di Michele Paris

Sotto la spinta di molteplici fattori, nel 2012 l’affiliazione dei lavoratori americani ad un’associazione sindacale è crollata ai livelli più bassi da quasi un secolo a questa parte. A mettere in risalto questo dato preoccupante è stato un recente rapporto pubblicato qualche giorno fa dall’ufficio statistiche del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti.

I numeri ufficiali indicano che i lavoratori iscritti ad un sindacato lo scorso anno sono stati appena l’11,3% del totale, vale a dire mezzo punto percentuale in meno rispetto al 2011. Questo ulteriore crollo è stato registrato nonostante l’economia americana nello stesso periodo abbia aggiunto 2,4 milioni di posti di lavoro. Secondo gli economisti della Rutgers University che hanno condotto lo studio, solo nel 1916 il livello di sindacalizzazione negli USA era ad un livello più basso di quello attuale.

Il calo per il 2012 ha riguardato sia il settore privato che, più sorprendentemente, quello pubblico. Nel primo caso, le iscrizioni ad un sindacato sono scese in un anno dal 6,9 al 6,6%, una quota irrisoria se si pensa che negli anni Cinquanta era attorno al 35%. Tra i dipendenti pubblici, invece, si è passati addirittura dal 37% del 2011 al 35,9% dello scorso anno, per un calo totale di iscrizioni pari a 234 mila lavoratori. Complessivamente, i lavoratori americani nel settore privato con una tessera sindacale nel 2012 erano 7 milioni, contro i 7,3 milioni in quello pubblico.

Per quanto riguarda il settore pubblico, una delle ragioni di questo tracollo è da ricercarsi nell’adozione negli ultimi anni di politiche anti-sindacali e, in particolare, delle cosiddette leggi “per il diritto al lavoro” in svariati stati controllati dal Partito Repubblicano. Questi provvedimenti proibiscono la stipulazione di contratti collettivi che prevedano l’iscrizione al sindacato o il pagamento della quota associativa come condizione di impiego.

Simili leggi sono state approvate di fronte ad una forte opposizione popolare e delle associazioni sindacali soprattutto in alcuni stati industriali del Midwest come Michigan, Indiana e Wisconsin, dove il livello di adesione ad una “union” era tra i più elevati del paese. In Wisconsin, così, la quota di lavoratori iscritti al sindacato è scesa del 13% tra il 2011 e il 2012, mentre in Indiana addirittura del 18%.

La situazione delineata dall’ufficio statistiche del Dipartimento del Lavoro è però il risultato anche dei massicci licenziamenti di dipendenti pubblici decisi sia a livello statale che federale da entrambi gli schieramenti politici nell’ambito delle politiche di riduzione della spesa.

Nel privato, inoltre, i nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo periodo sono risultati essere soprattutto nella vendita al dettaglio e nella ristorazione, settori tradizionalmente poco sindacalizzati. Le grandi aziende manifatturiere che hanno investito negli Stati Uniti in questi mesi, invece, hanno spesso prediletto stati dove la presenza dei sindacati risulta trascurabile.

Secondo lo studio del governo USA, gli stati con il livello più basso di sindacalizzazione sono la North Carolina (2,9%) e l’Arkansas (3,2%), mentre quelli con il più alto sono New York (23,2%) e l’Alaska (22,4%). Tra i lavoratori a tempo pieno, poi, quelli iscritti ad un sindacato avevano nel 2012 un salario settimanale medio di 943 dollari contro 742 dollari dei loro colleghi non sindacalizzati.

La ragione principale della crescente crisi delle “union” negli Stati Uniti, come altrove, risiede comunque nella funzione degli stessi sindacati negli ultimi decenni e, in particolare, in questi anni di crisi economica. Da tempo queste associazioni di categoria hanno in sostanza svolto il ruolo di esecutori delle politiche industriali decise dai vertici aziendali, così come di facilitatori degli assalti ai diritti dei dipendenti pubblici da parte del governo federale e delle amministrazioni locali, sia democratiche che repubblicane.

Come ha riassunto in un’intervista al New York Times questa settimana il professore Gary Chaison, esperto di relazioni industriali della Clark University, “i lavoratori dovrebbero guardare maggiormente ai sindacati vista la precarietà dei loro impieghi e la stagnazione delle retribuzioni, ma in realtà non lo fanno”, visto che proprio i sindacati hanno favorito la creazione di queste condizioni di lavoro, diventate ormai permanenti.

Che il declino dei sindacati dipenda principalmente dall’incapacità di questi ultimi di offrire risposte ai lavoratori è confermato anche dal fatto che il calo delle iscrizioni è coinciso con il riesplodere delle tensioni sociali negli Stati Uniti, concretizzatesi con numerosi scioperi e mobilitazioni spontanee in risposta agli attacchi contro diritti acquisiti in decenni di durissime lotte.

