di Michele Paris

Un gruppo di milizie che fanno parte dell’opposizione siriana ha rotto questa settimana con il gruppo dirigente della cosiddetta Coalizione Nazionale (CNS) sostenuta dall’Occidente, alleandosi di fatto con le forze affiliate ad Al-Qaeda per rimuovere il presidente Bashar al-Assad e instaurare un regime islamista.

La svolta annunciata relativamente a sorpresa ha rivelato la vera natura delle forze appoggiate dagli Stati Uniti e dai loro alleati, mentre allo stesso tempo ha messo Washington in una posizione imbarazzante proprio mentre appariva sempre più necessaria la promozione di un’opposizione coesa e credibile in vista dei possibili negoziati di pace che dovrebbero scaturire dall’accordo con la Russia per lo smantellamento delle armi chimiche di Damasco.

Tredici formazioni armate operanti in Siria hanno così sottoscritto un documento nel quale si afferma chiaramente che esse non sono in nessun modo rappresentate dai “gruppi creati all’estero”, i cui membri non sono mai tornati nel paese dall’inizio del conflitto. La dichiarazione condanna esplicitamente la Coalizione Nazionale Siriana con sede a Istanbul e invita “tutte le forze civili e militari a unirsi attorno ad una piattaforma islamista basata sulla Sharia”, la legge islamica che viene indicata come “la sola fonte a cui la legislazione dovrebbe ispirarsi”.

Tra le milizie che hanno sottoscritto l’accordo ce ne sono soprattutto tre - Liwa al-Tawhid, Liwa al-Islam e Suqour al-Sham - le quali sono considerate le meglio attrezzate tra quelle finora sotto l’autorità del Consiglio Militare Supremo del Libero Esercito della Siria, anch’esso promosso dall’Occidente. Con la loro fuoriuscita, dunque, il Consiglio rimane sostanzialmente privo di forze armate sul campo.

Significativamente, del gruppo sganciatosi dalla CNS fa parte anche il Fronte al-Nusra, una delle più agguerrite formazioni che combattono Assad e apertamente affiliata ad Al-Qaeda, nonché finita qualche mese fa sulla lista delle organizzazioni terroristiche del governo americano.

Fuori dall’accordo rimane invece l’altro principale gruppo associato ad Al-Qaeda, il cosiddetto “Stato Islamico dell’Iraq e della Siria” (ISIS), protagonista nelle ultime settimane di violenti scontri armati con altre formazioni anti-Assad nel nord del paese.

Con ogni probabilità, la mossa che ha visto protagoniste le brigate anti-Assad è la diretta conseguenza del tentativo fallito dell’amministrazione Obama di iniziare una campagna militare in Siria che avrebbe favorito le opposizioni armate, da qualche tempo indebolite dalla controffensiva del regime.

Queste milizie, cioè, hanno deciso di mettere fine alla loro sottomissione nominale alla evanescente leadership coltivata dall’Occidente, dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo Persico quando è apparso chiaro che essa non è stata in grado di forzare un intervento armato esterno in Siria per dare la spallata finale al regime di Assad.

Questa evoluzione delle forze di opposizione conferma poi l’assurdità delle pretese americane ed europee di sostenere organizzazioni moderate o secolari che si contrapporrebbero a quelle integraliste affiliate al terrorismo internazionale. In realtà, non appena l’utilità dei legami con la CNS è venuta meno - cioè quando gli USA sono stati costretti ad aprire alla strada diplomatica accettando la proposta russa sulle armi chimiche - anche le brigate più presentabili non hanno esitato ad unire le loro forze con quelle di Al-Qaeda e a dichiarare la loro volontà di creare un regime fondamentalista.

La CNS, quindi, rimane ora del tutto svuotata e il calcolo dell’Occidente smascherato, visto che appare ormai chiaro come l’opposizione considerata affidabile e sulla quale puntare per il dopo Assad non solo non ha alcun seguito in Siria ma non esercita alcun controllo nemmeno su una parte delle formazioni armate attive nel paese.

Con una realtà di questo genere, anche gli sforzi per organizzare la conferenza di pace sulla Siria rimandata da mesi (“Ginevra II”) risultano praticamente inutili. Infatti, in rappresentanza dell’opposizione gli Stati Uniti manderebbero a trattare con il regime un’organizzazione senza alcuna autorità e totalmente impossibilitata a fare applicare qualsiasi condizione fissata in un eventuale accordo.

