di Michele Paris

Speculazioni e congetture varie continuano ad emergere sui giornali di tutto il mondo in relazione al vero ruolo svolto all’interno dei servizi segreti israeliani dal cosiddetto “Prigioniero X”, il 34enne Ben Zygier morto suicida poco più di due anni fa in circostanze a dir poco sospette in una cella di massima sicurezza di un carcere nei pressi di Tel Aviv. La vicenda della misteriosa spia con doppia nazionalità israelo-australiana è stata portata alla luce solo qualche giorno fa da un’indagine della TV australiana che ha fatto breccia nell’assoluto riserbo mantenuto finora dalle autorità di Israele.

La trasmissione “Foreign Correspondent” della rete australiana ABC ha rivelato martedì scorso l’identità di Zygier, arrestato per ragioni ancora poco chiare nel febbraio del 2010 e tenuto imprigionato nella massima segretezza nel carcere di Ayalon fino al ritrovamento del suo cadavere il 15 dicembre successivo. Nato in Australia, Zygier aveva ottenuto la cittadinanza israeliana nel 2000 ed era stato successivamente reclutato dal Mossad, la principale agenzia di intelligence dello stato ebraico.

L’identità di Ben Zygier era stata tenuta nascosta anche alle stesse guardie della prigione israeliana, dove era conosciuto appunto come “Prigioniero X”. Su richiesta del governo, un tribunale di Israele aveva emesso un divieto assoluto di discutere pubblicamente o nei media della sua vicenda, considerata una delicatissima questione di sicurezza nazionale. Per questo, le autorità israeliane fino al reportage della TV australiana avevano mantenuto il silenzio assoluto, rifiutandosi anche di ammettere l’esistenza di un’ordinanza del tribunale per mantenere il segreto sulla storia di Zygier.

Nel carcere di Ayalon, l’ex agente del Mossad era sottoposto ad un controllo continuo, tanto da rendere poco credibile la versione del suicidio tramite impiccagione. Inoltre, secondo quanto rivelato dal suo legale israeliano, nonostante le condizioni “inumane” di detenzione per quasi un anno, Zygier era rimasto “una persona equilibrata che stava valutando in maniera razionale le sue opzioni legali”. Anche i suoi famigliari hanno respinto l’ipotesi del suicidio, affermando che Zygier non aveva mai manifestato tali inclinazioni e che aveva molte ragioni per vivere, a cominciare da una moglie e due figli, uno dei quali nato proprio alcuni giorni prima della sua morte.

In questa vicenda, a finire sotto la lente d’ingrandimento è stato anche il ruolo del governo australiano, il quale aveva inizialmente negato di essere stato a conoscenza del caso Zygier prima del suo decesso. Di fronte a prove evidenti del contrario, il ministro degli Esteri di Canberra, Bob Carr, ha dovuto però fare marcia indietro, ammettendo che il governo laburista era stato informato del suo arresto dall’intelligence israeliana già il 24 febbraio del 2010. Il governo australiano, tuttavia, come ha fatto con Julian Assange, non ha mosso un dito per assistere Zygier, limitandosi ad accettare le rassicurazioni di Tel Aviv che al detenuto sarebbero stati garantiti tutti i diritti previsti dalla legge di Israele.

Come già ricordato, le ragioni del trattamento riservato al “Prigioniero X” dal governo israeliano rimangono ancora avvolte nel mistero, anche se alcune indiscrezioni sono circolate negli ultimi giorni. Sembra infatti che Ben Zygier fosse stato sul punto di rivelare informazioni altamente riservate relative ad operazioni del Mossad a cui egli stesso aveva preso parte. In particolare, le due piste principali sono legate all’assassinio di un membro di spicco di Hamas e alle attività di sabotaggio nei confronti del programma nucleare dell’Iran.

Nel primo caso, i dettagli sono stati pubblicati settimana scorsa dal quotidiano del Kuwait Al-Jarida, il quale ha citato fonti occidentali che affermano come Zygier avesse fatto parte della squadra speciale del Mossad che il 19 gennaio 2010 uccise in una stanza dell’hotel Al Bustan Rotana di Dubai Mahmoud Al-Mabhouh, responsabile dell’approvvigionamenti di armi per Hamas. Secondo questa versione, Zygier era stato arrestato dalle autorità di Dubai e, in cambio di protezione, aveva acconsentito a rivelare i nomi dei partecipanti e i dettagli di un’operazione nel territorio degli Emirati Arabi Uniti per condurre la quale erano stati utilizzati passaporti falsi di vari paesi europei e dell’Australia. Prima che Zygier avesse potuto parlare, però, il Mossad lo avrebbe rapito e trasferito nel carcere di Ayalon dove sarebbe successivamente morto.

L’altra ipotesi diffusa da alcuni media riguarda invece la creazione da parte del Mossad di una compagnia in Italia per vendere materiale elettronico all’Iran con lo scopo di sabotare le installazioni nucleari della Repubblica Islamica. Zygier sarebbe stato coinvolto in questa operazione top secret, nell’ambito della quale aveva anche richiesto un visto per poter lavorare legalmente in Italia.