Di fronte a queste manifestazioni, come sta accadendo proprio in questi giorni con lo sciopero degli autisti dei mezzi scolastici di New York, i sindacati si sono puntualmente adoperati per isolare le proteste e farle sfociare in azioni inoffensive, finendo così per neutralizzare qualsiasi possibile minaccia alla classe dirigente.

Questo ruolo dei sindacati, che sta portando alla loro virtuale estinzione negli Stati Uniti, è testimoniata e al tempo stesso causata anche dal loro allineamento al Partito Democratico e all’agenda interamente pro-business avanzata da quest’ultimo. Le limitate proteste e gli scioperi orchestrati dai sindacati nel settore pubblico, infatti, sono sempre diretti contro le amministrazioni repubblicane, che spesso mettono in atto legislazioni simili a quelle a guida democratica, assicurando che qualsiasi mobilitazione sfoci esclusivamente in un maggiore impegno a favore del partito di Obama nella successiva tornata elettorale.

Il collaborazionismo dei sindacati americani nella distruzione delle condizioni di vita dei lavoratori è risultata particolarmente evidente in occasione del cosiddetto salvataggio di General Motors nel 2009. In quell’occasione, il ritorno al profitto del gigante dell’auto di Detroit venne garantita dall’intervento del governo di Washington e dalla decisiva collaborazione del principale sindacato del settore automobilistico (United Auto Workers, UAW), il quale in cambio di una consistente quota nella proprietà dell’azienda, che ha permesso ai suoi dirigenti di arricchirsi considerevolmente, ha assicurato l’accettazione del dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti e lo smantellamento di gran parte dei diritti che avevano permesso una vita dignitosa a generazioni di operai.

di Michele Paris

Nel quadro dell’indagine aperta dal Congresso americano sui fatti che hanno portato all’assassinio dell’ambasciatore USA in Libia lo scorso settembre a Bengasi, questa settimana il Segretario di Stato uscente, Hillary Clinton, ha risposto alle domande di deputati e senatori, assumendosi la piena responsabilità dell’accaduto.

L’apparizione della ex first lady, tuttavia, ha confermato come l’intero processo di inchiesta parlamentare sia stato messo in piedi allo scopo di evitare un dibattito pubblico sulle questioni fondamentali relative alla situazione libica e al conseguente assalto al consolato americano nel paese nord-africano che era costato la vita ad un totale di quattro cittadini statunitensi.

La testimonianza di Hillary Clinton di fronte alle commissioni Esteri di Camera e Senato era stata inizialmente programmata per lo scorso dicembre, prima di slittare di un mese a causa dei problemi di salute della numero uno del Dipartimento di Stato. La vicenda di Bengasi è da tempo al centro di polemiche a Washington e, in particolare, alla vigilia delle elezioni presidenziali di novembre era stata sfruttata dai repubblicani per attaccare l’amministrazione Obama.

Le accuse erano state rivolte soprattutto all’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Susan Rice, la quale subito dopo l’attacco al consolato di Bengasi aveva sostenuto che esso era la conseguenza delle proteste spontanee esplose nel mondo arabo dopo l’apparizione in rete di un filmato amatoriale che irrideva il profeta Muhammad e non, come sarebbe poi emerso, un’operazione studiata a tavolino e portata a termine da milizie islamiste.

Secondo i leader repubblicani, la Casa Bianca aveva occultato deliberatamente la verità per evitare imbarazzi ad un Obama che in campagna elettorale stava celebrando i progressi americani sul fronte della guerra al terrore. Dopo il voto, la controversia avrebbe fatto anche naufragare la candidatura della stessa Rice alla successione di Hillary Clinton alla guida del Dipartimento di Stato, costringendo il presidente rieletto ad optare per il senatore democratico del Massachusetts, John Kerry.

La discussione di mercoledì, in ogni caso, è ruotata pressoché esclusivamente attorno all’inadeguatezza delle misure di sicurezza adottate per proteggere il consolato di Bengasi, la cui responsabilità ultima ricade appunto sul Segretario di Stato. La Clinton, perciò, ha affermato di sentirsi responsabile non solo per l’accaduto, ma anche per “i quasi 70 mila dipendenti” del suo dipartimento, aggiungendo tuttavia, relativamente ai fatti dell’11 settembre scorso, che “specifiche richieste riguardanti la sicurezza a Bengasi erano state gestite da professionisti della sicurezza all’interno del dipartimento”.

Tali richieste, evidentemente rimaste inascoltate, secondo Hillary non erano mai giunte alla sua attenzione, anche se essa ha poi ammesso di essere stata al corrente di una serie di eventi precedenti l’assassinio dell’ambasciatore, J. Christopher Stevens, che indicavano il deterioramento della situazione nella città libica.

