di Michele Paris

I rapporti tutt’altro che amichevoli tra Barack Obama e il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, sono stati messi in luce ancora una volta nei giorni scorsi dalle rivelazioni riportate da un commentatore americano molto vicino alla Casa Bianca. Il presidente democratico avrebbe cioè manifestato ad alcuni suoi collaboratori tutti i timori per un governo, come quello di Tel Aviv, che insiste a tenere una linea di condotta contraria agli interessi americani e di Israele stesso.

Le parole di Obama sono state pubblicate in un commento di Jeffrey Goldberg - da alcuni definito il più influente giornalista in America sulle questioni relative a Israele - pubblicate nella mattinata di martedì dal sito web di Bloomberg News. L’editorialista della rivista The Atlantic ha raccontato di una circostanza avvenuta alla Casa Bianca poco dopo il voto dello scorso novembre all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore non-membro, e la ritorsione del governo Netanyahu, messa in atto con il via libera alla costruzione di circa tre mila nuove unità abitative illegali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

In riferimento a quest’ultima decisione, Obama avrebbe confidato alle persone presenti di non essere affatto sorpreso dal comportamento di Netanyahu, poiché le sue politiche auto-lesioniste sarebbero ormai una consuetudine.

Inoltre, ha affermato Goldberg, nelle settimane successive al voto ONU, il presidente americano avrebbe più volte detto che il governo di “Israele non sa ciò è che nel proprio interesse” e che, “dopo ogni annuncio di un nuovo insediamento, Netanyahu spinge sempre più il proprio paese verso un quasi totale isolamento”. Per Obama, poi, “se Israele, un piccolo stato situato in una regione inospitale, dovesse diventare una sorta di paria, alienandosi anche gli Stati Uniti, il suo ultimo e fedele alleato, non potrebbe sopravvivere. Mentre l’Iran rappresenta una minaccia immediata alla sopravvivenza di Israele, il comportamento del suo governo è invece una minaccia a lungo termine”.

Secondo Goldberg, Obama avrebbe anche usato toni insolitamente duri nei confronti di Netanyahu, definendolo un “codardo” dal punto di vista politico, poiché non avrebbe la volontà di rischiare di suscitare le ire della “lobby degli insediamenti” e scendere a compromessi per far ripartire un processo di pace sempre più ingolfato con i leader palestinesi. Singolarmente, questa stessa definizione di Netanyahu potrebbe essere applicata al comportamento proprio dello stesso Obama nei confronti di Israele, caratterizzato da un rifiuto ad esercitare qualsiasi pressione in maniera ufficiale su Tel Aviv per evitare gli attacchi delle potenti lobby sioniste negli Stati Uniti.

L’articolo di Jeffrey Goldberg, la cui autenticità è ovviamente impossibile da verificare, ha tutto l’aspetto di una finta rivelazione relativa ad una conversazione riservata, pubblicata con il consenso del presidente Obama per trasmettere un messaggio al capo del governo di Israele alla vigilia delle elezioni parlamentari.

A condividere questa tesi è sostanzialmente anche il quotidiano israeliano Haaretz, il quale martedì ha scritto che l’articolo del giornalista americano su Bloomberg News sarebbe il risultato di “un briefing tra i principali consiglieri della Casa Bianca”. Tanto più che Goldberg, ricorda il commento di Haaretz, in svariate occasioni negli ultimi quattro anni ha fatto da tramite per i messaggi pubblici indirizzati dalla Casa Bianca al primo ministro israeliano, sia riguardo la questione palestinese che quella del nucleare iraniano.

In questa occasione, l’articolo di Goldberg dovrebbe servire a convincere Netanyahu a fare qualche concessione in vista di una possibile riapertura dei negoziati di pace con l’Autorità Palestinese e possibilmente ad ammorbidire la sua posizioni in merito al nucleare iraniano. La condotta israeliana continua infatti ad avere ripercussioni negative sulla posizione degli Stati Uniti in Medio Oriente e Washington non intende danneggiare i rapporti con paesi considerati fondamentali per la difesa dei propri interessi nella regione, come Egitto e Turchia, i quali con Israele hanno avuto più di uno scontro nel recente passato proprio attorno alla irrisolta questione palestinese.

Per rafforzare il messaggio, Goldberg ha delineato anche ipotetici provvedimenti di fronte al persistere della linea dura da parte del governo Netanyahu. In particolare, l’amministrazione Obama potrebbe modificare la propria politica di difesa incondizionata di Israele nei consessi internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Come ammette lo stesso Goldberg, simili conseguenze sono però alquanto improbabili, dal momento che, al di là dell’antipatia personale tra Obama e Netanyahu e delle preoccupazioni per gli interessi americani in Medio Oriente, Washington continuerà a schierarsi a fianco del proprio alleato.

