di Michele Paris

Coerentemente con l’abituale manipolazione delle notizie provenienti dalla Siria da parte dei principali media occidentali, le informazioni giunte in questi giorni dal paese mediorientale e dagli ambienti diplomatici internazionali continuano ad essere utilizzate per aumentare le pressioni sul regime di Bashar al-Assad e spianare la strada ad un intervento militare esterno per cambiare drasticamente le sorti del conflitto.

Ampio risalto è stato infatti assegnato, ad esempio, al rapporto di una speciale commissione delle Nazioni Unite sulle violenze commesse da entrambe le parti in Siria, così come alle nuove esplicite accuse lanciate dai governi di Francia e Gran Bretagna contro Damasco per avere fatto uso di armi chimiche contro i “ribelli” armati. Al contrario, decisamente meno spazio hanno trovato le notizie che non rientrano nel quadro della presunta repressione di un regime dittatoriale contro un’insurrezione popolare democratica e che raccontano invece una storia ben differente.

I risultati dell’indagine condotta dalla Commissione Internazionale d’Inchiesta sulla Siria sono stati presentati lunedì in una conferenza stampa a Ginevra e hanno dipinto un scenario sempre più allarmante della crisi in atto da oltre due anni. Quasi 7 milioni di persone sono ormai costrette a vivere in aree interessante dal conflitto, quasi 4,5 milioni di siriani hanno abbandonato forzatamente le proprie abitazioni e altri 1,6 milioni hanno trovato rifugio all’estero.

Il rapporto ONU indica poi come causa principale del prolungarsi della guerra l’afflusso ininterrotto di armi da altri paesi, con un possibile aggravamento della situazione dovuto sia alla recente decisione dell’Unione Europea di cancellare l’embargo sulla fornitura di armi all’opposizione sia all’annunciata spedizione del sistema missilistico S-300 dalla Russia al governo Assad. Mentre nel primo caso, equipaggiamenti militari sofisticati potrebbero finire nelle mani di gruppi jihadisti già responsabili di orrendi massacri in Siria, le batterie di missili russi hanno una funzione in larga parte difensiva e servono per contrastare un’eventuale no-fly zone che potrebbe essere imposta dall’Occidente.

Uno dei punti chiave del rapporto è comunque la conferma della prevalenza tra le fila dell’opposizione di formazioni integraliste sunnite, in alcuni casi legate direttamente ad Al-Qaeda, le quali, grazie a militanti stranieri provenienti da paesi vicini, contribuiscono con le loro azioni ad innalzare i livelli di “crudeltà e brutalità”.

Gli investigatori dell’ONU spiegano che esiste una disparità tra i crimini commessi dalle forze governative e quelli dei gruppi di opposizione, ancorché tale disparità riguarda l’intensità degli abusi e non la natura di essi. A scorrere il rapporto, tuttavia, emerge ancora una volta il ritratto di un’opposizione armata dai lineamenti a dir poco inquietanti e responsabile di “crimini di guerra, tra cui assassini, condanne ed esecuzioni senza un processo equo, torture, rapimenti e saccheggi”.

Particolarmente preoccupante viene poi definito il crescente reclutamento di bambini-soldato e la pratica sempre più diffusa della decapitazione di soldati disarmati dell’esercito regolare.

L’attenzione dei media si è rivolta però soprattutto alla sezione del rapporto relativa all’uso di armi chimiche, pretesto utilizzato per giustificare un possibile intervento militare diretto in Siria. Gli investigatori avrebbero infatti trovato per la prima volta prove dell’uso di bombe termobariche che, oltre ad un’esplosione, determinano un consumo istantaneo dell’ossigeno nell’area interessata, impedendo la respirazione. “Quantità limitate di agenti chimici tossici” sarebbero stati inoltre usate tra marzo e aprile in varie località, tra cui Aleppo, Damasco e Idlib.

Il presidente della commissione d’inchiesta dell’ONU, Paulo Pinheiro, non ha però fornito ulteriori dettagli, né ha spiegato a chi dovrebbe essere attribuita la responsabilità dell’uso di armi chimiche. Lo scorso mese di maggio, un membro autorevole della stessa commissione, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva affermato in un’intervista che le prove raccolte indicavano un probabile uso di gas sarin da parte dei ribelli e non dalle forze del regime.

Da questa dichiarazione, rapidamente insabbiata dai media “mainstream”, avevano preso le distanze gli altri membri della commissione, probabilmente in seguito a pressioni internazionali, senza però smentirne il contenuto. Ugualmente omessa dalla maggior parte dei resoconti giornalistici è stata anche un’altra notizia di qualche giorno fa che ha descritto l’arresto in Turchia di una dozzina di guerriglieri appartenenti al Fronte al-Nusra - la principale formazione jihadista attiva in Siria - nelle cui abitazioni sono rinvenute sostanze chimiche come il sarin.

Gli arresti sono giunti in contemporanea con la rivelazione di un attentato sventato dalle autorità nella città turca di Adana, nonché un paio di settimane dopo la doppia devastante esplosione a Reyhanli, al confine con la Siria, che ha causato la morte di 52 persone ed attribuita sbrigativamente dal governo di Ankara al regime di Assad pur in presenza di molteplici segnali che riconducevano proprio ai gruppi integralisti in guerra contro Damasco.

Le conclusioni del rapporto ONU, in ogni caso, nonostante implichino nelle violenze entrambe le parti in lotta e rivelino ancora una volta la vera faccia dell’opposizione anti-Assad, hanno spinto media e governi occidentali ad intensificare le accuse nei confronti del regime e a promuovere un maggiore impegno a favore dei “ribelli”, propagandando la consueta favola della necessità di armare al più presto le fazioni “moderate”, in modo da emarginare quelle radicali.