L’assunzione di responsabilità da parte di Hillary Clinton si è dunque prevedibilmente limitata alle questioni della sicurezza nella struttura consolare di Bengasi, dove peraltro era presenta anche una folta delegazione di agenti della CIA. Nessun membro del Congresso presente all’audizione di mercoledì ha invece ritenuto opportuno sollevare le responsabilità legate al finanziamento, all’addestramento e alla fornitura di armi a quegli stessi gruppi terroristici che hanno condotto l’assalto al consolato.

In questo ambito si era distinto in particolare proprio l’ambasciatore Stevens, giunto precocemente in Libia nella primavera del 2011 per stabilire contatti con i cosiddetti “ribelli” libici, sui quali gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo avrebbero poi puntato per rovesciare il regime di Gheddafi, senza alcuno scrupolo per le ben note attitudini estremiste di molte fazioni al loro interno.

Gli assassini dei quattro cittadini americani a Bengasi, perciò, provengono con ogni probabilità dalle file dell’opposizione armata che gli stessi Stati Uniti hanno sfruttato per i propri interessi imperialistici in Libia, salvo poi vedersi sfuggire la situazione di mano ed assistere allo sprofondamento nel caos di uno dei paesi più stabili, secolari e relativamente floridi di tutto il continente africano.

Alla luce di questo scenario, risulta particolarmente ipocrita, anche per gli standard della politica americana, la commozione mostrata sempre mercoledì da Hillary Clinton quando ha raccontato di avere assistito assieme al presidente Obama all’arrivo a Washington delle salme degli americani morti a Bengasi, nonché di avere confortato personalmente i loro familiari.

Ipocrisia e cinismo hanno però caratterizzato tutto l’intervento del Segretario di Stato davanti alle commissioni del Congresso, trasformando la sua apparizione in un esempio dei metodi utilizzati dalla classe dirigente americana per ribaltare la realtà dei fatti e distogliere l’attenzione popolare e dei media dalla conduzione dei propri affari nel mondo.

Questo comportamento è apparso evidente quando la Clinton è passata ad affrontare la crisi in corso in Mali e la recente strage nell’impianto estrattivo di In Amenas, in Algeria. Senza alcun accenno di imbarazzo, la ex first lady ha infatti affermato che gli islamisti responsabili dell’azione in territorio algerino e quelli che da quasi un anno hanno preso il controllo del nord del Mali - affiliati al gruppo jihadista Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) - si sono procurati le loro armi in Libia.

Se il legame evidenziato dalla Clinton tra la situazione di anarchia libica e i fatti d’Algeria della scorsa settimana è corretto, ciò che però ha mancato di aggiungere è che il flusso di armi a beneficio di gruppi terroristici è stato reso possibile precisamente dall’intervento della NATO per rimuovere Gheddafi. Tanto più che i legami tra AQIM e alcune milizie estremiste attive in Libia, a cominciare dal cosiddetto Gruppo dei Combattenti Islamici Libici (LIFG), sono noti da tempo.

Inoltre, la Clinton ha attribuito il precipitare della situazione in Africa settentrionale, compreso l’assalto a Bengasi, ai fatti della Primavera Araba. Caratterizzando il proprio paese quasi come uno spettatore ininfluente, Hillary ha provato a ricostruire secondo il suo punto di vista le vicende degli ultimi due anni nel mondo arabo, affermando che “le rivoluzioni hanno rimescolato le dinamiche di potere e indebolito le forze di sicurezza nella regione”. Di conseguenza, a suo dire, “l’instabilità in Mali ha finito per creare un rifugio per i terroristi intenzionati ad estendere la loro influenza e a tramare nuovi attacchi come quelli a cui abbiamo assistito settimana scorsa in Algeria”.

Il quadro dipinto in questo modo esclude dalla ricostruzione dei fatti degli ultimi due anni il ruolo di Washington, principale responsabile della destabilizzazione dell’intera regione per il perseguimento dei suoi obiettivi strategici. Il rimodellamento degli equilibri nel continente africano - a favore degli Stati Uniti e dei loro alleati e a discapito di Russia e, soprattutto, Cina - è iniziato proprio dall’operazione in Libia, dove un movimento di protesta limitato ma spontaneo è stato ben presto dirottato e manipolato dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo Persico.

La destituzione e il brutale assassinio di Gheddafi hanno gettato la Libia nel caos, trasformandola in un vero e proprio incubatore di gruppi estremisti, finiti poi a combattere con il sostegno occidentale in Siria, ma anche in Mali, dove, al contrario, hanno fornito la giustificazione per il recente intervento militare della Francia che ha segnato l’apertura ufficiale del nuovo fronte africano della “guerra globale al terrore”.

