mondiale. Pertanto, per rassicurare i suoi clienti più perplessi e incoraggiare quelli ancora indecisi si era ricorsi all’ “autorevole” David Goldman, il quale nell’ormai famoso articolo sul Middle East Quarterly aveva predetto il crollo economico della Turchia nel 2012, convincendo i clienti più dubbiosi, almeno così sostengono al Goldman Sachs Group.Stando così le cose, ci vuole poco a capire perché gli spasmi di protagonismo di Erdogan abbiano cominciato ad irritare anche gli Stati Uniti. Ne è una testimonianza l’incontro di Washington del 16 maggio scorso durante il quale egli aveva chiesto a Obama che la Turchia non restasse fuori dalla Translatlantic Trade and Investment Partnership, il progetto di zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti. Ma il Presidente americano oggi più di quel giorno di maggio continua ad esitare, sebbene la sua esclusione potrebbe portare a una contrazione del 2,5% del Pil turco. Se ciò accadesse si confermerebbe il catastrofico scenario evocato da David Goldman.
Dopodiché il 27 maggio, undici giorni dopo l’incontro con Obama a Washington, sono cominciate le manifestazioni nel cuore di Istanbul con l'obiettivo di impedire l'abbattimento dei seicento alberi di Gezi Parki per permettere l'ammodernamento di piazza Taksim pianificato da Governo. Con il passare dei giorni le proteste si sono allargate anche in altre città, in particolare nella capitale Ankara e a Smirne. L'escalation si è avuta il 31 maggio con la diffusione planetaria delle immagini delle cariche della polizia contro i manifestanti, con il massiccio uso dei lacrimogeni e dei cannoni ad acqua.
Tra i tanti messaggi di condanna c’è anche quello del Parlamento Ue nel quale si esprime preoccupazione per «l'uso sproporzionato ed eccessivo della forza» da parte della polizia turca e si deplorano, «le reazioni del governo turco e del primo ministro Erdogan». Nel comunicato infatti si accusa come mai era accaduto prima, lo stesso premier di acuire la polarizzazione della situazione. Per completare il quadro sarebbe interessante conoscere le intenzioni di Mark Patterson, il lobbista della Goldman Sachs che è alla testa dello staff del segretario del Tesoro Jacob Joseph Lew.
Si tenga a mente che molti sono gli ex funzionari della Goldman Sachs presenti nella amministrazione di Barack Obama, sebbene nella campagna presidenziale egli avesse promesso che l’influenza dei lobbisti nella sua amministrazione sarebbe stata ridimensionata. L’ U.S. News & World Report ne fornisce un lungo elenco. Sicché tutto lascia pensare che Erdogan rischi davvero di soccombere, e con lui il suo modello turco. Chissà se è hanno già individuato il sostituto. Bisognerebbe chiederlo alla Goldman Sachs.
www.vincenzomaddaloni.it