Come hanno messo in luce svariate inchieste giornalistiche nei mesi scorsi, tuttavia, il predominio delle formazioni estremiste in Siria è ormai pressoché assoluto ed esse finiranno perciò per beneficiare ulteriormente di un intensificarsi del flusso di armi che andrebbero peraltro ad aggiungersi a quelle già ricevute da oltre due anni tramite gli alleati degli USA nella regione mediorientale sotto la supervisione di Washington.

Per favorire questa evoluzione, i governi di Londra e Parigi questa settimana hanno tra l’altro annunciato di essere in possesso di risultati di laboratorio che dimostrerebbero l’uso di gas sarin in molteplici occasioni. Secondo il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, “non ci sarebbero dubbi che i responsabili sono il regime e i suoi complici”. Mercoledì, poi, una dichiarazione simile è giunta dal “Foreign Office” britannico, anch’esso però incapace di produrre prove tangibili delle accuse rivolte contro Damasco.

Questa nuova offensiva dei principali paesi occidentali impegnati a manovrare per rimuovere Assad è stata lanciata tutt’altro che casualmente in concomitanza con lo sfondamento delle forze del regime, appoggiate da Hezbollah, nella località strategicamente fondamentale di Qusayr, poco lontano dal confine con il Libano.

Dopo settimane di scontri, mercoledì la televisione siriana ha infatti annunciato che l’esercito siriano ha ripreso il controllo totale della città, centro nevralgico per la fornitura di armi ai “ribelli”. In questi giorni, inoltre, alcuni media hanno citato testimonianze sul campo che indicano come l’esercito regolare e guerriglieri di Hezbollah stiano preparando un’imminente operazione militare ad Aleppo per riprendere la più grande città del paese, da mesi in mano all’opposizione armata.

I rovesci militari patiti da quest’ultima, al contrario di quanto generalmente sostenuto da governi e media occidentali, indicano in maniera evidente una clamorosa mancanza di seguito tra la popolazione siriana. Un’avversione, quella nutrita nei loro confronti anche dalla maggioranza sunnita, che si spiega facilmente scorrendo il già citato rapporto dell’ONU sulle atrocità commesse dai “ribelli” in oltre due anni di conflitto.

Di questa realtà ne sono perfettamente a conoscenza i governi che appoggiano incondizionatamente i “ribelli”, come dimostra un’indagine finita recentemente nelle mani dei vertici NATO e puntualmente trascurata dalla grande maggioranza dei media ufficiali. A fine maggio, cioè, la testata World Tribune aveva rivelato i risultati di una ricerca condotta da organizzazioni e attivisti sponsorizzati dall’Occidente, secondo la quale il presidente Assad godrebbe di un consenso tra la popolazione siriana ben superiore ai livelli che possono vantare, ad esempio, i governi di Washington, Londra o Parigi.

In particolare, circa il 70% dei siriani sosterrebbe il regime alauita, mentre il 20% si dichiara neutrale e un misero 10% è a favore dei “ribelli”. Questi dati smascherano clamorosamente la strategia degli Stati Uniti e dei loro alleati nei confronti della crisi siriana, sfruttata in maniera deliberata per avanzare i propri interessi, presentando come campioni della democrazia un insieme di formazioni integraliste e di dissidenti da tempo screditati con poco o nessun seguito nel paese.

Lo stesso presunto massacro a senso unico messo in atto dal regime contro una popolazione inerme appare infine ben lontano dalla realtà. A smentire questa versione sono stati i numeri forniti un paio di giorni fa all’agenzia di stampa americana McClatchy dall’Osservatorio per i Diritti Umani in Siria, un’organizzazione britannica che sostiene l’opposizione e che monitora gli eventi sul campo nel paese mediorientale.

Secondo questa indagine a pagare il prezzo più alto in termini di vite umane sono proprio i membri delle forze di sicurezza del regime, tra i quali si conterebbero finora quasi 25 mila morti. A questi vanno aggiunte poco più di 17 mila vittime tra gli appartenenti alle milizie filo-governative. I combattenti anti-Assad deceduti ammonterebbero invece a poco meno di 17 mila, mentre i civili morti nel conflitto a più di 35 mila, tra i quali l’Osservatorio non distingue però le numerosissime vittime delle operazioni condotte dai “ribelli”, compreso un lungo elenco di attentati di chiara matrice terroristica.

di Fabrizio Casari

Almeno una volta, nella vita, ognuno di noi si chiede cosa può fare per migliorare il suo paese, proteggere le persone e le cose, difenderne la sovranità e la sua autodeterminazione. A Cuba questo pensiero per molti e di diverse generazioni, è pensiero quotidiano. Perché Cuba, oltre ad essere paese assolutamente diverso da altri, oltre a rappresentare un modello di società dove il mercato obbedisce alle persone, i politici agli elettori e le banche alla politica, è meta ossessiva dei suoi nemici.

E più i suoi nemici odiano, progettano morti e distruzione, sognano vendette e cospirano per terrorizzare, più gli uomini e le donne dell’isola socialista devono lavorare, pensare, immaginare, lavorare e cospirare per difendere il loro paese e la loro gente.

S’ inserisce semplicemente in questo quadro storico la vicenda scandalosa dell’arresto e della condanna a pene assurde - tanto relativamente alle accuse (mai provate) quanto in assoluto nel rapporto tra reato e pena prevista dai codici statunitensi - di Gerardo Hernandez, Ramon Labanino, Antonio Guerrero, Fernando Gonzalez e Renè Gonzalez, diventati prigionieri dell’impero nel 1998.