In definitiva, perciò, l’annuncio di questa settimana delle tredici milizie armate e il colpo mortale che ne è conseguito per la Coalizione Nazionale, chiarisce una volta per tutte quale sia la situazione sul campo in Siria, dove il conflitto è determinato in larghissima parte dallo scontro tra le forze del regime e gruppi integralisti sunniti - spesso con inclinazioni terroristiche - che intendono promuovere unicamente la loro agenda fondamentalista.

Come è evidente, la realtà dipinta dai governi Occidentali di un’opposizione in gran parte intenta a combattere per la libertà e la democrazia viene completamente smentita e si rivela soltanto come una strategia propagandistica per fuorviare l’opinione pubblica internazionale, così da giustificare un coinvolgimento sempre maggiore nella crisi in corso.

La nuova realtà all’interno dell’opposizione armata in Siria offre infine più di un argomento a coloro che hanno sempre visto con estrema preoccupazione il sostegno alle forze anti-Assad. Parallelamente, i falchi dell’intervento umanitario troveranno maggiori difficoltà nel chiedere un intervento più incisivo degli Stati Uniti che finirebbe per beneficiare appunto forze estremiste, così come gli inviti ad Assad a farsi da parte potrebbero attenuarsi alla luce dell’alternativa inquietante che si prefigurerebbe per la Siria e l’intero Medio Oriente.

Nel frattempo, già da mercoledì è iniziata a circolare la notizia che i cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono vicinissimi ad un accordo su una risoluzione per l’implementazione dell’accordo sulla consegna e distruzione dell’arsenale chimico di Assad.

Il disaccordo sull’autorizzazione della forza in caso di mancata cooperazione da parte di Damasco sarebbe infatti stata risolta inserendo nel testo la possibilità di ricorrere a misure punitive estreme ma solo in seguito ad una nuova risoluzione ONU, dove Russia e Cina, in ogni caso, porrebbero il veto ad ogni iniziativa che possa spianare la strada ad un’aggressione militare contro la Siria.

di Mario Lombardo

Le proteste popolari in Grecia seguite all’assassinio avvenuto mercoledì scorso del rapper anti-fascista Pavlos Fyssas, ad opera di un militante del movimento di estrema destra Alba Dorata, si sono unite questa settimana ad una nuova serie di scioperi dei dipendenti del settore pubblico che si battono contro gli incessanti attacchi ai loro diritti e ai loro posti di lavoro da parte di un governo che agisce secondo gli ordini di Bruxelles e degli ambienti finanziari internazionali.

Nella giornata di mercoledì si è concluso uno sciopero di 48 ore indetto dal sindacato del settore pubblico ADEDY, mentre gli insegnanti greci hanno prolungato la loro protesta in corso da giorni fino alla metà di questa settimana. I dipendenti pubblici greci si oppongono ad un piano di mobilità del governo che ha già colpito 12.500 lavoratori. Altri 12.500 dovranno essere in pratica licenziati entro la fine dell’anno, a meno che la cosiddetta troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) non accoglierà la richiesta di Atene di allungare i tempi per la loro messa in mobilità.

Le minacce che devono fronteggiare i lavoratori del settore pubblico sono però molteplici, a cominciare dalla svendita delle aziende statali da tempo annunciata e dall’impegno preso con le autorità europee per eliminare ben 150 mila posti di lavoro entro il 2014.

Nonostante qualche esponente del governo nei giorni scorsi abbia sostenuto che l’economia greca in questi mesi ha iniziato a dare qualche lievissimo segnale di ripresa, la medicina somministrata dalle istituzioni europee non cesserà in nessun modo nel breve periodo.

Sabato scorso, i rappresentanti della troika erano infatti ad Atene per verificare il rispetto delle misure di austerity imposte alla Grecia e per negoziare l’esborso della prossima tranche da un miliardo di euro del “pacchetto di aiuti” destinato al paese dell’Europa meridionale. Possibili nuovi tagli e misure di austerity in un paese già fortemente provato potrebbero essere decisi in previsione di un buco di bilancio che il prossimo anno dovrebbe ammontare a oltre 2 miliardi di euro.