Secondo gli osservatori più ottimisti, tuttavia, qualche timida pressione su Tel Aviv potrebbe giungere durante il secondo mandato di un presidente Obama svincolato da preoccupazioni elettorali, come dimostrerebbero le recenti nomine al Dipartimento di Stato e al Pentagono di John Kerry e Chuck Hagel, due politici mostratisi talvolta in passato relativamente critici di Israele.

Il messaggio di Obama inviato tramite il pezzo di Goldberg, prevedibilmente, non è stato accolto con particolare favore da un Netanyahu in piena campagna elettorale. Nel corso di una visita al confine con la striscia di Gaza nella giornata di martedì, il premier, accompagnato dal suo ministro della Difesa, Ehud Barak, ha risposto fermamente al presidente americano, affermando che “soltanto i cittadini israeliani possono decidere chi rappresenti al meglio i loro interessi vitali”.

Netanyahu, inoltre, ha ostentato la resistenza del suo governo negli ultimi quattro anni a “pressioni enormi” in merito all’Iran, al ritorno ai confini precedenti il 1967 e agli insediamenti a Gerusalemme Est, come se fosse un merito avere minacciato lo scoppio di una guerra illegale contro la Repubblica Islamica o continuare a perseguire una politica di espansione delle colonie universalmente condannata e considerata in violazione del diritto internazionale. In un’elezione alle porte segnata dall’ulteriore spostamento a destra del baricentro politico israeliano, d’altra parte, Netanyahu non può per il momento permettersi nessun segno di debolezza o concessioni, nemmeno verso gli Stati Uniti.

Al di là degli obiettivi strategici totalmente condivisi tra USA e Israele, la freddezza che caratterizza i rapporti tra Obama e Netanyahu è in ogni caso reale e, in una certa misura, potrebbe contribuire a modellare quanto meno le sfumature delle politiche decise a Washington e a Tel Aviv. Se effettivamente pronunciate, le dure parole di Obama riportate da Jeffrey Goldberg questa settimana sarebbero così solo l’ultimo dei numerosi episodi che testimoniano l’insofferenza reciproca tra i due leader.

Solo per citare due dei momenti di imbarazzo che hanno trovato ampia eco sulla stampa internazionale, vanno ricordati il rifiuto da parte di Obama di incontrare Netanyahu nel settembre dello scorso anno a margine dell’annuale convocazione dell’Assemblea Generale dell’ONU e il celebre fuori onda del novembre 2011.

In quest’ultima occasione, durante una pausa del G20 in corso a Cannes, l’allora presidente francese Sarkozy, credendo che i microfoni fossero spenti, confidò a Obama di non potere più sopportare Netanyahu, definendolo senza mezzi termini un “bugiardo”. Il presidente americano, allora, non perse tempo a mostrare la propria solidarietà al collega, aggiungendo: “Tu non ne puoi più di lui, ma sono io a doverci trattare tutti i giorni!”.

di Michele Paris

La già precaria situazione interna del Pakistan ha fatto registrare in questi giorni pericolosi passi verso una vera e propria crisi istituzionale, in seguito all’ordine di arresto emesso nei confronti del capo del governo, Raja Pervez Ashraf. Il caos nel paese centro-asiatico a poche settimane da un delicato appuntamento elettorale continua inoltre ad essere alimentato da un nuovo e minaccioso movimento di protesta popolare, ma anche dal riesplodere del conflitto con l’India per il Kashmir e da sanguinosi attentati messi in atto dai gruppi estremisti islamici sunniti contro il governo e le minoranze religiose.

Nella giornata di martedì la Corte Suprema del Pakistan ha dunque ordinato l’arresto del primo ministro, accusato di avere ricevuto tangenti in relazione alla costruzione di centrali elettriche quando era ministro dell’Energia nel 2010. Ashraf aveva sostituito alla guida del governo nel giugno dello scorso anno Yusuf Raza Gilani, anch’egli rimosso dal proprio incarico dalla Corte Suprema e dal suo combattivo presidente, Iftikhar Muhammad Chaudhry, perché rifiutatosi più volte di eseguire un ordine del più alto tribunale pakistano di indirizzare una lettera alle autorità svizzere per riaprire un vecchio caso di corruzione in cui era coinvolto il presidente, Asif Ali Zardari.

Le accuse di corruzione contro l’attuale premier sono note da mesi ma il tempismo dell’ordine di arresto ha sollevato parecchie perplessità. La decisione della Corte Suprema, infatti, è giunta in concomitanza con una manifestazione di protesta organizzata nella capitale, Islamabad, da un religioso e accademico islamico recentemente tornato in patria dal Canada, Mohammad Tahir-ul Qadri.

Quest’ultimo, in un comizio di fronte ad una folla oceanica lo scorso dicembre a Lahore aveva inaugurato una campagna pubblica volta a screditare la già sufficientemente impopolare classe politica pakistana, trovando ampio seguito tra una popolazione costretta a fare i conti con povertà diffusa, disoccupazione e carenza cronica di servizi pubblici.