I cinque erano e sono patrioti. Persone che dovettero rinunciare ad una vita nel loro contesto naturale, lasciare il loro paese e andare a vivere negli Stati Uniti per portare a compimento il loro lavoro: la difesa di Cuba. Negli Stati Uniti Gerardo, Ramon, Antonio, Fernando e Renè hanno svolto la missione che gli era stata assegnata: infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche e mafiose dei fuoriusciti cubani in Florida, carpirne i segreti e i piani terroristici per allertate L’Avana e smontare i piani del terrore.

I cinque cubani detenuti e condannati negli Usa sono innocenti dei reati di cospirazione e di complicità in omicidio. Non hanno commesso nessun reato in violazione della sicurezza nazionale degli Usa, mentre hanno messo Cuba nella condizione di potersi difendere dagli attacchi terroristici che da Miami venivano e vengono finanziati, organizzati e realizzati. I cinque hanno svolto il loro compito smascherando prima ed indicando poi al loro Paese, gli autori, le date, i modi, i mezzi, gli obiettivi e le complicità con i quali il terrorismo made in Usa colpisce l’isola caraìbica da decenni.

Hanno svolto, insomma, il compito proprio di qualunque agente di qualunque servizio di qualunque paese: la difesa della sua integrità territoriale e dell’incolumità dei suoi cittadini, del suo gruppo dirigente e dei suoi obiettivi sensibili; il compito cioè, che ogni persona addetta alla sicurezza del proprio paese, indipendentemente da dove si trovi, è chiamato a svolgere. Un lavoro necessario, vista l’infame continuità della storia di attentati che le organizzazioni terroristiche hanno progettato e realizzato contro l’isola. Un triste computo, che nessuno si pregia di ricordare per non disturbare il manovratore statunitense.

La storia non prevede quasi mai letture univoche, ma in alcuni casi, e tra questi Cuba, parla chiaro. Da 54 anni una superpotenza aggredisce una piccolissima isola con un blocco economico, commerciale, politico e diplomatico, cui si aggiunge l’iniziativa di tipo militare. Il governo più potente al mondo realizza la politica nell’emisfero sotto la dettatura di organizzazioni terroristiche cubano-americane. Queste, con l’aiuto, il denaro e la copertura delle agenzie statunitensi, non solo si addestrano indisturbate ad azioni armate nella Florida, ma organizzano attentati nell’isola e fuori.

Il menù che il terrorismo cubano-americano, finanziato e organizzato dalla CIA nel quadro della sua politica criminale contro Cuba, ha fornito ogni tipo d’ingrediente: un’invasione mercenaria, stragi con bombe sugli aerei e negli hotel, attentati a strutture economiche, assassini mirati di dirigenti cubani e sequestri di aerei e navi, spargimento di agenti chimici letali nelle colture agricole, diffusione di virus tra la popolazione.

Esagerazioni? Dal 1959 al 2001 Cuba ha subito un’invasione (fallita), 3478 morti, 2099 feriti, 294 tentativi di dirottamenti marittimi ed aerei, 697 atti terroristici, 600 tentativi di assassinio di Fidel Castro, quasi 2000 miliardi di dollari di danni diretti e dimostrati procurati all’economia dell’isola. Non era pensabile né giusto che Cuba non cercasse di difendersi.

Ed essendo a Miami che si pianificano e si organizzano le azioni terroristiche contro Cuba è quindi a Miami che l’attività del controspionaggio cubano aveva deciso di operare. Il lavoro dei cinque agenti cubani ha evitato 44 attentati nell’isola e smascherato le attività, le complicità ed i legami tra i terroristi cubano-americani e le strutture federali e statali governative.

Il governo cubano, nel tentativo di operare concretamente per la riapertura di un dialogo diretto tra Washington e L’Avana senza dover passare per Miami, offrì a Clinton, attraverso Gabriel Garcia Marquez, documentazione, prove inoppugnabili sull’operato delle organizzazioni terroristiche che agiscono in Florida. L’Avana riteneva che in qualche modo gli Usa cercassero di liberarsi anch’essi di questo ricatto lungo all’epoca quarant’anni e che la nuova frontiera americana, definita come “la guerra al terrore” dalla sua propaganda, fosse davvero un obiettivo politico della volontà di governance planetaria degli Usa.

Il risultato fu che i terroristi rimasero liberi e gli agenti dell’antiterrorismo cubano vennero arrestati. Processi farsa celebrati tra Miami e Atlanta, prove finte, rifiuto dei testi e dei documenti a discarico, rinuncia ad una sede del processo effettivamente terza, furono il piatto su cui si posarono sentenze di condanna oltre ogni immaginazione, inedite per la storia giuridica, pure piena di ombre, degli Stati Uniti.

Venne inscenato un processo politico dal quale dovevano uscire condanne esemplari, che andassero ben oltre ogni limite concepito dallo stesso codice, fino all’outing vero e proprio rappresentato dal divieto di frequentazione dei luoghi noti per essere frequentati dai terroristi dopo aver scontato due ergastoli.

Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie si sono ripetutamente pronunciate contro i processi farsa e  numerose personalità in tutto il mondo, sostenute da una incessante attività dei cubani e della solidarietà internazionale, hanno richiesto la liberazione dei detenuti, colpevoli solo di antiterrorismo e patriottismo.

Quello del terrorismo contro Cuba è un capitolo a sé stante nel libro degli orrori della politica estera statunitense. Vi si può leggere in ogni pagina una incestuosa e nauseabonda comunanza d’interessi tra i fedeli e i nostalgici di Batista, cui si è aggiunta nel corso dei decenni una marmaglia indistinta di mercenari, e gli obiettivi di politica regionale di Washington, che delega appunto la parte più sporca del lavoro alle bande terroristiche allocate in Florida. Non è un segreto che il governo degli Stati Uniti incoraggia - o perlomeno permette - le attività terroristiche delle organizzazioni criminali anticubane coordinate dalla FNCA della Florida.