Nella giornata di lunedì, la stessa rete televisiva ABC ha inoltre affermato che Zygier sarebbe stato arrestato dal Mossad dopo che aveva rivelato i particolari di questa operazione in territorio italiano e di altre ancora ai servizi segreti dell’Australia (ASIO) nel corso dei suoi frequenti viaggi in quest’ultimo paese per fare visita alla famiglia.

L’autenticità delle varie rivelazioni apparse sulla stampa internazionale attorno al caso del “Prigioniero X” è ovviamente da prendere con le molle, vista l’eventualità tutt’altro che remota di un possibile tentativo di depistaggio messo in atto dallo stesso Mossad. Che dietro al trattamento subito da Zygier ci siano operazioni sotto copertura e illegali dei servizi segreti di Israele appare però del tutto evidente, alla luce soprattutto della riservatezza con cui è stata trattata la vicenda fino alla scorsa settimana.

La priorità assegnata dal governo israeliano alla cosiddetta difesa della sicurezza nazionale a tutti i costi, per la quale possono essere sacrificati sia i diritti civili che la vita stessa di persone che vi hanno contribuito, è apparsa d’altra parte chiara dalle parole pronunciate dal primo ministro Benjamin Netanyahu nella giornata di domenica. In risposta alla richiesta di alcuni parlamentari di aprire una commissione d’inchiesta sul caso Zygier, il premier ha difeso fermamente l’operato delle forze di sicurezza del suo paese.

Israele, secondo Netanyahu, non sarebbe infatti “un paese come gli altri” e, pur “essendo un modello di democrazia” che garantisce i diritti di coloro che sono sotto indagine, “siamo esposti a maggiori minacce e dobbiamo fronteggiare maggiori sfide”. Per questa ragione, a detta di Netanyahu, lo stato di Israele dovrebbe garantire alle proprie forze di sicurezza la possibilità di agire in maniera “adeguata”.

Sul fatto che Israele non sia un paese come gli altri, soprattutto come quelli che applicano il diritto e le più basilari norme democratiche, appare indiscutibile, ma le parole di Netanyahu rivelano anche involontariamente come lo stato ebraico sia solo nominalmente una democrazia, visto che i diritti dei cittadini possono essere messi da parte senza troppi scrupoli quando si tratta di salvaguardare la segretezza di operazioni criminali condotte in nome della sicurezza nazionale.

L’intervento del premier ultra-conservatore appare insomma come una difesa totale del diritto attribuito all’apparato della sicurezza dello stato ad operare al di fuori di ogni controllo o supervisione, dal momento che l’attività di un’agenzia come il Mossad consentirebbe ai cittadini israeliani di “vivere in tranquillità e sicurezza” nel proprio paese.

In altre parole, come dimostra la ricostruzione tutt’altro che completa della vicenda di Ben Zygier, le autorità di Tel Aviv intendono continuare ad occultare i propri crimini contro presunti nemici, ma anche mettere a tacere coloro che intendano rivelarli per qualsiasi motivo, facendo appello alla consueta eccezionalità dello stato di Israele e alle minacce esistenziali che graverebbero su di esso, nonostante a costituire una minaccia per i paesi e gli abitanti dell’intera regione mediorientale, e non solo, sia precisamente la condotta del suo stesso governo.

di Fabrizio Casari

Con oltre il 60 per cento dei consensi, Rafael Correa è stato confermato alla guida dell’Ecuador, che avrà così altri quattro anni di “Rivoluzione dei cittadini” per completare l’ammodernamento e la democratizzazione del paese. E’ la sesta vittoria consecutiva in consultazioni popolari di varia natura dal 2006 ad oggi. Lo slogan della campagna elettorale di Correa “Abbiamo già un Presidente”, è risultato profetico quanto azzeccato.

Non c’erano molti dubbi sulla vittoria di Correa, dato che il suo mandato si è caratterizzato per la sostanziale realizzazione di quanto promesso quattro anni fa. Un programma di riforme sociali ed economiche che ha portato ad una sensibile riduzione della povertà estrema nel paese, e che attraverso opere sociali di straordinario impatto e di grande efficacia, ha scritto la parola fine alla storia dei governi che l’avevano preceduto.

Governi liberisti che avevano disegnato per il paese andino un ruolo da repubblica delle banane al servizio di Washington, senza che però potessero evitare rovesci popolari, dal momento che quattro sui cinque presidenti prima di lui vennero deposti prima della fine del loro mandato sull’onda delle sollevazioni popolari contro le politiche neoliberiste guidate dalla popolazione indigena (30 per cento del totale).

Ben altra storia ha caratterizzato l’Ecuador di Correa, che proprio delle lotte sociali e politiche della parte più umile della popolazione è stato l’espressione. Il segno politico più evidente è stato la modifica della Costituzione: convocò l’Assemblea Costituente e ruppe con il precedente ordinamento su base oligarchica, trasformando l’Ecuador in uno stato plurinazionale dove vengono riconosciute la specificità indigena. Un amalgama ben riuscita tra le radici e la storia millenaria da un lato e la proiezione futura dall’altro, un’irruzione democratica della tradizione storica di un paese che nel prefigurare la direzione verso la quale va, non occulta o dimentica da dove viene.