La manifestazione di Islamabad era invece iniziata lunedì scorso e il giorno successivo i seguaci di Qadri hanno poi marciato verso il Parlamento. Proprio mentre Qadri stava tenendo un discorso nel quale invitava il presidente Zardari e il governo a dimettersi, è giunta la notizia della richiesta d’arresto per il primo ministro Ashraf.

Lo scenario auspicato da Qadri prevederebbe ora la sostituzione dell’attuale esecutivo con un governo di transizione che riceva l’approvazione dei militari, tradizionalmente il centro di potere più influente in Pakistan. Da qui il sospetto nutrito da molti, a cominciare dal Partito Popolare al governo (PPP), che la crociata condotta da Qadri, anche grazie ad una costosa campagna mediatica resa possibile da ingenti donazioni di dubbia provenienza, sia appunto appoggiata dai militari.

Tanto più che, come ha scritto mercoledì la Reuters, Qadri pare avere già avuto un ruolo nel colpo di stato militare del 1999 che depose il governo del primo ministro eletto, Nawaz Sharif, installando al potere il generale Pervez Musharraf.

Ufficialmente, secondo quanto affermato anche dal comandante delle forze armate, generale Ashfaq Parvez Kayani, i militari non sembrano avere intenzione di intervenire direttamente in ambito politico, anche perché in questi anni il loro strapotere è stato oggetto di molte critiche che ne hanno screditato l’immagine.

Con il voto imminente, le forze armate potrebbero essere piuttosto interessate ad una manovra, presentata come un’iniziativa popolare, che consenta loro di favorire il successo alle urne di una formazione politica meno ostile di quanto lo sia stato in questi anni il Partito Popolare del presidente Zardari, anche se ciò potrebbe comportare un rinvio delle elezioni previste per marzo.

Queste scosse del sistema politico pakistano, come già anticipato, giungono in un momento in cui si sono pericolosamente aggravate le tensioni con l’India attorno alla disputa di confine nella regione del Kashmir. Nei giorni scorsi, infatti, una serie di scontri tra le guardie di frontiera dei due paesi ha causato la morte di alcuni soldati da entrambe le parti ed un acceso scambio di accuse reciproche.

Inoltre, questo inizio di anno ha visto aumentare considerevolmente gli episodi di violenza e gli attentati terroristici ai anni di edifici e di personale governativo, così come della minoranza Hazara di religione sciita, residente in gran parte nella provincia occidentale del Belucistan, alimentando proteste e malumori verso una classe dirigente incapace di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Solo giovedì scorso, ad esempio, una serie di esplosioni a Quetta, nel Belucistan, e a Mingora, nel distretto di Swat al confine nord-occidentale con l’Afghanistan, ha causato la morte di ben 120  persone.

Di fronte ad una serie di gravi problemi come quelli elencati, e con il timore di un’ulteriore destabilizzazione del paese, le divisioni e gli scontri tra le varie sezioni delle élite pakistane, facenti capo principalmente ai partiti politici, ai militari e alla magistratura, si stanno perciò intensificando. In un paese che registra numerosi precedenti di interferenze dei militari per ristabilire l’ordine, è comprensibilmente diffusa la sensazione che un colpo di mano per sovvertire gli equilibri democratici alla vigilia del voto sia la soluzione più probabile.

L’instabilità del Pakistan rischia infine di mettere ancora più a repentaglio i piani degli Stati Uniti in Afghanistan e in Asia centrale. A creare questo scenario, tuttavia, ha contribuito in maniera decisiva proprio la politica americana in quest’area del globo. L’intervento per deporre il regime talebano e il tentativo di Washington di fare dell’India, il nemico storico del Pakistan, un elemento centrale della propria strategia asiatica per contenere l’espansionismo cinese, infatti, ha scardinato i pilastri della sicurezza pakistana e complicato notevolmente la rivalità tra Delhi e Islamabad.

In particolare, l’appoggio garantito dagli USA all’India in ambito nucleare, negato invece al Pakistan, e l’impulso alla creazione di una partnership strategica tra il governo di Delhi e quello afgano hanno inevitabilmente contribuito ad aumentare il senso di accerchiamento di Islamabad, il cui tradizionale rapporto privilegiato con Pechino, inoltre, ha finito per costituire sempre più un ostacolo nelle relazioni con Washington, da cui riceve annualmente ingenti aiuti economici.

Una situazione, quella in cui si ritrova il Pakistan in ambito internazionale, che viene dunque percepita sempre più come prova di ostilità e di minaccia incombente nei suoi confronti e che, combinata alla crescente crisi politica e sociale domestica, caratterizzata da disuguaglianze colossali e tensioni pronte ad esplodere, rischia di far precipitare la situazione interna, con riflessi allarmanti per l’intera regione centro-asiatica.

di Michele Paris

A poco più di un mese di distanza dalla sparatoria alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown, in Connecticut, che ha causato la morte di 28 persone, di cui la maggior parte bambini tra i 6 e i 7 anni, il dibattito politico negli Stati Uniti sul ripetuto verificarsi di massacri di questo genere continua a concentrarsi esclusivamente sulla necessità di adottare misure legislative più severe per la vendita di armi da fuoco.

