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di Mario Lombardo
Le rivelazioni legate alle attività incostituzionali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) stanno continuando incessantemente in queste settimane nonostante l’attenzione dei media di tutto il mondo sia concentrata sulla crisi in Siria. La più recente notizia relativa all’indifferenza dell’NSA per le più normali regole democratiche e della privacy è stata diffusa martedì e descrive come l’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, abbia avuto accesso alle informazioni telefoniche di migliaia di utenti in contravvenzione anche delle già deboli limitazioni imposte dalla legge degli Stati Uniti.
Grazie al "Freedom of Information Act", una serie di documenti riservati sono stati finalmente declassificati in seguito ad una richiesta presentata dall’American Civil Liberties Union e dall’Electronic Frontier Foundation, tra cui un atto ufficiale del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) - incaricato di valutare e autorizzare segretamente le richieste di intercettazione sottoposte dalle varie agenzie governative - insolitamente critico dell’operato dell’NSA.
Nel documento, il giudice del FISC Reggie Walton rimprovera l’agenzia per avere setacciato dati telefonici di migliaia di americani senza ragione e in violazione delle esili norme sulla privacy fissate dallo stesso tribunale. Il periodo di tempo entro il quale ciò è avvenuto va dal maggio del 2006 al gennaio del 2009.
La condotta illegale degli agenti dell’NSA sarebbe stata rilevata dal Dipartimento di Giustizia che ha poi segnalato i fatti al FISC. Come fa notare eufemisticamente il Washington Post, il fatto che i vertici dell’NSA non abbiano mosso un dito per impedire questa ennesima violazione della privacy dei cittadini contraddice le loro pretese di condurre scrupolosi controlli interni per garantire la messa in atto di operazioni esclusivamente “legali”.
Le anomalie riscontrate dal Dipartimento di Giustizia di Washington su cui si basa il documento firmato dal giudice Walton riguardano la compilazione da parte dell’NSA di una lista di quasi 18 mila numeri di telefono di individui potenzialmente collegati a minacce alla sicurezza nazionale che venivano confrontati con le conversazioni di praticamente tutti gli americani intercettate ogni giorno.Secondo il FISC, l’NSA aveva creato la suddetta lista di numeri da tenere sotto osservazione senza prestare la dovuta attenzione ai limiti di legge, vale a dire senza che vi fosse un “ragionevole sospetto” che gli stessi numeri telefonici fossero collegati ad attività terroristiche.
Per il giudice Walton, infatti, solo il 10% di queste utenze sollevavano dubbi legittimi di terrorismo, mentre gli altri erano finiti sotto la lente d’ingrandimento dell’NSA senza ragione o, più probabilmente, perché relativi a persone considerate una “minaccia” per la sicurezza del paese a causa di attività non legate al terrorismo e quindi intercettate in maniera illegittima anche secondo gli standard del governo americano.
Le critiche del giudice del FISC rivelano un sistematico superamento dei limiti imposti all’NSA, tanto che “le procedure per la difesa della privacy non hanno mai funzionato pienamente”, così che gli agenti hanno avuto regolarmente accesso ai dati telefonici “in violazione degli ordini del Tribunale”. Questa considerazione smentisce clamorosamente le dichiarazioni rilasciate dai rappresentanti dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti nelle quali è stato più volte assicurato lo scrupoloso rispetto dei limiti fissati dal governo e dal Congresso nella raccolta di informazioni sensibili.
Le irregolarità, come è facile prevedere, non hanno riguardato solo la questione sollevata dal giudice Walton, visto che un’indagine interna dell’NSA iniziata nel febbraio del 2009 e condotta in collaborazione con il Dipartimento di Stato aveva rilevato svariate altre infrazioni alle norme.
Le regole violate in questa circostanza dall’NSA, oltretutto, risultano esse stesse quanto meno discutibili e sono state al centro di accese polemiche nei mesi scorsi in quanto autorizzano la raccolta e la conservazione di “metadati” telefonici di qualsiasi utente americano o straniero.
La giustificazione addotta per queste attività illegali dal direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, risulta a dir poco assurda, come scrisse lo stesso giudice Walton, e cioè che il personale dell’agenzia riteneva che gli svariati database dei numeri telefonici a loro disposizione non fossero coperti dalle stesse norme della privacy e, quindi, quello contenente i già ricordati 18 mila numeri poteva essere consultato liberamente.
Un esponente dell’intelligence americana sentito nei giorni scorsi dal New York Times ha affermato invece, altrettanto assurdamente, che il comportamento illegale dell’NSA condannato nei documenti del FISC appena pubblicati non sarebbe stato intenzionale, bensì conseguenza soltanto di incomprensioni dovute a complesse problematiche di natura tecnica.Come ha confermato in questi mesi una lunga serie di rivelazioni emerse grazie all’ex contractor Edward Snowden, L’NSA opera in realtà pressoché integralmente al di fuori non solo di qualsiasi principio democratico ma anche delle stesse norme di legge create appositamente dal Congresso americano per legittimare il calpestamento delle garanzie costituzionali in nome della “guerra al terrore”.