Il cambiamento radicale della politica nazionale ed estera del paese non è stato del tutto indolore: per aver rifiutato di sottoscrivere il TLC con gli USA, averli espulsi dalla base militare di Manta, essersi scontrato con la Banca Mondiale e il Fondo Monetario ed aver dato vita ad una cooperazione strettissima sia nel campo petrolifero che in quello politico con il Venezuela, Correa è stato vittima di complotti e tentativi di colpo di Stato concepiti a Washington, tutti miseramente falliti proprio grazie alla popolarità di cui ha goduto e gode presso la sua popolazione.

Economista e accademico, giunto alla presidenza sull’onda delle lotte sociali che avevano scosso il paese dalle fondamenta, Correa ha decisamente azzerato le politiche neoliberiste che avevano piegato il Paese. Investimenti pubblici finanziati con la rendita petrolifera che hanno certificato il valore di una politica economica anticiclica e che hanno fornito i numeri ad una crescita a doppia cifra.

La decisa inversione di marcia, della quale hanno beneficiato le classi più povere, è stata appunto possibile grazie ad un ruolo sempre più centrale dello Stato nell’economia, nel solco di quanto le democrazie latinoamericane hanno concepito e realizzato in quest’ultima decade.

I dati parlano chiaro: riduzione della povertà costante (solo nel 2012 è passata dal 37,1 al 32,4 per cento), mentre sono state incrementate le quote di PIL destinate all’istruzione (dal 2,5 al 6 per cento) intestando così all’Ecuador il tasso più alto di investimenti in rapporto al PIL di tutta la regione. Le stesse Nazioni Unite hanno riconosciuto  che l’Ecuador “ha ora nella missione nazionale nell’educazione una delle priorità di governo”. Stessa marcia anche nella salute: se nel 2006 si spendevano 561 milioni di dollari, Correa ha ampliato enormemente l’area di intervento dalla sanità pubblica e ne ha aumentato il gettito, portandolo a 1774 milioni e posizionandolo così al 6,8% del PIL.

Altrettanto è stato realizzato sul terreno dell’assistenza alla parte più povera della popolazione: basta dire che il “programma di sviluppo umano” decretato dal Presidente ha visto un investimento di centinaia di milioni di dollari e oggi, il “buono di sviluppo umano” prevede l’assegnazione di 50 dollari al mese come sostegno diretto dello stato a circa 2 milioni di cittadini su un totale di 15 milioni di abitanti. I crediti per l’acquisto della casa  hanno visto investimenti per centinaia di milioni di dollari.

A queste politiche si sono sommate opere pubbliche di assoluta importanza come la grande rete stradale, che ha agevolato lo spostamento di parti intere del paese precedentemente prive di vie di comunicazione. Il tutto accompagnato da un livello di trasparenza nella comunicazione tra il governo e la popolazione mai conosciuto prima e che è diventato un esempio in tutto il continente latinoamericano.

Dati che sono inseribili all’interno di una potente crescita economica determinata certo anche dall’aumento del prezzo del petrolio, di cui l’Ecuador è tra i primi produttori al mondo. Ma, come già in Venezuela prima di Chavez, anche in Ecuador prima dell’arrivo di Correa le ricchezze derivanti dalla vendita del petrolio non avevano significato null’altro che la messa all’ingrasso della borghesia nazionale mentre la distanza con la parte povera della popolazione diveniva ogni giorno maggiore. Proprio sull’utilizzo pubblico delle risorse energetiche Correa ha scelto politiche opposte a quelle dei suoi predecessori, indirizzando i proventi verso programmi sociali destinati al miglioramento delle condizioni di vita della parte più povera della popolazione.

E certo non secondaria, ai fini del raggiungimento di questi obiettivi, è stata la scelta unilaterale di Correa di procedere ad una rivisitazione e ristrutturazione del debito estero, sfidando le ire del Fondo Monetario e della Banca Interamericana dello Sviluppo che ritenevano auspicabile continuare ad ingrassare le banche e i fondi speculativi del Nord che avevano contratto con i governi precedenti accordi a esclusivo vantaggio della depredazione costante delle ricchezze della nazione andina.

Coerentemente con i loro padroni, la grande borghesia imprenditoriale, che ha votato in massa per il suo principale oppositore, Guillermo Lasso, (giunto al 24% dei consensi) non ha riconosciuto l’avanzamento evidente delle condizioni generali dell’economia nazionale e, con essa, della democratizzazione del sistema paese. C’è da capirli: nel nuovo Ecuador i ricchi pagano le tasse, il doppio di quanto pagavano fino al 2006, e la maggior somma è stata quasi interamente destinata ai programmi di assistenza sociale. Una sorta di versamento costante da chi ha troppo verso chi ha troppo poco.