La fondazione, che vide la sua nascita sotto la presidenza Reagan, è legata a triplice filo con la famiglia Bush e gode di aiuti economici e coperture legali, sostegno politico e favore di ogni normativa relazionata con Cuba. Dal blocco economico fino alla “legge del piede bagnato”, dalla legge Torricelli alla Helms-Burton, i gusanos sono l’interlocutore unico, addirittura il referente della politica statunitense nell’area.

In cambio, la rete della mafia cubano-americana s’incarica di offrire manovalanza criminale alle “covert actions” della CIA in America Latina e di dare sostegno elettorale ai candidati dei due schieramenti in Florida (Stato chiave per eleggere il Presidente USA). Ovvio, con una naturale preferenza verso i repubblicani, ma senza disdegnare i democratici che scendono a patti con loro. Non hanno problemi di schieramento alla FNCA: quale che sia il partito del candidato, l’importante è che s’impegni a conservare il dominio territoriale, le norme di favore, il sostegno alla formazione paramilitare dei loro aderenti, i finanziamenti pubblici e l’appoggio politico al terrorismo anticubano, core business della FNCA, mano d’opera fondamentale dell’agenzia con sede a Langley.

In questo binomio d’interessi sporchi, s’inseriscono leggi e norme costruite appositamente per permettere alla mafia cubana di prosperare finanziariamente sull’ostilità statunitense contro l’isola socialista. L’immigrazione clandestina dei cubani, che diversamente da ogni altro emigrato del mondo per il solo fatto di toccare con i piedi il suolo statunitense ottengono residenza e cittadinanza, permette uno dei business migliori per i gusanos, quello che deriva dal ruolo di scafisti. Che se operano nel Mediterraneo sono volgari banditi, ma nel Mar dei Caraibi diventano combattenti per la libertà.

Quindici anni dopo loro arresto, la battaglia per liberarli si va intensificando. Renè Gonzales, detentore della condanna minore (15 anni!!) è ormai libero. Tornato a Cuba per la morte del padre, ha ottenuto dal tribunale di Miami la possibilità di restarvi per sempre in cambio della rinuncia alla nazionalità statunitense. Ne restano ancora quattro tra gli artigli dell’impero e il loro definitivo rilascio è questione ormai solo politica, essendosi esaurito il percorso giuridico della loro vicenda. A Cuba, invece, si trova agli arresti Alan Gross, cittadino statunitense, di professione spia, che per conto di organismi USA consegnava materiali e denaro alla rete interna di mercenari americani che parlano cubano, meglio conosciuti come “dissidenti”.

I casi sono molto diversi, dal momento che i cinque cubani difendevano il loro paese dal terrore che parte dalla Florida, mentre da Cuba nessun attacco è mai partito all’indirizzo di Miami. I cinque non avevano nessun interesse a spiare uomini e istituzioni statunitensi, non era quella la loro missione, non era quello il loro interesse; loro infiltravano le bande terroriste per sventarne i piani. Alan Gross, invece, contribuiva alla costruzione di un fronte interno sovversivo a Cuba, in parte clandestinamente e in parte pubblicamente; dunque agiva contro gli interessi, l'ordine interno e la sovranità nazionale del paese nel quale era ospite, appunto come una perfetta spia. Arrestato e condannato, si trova in ospedale dove riceve cure ed attenzioni, oltre che visite, tutte cose che ai cinque cubani prigionieri negli Usa sono drasticamente negate, vittime ancora oggi di un regime carcerario durissimo che impedisce persino le cure e il contatto facilitato con i parenti.

Benché i casi siano completamente diversi, Cuba si è detta pronta ad una iniziativa umanitaria reciproca che porti ad uno scambio di prigionieri, ma gli Stati Uniti non sembrano voler accettare. Ovviamente non si tratta di riconoscimento della legittimità della procedura di scambio di prigionieri, dal momento che dagli USA è stata regolarmente praticata in lungo e largo per il mondo anche nei decenni recenti. Si tratta forse di non inimicarsi la comunità terroristico-mafiosa di Miami, già in passato capace di dimostrare come non approvi anche minimi segnali di mutamento di rotta dalla guerra aperta verso il dialogo da parte di Washington verso L’Avana.

Oggi, in ogni parte del mondo, come ogni cinque di ogni mese e di ogni anno e fino a quando sarà necessario, i difensori dei giusti saranno in piazza contro l’ingiustizia. Per protestare contro la prosecuzione della carcerazione di uomini per il cui operato si può andare orgogliosi.

Il premio Nobel Obama ha la possibilità di assegnare il perdono presidenziale ai quattro detenuti cubani e permettergli di tornare a Cuba dai loro cari. Non serve una riflessione lacerante: non un morto né un ferito statunitense è stato vittima del loro operato, nessun segreto militare statunitense è stato violato, nessun atto violento è stato commesso.

Non c’è nemmeno una ragione, almeno tra quelle rivendicabili pubblicamente, che può impedire il perdono presidenziale, in passato concesso persino a noti terroristi, tra cui Orlando Bosh, criminale cubano americano autore materiale di decine di attentati tra i quali l’esplosione in volo dell’aereo della Cubana de Aviacìòn sui cieli delle Barbados costato 73 morti. La mano di Bush non ha tremato mentre firmava il perdono all’assassino, perché quella di Obama dovrebbe tremare davanti a persone innocenti di ogni crimine?