A mettere in luce l’aspetto più inquietante della vicenda è stato lo stesso giudice del FISC, Reggie Walton, il quale nel suo parere del marzo 2009 esprimeva un profondo scetticismo circa l’utilità del programma di sorveglianza dell’NSA, sottolineando come simili operazioni fossero sfociate in appena tre “indagini preliminari” dell’FBI basate su intercettazioni raccolte nei modi descritti.
Quest’ultimo commento conferma dunque ancora una volta come l’apparato degno di uno stato di polizia creato da oltre un decennio negli Stati Uniti non abbia come scopo principale quello di combattere o prevenire minacce terroristiche, ma di esercitare un controllo pervasivo sulla popolazione per contrastare qualsiasi minaccia ad un governo sempre più screditato.
Le più recenti rivelazioni diffuse martedì seguono di meno di un mese la pubblicazione di un altro parere del Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera, questa volta risalente al 2011 e nel quale veniva nuovamente criticata l’NSA per ulteriori violazioni della legge in relazione ad un diverso programma di sorveglianza.
La settimana scorsa, infine, il britannico Guardian e il New York Times avevano pubblicato alcuni documenti ottenuti da Snowden che dimostravano come l’NSA abbia la facoltà di abbattere ogni protezione della privacy teoricamente garantita nelle comunicazioni Internet, essendo riuscita da tempo a neutralizzare i sistemi di crittografia comunemente usati sia negli USA che a livello internazionale.
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di Michele Paris
A seguito della proposta lanciata dal ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per cercare di fermare l’aggressione militare americana contro la Siria, il governo francese ha annunciato martedì di volere trasformare l’ipotesi di porre l’arsenale chimico di Damasco sotto il controllo internazionale in una risoluzione da presentare al Consiglio di Sicurezza ONU. Le intenzioni di Parigi, però, non sono dirette ad evitare un nuovo conflitto in Medio Oriente, bensì a gettare basi teoricamente più solide per un intervento armato contro il regime di Assad, legittimato in apparenza da un mandato autorevole come quello delle Nazioni Unite.
A dare notizia del proposito della Francia è stato martedì il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, il quale ha fatto sapere che il governo Socialista redigerà un testo che, a suo dire, dovrebbe servire a “misurare le intenzioni” di Russia e Cina che, dopo avere finora impedito l’approvazione di qualsiasi misura per facilitare la rimozione di Assad, hanno dato la loro approvazione al piano sul monitoraggio delle armi chimiche siriane.
Come è noto, quest’ultimo era scaturito lunedì da una frase del segretario di Stato americano, John Kerry, che ha avuto conseguenze inaspettate. Rispondendo alla domanda di un reporter nel corso di una conferenza stampa a Londra, il capo della diplomazia USA aveva cioè affermato, con ogni probabilità in maniera retorica, che per evitare un attacco contro il proprio paese, Assad avrebbe dovuto “consegnare ogni sua arma chimica alla comunità internazionale entro la prossima settimana”.
Sul volo di ritorno dalla Gran Bretagna, Kerry è stato poi raggiunto telefonicamente dal suo omologo russo Lavrov che gli ha comunicato la nuova proposta, rivelata pubblicamente ancora prima dell’arrivo dell’ex senatore democratico negli Stati Uniti.
Con una mossa che ha allo stesso tempo messo in imbarazzo un governo di Washington sempre più in confusione e offerto una via d’uscita alla Casa Bianca quanto meno per ritardare un’operazione militare profondamente impopolare, Lavrov ha annunciato di volere lavorare con Damasco per studiare un meccanismo che porti l’arsenale siriano sotto la supervisione ONU, nonché alla sua distruzione finale.
Il piano russo è stato immediatamente accettato dal ministro degli Esteri di Assad, Walid al-Moallem, e poco dopo ha ricevuto da più parti una sostanziale approvazione, a cominciare da Teheran e Pechino ma anche da svariati governi occidentali dimostratisi molto cauti nei giorni scorsi nei confronti delle mire belliche statunitensi.
Le diverse motivazioni dietro l’accettazione della proposta Lavrov da parte di sostenitori e oppositori di Assad sono apparse però quasi subito evidenti, gettando più di un’ombra sulle probabilità di riuscita del piano.
Ciò è risultato chiaro proprio dalla presa di posizione di martedì del ministro degli Esteri francese Fabius, il cui proposito di ratificare con spirito bipartisan un piano apparentemente condiviso da tutte le parti in causa attraverso un voto ONU è stato contraddetto dal probabile contenuto che avrà la risoluzione a cui si sta lavorando a Parigi.
Il testo prefigurato da Fabius, infatti, dovrebbe finire per condannare ugualmente il “massacro del 21 agosto [a Ghouta, presso Damasco, con armi chimiche] commesso dal regime siriano” anche senza prove concrete della responsabilità di quest’ultimo.
Inoltre, se Assad non dovesse adeguarsi alle indicazioni contenute nella risoluzione, sarebbero previste “serie conseguenze”, cioè verrebbe giustificato l’uso della forza, come accadde al regime di Saddam Hussein nonostante la collaborazione mostrata con gli ispettori ONU alla ricerca di armi di distruzione di massa in Iraq.In sostanza, la Francia e l’Occidente in generale sarebbero pronti a sfruttare ogni possibile controversia o incertezza nel processo di smantellamento dell’arsenale bellico siriano per puntare il dito contro un regime non disposto a collaborare con la comunità internazionale, così da avere la copertura necessaria per condurre un’operazione militare volta al cambio di regime che Parigi e Washington stanno faticando in questi giorni a giustificare.