In obbedienza a quanto promesso, anche in politica estera Correa ha disegnato un cammino improntato alla fine della dipendenza dagli Stati Uniti (ai quali appunto ha negato la possibilità di usufruire della base militare di Manta e di mettere le loro manacce su Julian Assange, al quale ha offerto asilo politico nella sua ambasciata di Londra) e alla convinta adesione all’ALBA insieme a tutta l’America Latina di stampo socialista. Legato da profondi vincoli con Cuba, non esitò a disdire la sua partecipazione dal Vertice di Cartagena per protesta verso l’esclusione dell’isola socialista.

Correa si è quindi caratterizzato come uno dei leader più giovani e capaci della riscossa democratica dell’America Latina e nello scegliere per il suo paese la strada dell’indipendenza dagli Usa sostituendola con la stretta relazione di cooperazione economica e politica con i paesi latinoamericani - Venezuela, Cuba e Bolivia in primo luogo. La sua vittoria, che ha scelto di dedicare al suo fraterno amico Hugo Chavez, seppellisce da Quito il Washington consensus, rafforza ulteriormente il progetto d’integrazione latinoamericana e, proclamata nelle stesse ore in cui il Presidente Chavez rientrava a Caracas per continuare le sue cure, disegna uno straordinario, meraviglioso dipinto per la nuova America Latina, figlia della ribellione e madre della sua sovranità.





di Michele Paris

In occasione del secondo anniversario dell’inizio della rivolta anti-regime in Bahrain, nella giornata di giovedì sono riesplose massicce proteste popolari nel piccolo paese del Golfo Persico. Come è puntualmente accaduto dal 14 febbraio 2011 ad oggi, le forze di sicurezza del regime guidato dal sovrano, Hamad bin Isa al-Khalifa, hanno ancora una volta risposto duramente alle manifestazioni di piazza, mettendo in grave pericolo i negoziati appena riaperti con le opposizioni ufficiali per trovare una qualche soluzione alla più lunga crisi finora registrata tra quelle ascrivibili alla cosiddetta Primavera Araba.

Già dalle prime ore di giovedì, dunque, centinaia di manifestanti sono scesi nelle strade dei quartieri a maggioranza sciita della capitale, Manama, e nelle altre principali città del paese. Secondo quanto affermato dal Ministero dell’Interno, i rivoltosi avrebbero bloccato numerose strade, costringendo la polizia e l’esercito a “ristabilire l’ordine”.

Gli scontri più recenti hanno fatto almeno un morto, un ragazzo di appena 16 anni colpito da un proiettile sparato dalle forze di sicurezza nella località di Diya, non lontano da Manama. La notizia della morte del giovane manifestante è apparsa sul sito web del principale partito sciita di opposizione, Al Wefaq, secondo i cui esponenti ci sarebbero stati anche decine di feriti, principalmente a causa dell’uso di gas lacrimogeni da parte della polizia.

Nuove dimostrazioni sono già state organizzate per la giornata di venerdì, mentre svariati gruppi dell’opposizione hanno invocato uno sciopero generale in tutto il paese per celebrare l’anniversario dell’inizio della rivolta.

Il caos in Bahrain era esploso nel febbraio del 2011 dopo che, almeno inizialmente, un movimento popolare formato sia da sciiti che da sunniti aveva marciato per le strade della capitale chiedendo la fine del regime dittatoriale della famiglia Al Khalifa. Facendo leva sulle divisioni settarie che caratterizzano da secoli questo paese, tuttavia, la casa regnante appoggiata dall’Occidente ha da subito manipolato con successo le proteste, riuscendo a dividere la popolazione.

In particolare, il regime ha ripetutamente puntato il dito contro il vicino Iran, accusandolo senza alcuna evidenza di fomentare le proteste in Bahrain. Ben presto, così, ad animare la rivolta nel paese è rimasta pressoché esclusivamente la maggioranza sciita della popolazione.

D’altra parte, il malcontento degli sciiti, che rappresentano circa il 70% degli abitanti del Bahrain, non è cosa nuova, dal momento che essi sono regolarmente discriminati dal regime sunnita ed esclusi dalle posizioni di potere, così come, ad esempio, dagli impieghi governativi, dall’assegnazione di alloggi pubblici e dall’accesso alle migliori strutture scolastiche.

Per bilanciare questa disparità nella composizione della popolazione, inoltre, il regime continua a garantire procedure accelerate per l’ottenimento della cittadinanza a decine di migliaia di persone di fede sunnita provenienti da altri paesi della regione, tanto che degli 1,2 milioni di abitanti attuali solo poco meno di 600 mila risultano essere nativi del Bahrain.

In ogni caso, di fronte ad una comunità internazionale che alla crisi del Bahrain ha dato una rilevanza nemmeno lontanamente paragonabile a quelle di Libia o Siria, la repressione del regime ha finora provocato decine di morti: 35 secondo le stime di una commissione d’inchiesta lanciata dal governo, più di 80 per le opposizioni ufficiali.

A questi numeri, con ogni probabilità sottostimati ma comunque consistenti per un paese delle dimensioni del Bahrain, vanno inoltre aggiunti gli arresti e le torture di migliaia di militanti sciiti e di medici colpevoli solo di avere prestato soccorso ai manifestanti feriti durante gli scontri, ma anche la privazione della cittadinanza per molti militanti che avevano preso parte alle manifestazioni.

