di Michele Paris

L’annuale convocazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York ha fornito l’occasione al governo iraniano in carica da poche settimane di lanciare una sorta di offensiva diplomatica volta a riaprire un dialogo reale con l’Occidente dopo anni di contrapposizione pressoché totale.

L’arrivo al Palazzo di Vetro del neo-presidente, Hassan Rouhani, e del ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, è apparso perciò come il banco di prova per un percorso di riconciliazione con Teheran che, soprattutto a Washington e Tel Aviv, trova ancora molti irriducibili oppositori.

La trasferta in territorio americano dei due leader iraniani era stata accuratamente preparata da una serie di dichiarazioni concilianti e di interventi nei media occidentali e sui social network per lanciare messaggi inequivocabili della disponibilità dei vertici della Repubblica Islamica a discutere le questioni che hanno rappresentato continui motivi di scontro in questi anni, a cominciare dal programma nucleare di Teheran.

Questa settimana, così, è iniziata con svariati incontri alle Nazioni Unite, con Zarif che lunedì è stato ad esempio protagonista di faccia a faccia con i suoi omologhi di Gran Bretagna, Italia e Olanda, oltre che con la responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton.

Quest’ultima ha annunciato che lo stesso ministro iraniano parteciperà ad un meeting previsto per giovedì con i rappresentanti dei paesi facenti parte del gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) in vista del prossimo vertice sul nucleare in programma nel mese di ottobre dopo l’ultimo andato in scena in Kazakistan ad aprile e conclusosi con un nulla di fatto.

Se la Ashton ha provato a smorzare gli entusiasmi, precisando che nel suo incontro con Zarif non si è parlato delle iniziative concrete che l’Iran potrebbe essere pronto ad adottare per rassicurare i suoi interlocutori circa il proprio programma nucleare, i toni delle dichiarazioni dei vari diplomatici coinvolti nel possibile processo di distensione in corso sono apparsi sostanzialmente ottimisti.

In particolare, la stampa americana ha sottolineato come l’incontro che dovrebbe avvenire nella giornata di giovedì tra Zarif e il segretario di Stato, John Kerry, sarebbe il faccia a faccia di più alto livello tra Stati Uniti e Iran da molti anni a questa parte.

Il presidente Obama e Rouhani si sono inoltre avvicendati martedì sul podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dopo che nelle scorse settimane erano stati protagonisti di un cortese  scambio di lettere.

Nel suo discorso, l’inquilino della Casa Bianca ha confermato che le aperture dell’Iran potrebbero rappresentare la base per un accordo sul nucleare, così che “la strada della diplomazia deve essere messa alla prova”.

A ribadire la nuova attitudine della classe dirigente iraniana è stato sempre lunedì anche un editoriale pubblicato dal quotidiano britannico Guardian a firma dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami, il quale continua ad essere ben visto da molti in Occidente. Khatami ha ribadito come Rouhani si presenti a New York con “un’agenda per il cambiamento” per raggiungere “una soluzione diplomatica con l’Occidente non solo attorno al nucleare ma anche ad altre questioni di politica estera”.

L’ex presidente iraniano ha poi confermato come l’offensiva diplomatica di Rouhani sia “sostenuta pubblicamente e in maniera esplicita” dalla Guida Suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, al quale spettano le decisioni ultime in materia di politica estera e sul programma nucleare del suo paese.

Lo stesso Khamenei, infatti, secondo molti osservatori sembra avere allentato almeno temporaneamente la propria linea dura nei confronti dell’Occidente, autorizzando il nuovo presidente moderato addirittura a partecipare a colloqui diretti con gli Stati Uniti. In una recente intervista rilasciata a NBC News, Rouhani aveva egli stesso affermato di avere ricevuto un “mandato pieno” da parte di Khamenei per risolvere la disputa sul nucleare.

In alcuni suoi interventi pubblici, Khamenei ha effettivamente lasciato intendere di avere dato la propria approvazione alla ricerca di un dialogo con l’Occidente. In un discorso tenuto lo scorso 17 settembre di fronte ad una platea composta da membri della Guardia della Rivoluzione, l’ayatollah aveva così espresso il concetto di “flessibilità eroica”, secondo il quale, in una controversia diplomatica come quella con gli Stati Uniti, è ammissibile mostrare appunto una certa flessibilità pur senza dimenticare la natura della propria controparte.