La strada per Obama quindi c’è: ripari con il perdono presidenziale al torto giudiziario, reagisca con la clemenza alla vergogna di un paese che ha voluto tutelare i terroristi e imprigionare gli antiterroristi. Una firma giusta che potrebbe rispondere alle domande che tutti si pongono quando analizzano il rapporto USA-Cuba: per quanto tempo una comunità criminale su base locale dovrà dettare la politica estera regionale dell’unica superpotenza planetaria? Per quanto tempo terrore e odio dovranno rappresentare l’alfa e l’omega della relazione di Washington con L’Avana?


di Michele Paris

Dopo più di 1.100 giorni di detenzione preventiva, l’ex analista dell’esercito americano Bradley Manning ha assistito all’avvio del proprio processo di fronte ad una corte marziale dove è sostanzialmente accusato di avere contribuito a far conoscere a tutto il pianeta alcuni dei crimini dell’imperialismo americano e la segretezza con cui Washington conduce i propri affari nel mondo.

Il procedimento a suo carico viene utilizzato dal governo USA per impartire una lezione inequivocabile a chiunque intenda mettere in piazza gli aspetti più oscuri del proprio operato, ricorrendo ad una serie di misure pseudo-legali per ottenere una condanna esemplare.

Le accuse rivolte contro il 25enne ex militare impiegato in Iraq sono ormai note e comprendono soprattutto il trasferimento di documenti riservati del governo americano a WikiLeaks, un’azione che avrebbe “favorito il nemico” e messo a rischio la vita di altri soldati del proprio paese. Nel corso delle udienze preliminari dei mesi scorsi, Manning si era dichiarato colpevole in maniera spontanea di alcuni capi di imputazione meno gravi ma l’accusa ha respinto ogni ipotesi di patteggiamento, preferendo cercare in aula una condanna al massimo della pena prevista, cioè l’ergastolo.

Il giudice militare che presiede la corte marziale, colonnello Denise Lind, in un’altra udienza aveva invece deciso di escludere dal procedimento qualsiasi discussione sulle motivazioni che hanno spinto Manning a sottrarre al governo e pubblicare circa 700 mila documenti riservati, limitando di fatto le sue possibilità di difesa e impedendo di far luce sul contenuto dei documenti stessi.

Nella prima giornata di dibattimento a Fort Meade, in Maryland, l’accusa, rappresentata dal capitano Joe Morrow, in poco meno di un’ora ha cercato deliberatamente di screditare Bradley Manning. A suo dire, quest’ultimo avrebbe “sistematicamente e indiscriminatamente” raccolto documenti riservati per metterli in rete con la consapevolezza di favorire “i nostri nemici”, a cominciare da Al-Qaeda.

Inoltre, il capitano Morrow ha affermato per la prima volta che Manning sarebbe entrato in contatto con WikiLeaks già nel novembre 2009, poco dopo il suo arrivo in Iraq, iniziando a fornire materiale classificato all’organizzazione fondata da Julian Assange anche dopo aver letto un rapporto della CIA nel quale si diceva che i “nemici degli Stati Uniti” potevano trarre vantaggio dall’attività di WikiLeaks.

Queste accuse contrastano con quanto sostenuto dalla difesa, cioè che Manning avrebbe selezionato con cura i documenti da pubblicare in rete, così da non creare situazioni di rischio per i soldati americani all’estero, e che la collaborazione con WikiLeaks sarebbe iniziata solo nel gennaio del 2010, qualche settimana dopo la morte in Iraq di una famiglia innocente, causata da un convoglio americano, che determinò l’affiorare nel giovane analista di un “senso di obbligo morale” per rivelare la realtà sul campo in Iraq.

Morrow, infine, ha ribadito che i documenti pubblicati da WikiLeaks sono stati esaminati dai vertici di Al-Qaeda, tra cui lo stesso Osama bin Laden, il quale era in possesso di una copia di essi in formato digitale. Questa affermazione sarebbe basata sui rilevamenti fatti dai componenti del commando americano che giustiziò il leader di Al-Qaeda in Pakistan nel 2011, alcuni dei quali dovrebbero testimoniare al processo contro Manning senza rivelare la propria identità e senza essere controinterrogati dalla difesa.

Oltre a ciò, molte altre decisioni prese dal giudice Lind durante le udienze preliminari confermano come la corte marziale di Bradley Manning sia ben lontana dal rappresentare un procedimento nel quale i diritti costituzionali dell’imputato vengono garantiti. Secondo il Center for Constitutional Rights, ad esempio, le udienze tenute prima dell’apertura del processo vero e proprio “sono state caratterizzate da misure più restrittive di quelle previste nei tribunali militari di Guantanamo”, mentre delle decine di migliaia di documenti presentati in relazione al caso Manning solo una minima parte sono stati resi pubblici o consegnati alla difesa.

Nell’aula di Fort Meade, inoltre, il governo ha allestito meno di venti posti per il pubblico e ha distribuito appena una decina di accrediti alla stampa. La gran parte dei giornali, perciò, baserà i propri resoconti del processo sui comunicati ufficiali. Un simile livello di segretezza testimonia delle inquietudini del governo e dei militari USA per un procedimento profondamente anti-democratico, nonché i timori per una possibile discussione pubblica dei crimini americani rivelati eroicamente da Bradley Manning.

Queste violazioni dei diritti di Manning si aggiungono oltretutto al trattamento a lui riservato fin dall’arresto in Iraq nel maggio del 2010. Dopo il trasferimento in Kuwait, Manning venne alla fine riportato in patria, rinchiuso in una cella presso una base dei Marines di Quantico, in Virginia, e qui sottoposto a trattamenti a dir poco degradanti e definiti come torture dalle stesse Nazioni Unite.

Le tendenze sempre più repressive di Washington nei confronti dei cosiddetti “whistleblower” come Manning è confermata d’altra parte dal numero record di procedimenti penali aperti dal governo a partire dal 2009 contro propri dipendenti. Allo stesso modo, è ormai chiaro come a fare le spese di questa offensiva contro la diffusione di notizie che riguardano la condotta del governo siano ormai anche giornali e siti web.