La prima fase della rivolta era stata poi soffocata nel sangue già nella primavera del 2011 grazie al contributo decisivo di un contingente militare inviato dalle monarchie assolute del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, il cui regime continua a temere la possibilità di un contagio dell’insurrezione in Bahrain nelle proprie provincie a maggioranza sciita.

La repressione delle manifestazioni da parte della famiglia Al Khalifa è stata resa possibile principalmente grazie al più o meno tacito appoggio degli Stati Uniti, per i quali il Bahrain è un alleato strategico fondamentale, vista la sua posizione nel Golfo Persico a meno di 200 chilometri dalle coste iraniane. Qui, inoltre, si trova il quartier generale della Quinta Flotta della Marina americana, responsabile delle forze navali a stelle e strisce operanti nel Golfo Persico, nel Mare Arabico e al largo delle coste dell’Africa orientale.

In seguito alle pressioni internazionali, l’amministrazione Obama ha talvolta emesso blande dichiarazioni di condanna nei confronti della casa regnante del Bahrain, giungendo nel settembre 2011 a sospendere un contratto di fornitura di armi da oltre 50 milioni di dollari a causa delle evidenti violazioni dei diritti umani. Le forniture di armi, tra cui equipaggiamenti utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti, sono però state sbloccate già nel maggio successivo, secondo Washington grazie ai progressi registrati nel paese.

Anche dietro le pressioni degli Stati Uniti, preoccupati per il danno d’immagine causato dal ripetersi degli scontri nel Bahrain, già nel 2011 erano stati lanciati i primi colloqui tra il regime e le opposizioni. Il dialogo si è però quasi subito arenato di fronte alla totale mancanza di volontà del regime di rinunciare anche solo parzialmente al controllo assoluto delle leve del potere.

Le opposizioni, inoltre, risultano divise al loro interno, con il partito Al Wefaq che è attestato su posizioni moderate, mentre i movimenti della società civile, tra cui spicca la Coalizione 14 Febbraio, hanno progressivamente assunto atteggiamenti più radicali fino a chiedere la fine del regime Al Khalifa.

Proprio alla vigilia del secondo anniversario della rivolta, il governo ha invitato le opposizioni a tornare al tavolo delle trattative, così che domenica scorsa il dialogo era ripreso tra i rappresentanti del regime e di alcuni gruppi di opposizione, come Al Wefaq. Le richieste di questi ultimi sono però limitate, come la creazione di una monarchia costituzionale, e volte quasi esclusivamente ad ottenere un qualche ruolo nella gestione del potere.

Tra la popolazione, al contrario, il sentimento di avversione verso il regime ha superato ormai i livelli di guardia e, qualsiasi eventuale “riforma” su cui si accorderanno le due parti, le tensioni nel paese difficilmente potranno essere placate nell’immediato futuro.

Concessioni relativamente limitate da parte del regime erano infatti già state adottate negli anni Novanta del secolo scorso, sempre in risposta a sollevazioni popolari contro il regime. La natura dittatoriale della monarchia Al Khalifa, appartenente ad una tribù originaria del Qatar che invase il Bahrain sul finire del XVIII secolo, è rimasta però stanzialmente invariata, così come l’emarginazione della maggioranza della popolazione sciita, lasciando così intatte tutte le contraddizioni di questo minuscolo ma importante paese dove proteste e repressione hanno caratterizzato quasi ogni giorno degli ultimi 24 mesi.

di Michele Paris

Nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione dopo avere ottenuto un secondo mandato alla Casa Bianca, Barack Obama ha parlato martedì di fronte ai due rami del Congresso USA facendo ancora una volta ricorso ai toni populisti che hanno caratterizzato le sue più recenti uscite. Come già accaduto nel discorso di inaugurazione dello scorso mese di gennaio, il presidente democratico ha infatti avanzato una serie di improbabili proposte che dovrebbero beneficiare la classe media d’oltreoceano, rivelando così un’apprensione crescente in alcune sezioni della classe dirigente di Washington per le resistenze diffuse nel paese nei confronti delle politiche messe in atto in questi anni esclusivamente a favore di una ristretta cerchia di privilegiati.

Secondo i commenti ufficiali seguiti all’intervento di Obama, il punto centrale del discorso sarebbe stato il tentativo di rilanciare il ruolo del governo nella promozione della crescita economica e, ancor più, nella riduzione delle disuguaglianze di reddito prodotte da oltre tre decenni di deregolamentazione dell’economia e dell’industria finanziaria americana e ulteriormente aumentate dal 2009 a oggi.

Obama ha dunque invitato il Congresso ad innalzare per legge il livello infimo dello stipendio minimo negli Stati Uniti, attualmente fissato a 7,25 dollari l’ora. Per l’inquilino della Casa Bianca, la paga minima dei lavoratori americani dovrebbe salire progressivamente a 9 dollari l’ora entro la fine del 2015 e successivamente essere ancorata al livello di inflazione.