Questa settimana il presidente Obama ha così ribadito pubblicamente la sua intenzione di adottare un piano di ampio respiro per cercare di far diminuire i livelli di violenza causati dalla diffusione pressoché incontrollata di armi nel paese. Il progetto pensato dall’inquilino della Casa Bianca dovrebbe includere, in linea teorica, maggiori controlli sui precedenti penali e sulla salute mentale di coloro che vogliono acquistare un’arma, ma anche il ripristino del divieto di vendita delle cosiddette armi d’assalto, istituito durante la presidenza Clinton nel 1994 e lasciato scadere dieci anni più tardi grazie all’intensa attività di lobby delle organizzazioni a difesa dei diritti dei possessori di armi.

In realtà, qualsiasi proposta di legge che dovesse approdare al Congresso per regolare la vendita di armi ha ben poche chances di essere approvata. Il Partito Democratico e quello Repubblicano stanno infatti già preparando le complicate trattative sull’innalzamento del tetto del debito pubblico americano che si renderà necessario tra poco più di un mese e, alla luce del duro confronto che si prospetta, difficilmente il presidente Obama vorrà aggiungere un nuovo motivo di scontro politico.

Soprattutto, poi, la potente lobby americana delle armi ha già annunciato battaglia per far naufragare ogni ipotesi di legge. La principale associazione in questo ambito, la famigerata NRA (National Rifle Association), stila periodicamente una valutazione dei politici di Washington, assegnando loro un voto dalla A alla F a seconda del loro impegno nel difendere il dettato del Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, il quale stabilisce appunto il diritto di portare armi, sia pure all’interno di una “milizia ben regolata”. Chiunque non dovesse prestare attenzione alle indicazioni della NRA, votando per norme più restrittive, andrebbe perciò incontro ad una probabile sconfitta nel prossimo appuntamento con le urne.

Vista dunque la difficoltà di vedere approvate nuove leggi sul controllo delle armi al Congresso, la Casa Bianca ha fatto sapere lunedì che il presidente intende utilizzare quanto in suo potere per fare qualche progresso in questo senso, ricorrendo in particolare all’emissione di “ordini esecutivi” che non sono sottoposti al voto di Camera e Senato. Tra le altre, le limitate e inefficaci misure che Obama potrebbe decidere unilateralmente ci sarebbero l’obbligo per le varie agenzie federali di condividere i dati sui cittadini con disturbi mentali, limiti sull’importazione di armi dall’estero ed uno stimolo agli studi sulla violenza causata dalle armi da fuoco.

Per formulare una politica che faccia fronte a tutte le problematiche derivanti dal sistema di vendita di armi negli USA, lo stesso Obama aveva dato vita ad un’iniziativa in larga misura di facciata lo scorso 19 dicembre, cinque giorni dopo i fatti di Newton, nominando una speciale task force guidata dal vice-presidente, Joe Biden, la quale ha presentato le proprie raccomandazioni alla Casa Bianca un paio di giorni fa. Le proposte di Biden, che ha incontrato in un clima di assoluta freddezza anche i rappresentanti della NRA, non si discostano in maniera sensibile dalle misure che auspica il presidente e, come queste ultime, sono anch’esse destinate a rimanere lettera morta.

Per dare un’idea del clima che regna al Congresso, il deputato repubblicano del Texas, Steve Stockman, lunedì scorso ha addirittura minacciato di avviare una procedura di impeachment nei confronti di Obama nel caso dovesse emanare ordini esecutivi volti a regolamentare la vendita o il possesso di armi. L’impeachment, va sottolineato, viene agitato a tale riguardo e non ad esempio, per gli assassini mirati senza alcuna giustificazione legale ordinati dal presidente ovunque nel pianeta, anche contro cittadini americani.

Inoltre, Alan Gottlieb, fondatore di Second Amendment Foundation, un’altra organizzazione a difesa dei possessori di armi, in un’intervista al Wall Street Journal ha ricordato che i membri del Congresso che voteranno per leggi anti-armi andranno incontro a ritorsioni nella prossima tornata elettorale, cioè non riceveranno contributi dalle lobby delle armi oppure dovranno vedersela con campagne di discredito nei loro confronti. Per questo, ha aggiunto Gottlieb, “non si vedrà nessun repubblicano sostenere l’agenda anti-armi di Obama, mentre anche un considerevole numero di democratici finirà per prendere le distanze” dall’iniziativa del presidente.

A livello locale, però, qualche risultato sembra essere già stato raggiunto. Nello stato di New York, tra lunedì e martedì l’Assemblea statale ha approvato un pacchetto nato dalle negoziazioni tra il governatore, Andrew Cuomo, e i leader dei due partiti. La nuova legge, tra l’altro, amplia il numero di armi di cui è vietata la vendita nello Stato - anche se gli attuali possessori potranno conservarle - e richiede agli operatori nel settore della salute mentale di segnalare alle autorità qualunque paziente che mostri tendenze a danneggiare se stesso o gli altri. Una misura, quest’ultima, che ha ricevuto molte critiche, dal momento che le segnalazioni dovrebbero essere effettuate anche per quei pazienti che non posseggono armi o che non intendono acquistarne.