Oltre al tentativo di perseguire Assange e WikiLeaks tramite il processo a Manning e grazie alla collaborazione dei governi di Svezia e Gran Bretagna, proprio nelle scorse settimane è emerso che l’amministrazione Obama ha ottenuto in maniera segreta e illegale e-mail personali e registrazioni telefoniche di reporter dell’Associated Press e di Fox News nell’ambito di indagini su fughe di notizie dall’interno del governo.

Con il processo a Fort Meade che dovrebbe durare almeno tre mesi, nella giornata di martedì sono apparsi in aula alcuni testimoni dell’accusa, tra cui due analisti informatici dell’esercito che hanno esaminato i supporti elettronici utilizzati da Manning, trovando file creati nel novembre 2009 con informazioni per contattare Wikileaks, e Adrian Lamo, l’ex hacker che ha denunciato lo stesso Manning alle autorità dopo averlo conosciuto in una chat on-line.

Per quanto riguarda la sorte di Bradley Manning, in ogni caso, come ha scritto lunedì Julian Assange in un intervento sull’inizio della corte marziale pubblicato dal sito di WikiLeaks, “nessuno crede seriamente in un esito positivo”, visto che già “le udienze preliminari hanno metodicamente eliminato ogni incertezza, decretando un veto preventivo ad ogni strumento nelle mani della difesa”.

In riferimento all’impossibilità di Manning di citare le proprie intenzioni a discolpa delle sue azioni e al divieto di presentare testimoni o documenti che dimostrino come la pubblicazione dei documenti riservati non abbia provocato alcun danno, Assange propone poi un parallelo con un ipotetico processo per omicidio, nel quale le misure imposte dal tribunale militare di Fort Meade corrisponderebbero all’impossibilità di fare appello alla legittima difesa o, ancora più assurdamente, di dimostrare che la presunta vittima dell’imputato è in realtà ancora viva.

Quando comunicare con la stampa significa “favorire il nemico”, conclude Assange, è la stessa circolazione pubblica delle informazioni a diventare un atto criminale. Per questo motivo, “non è tanto Bradley Manning ad essere alla sbarra, poiché il suo processo si è chiuso da tempo… bensì gli stessi Stati Uniti d’America”, ovvero “un esercito i cui crimini sono stati smascherati e un governo che opera nella segretezza ed è in guerra con il proprio popolo.”

di Michele Paris

La tensione in Turchia non accenna a diminuire. Gli scontri tra i manifestanti e le forze di polizia turche sono continuati per il quarto giorno consecutivo, espandendosi dal quartiere di Istanbul dove le proteste erano scoppiate lo scorso fine settimana ad altre zone della metropoli sul Bosforo e a svariate città del paese euro-asiatico.

L’esplosione della rabbia popolare contro il regime islamista guidato dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha portato alla luce tutte le contraddizioni delle politiche di un governo a lungo indicato come modello di sviluppo per il Medio Oriente e non solo, smascherando al contempo il carattere sempre più autoritario del premier Recep Tayyip Erdogan in un decennio di permanenza al potere.

Come è ormai noto, il caos nelle strade di Istanbul era iniziato in seguito all’intervento della polizia per reprimere una manifestazione contro un progetto edilizio promosso dal governo nel parco Gezi - località del distretto di Beyo?lu nella parte europea della città e associata ad importanti proteste popolari nella seconda metà del secolo scorso - dove è previsto l’abbattimento di un centro culturale per far posto ad una moschea, un complesso residenziale e un centro commerciale.

Nella giornata di venerdì, le forze di sicurezza avevano dunque attaccato i dimostranti, ricorrendo anche al lancio di gas lacrimogeni da elicotteri inviati a sorvolare la zona interessata dalle proteste. Concentratesi soprattutto nella Piazza Taksim, le manifestazioni e gli scontri con la polizia sono continuati fino a sabato, con centinaia di feriti e arresti, nonché, secondo quanto affermato da Amnesty International, due morti tra i contestatori.

La dura risposta del governo e la diffusa ostilità latente nei confronti del regime hanno determinato un rapido contagio delle proteste al resto della Turchia, così che manifestazioni in solidarietà con quella di Istanbul sono state indette in varie città, tra cui la capitale Ankara, Izmir, Adana e molte altre.

Domenica, poi, il ritiro della polizia da Piazza Taksim ha lasciato spazio alle celebrazioni dei manifestanti ma gli scontri, così come la repressione del governo, sono proseguiti altrove. L’uso di gas lacrimogeni e il ricorso ad arresti indiscriminati sono stati segnalati ad esempio nel quartiere Besiktas di Istanbul e a Izmir, sulla costa del Mare Egeo, dove una folla di persone ha dato fuoco alla sede locale del partito di Erdogan.

Secondo quanto affermato in un’intervista al quotidiano turco Hürriyet da una deputata del Partito Popolare Repubblicano (CHP) all’opposizione, ad Ankara ci sarebbero stati addirittura 1.500 arresti. I manifestanti finiti in manette sarebbero stati privati dell’assistenza di un legale e poi costretti a firmare testimonianze giurate per ammettere fatti mai commessi.

Il premier Erdogan, da parte sua, ha parlato in diretta TV nella giornata di sabato, respingendo qualsiasi critica al suo governo, pur ammettendo “errori” da parte delle forze di polizia, e promettendo di portare a termine il progetto edilizio contestato.

Il premier islamista, dopo avere definito i “social media la più grande minaccia alla società” per avere favorito il diffondersi delle proteste, ha poi assurdamente accusato “forze esterne” di avere fomentato le contestazioni, riecheggiando singolarmente la tesi sostenuta con maggiore ragione da Assad in Siria per descrivere la crisi che sta affrontando da oltre due anni il suo regime anche a causa delle manovre del governo turco.