Tale eventualità, anche dando per scontato che Damasco e i vari governi coinvolti riescano a raggiungere un difficile accordo, sembra tanto più probabile quanto appare complesso e pieno di ostacoli il processo di individuazione, catalogazione e trasferimento delle armi chimiche in possesso di Assad.
Se, inoltre, le condizioni imposte dall’Occidente per intraprendere un percorso di questo genere dovessero prevedere il passaggio attraverso una risoluzione ONU come quella prospettata dal ministro francese Fabius, Russia e Cina ricorrerebbero con ogni probabilità al loro diritto di veto, facendo naufragare l’intero progetto.
L’obiettivo immediato dell’amministrazione Obama, in ogni caso, sembra essere quello di impedire che il processo messo in moto dalle parole incaute di Kerry finisca per togliere l’opzione militare dal dibattito in corso sulla Siria. Inizialmente, addirittura, dal Dipartimento di Stato erano giunte tempestive rettifiche alla frase del Segretario per chiarire come l’ipotesi che Assad consegni le proprie armi chimiche per evitare la guerra fosse puramente “retorica”.
In seguito alla mossa di Lavrov, tuttavia, questa proposta è diventata in fretta la notizia del giorno, con politici ed esponenti di governi di mezzo mondo che hanno espresso almeno la loro disponibilità a valutare un accordo con Damasco negoziato dal Cremlino.
Numerosi membri del Congresso americano, ad esempio, hanno preso la palla al balzo manifestando il loro ottimismo per una soluzione pacifica, soprattutto coloro che sembravano intenzionati a votare contro la richiesta di autorizzazione all’uso della forza in Siria e che temevano di essere criticati dalla Casa Bianca per non avere saputo rispondere in maniera ferma ad un presunto attacco con armi chimiche.
Lo stesso presidente Obama, alla fine, ha preso atto della nuova situazione e nella serata di lunedì ha anch’egli definito “fattibile” la proposta Lavrov. L’inversione di marcia del presidente è giunta significativamente al termine di una giornata trascorsa nel tentativo di convincere i “congressmen” americani ad approvare l’aggressione contro la Siria e alla sua frenata deve avere contribuito anche la pubblicazione di ulteriori sondaggi sui media americani che hanno evidenziato nuovamente la freddezza della popolazione per un’altra guerra imperialista nascosta dietro motivazioni umanitarie.
Obama ha comunque tutt’altro che abbandonato i propositi di guerra, tanto che alla CNN ha chiarito come un accordo accettabile sulle armi chimiche di Assad possa essere raggiunto solo mantenendo viva la “minaccia militare” contro Damasco.
Il primo effetto concreto dell’ipotesi circolata lunedì è stato così il rinvio del voto previsto per mercoledì al Senato americano sull’autorizzazione all’uso della forza in Siria secondo il testo approvato settimana scorsa dalla commissione Esteri.
Ad annunciarlo è stato il leader democratico di maggioranza, Harry Reid, dopo avere incassato nel corso della giornata alcune defezioni di compagni di partito contrari alla guerra e in previsione di una umiliante sconfitta per Obama nel ramo del Congresso dove i numeri sembravano essere più favorevoli alla Casa Bianca.
Gli sforzi del governo americano per giungere ad un intervento militare non saranno comunque interrotti nei prossimi giorni, durante i quali è facile prevedere l’insorgere di “complicazioni” al piano Lavrov o di novità sul campo che accelererebbero nuovamente i preparativi di guerra.La propaganda di Washington, perciò, non sembra dover cessare in seguito ai nuovi sviluppi favoriti dalla Russia, come ha confermato lunedì la consigliera per la sicurezza nazionale di Obama, il falco degli interventi umanitari Susan Rice. In un intervento presso il think tank "New America Foundation", quest’ultima ha infatti ribadito la necessità di un’aggressione militare contro la Siria facendo riferimento cinicamente ai bambini morti nell’attacco a Ghouta del 21 agosto condotto con buone probabilità proprio dai “ribelli” appoggiati dall’Occidente.
Nella stessa uscita pubblica, l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite ha inoltre affermato che l’uso di armi chimiche deve essere punito anche perché potrebbe diventare “una minaccia diretta per il nostro principale alleato nella regione”, vale a dire Israele.
Curiosamente, queste ultime parole della Rice sono giunte poco dopo la rivelazione da parte del network Russia Today di una possibile nuova provocazione dei “ribelli” siriani, i quali starebbero valutando l’ipotesi di lanciare un attacco con armi chimiche contro Israele da località sotto il controllo del regime, così da far ricadere ancora una volta la colpa su Assad e spianare definitivamente la strada verso una guerra totale nel paese mediorientale.
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di Michele Paris
Le sempre più inconsistenti basi su cui si fondano le accuse degli Stati Uniti contro il regime siriano di avere utilizzato armi chimiche in un attacco contro i “ribelli” il 21 agosto scorso nei pressi di Damasco, sono state ulteriormente screditate nella giornata di lunedì dalle dichiarazioni dell’insegnate belga Pierre Piccinin, compagno di prigionia per cinque mesi del reporter della Stampa, Domenico Quirico, nel paese mediorientale.