Un eventuale terzo “bailout” per la Grecia è inoltre in fase di discussione e le trattative dovrebbero durare almeno fino alla fine di ottobre. In cambio di nuovi “aiuti” sarebbero ovviamente richieste ulteriori “riforme” che un governo sempre più debole e screditato dovrebbe però cercare di mettere in atto in un clima di tensioni sociali crescenti e sempre più difficili da contenere anche con la sostanziale collaborazione dei partiti all’opposizione e dei sindacati.

Inestricabilmente legate alla devastazione sociale del paese sono poi le già ricordate manifestazioni di protesta che stanno avvenendo contro il partito neo-fascista Alba Dorata in seguito al brutale assassinio di Fyssas, in particolare dopo che sono apparse su vari media greci le prove dei legami tra questa organizzazione e le forze di polizia.

Basandosi su immagini e testimonianze raccolte nei giorni scorsi, ad esempio, il quotidiano Ethnos ha dimostrato la presenza di membri di Alba Dorata al fianco di un reparto dell’unità anti-terrorismo della polizia greca (EKAM) impegnato a sedare con la forza una manifestazione anti-fascista nella serata del 18 settembre scorso, il giorno in cui è stato ucciso il rapper Fyssas.

Ancora più inquietante è apparso poi un articolo della testata To Vima, nel quale viene descritta la struttura interna di Alba Dorata. L’organizzazione di estrema destra è composta cioè da decine di cellule che conducono aggressioni violente contro immigrati o “nemici” di qualsiasi genere sotto la direzione di membri di spicco del partito.

Il loro addestramento sarebbe garantito da ufficiali facenti parte delle Forze Speciali dell’esercito greco che simpatizzano con Alba Dorata. Di questi gruppi paramilitari faceva parte anche l’assassino di Fyssas, il 45enne Yorgos Roupakias, finito agli arresti qualche giorno fa.

I legami o le simpatie per Alba Dorata delle istituzioni greche non sono comunque limitati solo alla polizia, visto che almeno una parte del principale partito di governo - il conservatore Nuova Democrazia del primo ministro Antonis Samaras - dopo le elezioni dello scorso giugno aveva cercato di promuovere un’alleanza con i neo-fascisti entrati per la prima volta in Parlamento.

Più in generale, i governi succedutisi in Grecia dopo l’esplosione della crisi economica hanno deliberatamente alimentato i sentimenti xenofobi nel paese, così da dividere le classi più disagiate e dirottare il malcontento popolare verso stranieri e immigrati, con il risultato di favorire l’avanzata di organizzazioni neo-fasciste violente come Alba Dorata.

Il sostegno a quest’ultima viene assicurato non solo dalla polizia ma anche da esponenti di primo piano del capitalismo greco, pronti a finanziare una forza paramilitare che, in ultima analisi, ha il compito di reprimere qualsiasi mobilitazione indipendente delle classi maggiormente colpite dalle politiche economiche del governo e dell’Unione Europea.

Di fronte alla rabbia suscitata dallo strapotere di Alba Dorata e dai legami di quest’ultima con la polizia, la classe dirigente greca si è trovata così costretta a prendere qualche provvedimento. Innanzitutto, un’indagine sui legami tra la polizia e Alba Dorata è stata finalmente aperta, mentre nei giorni scorsi sono state perquisite svariate sedi del partito neo-fascista greco e abitazioni di alcuni suoi membri.

Inoltre, lunedì il governo ha rimosso dal loro incarico sette ufficiali di polizia di grado elevato e altri due hanno rassegnato le dimissioni per “motivi personali”. La Corte Suprema greca, infine, ha iniziato questa settimana a discutere un’istanza presentata dal ministro per l’Ordine Pubblico, Nikos Dendias, per stabilire se Alba Dorata possa essere classificata come un’organizzazione criminale ed essere quindi messa di fatto fuori legge.

di Michele Paris

L’annuale convocazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York ha fornito l’occasione al governo iraniano in carica da poche settimane di lanciare una sorta di offensiva diplomatica volta a riaprire un dialogo reale con l’Occidente dopo anni di contrapposizione pressoché totale.

L’arrivo al Palazzo di Vetro del neo-presidente, Hassan Rouhani, e del ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, è apparso perciò come il banco di prova per un percorso di riconciliazione con Teheran che, soprattutto a Washington e Tel Aviv, trova ancora molti irriducibili oppositori.