Questo provvedimento, fortemente avversato dagli ambienti conservatori, contrari a qualsiasi intervento che possa intaccare i profitti delle compagnie private, dovrebbe riguardare 15 milioni di lavoratori negli USA, anche se, ad esempio, un nucleo familiare monoreddito di tre persone con un salario a 9 dollari l’ora rimarrebbe comunque al di sotto dell’irrisoria soglia ufficiale di povertà.

Inoltre, la paga oraria minima proposta martedì da Obama risulta inferiore ai 9,5 dollari che l’allora senatore dell’Illinois aveva chiesto in campagna elettorale quasi cinque anni fa e, tenendo in considerazione l’inflazione, ben al di sotto anche dei livelli raggiunti negli anni Sessanta e Settanta.

Assieme all’assurda affermazione che gli americani “uniti” hanno “spazzato via le macerie della crisi”, Obama ha poi elencato una lunga serie di provvedimenti da adottare in vari ambiti, dall’immigrazione alla riduzione delle emissioni in atmosfera, dal controllo sulla vendita delle armi all’educazione pubblica, ben consapevole però dell’improbabilità di vederli approvati da un Congresso diviso tra i due principali partiti.

Nel gioco delle parti di una politica americana totalmente al servizio dei poteri forti, la consueta replica al discorso sullo stato dell’Unione del presidente è stata affidata quest’anno al senatore repubblicano ultra-conservatore della Florida, Marco Rubio, da molti già considerato come un probabile candidato alla Casa Bianca nel 2016.

Il contro-intervento di Rubio ha prevedibilmente bocciato le misure avanzate da Obama, ispirate, a suo dire, dalla solita tendenza dei democratici ad aumentare le tasse e ad assegnare un ruolo eccessivo al governo federale. Una posizione quella esposta dai repubblicani che conferma l’impraticabilità politica del percorso tracciato da Obama, a parte forse sulla questione dell’immigrazione, vista da molti nel partito del senatore cubano-americano come un’occasione per conquistare qualche consenso tra l’elettorato ispanico.

Le parole di Obama hanno invece mandato quasi in delirio media e commentatori liberal, precipitatisi a scrivere di come il presidente democratico abbia delineato il futuro di un paese che non deve obbligatoriamente rimanere impantanato perennemente nelle politiche di austerity ma che abbia il coraggio di liberare risorse da investire nell’educazione o in un massiccio programma di lavori pubblici. Il tutto, ovviamente, senza aumentare un deficit già ben oltre i livelli di guardia.

Come ha recitato l’editoriale di mercoledì del New York Times, Obama avrebbe spiegato “ad una vasta platea quello che potrebbe essere realizzato se solo si raggiungesse un minimo di consenso a Washington”. Un’affermazione, quest’ultima, che rivela la solita fantasia liberal di come sia sufficiente trovare un punto d’incontro tra i politici dei due schieramenti per correggere le imperfezioni del sistema e raggiungere un livello accettabile di giustizia sociale nel paese, tralasciando deliberatamente di evidenziare la crisi strutturale del capitalismo americano, il cui tentativo di salvataggio è la ragione principale delle politiche anti-sociali implementate dopo il crollo dell’economia a partire dall’autunno del 2008.

Come hanno ampiamente dimostrato le principali iniziative intraprese dall’amministrazione Obama nel corso del suo primo mandato, inoltre, il ruolo attribuito al governo federale dall’attuale presidente difficilmente coincide con una visione progressista. Solo per citare uno degli esempi più lampanti, l’intervento deciso nel 2009 per “salvare” i giganti dell’auto di Detroit ha avuto infatti come scopo il ritorno all’accumulazione di profitti per questi ultimi tramite lo smantellamento dei diritti degli operai e il dimezzamento delle retribuzioni.

Allo stesso modo, l’utilizzo degli strumenti a disposizione del governo per il vantaggio dei poteri forti è risultato evidente anche nell’ambito della cosiddetta riforma del sistema sanitario, il cui fine non è mai stato il diritto alle cure mediche di ogni cittadino, bensì la riduzione dei costi attraverso il razionamento dei servizi e la messa a disposizione di decine di milioni di nuovi clienti per le compagnie assicurative private.

Nonostante l’ampio spazio riservato da Obama alle questioni economiche, il momento probabilmente più significativo del suo discorso è giunto quando il presidente ha citato, sia pure velatamente, le manovre in corso attorno al programma di assassini mirati con i droni. Il pubblico americano ha infatti dovuto assistere allo spettacolo sconcertante di un presidente che, di fronte al Congresso di un paese considerato la culla della democrazia, ha proclamato, senza suscitare alcuna reazione, l’assunzione nelle mani dell’esecutivo di poteri di fatto da stato di polizia.

Parlando di sicurezza nazionale, Obama ha cioè spiegato che, “quando si renderà necessario, attraverso una serie di misure, continueremo ad agire in maniera diretta contro quei terroristi che rappresentano una grave minaccia per gli americani”. Il riferimento agli assassini extra-giudiziari tramite i velivoli senza pilota è risultato evidente a tutti i presenti nell’aula che ospita la Camera dei Rappresentanti.