Poco prima dell’arrivo di quest’ultimo in Procura a Roma, Piccinin ha rilasciato un’intervista alla radio belga RTL nella quale, oltre a raccontare alcuni episodi del loro sequestro nelle mani degli integralisti islamici che compongono gran parte dell’opposizione al regime appoggiata dall’Occidente, ha sostenuto di essere certo del fatto che non siano state le forze di Bashar al-Assad ad avere fatto ricorso “al gas sarin o a un altro gas nella periferia di Damasco”.
Piccinin afferma di averne la certezza, dal momento che lui e Quirico hanno avuto modo di ascoltare direttamente una conversazione dei ribelli su questo argomento. La testimonianza dello storico belga appare estremamente rilevante, dal momento che egli, così come l’inviato della stampa, aveva manifestato un entusiasmo iniziale per i “ribelli” siriani. Piccinin ha evitato di fornire ulteriori dettagli in attesa degli interrogatori della Procura ma ha definito la sua presa di posizione sull’innocenza di Assad come “un dovere morale”.
Dopo essere venuti a conoscenza delle responsabilità dei “ribelli” nei fatti di Ghouta, serviti a Washington per scatenare una campagna propagandistica volta a legittimare un intervento armato in Siria, il 31 agosto Piccinin e Quirico hanno appreso dei piani di guerra dell’amministrazione Obama. I due, perciò, avevano “la testa in fiamme”, perché “prigionieri laggiù con questa informazione [dell’innocenza del regime] senza la possibilità di diffonderla”.
Le dichiarazioni di Piccinin non devono essere state particolarmente gradite dal direttore della Stampa, Mario Calabresi, né dallo stesso Quirico, il quale è successivamente intervenuto cercando di gettare acqua sul fuoco pur confermando le parole del compagno di prigionia. Il giornalista del quotidiano torinese ha ribadito di avere ascoltato la conversazione sull’attacco con armi chimiche nella quale si diceva chiaramente come l’operazione fosse stata condotta dai “ribelli come provocazione per indurre l’Occidente a intervenire militarmente”. Allo stesso tempo, Quirico ha affermato di non avere elementi per giudicare o appurare la veridicità di quanto ascoltato, aggiungendo che sarebbe “folle dire che io sappia che non è stato Assad a usare i gas”.
Se gli scrupoli di Quirico appaiono legittimi, la sua testimonianza diretta rimane un elemento di estrema rilevanza, soprattutto alla luce delle “prove” presentate dagli Stati Uniti e dai loro alleati a sostegno della tesi opposta e che consistono, tra l’altro, in filmati realizzati dai “ribelli” e in dubbie intercettazioni telefoniche frutto degli sforzi dell’intelligence israeliana.
La liberazione di Quirico e Piccinin è stata poi commentata dai vertici del cosiddetto Esercito Libero della Siria (ELS) che ha scaricato le responsabilità del rapimento sul Fronte al-Nusra, una delle principali formazioni integraliste affiliata ad al-Qaeda che compongono la galassia dell’opposizione anti-Assad. Il portavoce dell’ELS, secondo il quale anche il gesuita sostenitore del regime Paolo Dall’Oglio sarebbe nelle mani di al-Nusra, ha poi cercato di confondere le idee all’opinione pubblica internazionale, sostenendo che questo gruppo fondamentalista sarebbe “estraneo alla rivoluzione”, in quanto “più vicino al regime che alle opposizioni che combattono Assad”.
I tentativi di ripulire la propria immagine da parte dell’ELS sono però quanto meno patetici, visto che questa organizzazione screditata opera a fianco dei raggruppamenti affiliati al terrorismo internazionale sunnita, di fatto sfruttati anche dall’Occidente, dalla Turchia e dalle monarchie assolute del Golfo Persico come avanguardia nella lotta per la rimozione di Assad.
In maniera ancora più assurda e nel tentativo disperato di occultare quella che appare come una vera e propria alleanza tra, da una parte, i “ribelli” secolari e l’Occidente e, dall’altra, guerriglieri gravitanti nell’orbita di al-Qaeda, il portavoce dell’ELS ha infine sostenuto che padre Dall’Oglio sarebbe stato catturato “per assecondare una richiesta da parte di Damasco finalizzata a screditare la rivoluzione”.
Ciò che appare inesorabilmente screditata, in realtà, non è solo la stessa presunta “rivoluzione” in corso in Siria ma anche e sempre più la pretesa degli Stati Uniti sia di essere in possesso di prove certe della responsabilità di Assad nell’attacco con armi chimiche a Ghouta sia di volere condurre un’operazione militare contro la Siria di portata limitata.Sulla base delle false accuse denunciate anche da Pierre Piccinin, infatti, l’amministrazione Obama sta cercando un’autorizzazione formale del Congresso di Washington per portare a termine un’aggressione militare a tutto campo che ben poco ha a che vedere con l’uso di armi chimiche e che mira invece a provocare un cambio di regime a Damasco.
Come ha confermato un articolo pubblicato domenica dal Los Angeles Times, il Pentagono starebbe ultimando i preparativi per uno sforzo bellico di ampia portata, con bombardamenti previsti per un periodo di tempo più lungo rispetto a quanto affermato pubblicamente dal governo statunitense.