La trasferta in territorio americano dei due leader iraniani era stata accuratamente preparata da una serie di dichiarazioni concilianti e di interventi nei media occidentali e sui social network per lanciare messaggi inequivocabili della disponibilità dei vertici della Repubblica Islamica a discutere le questioni che hanno rappresentato continui motivi di scontro in questi anni, a cominciare dal programma nucleare di Teheran.

Questa settimana, così, è iniziata con svariati incontri alle Nazioni Unite, con Zarif che lunedì è stato ad esempio protagonista di faccia a faccia con i suoi omologhi di Gran Bretagna, Italia e Olanda, oltre che con la responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton.

Quest’ultima ha annunciato che lo stesso ministro iraniano parteciperà ad un meeting previsto per giovedì con i rappresentanti dei paesi facenti parte del gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) in vista del prossimo vertice sul nucleare in programma nel mese di ottobre dopo l’ultimo andato in scena in Kazakistan ad aprile e conclusosi con un nulla di fatto.

Se la Ashton ha provato a smorzare gli entusiasmi, precisando che nel suo incontro con Zarif non si è parlato delle iniziative concrete che l’Iran potrebbe essere pronto ad adottare per rassicurare i suoi interlocutori circa il proprio programma nucleare, i toni delle dichiarazioni dei vari diplomatici coinvolti nel possibile processo di distensione in corso sono apparsi sostanzialmente ottimisti.

In particolare, la stampa americana ha sottolineato come l’incontro che dovrebbe avvenire nella giornata di giovedì tra Zarif e il segretario di Stato, John Kerry, sarebbe il faccia a faccia di più alto livello tra Stati Uniti e Iran da molti anni a questa parte.

Il presidente Obama e Rouhani si sono inoltre avvicendati martedì sul podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dopo che nelle scorse settimane erano stati protagonisti di un cortese  scambio di lettere.

Nel suo discorso, l’inquilino della Casa Bianca ha confermato che le aperture dell’Iran potrebbero rappresentare la base per un accordo sul nucleare, così che “la strada della diplomazia deve essere messa alla prova”.

A ribadire la nuova attitudine della classe dirigente iraniana è stato sempre lunedì anche un editoriale pubblicato dal quotidiano britannico Guardian a firma dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami, il quale continua ad essere ben visto da molti in Occidente. Khatami ha ribadito come Rouhani si presenti a New York con “un’agenda per il cambiamento” per raggiungere “una soluzione diplomatica con l’Occidente non solo attorno al nucleare ma anche ad altre questioni di politica estera”.

L’ex presidente iraniano ha poi confermato come l’offensiva diplomatica di Rouhani sia “sostenuta pubblicamente e in maniera esplicita” dalla Guida Suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, al quale spettano le decisioni ultime in materia di politica estera e sul programma nucleare del suo paese.

Lo stesso Khamenei, infatti, secondo molti osservatori sembra avere allentato almeno temporaneamente la propria linea dura nei confronti dell’Occidente, autorizzando il nuovo presidente moderato addirittura a partecipare a colloqui diretti con gli Stati Uniti. In una recente intervista rilasciata a NBC News, Rouhani aveva egli stesso affermato di avere ricevuto un “mandato pieno” da parte di Khamenei per risolvere la disputa sul nucleare.

In alcuni suoi interventi pubblici, Khamenei ha effettivamente lasciato intendere di avere dato la propria approvazione alla ricerca di un dialogo con l’Occidente. In un discorso tenuto lo scorso 17 settembre di fronte ad una platea composta da membri della Guardia della Rivoluzione, l’ayatollah aveva così espresso il concetto di “flessibilità eroica”, secondo il quale, in una controversia diplomatica come quella con gli Stati Uniti, è ammissibile mostrare appunto una certa flessibilità pur senza dimenticare la natura della propria controparte.

La cauta apertura al dialogo mostrata da Khamenei, concretizzatasi nelle iniziative di Rouhani e Zarif, è in larga misura la conseguenza delle durissime sanzioni applicate ai danni dell’Iran dagli USA e dall’Occidente in genere. Queste misure punitive senza precedenti hanno infatti determinato un crollo delle esportazioni petrolifere, fatto impennare i livelli di inflazione e di disoccupazione, nonché praticamente tagliato fuori l’Iran dai circuiti bancari internazionali.