Quello che sta vivendo la Turchia in questi giorni, in ogni caso, va ben al di là delle proteste di un gruppo di attivisti che cerca di fermare la trasformazione di un parco di Istanbul e, nelle parole del veterano giornalista Cengiz Çandar, appare “senza precedenti negli ultimi 40 anni” di storia del paese.

A determinare l’esplosione della rabbia sopita tra la popolazione turca sono una serie di fattori, che vanno dalle conseguenze di un modello neo-liberista - che ha dato l’illusione di una crescita economica generalizzata - al crescente autoritarismo e all’islamizzazione strisciante di una società tradizionalmente secolare; dal sostegno incondizionato del governo di Ankara ai gruppi fondamentalisti sunniti in guerra contro Assad in Siria agli stessi grandiosi progetti di trasformazione urbana spesso messi in atto contro il volere della popolazione e della società civile.

A produrre una virulenta reazione nei confronti delle politiche del governo ha contribuito anche l’immediata partecipazione alle proteste spontanee dei partiti di opposizione, a cominciare dal CHP. Un’evoluzione, quest’ultima, che è la diretta conseguenza di un durissimo confronto in atto tra la classe dirigente turca fin dall’ascesa al potere di Erdogan e dell’AKP nel 2003, segnato da una battaglia per la marginalizzazione delle forze secolari eredi della rivoluzione borghese del padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal (Atatürk).

Ancora più decisivi sono però gli effetti delle politiche di classe messe in atto da Erdogan, visibili, tra l’altro, proprio nella trasformazione di Istanbul, epicentro delle proteste di questi giorni, portata avanti all’insegna del capitalismo più sfrenato e, frequentemente, nell’interesse di una cerchia di uomini d’affari vicini al governo o di esponenti del governo stesso, come nel caso del progetto del parco Gezi, appaltato ad una società di proprietà del genero dell’attuale primo ministro.

Le scosse che stanno facendo tremare un governo ritenuto ancora relativamente solido mettono poi in una situazione di grave disagio gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Ankara, come ha suggerito il consueto comunicato di circostanza emesso dal Dipartimento di Stato americano, “preoccupato” per l’uso della forza contro le proteste di piazza.

I toni volutamente blandi di Washington ricordano quelli utilizzati, ad esempio, nella primavera del 2011 durante il soffocamento della rivolta interna da parte di un altro regime alleato, quello del Bahrain, e, in contrasto con le aperte minacce lanciate nei confronti di Damasco e precedentemente di Tripoli, rivelano ancora una volta il doppio standard degli USA nel rispondere alla repressione messa in atto da paesi alleati o considerati nemici.

Le contraddizioni dell’atteggiamento di Washington e di Ankara, perciò, hanno dato la possibilità allo stesso governo siriano di mettere in imbarazzo il vicino settentrionale. Nella giornata di sabato, così, le dichiarazioni del ministro dell’Informazione di Damasco, Omran al-Zoubi, hanno ricalcato quelle costantemente rilasciate dalle autorità turche negli ultimi ventiquattro mesi a proposito della crisi in Siria.

Secondo Zoubi “le aspirazioni del popolo turco non meritano tutta questa violenza” e se Erdogan non è in grado di rispondere pacificamente alle richieste dei manifestanti “dovrebbe farsi da parte”, visto che la brutale repressione messa in atto in questi giorni dimostra come il premier sia ormai “disconnesso dalla realtà”.

Proprio la strategia siriana del governo di Ankara rischia ora di fare esplodere definitivamente la società turca, in larga misura contraria ad un coinvolgimento del proprio paese in un conflitto che sta alimentando pericolosamente il terrorismo islamista, mettendo in pericolo gli stessi progetti di permanenza al potere di Erdogan oltre il 2015, quando dovrebbero entrare in vigore riforme costituzionali per introdurre un sistema presidenziale fortemente voluto proprio dal primo ministro per consolidare l’impronta autoritaria data al paese nell’ultimo decennio.

di Mario Lombardo

Nella primissima mattinata di mercoledì, gli Stati Uniti hanno lanciato un bombardamento in una località del Waziristan del Nord che ha assassinato il numero due dei talebani attivi nel paese centro-asiatico e almeno altre quattro persone. L’operazione condotta dalla CIA, che ha interrotto un periodo relativamente lungo senza incursioni di droni in territorio pakistano, rappresenta con ogni probabilità un messaggio lanciato da Washington al Primo Ministro entrante, Nawaz Sharif, e contraddice la promessa fatta la settimana scorsa dal presidente Obama di porre un freno alla valanga di eccessi e illegalità messe in atto in oltre un decennio di “guerra al terrore”.

La vittima più illustre del blitz americano di questa settimana è Wali ur-Rehman, il secondo in comando della coalizione di gruppi militanti integralisti Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), più comunemente conosciuti come Talebani Pakistani, operanti nelle Aree Tribali al confine con l’Afghanistan.

Secondo le testimonianze riportate dai media occidentali, attorno alle tre del mattino di mercoledì alcuni missili sono caduti su un’abitazione alla periferia di Miranshah, la principale città del Waziristan del Nord, uccidendo, oltre a Rehman, due jihadisti uzbeki e ferendo almeno tre bambini.

La morte di Rehman è stata inizialmente confermata dalle autorità pakistane e solo giovedì dal portavoce ufficiale di TTP, Ehsanullah Ehsan. Sulla testa di Rehman era stata messa una taglia di 5 milioni di dollari dagli Stati Uniti, i quali lo accusavano di avere organizzato svariati attacchi contro le forze di occupazione americane in Afghanistan e di essere coinvolto nell’attentato suicida commesso da un doppio agente giordano nel dicembre 2009 che uccise sette dipendenti della CIA in una base della provincia di Khost, al confine con il Pakistan.