A parlare al quotidiano californiano sono stati anonimi ufficiali dell’esercito, secondo i quali la Casa Bianca avrebbe inoltre chiesto al Dipartimento della Difesa di “espandere la lista degli obiettivi da colpire”, oltre ai 50 inizialmente selezionati.
I piani del Pentagono confermano l’imminenza di una guerra dalle conseguenze rovinose e con un numero elevatissimo di vittime. In particolare, la forza di fuoco americana si baserebbe sull’uso di missili Tomahawk lanciati da cinque navi da guerra già posizionate nel Mediterraneo e su possibili incursioni di aerei militari. Lo scopo della guerra, in definitiva, risulta essere quello di “degradare” le possibilità di difesa del regime di Damasco, in preparazione di ulteriori iniziative tutt’altro che da escludere come l’imposizione di una no-fly zone o, addirittura, un’invasione con truppe di terra.
Secondo i media americani, la decisione di utilizzare maggiore forza rispetto ai piani originari servirebbe ad assicurare agli USA l’effettiva distruzione dei bersagli eventualmente mancati nella prima fase delle operazioni e a punire possibili ritorsioni da parte delle forze regolari siriane. In altre parole, la più che legittima difesa di Assad contro un’aggressione criminale verrebbe utilizzata da Washington per infliggere una nuova e ancora più dura punizione all’esercito e alla popolazione della Siria.
Assieme al procedere della macchina della propaganda americana continuano in ogni caso ad emergere anche le contraddizioni di un’operazione che viola ogni norma del diritto internazionale. Se il governo americano nel fine settimana ha diffuso una serie di filmati di dubbia autenticità che mostrano alcune vittime delle armi chimiche a Ghouta senza provare minimamente chi siano i responsabili dell’accaduto, gli stessi vertici dell’amministrazione Obama hanno nuovamente dovuto ammettere di non avere alcuna certezza circa la colpevolezza di Assad.
In un blitz nei talk show trasmessi dalle principali reti televisive USA nella giornata di domenica, ad esempio, il capo di gabinetto della Casa Bianca, Denis McDonough, ha riconosciuto che il suo governo non dispone di “prove irrefutabili che vadano al di là di ogni ragionevole dubbio” sui fatti di Ghouta.
Anche all’interno della comunità dell’intelligence a stelle e strisce, d’altra parte, non sembra esserci stata alcuna unanimità di giudizio sull’attacco del 21 agosto con gas sarin o altri agenti chimici letali. La versione propagandata dalla Casa Bianca e dagli uomini di Obama alla stampa e nelle varie audizioni al Congresso nei giorni scorsi, come ha rivelato un’indagine del giornalista americano Gareth Porter uscita lunedì sul sito web dell’agenzia di stampa IPS News, non è infatti basata sulla effettiva valutazione dei servizi segreti ma riflette piuttosto una decisione presa in maniera unilaterale dall’amministrazione democratica.In sostanza, scrive Porter, “la Casa Bianca ha selezionato quegli elementi delle analisi dell’intelligence che supportavano i piani dell’amministrazione di colpire militarmente il governo siriano e ha escluso invece quelli andavano contro questi stessi piani”.
L’amministrazione Obama, in definitiva, aveva da tempo programmato un’aggressione contro la Siria in attesa di un’occasione propizia, come lo è stato appunto il presunto attacco con armi chimiche a Ghouta con ogni probabilità opera dei “ribelli” stessi, in seguito alla quale ha presentato una propria valutazione basata sulla manipolazione degli stessi rapporti delle agenzie di intelligence americane.
Ancora più delle manovre che portarono all’invasione e alla devastazione dell’Iraq nel 2003, dunque, un’amministrazione Obama sempre più isolata e screditata sta procedendo in maniera spedita verso un’altra guerra criminale dalle conseguenze incalcolabili esclusivamente sulla base di menzogne e prove senza fondamento, così da abbattere un regime sgradito ed espandere la propria influenza nella regione mediorientale.
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di Mario Lombardo
Le manovre e i discutibili colpi di mano messi disperatamente in atto alla vigilia delle elezioni generali di sabato scorso non sono servite al Partito Laburista australiano ad evitare una chiara sconfitta e il ritorno al potere del Partito Liberale in una coalizione di centro-destra. I risultati ufficiali hanno così decretato il netto successo di quest’ultima che potrà contare alla Camera bassa su una maggioranza di 85 seggi sui 150 totali contro i circa 54 ottenuti dai laburisti.
Negli ultimi tre anni il “Labor” è stato segnato da conflitti intestini che hanno prodotto due cambi al vertice del partito e del governo in seguito ad altrettanti golpe interni. Dapprima, nel 2010 Julia Gillard era riuscita ad estromettere l’allora primo ministro Kevin Rudd in un’operazione appoggiata da Washington per bloccare sul nascere i timidi sforzi del leader laburista di favorire una convivenza pacifica tra Stati Uniti e Cina in Estremo Oriente.
Successivamente, lo scorso mese di giugno lo stesso Rudd era stato clamorosamente riportato alla guida del partito di centro-sinistra e del governo di Canberra nell’estremo tentativo di evitare la prevedibile batosta alle urne. L’impopolare Gillard era stata così rimossa e sostituita con un leader che manteneva un qualche favore tra gli elettori soprattutto per le modalità anti-democratiche con cui era stato messo da parte tre anni prima.