L’intera discussione in corso negli Stati Uniti attorno alla questione delle armi, in ogni caso, ha come obiettivo principale l’occultamento delle vere origini del ripetersi di episodi di efferata violenza come quello di Newtown. Tanto per cominciare, le analisi delle stragi non prendono mai in considerazione né le violenze e gli assassini quasi quotidiani commessi dalle forze di polizia, spesso ai danni di cittadini che raramente rappresentano una minaccia, né tantomeno la promozione del militarismo e della violenza su scala globale da parte del governo americano o i crescenti livelli di ineguaglianza nel paese e il soffocamento di qualsiasi alternativa all’attuale sistema politico ed economico.

Le sia pure timide accuse mosse da alcuni politici e commentatori americani ai metodi della NRA, inoltre, contrastano con il silenzio sul continuo impulso dato alla vendita di armi nel mondo, e quindi all’aumento dei livelli di violenza, da parte del governo stesso.

Su questo punto ha dedicato questa settimana un interessante post Tom Engelhardt sul popolare blog TomDispatch, sottolineando come il Pentagono possa essere considerato “l’equivalente della NRA e, allo stesso modo di questa organizzazione, si sia adoperato incessantemente negli ultimi anni assieme ai principali produttori di armi per fare in modo che ci siano sempre meno controlli su armi sempre più potenti che si desidera vendere all’estero”. Perciò, “la Casa Bianca e il Pentagono, con l’aiuto del Dipartimento di Stato, assicurano agli Stati Uniti il ruolo incontrastato di diffondere il diritto di possedere armi in tutto il mondo”.

Le forniture di armi, che i produttori americani controllano quasi per i quattro quinti del totale mondiale, sono naturalmente dirette ai paesi alleati, spesso dittature come Arabia Saudita o Emirati Arabi Uniti, garantendo loro la possibilità di reprimere nel sangue il dissenso interno o di scatenare guerre rovinose contro i propri nemici.

I maggiori controlli e le restrizioni alle vendite proposte in questi giorni, in ogni caso, anche se attuate non andrebbero ad intaccare il numero enorme di armi già in circolazione negli Stati Uniti e farebbero comunque ben poco, ad esempio, per evitare massacri come quello di Newtown, il cui responsabile, il 20enne Adam Lanza, ha avuto accesso a pistole e fucili detenuti del tutto legalmente dalla madre.

L’insistenza sulle verifiche dei precedenti penali degli acquirenti e, soprattutto, le misure accessorie che spesso vengono implementate per regolamentare la circolazione di armi hanno infine anche l’obiettivo non dichiarato di aumentare i poteri delle forze di polizia e di quello stesso apparato di governo responsabile di quotidiane atrocità in ogni angolo del pianeta.

Questa tendenza era apparsa in tutta la sua evidenza già nell’ultimo significativo sforzo legislativo compiuto a Washington per limitare la diffusione delle armi, avvenuto appunto nel 1994. In quell’occasione, infatti, oltre a proibire la vendita di armi d’assalto per un decennio, il Violent Crime and Law Enforcement Act includeva, tra l’altro, un aumento delle forze di polizia pari a 100 mila unità, la costruzione di nuove prigioni, l’aggiunta di decine di nuovi crimini al codice penale e l’espansione del numero dei reati per cui è prevista la pena capitale.

di Michele Paris

Mettendo fine a mesi di indugi e trattative internazionali, nel fine settimana appena trascorso il presidente francese, François Hollande, ha deciso di aprire un nuovo fronte di guerra in Africa occidentale, inviando centinaia di soldati e avviando una campagna di bombardamenti aerei in Mali, ufficialmente per contenere l’avanzata sempre più minacciosa dei ribelli islamisti nel nord del paese.

Ad innescare l’offensiva della Francia sarebbe stato l’ingresso il 10 gennaio scorso nella città di Konna, a oltre 600 km a nord-est della capitale del Mali, Bamako, delle forze ribelli, le quali hanno costretto l’esercito regolare alla fuga, minacciando di prendere possesso delle località cruciali di Mopti e Sevaré, dove sorge una base aerea di fondamentale importanza strategica. Con il resto del paese africano a rischio di cadere nelle mani dei ribelli, il giorno successivo Parigi ha perciò ordinato l’impiego delle proprie forze aeree, grazie alle quali Konna è tornata subito nelle mani del governo centrale.

Le bombe francesi avrebbero causato un centinaio di morti a Konna, dei quali, secondo quanto riferito ad Al Jazeera da un portavoce del gruppo integralista Ansar Dine, solo 5 guerriglieri e il resto civili. Inoltre, un pilota di un elicottero francese e una decina di soldati maliani sarebbero rimasti uccisi durante le operazioni. Nonostante la cacciata dei ribelli da Konna, come ha affermato il ministro della Difesa transalpino, Jean-Yves Le Drian, l’area attorno alla città rimane teatro di “intensi scontri”.