Soprattutto, però, Rehman era considerato relativamente moderato rispetto al leader dei Talebani Pakistani e suo diretto superiore, Hakimullah Mehsud. La sua morte, perciò, potrebbe rendere ancora più improbabile l’avvio di un già complicatissimo processo di riconciliazione con il governo civile di Islamabad.

Nei commenti pubblicati in questi giorni dai giornali americani, Rehman viene definito come un militante in grado di risolvere pacificamente le dispute tra le varie fazioni jihadiste, nonché contrario agli attacchi indiscriminati contro i civili spesso portati a termine dai Talebani. Inoltre, lo stesso comandante sembrava avere legami con svariati partiti religiosi pakistani che si erano offerti di mediare tra il governo e i Talebani.

Una qualche speranza di trovare un’intesa per far diminuire il livello di violenza in Pakistan era emersa in seguito al successo nelle elezioni dell’11 maggio scorso della Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N) di Nawaz Sharif, il quale in campagna elettorale aveva più volte criticato l’uso dei droni nel proprio paese da parte degli Stati Uniti e lasciato intravedere la volontà di aprire un dialogo proprio con Tehrik-i-Taliban.

All’inizio della scorsa settimana, ad esempio, il premier in pectore aveva ribadito pubblicamente la necessità di perseguire un processo di pace “per il progresso e lo sviluppo del paese”, aggiungendo che il suo governo si adopererà per “il dialogo, rispondendo all’offerta di pace dei Talebani”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì al quotidiano pakistano The Express Tribune, il portavoce di TTP ha però inevitabilmente annunciato che la sua organizzazione intende ritirare l’offerta di dialogo fatta al nuovo governo. Ehsan, inoltre, ha attribuito l’intera responsabilità degli attacchi con i droni nelle Aree Tribali all’esecutivo di Islamabad, colpevole di passare agli americani informazioni cruciali per localizzare i militanti.

L’assassinio di Rehman da parte degli americani, perciò, sembra assestare un colpo mortale alle già esili prospettive di pace che avrebbero potuto teoricamente determinare una limitazione delle attività “anti-terroristiche” americane in territorio pakistano.

Dal momento che Nawaz sta per ultimare le trattative attorno alla formazione del suo prossimo governo, l’incursione con i droni della CIA di mercoledì può dunque essere considerata come un messaggio preliminare lanciato da Washington a Islamabad a non abbassare la guardia nella lotta all’integralismo islamico in Pakistan, ovvero a non deviare dalla strada percorsa dal precedente gabinetto, fedele esecutore delle politiche statunitensi nonostante la diffusa ostilità della popolazione.

Il ritorno dei droni nei cieli del Pakistan questa settimana, come anticipato in precedenza, giunge poi a pochi giorni di distanza da un importante quanto contraddittorio discorso tenuto da Obama presso la National Defense University di Washington. Nel suo intervento di giovedì scorso, l’inquilino della Casa Bianca aveva in sostanza ammesso la totale illegalità dei metodi più discussi utilizzati dagli Stati Uniti, compresa la sua amministrazione, nell’ambito della “guerra al terrore”.

Esprimendo le inquietudini di alcune sezioni della classe dirigente d’oltreoceano, preoccupate per il venir meno della legittimità di un sistema di potere che ha ormai istituzionalizzato il ricorso a metodi di governo profondamente antidemocratici, Obama si era perciò impegnato a modificare, tra l’altro, la gestione del programma “anti-terrorismo” basato sull’impiego dei droni.

In particolare, il presidente democratico aveva annunciato una revisione di questo stesso programma, così da renderlo più trasparente, sottraendolo in alcuni casi alla CIA - incaricata delle incursioni in Pakistan - per assegnarne la completa responsabilità al Dipartimento della Difesa.

Sia pure limitata e del tutto inadeguata a mettere fine ad un programma palesemente illegale, questa presunta svolta prospettata da Obama è apparsa da subito poco più che una farsa. Infatti, come ha spiegato giovedì il New York Times, “fin dai giorni successivi al discorso del presidente, membri della sua amministrazione hanno chiarito dietro le quinte che i nuovi standard [per la gestione della campagna con i droni] non sarebbero stati applicati al programma condotto dalla CIA in Pakistan”, almeno “fino a quando le truppe americane rimarranno in Afghanistan”.

Questa eccezione per “il teatro di guerra afgano” - all’interno del quale, per gli USA, rientra anche il Pakistan - è stata alla fine confermata dall’incursione di mercoledì che ha eliminato il numero due dei Talebani Pakistani.

Nonostante le promesse di maggiore trasparenza e l’affermazione inequivocabile fatta da Obama circa l’incompatibilità con la democrazia degli assassini con i droni, gli Stati Uniti hanno così già chiarito che questa campagna di morte illegale nel territorio di un paese sovrano continuerà ancora a lungo.

Secondo alcune stime, la CIA ha condotto più di 360 attacchi con i droni in Pakistan a partire dal 2004, uccidendo migliaia di civili innocenti, considerati nient’altro che “danni collaterali” di assassini mirati di semplici militanti o, in misura decisamente minore, di esponenti di spicco delle formazioni jihadiste attive al confine con l’Afghanistan.

Come ha messo in luce un rapporto di qualche mese fa delle università di New York e Stanford, la campagna con i droni in Pakistan non causa soltanto un numero altissimo di morti tra i civili ma ha ormai trasformato la vita dei residenti delle zone colpite in un vero e proprio incubo. Qui, infatti, adulti e bambini vivono in uno stato di perenne terrore, con “la consapevolezza di essere totalmente indifesi” di fronte ad un attacco dal cielo che potrebbe giungere in qualsiasi momento.


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