Il crollo dei consensi per il Partito Laburista non è comunque legato esclusivamente agli eventi di questi ultimi anni. Come buona parte dei partiti di sinistra o centro-sinistra europei e nordamericani, anche il Labor australiano aveva visto crollare la propria credibilità tra la tradizionale base elettorale - lavoratori e classi più disagiate - già tra gli anni Ottanta e Novanta, con governi che avevano abbandonato i programmi di riforma sociale per mettere in atto politiche di liberalizzazione dell’economia.
Il ritorno al potere nel 2007 era stato dovuto perciò in gran parte alla profonda impopolarità del governo liberale-nazionale del premier John Howard, in particolare per il suo entusiastico appoggio alla “guerra al terrore” ideata dall’amministrazione Bush e la partecipazione alle invasioni di Afghanistan e Iraq. Nelle elezioni del 2010, infine, il Partito Laburista era riuscito a rimanere al potere creando un governo di minoranza la cui sopravvivenza è stata finora garantita da una manciata di parlamentari indipendenti.Il premier uscente Rudd, in ogni caso, è riuscito a mantenere il suo seggio in Parlamento per lo stato del Queensland ma ha rapidamente riconosciuto la sconfitta a livello nazionale, sia pure meno pesante del previsto, e consegnato di fatto le redini del governo al leader del Partito Liberale, Tony Abbott.
Gli equilibri al Senato, invece, sono ancora tutti da verificare anche a causa di un complesso sistema elettorale. Il centro-destra australiano, però, dovrebbe avere una maggioranza meno netta nella Camera alta, dove oltretutto i nuovi eletti verranno insediati solo nel luglio del 2014.
Noto per le proprie posizioni estremamente conservatrici sulle questioni sociali, Abbott è stato per due volte ministro nei governi Howard e le descrizioni a lui riservate dai media internazionali non mancano di ricordare la sua ossessione per la forma fisica e gli studi in un seminario cattolico.
A dare una spinta decisiva alla sua candidatura è stata anche l’incessante campagna a suo favore e contro il Labor condotta dai giornali australiani facenti parte dell’impero mediatico di Rupert Murdoch. L’entusiasmo popolare per Abbott, d’altra parte, risulta estremamente limitato, come conferma il fatto che quasi tutti i sondaggi fino a pochi giorni dal voto indicavano livelli di gradimento superiori per Kevin Rudd nonostante l’avversione generale per il Partito Laburista.
In campagna elettorale, Abbott e il partner di coalizione dei liberali - il Partito Nazionale, tradizionalmente espressione dei proprietari terrieri - hanno promosso soprattutto due iniziative per la soppressione di altrettante misure adottate dal governo Gillard, la prima delle quali costantemente definita come “impopolare” dalla stampa ufficiale: una modesta quanto inefficace “super-tassa” sui profitti dei colossi estrattivi australiani e il mercato delle emissioni dei gas serra, ritenuto il più vasto al mondo dopo quello europeo.
Tra i punti centrali del suo programma elettorale, oltre alla riduzione del carico fiscale per la maggior parte delle imprese, c’è poi un costoso e controverso piano pubblico per finanziare permessi retribuiti dei genitori australiani fino ad un periodo di sei mesi e destinato ai redditi inferiori ai 135 mila dollari l’anno. Questo progetto è già stato fortemente criticato sia dalla comunità degli affari che da molti all’interno della coalizione di Abbott e finirà con ogni probabilità per essere messo rapidamente da parte.
Il già scarso appeal di Abbott tra la popolazione australiana fa prevedere infine una luna di miele particolarmente breve con gli elettori. Nelle scorse settimane, infatti, la pubblicazione di una serie di dati statistici ha prospettato un brusco rallentamento dell’economia del paese, scampata in gran parte alla crisi di questi anni grazie ad un vero e proprio boom estrattivo.
Quest’ultimo settore contribuisce per circa il 20% al prodotto interno lordo complessivo dell’Australia, impiega il 10% della forza lavoro e ammonta a oltre il 70% delle esportazioni. Il rallentamento della domanda cinese per le risorse del sottosuolo australiano ha già ridotto la crescita dell’economia al 2,6% su base annua nel mese di giugno, contro una crescita trimestrale media del 4% registrata nel corso del 2012.
Le previsioni indicano perciò una possibile recessione nel 2014, mentre la disoccupazione - attualmente al 5,7% - è destinata a salire in maniera significativa. Con queste prospettive, le voci che chiedono “riforme” per salvare i profitti delle grandi compagnie australiane si stanno moltiplicando e si tradurranno soprattutto in ulteriori misure di riduzione della spesa pubblica e di liberalizzazione del mercato del lavoro.Sul fronte della politica estera, Abbott dovrà infine continuare a fare i conti con la contraddizione che ha caratterizzato gli anni del governo laburista, vale a dire la crescente dipendenza del business australiano dalla Cina e l’allineamento strategico del paese al tradizionale alleato americano.
Ad indicare possibili future tensioni con Washington è stata in questi giorni la presa di posizione del premier in pectore sull’imminente intervento militare in Siria, verso il quale Abbott ha mostrato maggiore freddezza rispetto a Rudd.