Obama ha poi ribadito la volontà della sua amministrazione di “creare stabili fondamenta legali” per simili operazioni svincolate da ogni supervisione giudiziaria, così da istituzionalizzarle e dare un’impressione di trasparenza alla gestione di un programma criminale e palesemente contrario ai principi fondamentali della Costituzione.

L’assenza di obiezioni tra i politici o i giudici della Corte Suprema che hanno ascoltato queste affermazioni del presidente sono state seguite dalla stessa mancanza di commenti su questo punto nei media d’oltreoceano, impegnati piuttosto a celebrare la presunta sterzata progressista del presidente agli albori del suo secondo mandato. Un silenzio assordante quello a cui si è assistito martedì che la dice lunga sullo stato di decomposizione delle istituzioni democratiche dell’Unione nell’era Obama.

di Michele Paris

Dando seguito ad una minaccia lanciata sul finire dello scorso anno, nella giornata di martedì la Corea del Nord ha portato a termine il suo terzo test nucleare in violazione di svariate risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’esplosione controllata, condotta nel nord del paese, è stata immediatamente seguita da una valanga di condanne da parte dei governi di tutto il mondo, compreso quello dell’unico alleato di Pyongyang, la Cina, i cui spazi di manovra per contenere le tensioni nella penisola coreana rimangono però estremamente limitati vista la vitale rilevanza strategica del vicino nord-orientale.

L’azione intrapresa dal regime nordcoreano sarebbe la diretta conseguenza del nuovo round di sanzioni adottate dall’ONU nel dicembre scorso in risposta al lancio di quello che l’Occidente ha descritto come un missile balistico di lunga gittata, mentre per Pyongyang era soltanto la messa in orbita di un satellite ad uso civile. L’annuncio del test è stato dato dall’agenzia di stampa ufficiale della Corea del Nord, KCNA, secondo la quale sarebbe stato utilizzato “un dispositivo nucleare miniaturizzato e più leggero ma con un potenziale esplosivo maggiore rispetto ai precedenti… senza causare alcun impatto negativo sull’ambiente circostante”.

Dopo aver rilevato un evento sismico di magnitudo 5,1, pari a circa il doppio di quello provocato dall’esperimento del 2009, l’esplosione è stata successivamente confermata anche dagli Stati Uniti, così come dalla Corea del Sud e dall’agenzia con sede a Vienna che si occupa del monitoraggio dei termini del trattato che bandisce i test nucleari. Il primo test nordcoreano, anch’esso di portata inferiore rispetto a quello di martedì, era stato condotto invece nel 2006.

Il test è stato subito sfruttato dagli Stati Uniti per esercitare ulteriori pressioni sulla Corea del Nord. La Casa Bianca ha infatti parlato di “un atto altamente provocatorio” che danneggia la stabilità della regione. Simili prese di posizioni sono giunte prevedibilmente anche dal neo-primo ministro conservatore giapponese, Shinzo Abe, e dal presidente-eletto sudcoreano, Park Geun-hye, per la quale il più recente test nucleare non farà che isolare ulteriormente un paese già sottoposto a pesanti sanzioni internazionali.

Proprio nuove sanzioni sono state minacciate da molti governi, anche se la Corea del Nord non ha praticamente legami commerciali con paesi esteri ad eccezione della Cina, mentre il suo principale alleato impedirebbe in ogni caso l’adozione di misure più incisive che potrebbero destabilizzare il regime stalinista di Pyongyang.

Nella giornata di martedì, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emesso un comunicato di condanna che ha citato le sanzioni approvate nel mese di gennaio, promettendo inoltre nuove iniziative nella riunione di emergenza che è stata convocata.

Come già anticipato, quella che è stata descritta come una nuova provocazione da parte di Pyongyang ha spinto la Cina ad emettere una condanna insolitamente dura e a convocare l’ambasciatore nordcoreano a Pechino per manifestare il proprio malcontento. Apparentemente, infatti, il test condotto dal giovane leader nordcoreano, Kim Jong-un, sembra rappresentare uno schiaffo per Pechino, da dove nelle ultime settimane erano stati lanciati ripetuti inviti a non procedere con nuovi esperimenti nucleari. Nei giorni scorsi, inoltre, i giornali cinesi avevano apertamente avvertito la Corea del Nord che, in caso avesse scelto di procedere, il regime avrebbe “pagato a caro prezzo” la propria decisione.

Nonostante i toni piuttosto duri assunti da Pechino in risposta al test nordcoreano, appare comunque inverosimile che la Cina giunga ad adottare misure estreme nei confronti dell’alleato, come richiesto da più parti in Occidente. Se il regime della Corea del Nord deve la sua sopravvivenza in gran parte all’assistenza cinese, è altrettanto vero che la stabilità di questo paese risulta di estrema importanza per gli interessi di Pechino.

La Cina, inoltre, ha dato il proprio consenso a molte delle sanzioni finora approvate dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU ma ha respinto l’implementazione di provvedimenti più duri per evitare di destabilizzare Pyongyang. In ultima analisi, d’altra parte, un eventuale crollo del regime della famiglia Kim potrebbe materializzare uno scenario da incubo per Pechino, vale a dire una penisola coreana unificata e alleata degli Stati Uniti.