I bombardamenti sono continuati anche nei giorni successivi. Domenica, gli aerei francesi hanno preso di mira località più a nord, come Gao e Kidal, dove i ribelli avevano stabilito le proprie basi nei mesi scorsi. Pubblicamente, i principali alleati della Francia hanno espresso il proprio sostegno all’operazione. Gli Stati Uniti hanno offerto supporto logistico e di intelligence ma nessun soldato, mentre la Gran Bretagna soltanto velivoli per facilitare il trasporto delle truppe.

La lenta preparazione delle forze di terra africane per contrastare i ribelli islamici nel nord del Mali, seguita alla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e inizialmente prevista per il prossimo settembre, sembra avere subito un’accelerazione con l’iniziativa presa da Parigi. I governi che fanno parte della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS) stanno infatti organizzando vari contingenti da inviare in Mali a sostegno dello sforzo francese.

Il Senegal e la Nigeria, ad esempio, avrebbero già inviato delle truppe, mentre 500 soldati dal Burkina Faso dovrebbero giungere nei prossimi giorni. Alla guida provvisoria dell’ECOWAS, va ricordato, c’è in questo momento il presidente della Costa d’Avorio, l’ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale Alassane Ouattara, installato al potere proprio grazie all’intervento armato nella ex colonia dell’esercito francese nell’aprile del 2011 dopo le discusse elezioni del novembre precedente.

Il governo di Parigi ha in ogni caso tenuto a precisare non solo che i raid dei giorni scorsi hanno già fermato l’avanzata dei “terroristi” ma, come ha affermato domenica il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, che l’intervento francese in Mali sarà solo “questione di settimane” e servirà ad aprire la strada alla forza multinazionale organizzata dai paesi vicini. Nonostante la massiccia campagna aerea, però, i ribelli hanno fatto segnare progressi nella giornata di lunedì, strappando all’esercito regolare la località di Diabaly, nel Mali centrale e a soli 400 km dalla capitale.

Il Mali, colonia francese fino al 1960, era precipitato nel caos lo scorso marzo, quando un colpo di stato guidato da un capitano dell’esercito addestrato negli Stati Uniti, Amadou Sanogo, aveva deposto il presidente uscente Amadou Toumani Touré. Pochi giorni più tardi, un’alleanza di ribelli Tuareg e integralisti islamici aveva facilmente cacciato le forze di un esercito regolare allo sbando dalle postazioni nel nord del paese. In seguito, i gruppi jihadisti avevano proceduto ad emarginare i Tuareg, imponendo le norme della legge islamica (Sharia) nelle aree da loro controllate ed attirando guerriglieri islamisti da svariati paesi africani, asiatici ed europei.

L’intervento delle forze armate francesi in Mali viene in questi giorni descritto da quasi tutti i media occidentali come una decisione necessaria, inquadrata nella consueta retorica di una “guerra al terrore” che ha fatto ora irruzione nel continente africano. Tuttavia, simili pretese risultano a dir poco assurde.

Innanzitutto, la crisi esplosa lo scorso anno in Mali è la diretta conseguenza del conflitto imperialista orchestrato in Libia per rimuovere il regime di Gheddafi. L’intervento della NATO nel paese nord-africano ha, da un lato, causato il rimpatrio forzato di guerriglieri Tuareg ben armati che avevano combattuto a fianco di Gheddafi e, dall’altro, consentito il flusso di armi fornite ai ribelli libici dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo Persico a favore di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), la principale formazione estremista impegnata in Mali assieme ad Ansar Dine.

La doppiezza di Parigi, così come di Washington o di Londra, appare in tutta la sua evidenza proprio alla luce della vicenda libica e della risposta data più in generale ai fatti della Primavera Araba. In Libia, infatti, la Francia e i suoi alleati hanno collaborato in maniera molto stretta con il cosiddetto Gruppo dei Combattenti Islamici Libici (LIFG) per abbattere il regime di Gheddafi, fornendo ai suoi affiliati armi, denaro e addestramento.

Questa formazione integralista è da anni alleata precisamente con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, contro cui le forze francesi stanno combattendo in questi giorni in Mali, ed è attiva da tempo con propri uomini nella guerra civile in Siria in collaborazione con gruppi jihadisti come il Fronte al-Nusra, questa volta nuovamente per servire gli interessi dell’imperialismo occidentale, battendosi contro il regime di Bashar al-Assad.

La vicenda del Mali dimostra dunque ancora una volta come la cosiddetta “guerra al terrore” non sia altro che un comodo pretesto per promuovere gli interessi dell’Occidente nelle aree strategicamente più importanti del pianeta, dal momento che i vari gruppi estremisti riconducibili ad Al-Qaeda vengono di volta in volta utilizzati, a seconda delle necessità e con una schizofrenia solo apparente, come giustificazione per attaccare o invadere un determinato paese (Afghanistan, Mali) oppure come partner affidabili per portare a termine i propri obiettivi (Libia, Siria), salvo poi cercare di prenderne le distanze una volta raggiunti.