A livello generale, questa tornata elettorale in Australia è stata segnata dal continuo declino dei tradizionali partiti dell’establishment, evidenziato anche dal numero record di formazioni che hanno preso parte al voto. Secondo i dati della Commissione Elettorale, alla competizione di sabato hanno partecipato 54 partiti, contro i 24 del 2010, nonostante le complicate procedure fissate per la registrazione di un nuovo movimento politico.
Tra di essi, nelle elezioni federali era in corsa anche il Partito di WikiLeaks, costruito attorno alla popolarità del suo fondatore, Julian Assange, candidato per un seggio al Senato australiano. Il nuovo partito, anche a causa di scontri interni alla propria dirigenza, ha deluso le aspettative, ottenendo poco più dell’1% dei consensi su base nazionale. Lo stesso Assange, sempre costretto a rifugiarsi nell’ambasciata dell’Ecuador di Londra, a conteggi ufficiali ultimati dovrebbe rimanere escluso da uno dei sei seggi in palio nello stato di Victoria dove aveva deciso di candidarsi.
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di Michele Paris
La richiesta di autorizzazione ad attaccare la Siria da parte della Casa Bianca ha fatto il primo passo avanti al Senato di Washington proprio mentre sono andate in scena le audizioni dei membri dell’amministrazione Obama di fronte ad una Camera dei Rappresentanti dove l’appoggio per una nuova guerra in Medio Oriente appare relativamente più difficile da ottenere.
L’approvazione della risoluzione di guerra alla commissione Esteri della camera alta del Congresso è giunta in concomitanza con l’arrivo del presidente Obama in Svezia per una visita ufficiale che ha preceduto la sua partecipazione al G-20 di San Pietroburgo, dove a tenere banco è proprio la questione siriana e l’ennesima avventura bellica criminale degli Stati Uniti.
Alla vigilia del vertice nella città russa sono emerse tutte le differenze tra il Cremlino e la Casa Bianca attorno alla Siria e, dunque, i rischi di un pericoloso allargamento del conflitto. Il presidente Putin, il quale aveva già condannato i piani di guerra americani in un’intervista rilasciata un paio di giorni fa alla Associated Press, ha tra l’altro accusato esplicitamente il segretario di Stato USA, John Kerry, di essere un bugiardo e di avere mentito nel corso delle sue apparizioni di fronte al Congresso a sostegno della linea di Obama.
Centrando alla perfezione il significato di quanto sta accadendo a Washington, il presidente russo ha definito la discussione in corso al Congresso, in vista di un voto sull’intervento militare previsto per la prossima settimana, come un tentativo di “legittimare l’aggressione” contro la Siria.
Riguardo a Kerry, Putin ha poi messo l’accento sugli sforzi del numero uno della diplomazia USA per fuorviare i membri della Camera e i cittadini americani circa la realtà sul campo in Siria. Rispondendo alla domanda di un membro della commissione Esteri sulla prevalenza di terroristi legati al Al-Qaeda tra l’opposizione siriana, Kerry ha infatti negato l’evidenza, aggiungendo che essi sono in minoranza rispetto a “ribelli” moderati che starebbero riprendendo in mano il controllo di buona parte delle operazioni in territorio siriano.
La tesi del Segretario di Stato contraddice nettamente anche il giudizio della stessa intelligence americana che, quanto meno, continua a sostenere come i guerriglieri integralisti siano di gran lunga meglio addestrati e armati rispetto alle bande secolari o moderate sostenute direttamente dall’Occidente.Con a fianco il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e il capo di Stato Maggiore, generale Martin Dempsey, Kerry nella giornata di mercoledì alla Camera ha ribadito in sostanza le menzogne già proposte il giorno precedente al Senato, aggiungendo un nuovo motivo per autorizzare un intervento militare in Siria, vale a dire la necessità di contenere l’attività delle formazioni estremiste, le quali potrebbero ulteriormente rafforzarsi se gli Stati Uniti decidessero di astenersi dall’attaccare la Siria.
Ribaltando completamente la realtà dei fatti, Kerry ha sostenuto cioè che l’azione sia necessaria anche per impedire a gruppi armati legati al terrorismo internazionale di prendere il sopravvento nel paese mediorientale, dopo che il suo paese e i suoi alleati in Medio Oriente hanno di fatto facilitato la loro proliferazione. Inoltre, il presunto stop all’attività dei terroristi in Siria dovrebbe avvenire tramite un’aggressione militare ai danni di un regime che questi stessi gruppi li ha finora duramente combattuti.
Allo stesso modo, l’operazione militare dovrebbe servire anche per impedire ai fondamentalisti islamici di entrare in possesso delle armi chimiche facenti parte dell’arsenale dell’esercito di Assad sempre abbattendo un regime che questi ordigni sta tenendo fuori dalla portata dei terroristi.
Il riferimento di Kerry alla necessità di combattere le tendenze integraliste in Siria, così come di mandare un segnale di forza a Iran o Hezbollah, conferma nuovamente come l’intervento che si sta preparando non abbia nulla a che vedere con l’uso - oltretutto per nulla provato - di armi chimiche da parte di Assad, bensì con ragioni di natura strategica e di portata ben più ampia.