La cauta apertura al dialogo mostrata da Khamenei, concretizzatasi nelle iniziative di Rouhani e Zarif, è in larga misura la conseguenza delle durissime sanzioni applicate ai danni dell’Iran dagli USA e dall’Occidente in genere. Queste misure punitive senza precedenti hanno infatti determinato un crollo delle esportazioni petrolifere, fatto impennare i livelli di inflazione e di disoccupazione, nonché praticamente tagliato fuori l’Iran dai circuiti bancari internazionali.

I timori per un’esplosione sociale dovuta al rapido deteriorarsi delle condizioni di vita nel paese ha perciò spinto i massimi vertici della Repubblica Islamica a lasciare mano relativamente libera a Rouhani, già protagonista durante la presidenza Khatami di un accordo di breve durata con l’Occidente per la sospensione delle attività di arricchimento dell’uranio.

Se i media e i governi occidentali continuano a interrogarsi sulla sincerità delle aperture iraniane e invitano ad attendere atti concreti che dimostrino le buone intenzioni della Repubblica Islamica, in realtà l’eventuale avvio di un autentico processo di distensione dipende in larghissima parte dall’atteggiamento degli Stati Uniti e dei loro alleati, in particolare dalla disponibilità - finora inesistente - di questi ultimi a riconoscere le legittime aspirazioni iraniane.

L’amministrazione Obama, da parte sua, ha segnalato in questo giorni la propria volontà a sondare l’ipotesi di un dialogo diretto, ma sempre agitando l’opzione militare o aggiungendo condizioni legate ad una verifica della “serietà” dell’Iran nell’affrontare la questione del nucleare. Vale a dire, in sostanza, della disponibilità a sottomettersi alle richieste occidentali nonostante non esista una sola prova che il programma di Teheran abbia come scopo la realizzazione di armi atomiche.

Come hanno mostrato i vari round di negoziati con i P5+1 di questi anni, nei quali i segnali di apertura iraniani sono stati puntualmente respinti da Washington e spesso seguiti da sanzioni sempre più pesanti, l’obiettivo ultimo degli americani è d’altra parte quello di utilizzare la diatriba attorno al nucleare per forzare un cambio di regime a Teheran o, quanto meno, sottomettere la Repubblica Islamica ai propri interessi e a quelli dei propri alleati nella regione mediorientale.

La predisposizione al dialogo mostrata in queste settimane da Rouhani, almeno per il momento, viene però valutata con estrema attenzione da parte dell’amministrazione Obama, soprattutto dopo avere constatato la massiccia opposizione popolare a possibili nuove guerre quando l’aggressione militare contro la Siria sembrava non dover trovare alcun ostacolo.

La diplomazia americana dovrà comunque fare i conti con quanti chiedono a Obama di mantenere la linea dura nei confronti dell’Iran. Pressioni in questo senso sono già state ampiamente esercitate dal Congresso e da Israele, da dove in molti considerano quella di Rouhani come una strategia di facciata per prendere tempo e proseguire in maniera più decisa nel programma di arricchimento dell’uranio a scopi militari.

Un gruppo di senatori democratici e repubblicani ha così indirizzato lunedì una lettera alla Casa Bianca, invitando il presidente a non allentare in nessun modo le sanzioni economiche che colpiscono l’Iran.

Questa iniziativa, al di là dei possibili incontri tra i leader dei due paesi nemici nei corridoi delle Nazioni Unite, non promette nulla di buono per il futuro di un eventuale processo di distensione.

Infatti, un alleggerimento significativo delle sanzioni - cioè la ragione principale che ha spinto Teheran ad inaugurare una vera e propria svolta diplomatica - dovrebbe essere approvato proprio da un Congresso americano che, dietro le pressioni della lobby israeliana, a grandissima maggioranza continua ad opporsi in maniera ferma a qualsiasi forma di dialogo con la Repubblica Islamica dell’Iran.

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