In Mali e in Africa occidentale, una regione con ingenti risorse naturali anche se tra le più povere del pianeta, sono piuttosto in gioco enormi interessi per la Francia, garantiti dalla continua interferenza di Parigi nei paesi facenti parte del suo ex impero coloniale.

Nel vicino Niger, ad esempio, la multinazionale transalpina Areva opera da decenni estraendo uranio con ben pochi benefici per la popolazione locale. Lo stesso Mali possiede giacimenti di uranio in gran parte ancora da sfruttare e su cui le grandi compagnie estrattive internazionali hanno già messo gli occhi, tra cui ovviamente quelle francesi, soprattutto alla luce dei problemi incontrati recentemente da Areva in Niger.

Da questa regione la Francia ottiene circa un terzo dell’uranio di cui ha bisogno per alimentare le centrali nucleari domestiche, così che la stabilità nelle ex colonie dell’Africa occidentale risulta un requisito imprescindibile per mantenere la propria indipendenza energetica.

La rapida decisione di dispiegare truppe francesi in Mali da parte di un politico notoriamente tutt’altro che risoluto come Hollande testimonia dunque dell’importanza della posta in gioco in questo paese e dei timori diffusi tra la classe dirigente d’oltralpe per una situazione che rischiava di sfuggire di mano al debole governo di Bamako.

Tra i governi occidentali rimangono però profonde divisioni interne, con molte voci che più o meno apertamente mettono in guardia dalle possibili conseguenze di un intervento diretto e che evocano uno scenario simile a quello afgano. Alcuni commentatori in questi giorni prevedono che gli estremisti islamici attivi in Mali, anche se evacuati definitivamente da città come Gao o Timbuktu, continueranno ad operare con tattiche di guerriglia e, al limite, con attentati terroristici in Africa settentrionale se non addirittura in Europa, come hanno minacciato di fare lunedì.

Per cominciare, queste formazioni jihadiste potrebbero trovare riparo nella vicina Algeria, il cui governo si era a lungo opposto ad un intervento esterno in Mali per le prevedibili conseguenze interne. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, anche in seguito alle recenti visite di Hillary Clinton e dello stesso Hollande, ha però alla fine deciso di fornire il proprio sostegno all’Occidente, consentendo in questi giorni ai velivoli francesi di sorvolare lo spazio aereo del proprio paese.

Un’operazione che rischia di infiammare l’intera regione del Sahel ha infine trovato il sostegno praticamente di tutta la classe politica transalpina, dall’UMP ai neo-fascisti del Fronte Nazionale, ed ha confermato la natura del Partito Socialista, attraverso il presidente Hollande e il suo governo teoricamente di sinistra, di esecutore delle politiche neo-coloniali francesi come lo era stato Nicolas Sarkozy durante gli anni trascorsi all’Eliseo.

L’apertura di un nuovo fronte di guerra in Mali serve inoltre a sviare l’attenzione dalle politiche anti-sociali messe in atto dal governo socialista sul fronte interno. In particolare, l’intervento in Africa è giunto, probabilmente non a caso, in concomitanza con l’annuncio dell’accordo trovato nel fine settimana tra gli industriali e i principali sindacati sulla “riforma” del mercato del lavoro, con misure estremamente impopolari che prospettano lo smantellamento dei diritti dei lavoratori per favorire la competitività delle aziende francesi.

di Michele Paris

Per sostituire il Segretario al Tesoro uscente, Tim Geithner, Barack Obama ha scelto ufficialmente qualche giorno fa il suo attuale capo di gabinetto, il veterano dei tagli al bilancio ed ex speculatore di Wall Street, Jacob “Jack” Lew. Da tre decenni implicato nelle politiche legate alla riduzione della spesa sociale e della deregulation dell’industria finanziaria, Lew rappresenta la scelta ideale per il presidente in vista delle imminenti trattative tra la Casa Bianca e i repubblicani al Congresso sulla questione del debito americano.

A conferma del ruolo ricoperto da Jack Lew, e di quello che sarà chiamato a svolgere, il presidente democratico giovedì scorso dalla Casa Bianca ha affermato che “per tutte le chiacchiere attorno alla riduzione del deficit, per fare in modo che i nostri conti siano in ordine, questo è l’uomo che se ne è occupato in prima persona”.

Lew andrà a rimpiazzare un Tim Geithner i cui quattro anni a fianco di Obama sono stati caratterizzati da uno sforzo continuo per salvaguardare i colossi della finanza americana dalle conseguenze della crisi che essi stessi hanno provocato. Di fronte al vasto risentimento popolare nei confronti di Wall Street, Geithner ha fatto in modo, tra l’altro, che nessun dirigente di alto livello delle banche implicate nel crollo dell’economia venisse incriminato, che i loro bonus milionari continuassero ad essere garantiti senza limiti e che gli aiuti alle vittime delle frodi immobiliari rimanessero sostanzialmente ininfluenti.