Lo stesso contenuto della risoluzione approvata mercoledì dalla commissione Esteri del Senato con una maggioranza di 10 voti a 7 rivela come la Casa Bianca stia cercando di ottenere un mandato più ampio possibile per condurre la guerra in Siria, sia pure dietro ad un testo che dia l’illusione di un’operazione “limitata” e soltanto per impedire nuovi attacchi con armi chimiche.
In particolare, la misura che verrà votata tra pochi giorni in aula al Senato consentirebbe al presidente di impedire in ogni modo alla Siria di utilizzare armi di distruzione di massa come quelle chimiche e sollecita provvedimenti per cambiare gli equilibri sul campo, principalmente rafforzando determinati elementi all’interno dell’opposizione.
La risoluzione consentirebbe poi ai militari americani di condurre operazioni devastanti per un periodo iniziale di 60 giorni, con una possibile estensione di altri 30 in caso di necessità. Queste tempistiche confermano come ciò che aspetta la popolazione siriana non sia affatto un blitz di portata “limitata”.Apparentemente per venire incontro a quei senatori più preoccupati per il coinvolgimento americano in una nuova guerra, è stata poi inserita una condizione che vieterebbe l’impiego di truppe di terra in Siria, anche se “al solo scopo di combattimento”. Quest’ultima condizione lascia aperta la possibilità di utilizzare team delle Forze Speciali o dei servizi segreti.
Coerentemente con l’obiettivo reale di promuovere o provocare il cambio di regime a Damasco, la commissione del Senato ha invece bocciato due emendamenti, presentati rispettivamente dal democratico “liberal” Tom Udall e dal repubblicano libertario Rand Paul. Il primo avrebbe limitato l’operazione all’uso di navi da guerra vietando il ricorso ad aerei all’interno dello spazio aereo siriano, mentre il secondo intendeva ristabilire lo spirito del War Powers Act del 1973 ribadendo come il presidente degli Stati Uniti possa ordinare l’uso della forza solo quando il paese si trovi di fronte ad una minaccia imminente.
Gli sforzi di Kerry a Washington proseguono di pari passo con quelli di Obama in Europa e in Russia. A Stoccolma, il presidente democratico ha fatto subito ricorso alla consueta retorica umanitaria, chiedendosi “a che punto diventa necessario un confronto con azioni che distruggono la nostra stessa umanità ?”. Secondo il premio Nobel per la Pace ciò accade quando “vediamo 400 bambini e più di 1.400 civili uccisi da gas tossici” ma non, ad esempio, quando la prima potenza del pianeta agisce nella più completa illegalità, causando la devastazione di un paese (Iraq) e la morte di centinaia di migliaia di persone anche in seguito all’uso di uranio impoverito e fosforo bianco (Fallujah).
Le parole di Obama e dei membri del suo gabinetto, così come la propaganda dei media ufficiali, stanno facendo in ogni caso ben poco per convincere sia un’opinione pubblica massicciamente ostile ad una nuova guerra criminale sia la maggior parte dei governi, alleati compresi. A parte Francia, Turchia, Israele e alcuni paesi non esattamente modelli di democrazia come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, la nuova guerra imperialista di Washington ha trovato finora pochi sostenitori, anche tra i più solidi alleati, preoccupati per le ripercussioni di un conflitto impopolare scatenato senza nemmeno la parvenza di un’approvazione ONU.
Lo stesso primo ministro conservatore svedese che ha accolto Obama mercoledì ha sostanzialmente respinto la tesi del presidente americano, affermando che il suo paese non sosterrà una risposta unilaterale contro il regime di Damasco.
La cautela di molti governi, anche se in maniera non ufficiale, è con ogni probabilità dovuta ai dubbi che essi stessi devono nutrire nei confronti delle presunte “prove” presentate dagli Stati Uniti della colpevolezza di Assad nei fatti di Ghouta del 21 agosto scorso.Se pure non trovano praticamente eco nella stampa “mainstream” in Occidente, sono molteplici gli indizi di un utilizzo di ordigni chimici da parte degli stessi “ribelli” nell’attacco che ha causato un numero imprecisato di vittime civili nei pressi di Damasco due settimane fa.
A smentire infine la tesi che l’opposizione armata non avrebbe le capacità di impiegare questo genere di armi e a gettare un’ulteriore ombra sulle conclusioni dell’intelligence a stelle e strisce sono stati proprio questa settimana i risultati di un’indagine di esperti russi su un episodio avvenuto il 19 marzo scorso vicino ad Aleppo.
I tecnici di Mosca hanno analizzato le prove relative ad un attacco con armi chimiche che provocò la morte di 26 persone, di cui la maggior parte soldati dell’esercito regolare, concludendo che l’esplosivo utilizzato non corrisponde a quelli in dotazione all’esercito siriano e che sarebbero stati i “ribelli” a lanciare il missile in questione contro la località di Khan al-Assal.
Il rapporto della Russia è già stato consegnato alle Nazioni Unite e membri di questo governo hanno criticato senza mezze misure la scorrettezza dell’approccio alle indagini sull’attacco del 21 agosto da parte degli Stati Uniti, i quali oltre a non volere nemmeno attendere i risultati dell’indagine degli esperti ONU, continuano a nascondere le probabili responsabilità dei “ribelli” nella provocazione di Ghouta per promuovere i propri piani di guerra contro la Siria in fase ormai estremamente avanzata.