Questa preoccupazione, con ogni probabilità, continuerà quindi a prevalere a Pechino, soprattutto alla luce del fatto che, come ha ricordato un’analista di stanza in Cina in un’intervista rilasciata martedì al New York Times, la politica nordcoreana viene in gran parte decisa ancora dai “tradizionalisti all’interno dell’Esercito e del Dipartimento Relazioni Internazionali del Partito Comunista”, le cui priorità relativamente alla penisola consistono, nell’ordine, nell’evitare un conflitto, ridurre al minimo l’instabilità e, solo da ultimo, impedire la proliferazione di armamenti nucleari.

Allo stesso tempo, tuttavia, la presunta mancanza di disciplina della Nord Corea non solo continua ad essere un motivo di grave imbarazzo per il regime di Pechino, ma fornisce anche la giustificazione agli USA per intensificare la propria presenza militare in Estremo Oriente. In questo scenario, la Cina deve perciò destreggiarsi in modo da mantenere in vita un regime che rappresenta un cuscinetto strategico fondamentale contro la rinnovata aggressività americana nella regione, ma anche cercando di esercitare un certo controllo su Pyongyang, evitando provocazioni eccessive che finiscano per innescare un confronto aperto con gli Stati Uniti e la Corea del Sud.

Il difficile equilibrio che la Cina sembra costretta a mantenere nei confronti di Pyongyang è risultato evidente dalle stesse reazioni al test nucleare di martedì. Oltre alle parole di condanna, infatti, il Ministero degli Esteri di Pechino ha invitato “tutte le parti ad abbassare i toni e a risolvere la questione della denuclearizzazione della penisola coreana attraverso il dialogo e le consultazioni” nel quadro dei cosiddetti “Colloqui a Sei” tra le due Coree, gli USA, la Cina, il Giappone e la Russia, lanciati nel 2003 e arenatisi nel dicembre del 2008.

Più in generale, alcuni giornali cinesi hanno cercato di mettere in luce le ragioni che hanno spinto la Corea del Nord a condurre tre test nucleari negli ultimi sette anni, mentre la maggior parte dei media occidentali continuano ad offrire motivazioni legate, ad esempio, ai cambiamenti ai vertici dei governi di Corea del Sud e Cina, alla transizione verso la seconda amministrazione Obama, al desiderio di Pyongyang di rimanere al centro dell’attenzione internazionale se non addirittura alla totale irrazionalità del regime di Kim Jong-un.

In questo senso, un editoriale apparso martedì sul quotidiano cinese filo-governativo Global Times ha affermato che, “in apparenza, Pyongyang ha ripetutamente violato le risoluzioni dell’ONU ed usato il proprio programma nucleare come un’arma per sfidare la comunità internazionale, mentre in realtà il comportamento della Corea del Nord ha profonde radici nel forte senso di insicurezza che pervade il regime dopo anni di duro confronto con Seoul, con il Giappone e con un paese molto superiore militarmente come gli Stati Uniti”.

“Agli occhi della Corea del Nord”, continua il pezzo dell’organo del Partito Comunista di Pechino, “Washington non ha risparmiato sforzi per contenere Pyongyang e mostrare ripetutamente i muscoli, tenendo esercitazioni militari nella regione assieme alla Corea del Sud e al Giappone”. Perciò, “l’ultimo test nucleare sembra essere un’altra manifestazione del tentativo da parte di una disperata Corea del Nord di allontanare questa minaccia”.

In sostanza, mentre l’Occidente bolla puntualmente come propaganda le consuete dichiarazioni del regime stalinista, secondo cui il test di martedì sarebbe “un atto di auto-difesa nei confronti dell’ostilità degli Stati Uniti”, esse indicano al contrario la sensazione prevalente all’interno della cerchia di potere nordcoreana, isolata e accerchiata da decenni da una minacciosa superpotenza come quella americana.

Una percezione non del tutto ingiustificata, quella di Pyongyang, che contribuisce a spiegare anche la persistente chiusura del regime e che andrebbe tenuta in qualche considerazione per aprire una qualsiasi ipotesi di dialogo.

Le politiche basate sulle pressioni, le minacce e le ripetute sanzioni, d’altra parte, non hanno fatto altro che irrigidire la posizione della Corea del Nord fino a provocare tre test nucleari, tralasciando puntualmente, e forse volutamente, di rimuovere le ragioni che hanno alimentato il clima di estrema diffidenza reciproca che caratterizza i rapporti con Seoul e Washington fin dall’armistizio che pose fine alla Guerra di Corea nel 1953.

In un clima di tensioni sempre più evidenti in Estremo Oriente, causate principalmente dalla cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama e dal conseguente ricorso al nazionalismo più spinto da parte di tutti i governi della regione, la strategia degli Stati Uniti continua però andare esattamente in senso opposto, aggravando ulteriormente lo scontro nella penisola di Corea, con conseguenze che potrebbero andare ben oltre i confini dei due paesi divisi dal 38esimo parallelo.


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