I timori per un’esplosione sociale dovuta al rapido deteriorarsi delle condizioni di vita nel paese ha perciò spinto i massimi vertici della Repubblica Islamica a lasciare mano relativamente libera a Rouhani, già protagonista durante la presidenza Khatami di un accordo di breve durata con l’Occidente per la sospensione delle attività di arricchimento dell’uranio.

Se i media e i governi occidentali continuano a interrogarsi sulla sincerità delle aperture iraniane e invitano ad attendere atti concreti che dimostrino le buone intenzioni della Repubblica Islamica, in realtà l’eventuale avvio di un autentico processo di distensione dipende in larghissima parte dall’atteggiamento degli Stati Uniti e dei loro alleati, in particolare dalla disponibilità - finora inesistente - di questi ultimi a riconoscere le legittime aspirazioni iraniane.

L’amministrazione Obama, da parte sua, ha segnalato in questo giorni la propria volontà a sondare l’ipotesi di un dialogo diretto, ma sempre agitando l’opzione militare o aggiungendo condizioni legate ad una verifica della “serietà” dell’Iran nell’affrontare la questione del nucleare. Vale a dire, in sostanza, della disponibilità a sottomettersi alle richieste occidentali nonostante non esista una sola prova che il programma di Teheran abbia come scopo la realizzazione di armi atomiche.

Come hanno mostrato i vari round di negoziati con i P5+1 di questi anni, nei quali i segnali di apertura iraniani sono stati puntualmente respinti da Washington e spesso seguiti da sanzioni sempre più pesanti, l’obiettivo ultimo degli americani è d’altra parte quello di utilizzare la diatriba attorno al nucleare per forzare un cambio di regime a Teheran o, quanto meno, sottomettere la Repubblica Islamica ai propri interessi e a quelli dei propri alleati nella regione mediorientale.

La predisposizione al dialogo mostrata in queste settimane da Rouhani, almeno per il momento, viene però valutata con estrema attenzione da parte dell’amministrazione Obama, soprattutto dopo avere constatato la massiccia opposizione popolare a possibili nuove guerre quando l’aggressione militare contro la Siria sembrava non dover trovare alcun ostacolo.

La diplomazia americana dovrà comunque fare i conti con quanti chiedono a Obama di mantenere la linea dura nei confronti dell’Iran. Pressioni in questo senso sono già state ampiamente esercitate dal Congresso e da Israele, da dove in molti considerano quella di Rouhani come una strategia di facciata per prendere tempo e proseguire in maniera più decisa nel programma di arricchimento dell’uranio a scopi militari.

Un gruppo di senatori democratici e repubblicani ha così indirizzato lunedì una lettera alla Casa Bianca, invitando il presidente a non allentare in nessun modo le sanzioni economiche che colpiscono l’Iran.

Questa iniziativa, al di là dei possibili incontri tra i leader dei due paesi nemici nei corridoi delle Nazioni Unite, non promette nulla di buono per il futuro di un eventuale processo di distensione.

Infatti, un alleggerimento significativo delle sanzioni - cioè la ragione principale che ha spinto Teheran ad inaugurare una vera e propria svolta diplomatica - dovrebbe essere approvato proprio da un Congresso americano che, dietro le pressioni della lobby israeliana, a grandissima maggioranza continua ad opporsi in maniera ferma a qualsiasi forma di dialogo con la Repubblica Islamica dell’Iran.

di Michele Paris

Mentre il governo siriano di Bashar al-Assad sembra avere finora rispettato i termini imposti dall’accordo tra Stati Uniti e Russia sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco, l’amministrazione Obama continua a manovrare dietro le quinte per riuscire a creare un pretesto che giustifichi un intervento armato nel paese mediorientale.

Se l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW) ha fatto sapere nel fine settimana che la Siria ha consegnato venerdì l’elenco delle proprie armi chimiche secondo le scadenze previste, le trattative per definire l’implementazione dell’accordo continuano ad incontrare ostacoli a causa dell’atteggiamento americano.

In particolare, la Russia da una parte e gli sponsor occidentali dell’opposizione armata siriana dall’altra non hanno ancora superato le loro divergenze sulla questione dei provvedimenti da adottare nel caso la Siria dovesse violare le procedure previste per la consegna e la distruzione delle proprie armi chimiche.

Gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, insistono cioè nell’introdurre in un’eventuale risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il riferimento al cosiddetto “Capitolo 7” della carta ONU, il quale prevede appunto l’autorizzazione all’uso della forza in caso di mancato rispetto di quanto stabilito dalla risoluzione stessa.

Come hanno riportato i media americani nei giorni scorsi, inoltre, la Casa Bianca vedrebbe con favore l’adozione di un altro meccanismo che faciliterebbe un’aggressione contro la Siria, vale a dire l’assegnazione all’OPCW dell’autorità di stabilire se Damasco ha violato o meno l’accordo sulle armi chimiche. Questa ipotesi, viene ovviamente respinta da Russia e Cina, poiché consentirebbe agli USA di agire militarmente bypassando il Consiglio di Sicurezza.

In un’intervista concessa nella giornata di domenica alla TV russa, il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, ha rilasciato dichiarazioni molto pesanti nei confronti dell’amministrazione Obama, accusandola di volere “ricattare” il Cremlino. Per Lavrov, a differenza di quanto stabilito inizialmente assieme al Segretario di Stato, John Kerry, gli Stati Uniti stanno minacciando di ritirare il proprio appoggio all’accordo sulla consegna delle armi chimiche siriane se la Russia non accetterà una risoluzione che includa il riferimento al Capitolo 7 della carta ONU.

Il governo russo, così come quello cinese, è ben consapevole che la richiesta di Washington ha come scopo quello di ottenere una parvenza di legittimità per un attacco unilaterale contro la Siria. Mosca e Pechino, infatti, hanno imparato la lezione del 2011, quando la loro astensione al Consiglio di Sicurezza consentì l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia, subito manipolata dalla NATO per condurre una campagna di bombardamenti su vasta scala e rimuovere Gheddafi dal potere.

Sempre secondo le parole di Lavrov, dunque, “gli USA non vedono nell’accordo con la Russia un’occasione per salvare il pianeta dall’uso di consistenti quantitativi di armi chimiche, bensì come un’occasione per ottenere ciò che Russia e Cina non permettono: fare approvare una risoluzione che autorizzi l’uso della forza contro il regime di Assad a tutto vantaggio dell’opposizione”.

Con un simile strumento nelle loro mani, gli Stati Uniti potrebbero così in qualsiasi momento denunciare la mancanza di collaborazione da parte di Damasco nell’applicazione dei complessi termini dell’accordo sulla distruzione delle armi chimiche e giustificare un attacco militare che, a loro dire, trarrebbe legittimità da una risoluzione ONU.

L’inaccettabilità della pretesa degli americani e dei loro alleati europei appare poi ancora più evidente dal fatto che essa si basa su un presupposto tutt’altro che appurato, vale a dire la responsabilità del regime siriano nell’attacco con armi chimiche nella località di Ghouta - presso Damasco - lo scorso mese di agosto.

Un altro aspetto del tutto trascurato dagli Stati Uniti e dall’Occidente e su cui Lavrov ha invece portato l’attenzione nella sua intervista del fine settimana, è legato alle armi o sostanze chimiche letali nelle mani dell’opposizione armata. Per il capo della diplomazia di Mosca, l’accordo prevederebbe cioè anche la consegna agli ispettori internazionali delle armi non-convenzionali detenute dai gruppi anti-Assad.

Come ha sostenuto Lavrov, gli stessi servizi segreti israeliani avrebbero infatti confermato almeno due casi nei quali i “ribelli” hanno assunto il controllo di aree dove si trovavano depositi di armi chimiche dell’esercito siriano.

Su questa condizione avanzata dalla Russia, in ogni caso, gli Stati Uniti non si sono ancora pubblicamente espressi ma è improbabile che Washington acconsenta ad introdurla nell’accordo. Nonostante i molti indizi emersi circa la disponibilità da parte dei “ribelli” di armi e sostanze tossiche in quantità sufficiente per condurre attacchi come quello del 21 agosto grazie all’assistenza dei governi che li sostengono, gli USA continuano ad affermare il contrario.

La fermezza americana su questo punto consente d’altra parte all’Occidente di continuare a negare qualsiasi ipotesi che implichi i “ribelli” nei fatti di Ghouta e a promuovere la versione - propagandata da quasi tutti i media “mainstream” - che il rapporto degli ispettori ONU assegni sia pure implicitamente al regime di Assad la responsabilità degli attacchi con armi chimiche.