Dal Dipartimento del Tesoro, in ogni caso, Jack Lew avrà ora l’incarico di guidare l’assalto a programmi pubblici come Social Security, Medicare e Medicaid, già ampiamente annunciato dalla stessa Casa Bianca dopo il recente accordo che ha evitato temporaneamente il cosiddetto “fiscal cliff”.

L’esperienza di Lew negli affari relativi al bilancio federale, d’altra parte, risale addirittura ai tempi dell’amministrazione Reagan. Come consigliere dell’ex speaker democratico della Camera dei Rappresentanti, Tip O’Neill, nel 1983 contribuì infatti al raggiungimento di un accordo bipartisan con il presidente repubblicano per “salvare” Social Security, attraverso un innalzamento dei contributi dei lavoratori dipendenti e dell’età necessaria per ottenerne i benefici.

Successivamente, tra il 1995 e il 1998, fu il vice direttore dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio della Casa Bianca (OMB), partecipando tra l’altro alle trattative che portarono all’approvazione del Balanced Budget Act del 1997, un pacchetto di misure per giungere al pareggio di bilancio cinque anni più tardi. In esso erano inclusi tagli per 112 miliardi di dollari a Medicare e riduzioni per 44 miliardi ai rimborsi destinati a medici e ospedali.

Il suo zelo venne premiato da Bill Clinton nel 1998, quando fu nominato alla direzione dell’OMB, dove rimase fino al gennaio del 2001. In questo incarico partecipò attivamente alla formulazione di due leggi - Financial Services Modernization Act del 1999 e Commodity Futures Modernization Act del 2000 - che spianarono la strada alla deregolamentazione del settore bancario negli Stati Uniti.

Con l’ingresso di George W. Bush alla Casa Bianca, Jack Lew mise a frutto gli anni trascorsi a Washington per arricchirsi nel settore privato. Dopo avere preso iniziative anti-sindacali in un ruolo dirigenziale alla New York University, nel 2006 Lew ottenne un impiego decisamente più redditizio a Wall Street, per il colosso Citigroup.

Come direttore operativo della cosiddetta sezione “Global Wealth Management” e successivamente degli “Alternative Investments”, il prossimo Segretario al Tesoro gestì i servizi finanziari dedicati ad una ristretta cerchia di multi-miliardari e le operazioni legate ai derivati, raccogliendo enormi profitti grazie al crollo del mercato immobiliare.

Singolarmente, mentre Tim Geithner, dapprima come presidente della sezione di New York della Federal Reserve e poi come Segretario al Tesoro di Obama, si occupava del salvataggio delle banche di Wall Street, elargendo anche 45 miliardi di dollari di denaro pubblico a Citigroup, il suo successore incassava compensi milionari per avere contribuito al tracollo dell’economia.

Come ha messo in luce un’indagine del Senato americano, l’unità diretta da Jack Lew a Citigroup era inoltre coinvolta in un investimento gestito dal proprietario di uno dei principali “hedge fund” di Wall Street, John Paulson. Quest’ultimo aveva collaborato con molte banche di investimenti nell’emissione di titoli tossici legati al settore dei mutui subprime all’insaputa dei propri clienti, un’attività criminale che portò ad un’inchiesta ufficiale e, ad esempio, ad una sanzione di oltre 500 milioni di dollari a carico di Goldman Sachs, uno dei partner d’affari di Paulson.

Per i suoi servizi a Citigroup, lo stipendio di Jack Lew ammontava a 1,1 milioni di dollari, mentre ricevette anche 900 mila dollari di bonus poco dopo l’intervento del Tesoro per salvare la banca di Wall Street per cui lavorava.

Lew tornò poi ad ottenere un incarico governativo con l’arrivo di Obama alla Casa Bianca. Inizialmente scelto da Hillary Clinton come vice Segretario di Stato per la Gestione e le Risorse, nel novembre 2010 passò alla direzione dell’Ufficio per la Gestione e il Bilancio, una posizione che aveva ricoperto durante la presidenza Clinton. Nel gennaio dello scorso anno divenne infine capo di gabinetto di Obama, succedendo ad altri due ex top manager milionari di Wall Street, Rahm Emanuel e William Daley.

Il trasferimento di Lew al Dipartimento del Tesoro costringerà così il presidente democratico a scegliere il quinto capo di gabinetto della sua amministrazione. La scelta per l’assegnazione di questo incarico, definito da molti commentatori il più importante tra quelli non sottoposti a voto popolare negli Stati Uniti, secondo i media d’oltreoceano sarebbe ristretta a due candidati, l’attuale vice-consigliere per la sicurezza nazionale, Denis McDonough, e il capo di gabinetto del vice-presidente Biden, nonché in precedenza di Al Gore, Ron Klain.


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