Il rapporto, in realtà, non identifica gli autori dell’attacco ma i vari governi che sostengono l’opposizione siriana avrebbero dedotto da alcuni dati tecnici in esso contenuti che almeno due dei missili esplosi il 21 agosto sarebbero stati lanciati da un’area della città sotto il controllo delle forze del regime. Inoltre, la quantità relativamente consistente di sarin impiegato era tale che sarebbe stato impossibile per i “ribelli” venirne in possesso.

Questa versione è stata però messa in discussione da molti esperti e analisti, tra i quali alcuni sostengono come l’attacco su “larga scala” descritto dagli ispettori ONU avrebbe dovuto fare migliaia o forse decine di migliaia di vittime se il gas sarin lanciato con più missili si fosse propagato nell’ambiente come si deduce dalla versione ufficiale dei fatti.

Alla luce delle conseguenze provocate, appare più ragionevole ad esempio l’ipotesi, avanzata qualche settimana fa da una testata on-line americana, dell’esplosione accidentale delle armi in mano ai “ribelli” dopo che questi ultimi le avevano ricevute dai servizi segreti sauditi.

Ancora, qualche media alternativo ha messo in discussione la credibilità stessa del capo della missione ONU in Siria, lo svedese Ake Sellstrom, i cui indizi seminati nel rapporto hanno consentito a Washington, Parigi e Londra di puntare il dito contro Assad.

Come ha fatto notare qualche giorno fa un giornalista investigativo giapponese sul sito web globalresearch.ca, ad esempio, Sellstrom lavora in un centro di ricerca presso un’università svedese sponsorizzata dal ministero della Difesa di Stoccolma e i finanziamenti ricevuti da essa per vari progetti di studio sono finanziati dai fondi dell’Unione Europea destinati alla “lotta contro il terrorismo”. La stessa università di Sellstrom collabora poi con un istituto di ricerca di Tel Aviv che, a sua volta, mantiene stretti contatti con le forze armate e i servizi segreti israeliani.

Quasi mai preso in considerazione è infine il calcolo strategico del regime di Assad nel decidere un attacco con armi chimiche proprio mentre erano presenti in territorio siriano ispettori ONU giunti dietro invito di Damasco. Alla luce delle minacce lanciate da oltre un anno da parte dell’Occidente in caso di ricorso ad armi chimiche, per il governo l’utilizzo di questo genere di armi sarebbe stato un autentico suicidio, oltretutto dopo avere sostanzialmente ribaltato gli equilibri sul campo e avere messo alle corde i “ribelli” in molte aree del paese.

In questa prospettiva, l’ipotesi forse più plausibile per spiegare i fatti di Ghouta continua ad essere quella di un’operazione messa in atto più o meno intenzionalmente dai “ribelli” stessi, con l’intenzione di incolpare il regime e provocare un intervento militare esterno.

Questo piano, verosimilmente concordato con gli Stati Uniti e i loro alleati, era stato sul punto di dare i risultati sperati nei giorni successivi all’attacco. L’amministrazione Obama si è però trovata a fare i conti con una inaspettata opposizione popolare ad un nuovo conflitto, vedendosi costretta dapprima a chiedere l’autorizzazione all’uso della forza al Congresso e, di fronte alla prospettiva di subire un’umiliante sconfitta vista la contrarietà anche di molti deputati e senatori democratici, ad abbracciare l’iniziativa russa sullo smantellamento delle armi chimiche di Assad.

Come dimostrano i contrasti con Mosca di questi giorni e l’insistenza americana per una risoluzione ONU che contempli l’ipotesi militare, tuttavia, la minaccia di guerra è solo rimandata e l’accordo in fase di finalizzazione, per l’amministrazione Obama, non è altro che un ulteriore mezzo per giungere finalmente alla rimozione con la forza di un regime ostile ai propri interessi in Medio Oriente.

di Mario Lombardo

Con la seconda migliore prestazione fatta segnare dal suo partito dal 1990, la cancelliera Angela Merkel si è garantita domenica un terzo mandato alla guida della Germania. I risultati non ancora ufficiali lasciano però in dubbio la composizione del prossimo governo che sarà determinata dal numero definitivo dei seggi conquistati dai Cristiano Democratici (CDU) e dall’Unione Cristiano Sociale (CSU), nonché dall’eventuale ingresso nel “Bundestag” del partito anti-europeista AfD (Alternative für Deutschland).

La CDU della Merkel e la CSU avrebbero dunque ottenuto circa il 42% dei consensi, con un guadagno superiore all’8% rispetto alle elezioni del 2008. Nonostante il modesto miglioramento dei Social Democratici (SPD), il principale partito di opposizione ha invece chiuso con un bilancio fallimentare, riuscendo a conquistare poco meno del 26% dei voti espressi.

In netto calo sono risultati anche i Verdi e Die Linke, incapaci di proporsi come alternativa convincente ai due principali partiti del panorama politico tedesco e fermatisi rispettivamente all’8,1% e all’8,5%.

Le uniche cattive notizie per la Merkel sono state rappresentate dal tracollo del proprio partner di governo, il partito Liberale Democratico (FDP) pro-business, fermatosi al 4,7%. Come previsto e già anticipato dai risultati delle recenti elezioni locali in Baviera, quest’ultimo partito per la prima volta dal dopoguerra non è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5% prevista per l’ingresso nella camera bassa del Parlamento tedesco, perdendo perciò tutti e 93 i seggi attualmente occupati grazie al 14,6% dei voti ottenuti cinque anni fa.

Senza la possibilità di contare sull’FDP e nel caso non riuscissero a garantirsi la maggioranza assoluta, la CDU e la CSU dovranno cercare altrove il sostegno necessario a formare un governo. L’ipotesi più probabile è quella della riproposizione della cosiddetta “Grosse Koalition” con l’SPD dopo quella guidata sempre dalla Merkel tra il 2005 e il 2009. Ugualmente percorribile, anche se meno probabile, potrebbe essere poi un’alleanza inedita della CDU e della CSU con i Verdi.

Il candidato alla cancelleria per l’SPD, Peer Steinbrück, è stato d’altra parte il Ministro delle Finanze nel governo Merkel sorto dopo le elezioni del 2009 e si trova su posizioni per certi versi molto vicine a quelle della leader dei conservatori tedeschi nonostante una campagna elettorale nella quale ha promesso di lavorare alla riduzione delle differenze di reddito e di aumentare il carico fiscale per i tedeschi più ricchi

Alla diffusione dei primi risultati nella serata di domenica, Steinbrück ha in sostanza confermato la disponibilità del suo partito per una Grande Coalizione, affermando che “la palla è ora nel campo della signora Merkel che ha la responsabilità di mettere assieme una maggioranza”.

Questa prospettiva di un nuovo governo CDU-CSU-SPD diventerebbe poi una certezza se gli anti-europeisti di AfD dovessero superare la soglia del 5% e ottenere una rappresentanza nel Bundestag, visto che i seggi da assegnare ai vari partiti dovrebbero essere riconteggiati. Le proiezioni indicano per questo partito, fondato solo lo scorso mese di febbraio, un risultato tra il 4,8 e il 4,9%.

La Grande Coalizione è in ogni caso la soluzione preferita da Bruxelles e dagli ambienti finanziari internazionali, certi che l’ingresso nel governo dei Social Democratici potrebbe garantire la copertura “progressista” necessaria per tenere a freno le tensioni sociali in vista delle misure impopolari che si prospettano anche per la Germania.

Infatti, al di là dei consueti resoconti giornalistici che esaltano le prestazioni economiche della Germania e il basso livello di disoccupazione, la crescita che questo paese è riuscito a mantenere durante questi anni di crisi ha prodotto risultati contraddittori.

Gli ultimi due decenni hanno cioè registrato anche qui un nettissimo aumento delle disuguaglianze sociali e dei livelli di povertà, dovuti in gran parte alle misure che, secondo la versione ufficiale, hanno garantito la crescita economica tedesca.

A tutt’oggi, infatti, quasi un quarto di tutti i lavoratori dipendenti in Germania ha un impiego sottopagato, una percentuale in Europa inferiore soltanto alla Lituania. Dei risultati della “locomotiva” tedesca, perciò, hanno beneficiato quasi esclusivamente i redditi più alti, grazie soprattutto alle “riforme” dello stato sociale e del mercato del lavoro implementate proprio dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder tra il 1998 e il 2005. Difficile che la musica cambi.


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