La falsificazione della realtà da parte di Hillary Clinton è stata però smascherata sempre nella giornata di mercoledì dal ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, nel corso di una conferenza stampa a tutto campo. Contraddicendo la sua omologa a Washington, il capo della diplomazia di Mosca ha in sostanza assegnato la responsabilità della crisi nel paese dell’Africa occidentale agli Stati Uniti e ai loro alleati, ricordando opportunamente agli spettatori più distratti delle questioni internazionali che “le forze contro le quali si stanno battendo i francesi e gli americani in Mali sono le stesse che questi governi hanno armato per rovesciare il regime di Gheddafi”.

“La situazione in Mali”, ha aggiunto Lavrov, “appare perciò la conseguenza degli eventi libici, mentre la presa degli ostaggi in Algeria è da considerarsi un avvertimento” per le ripercussioni indesiderate che potrebbe avere nel prossimo futuro l’irresponsabile strategia africana di Washington e Parigi.

di Michele Paris

Le elezioni anticipate andate in scena martedì in Israele e fortemente volute da Benyamin Netanyahu si sono risolte, nonostante l’obiettivo minimo raggiunto di conquistare un terzo mandato alla guida del governo, in un imprevisto e umiliante rovescio per il primo ministro conservatore. L’alleanza di destra tra il Likud e Israel Beiteinu ha infatti registrato la perdita di una decina di seggi rispetto al 2009, mentre il sostanziale equilibrio che si prospetta tra i due blocchi contrapposti in parlamento (Knesset), contraddistinti peraltro da sensibili differenze anche al loro interno, potrebbe complicare non poco il tentativo di Netanyahu di mettere assieme una stabile coalizione di governo.

Lo scioglimento della legislatura era stato deciso dallo stesso premier lo scorso mese di ottobre in seguito all’impossibilità di trovare un accordo all’interno della sua maggioranza sul bilancio per il 2013. Ad ostacolare l’adozione di misure volte a ridurre il deficit tramite pesanti tagli alla spesa pubblica erano stati in particolare i partiti ultra-ortodossi, il cui elettorato appartiene alle fasce più disagiate del paese e che fa appunto ampio affidamento sull’assistenza dello stato.

Il calcolo di Netanyahu era quello di ottenere in fretta un nuovo solido mandato elettorale per implementare misure di austerity senza dovere scendere a compromessi con la destra religiosa, presentando perciò una lista unica con il partito dell’ex ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman. La sicurezza di un netto successo del primo ministro, anche grazie a partiti di opposizione appena nati o moribondi, era tale che il Likud non aveva nemmeno approvato una piattaforma programmatica per la campagna elettorale.

Con i media israeliani e occidentali impegnati da settimane a dipingere un elettorato sempre più spostato a destra, una nettissima vittoria del Likud e di Israel Beiteinu appariva perciò scontata. La sicurezza di Netanyahu ha finito però per svanire, tanto che, prima della chiusura delle urne, il premier israeliano ha addirittura sentito la necessità di lanciare un appello allarmato su Facebook ai sostenitori del Likud, invitandoli ad andare a votare “per il bene del paese”.

I risultati pressoché definitivi hanno attribuito a Likud e Israel Beiteinu 31 seggi sui 120 totali in palio, contro i 42 che i due partiti controllavano nella precedente Knesset e ben al di sotto di quanti erano stati loro attribuiti alla vigilia del voto. A penalizzare la destra israeliana è stata soprattutto l’elevata affluenza, che ha sfiorato il 67%, sintomo di una diffusa ostilità nei confronti dei partiti di governo, sia per le politiche economiche messe in atto in questi anni che per le posizioni relative alla questione palestinese e alla presunta minaccia del nucleare iraniano.

A sorpresa, del voto di protesta ha beneficiato soprattutto il partito di centro Yesh Atid (“C’è un Futuro”), fondato solo lo scorso anno dal noto giornalista televisivo Yair Lapid, figlio di un ex ministro della Giustizia israeliano. Oltre a sfruttare la popolarità del proprio leader, Yesh Atid ha saputo capitalizzare in qualche modo il malcontento della società israeliana, facendosi portavoce di una classe media in affanno e combinando un messaggio populista con posizioni relativamente moderate sul processo di pace con i palestinesi.

Con 19 seggi conquistati, Yesh Atid è diventato il secondo partito in Parlamento e viene ora descritto come uno dei candidati ad entrare nel nuovo governo Netanyahu. Quest’ultima ipotesi è infatti già stata discussa dai leader dei due partiti, anche se una coalizione con Lapid comporterebbe più di un attrito con gli alleati di estrema destra del Likud, sia sulla questione palestinese sia attorno ai benefici garantiti dallo stato agli ultra-ortodossi, producendo una maggioranza alquanto instabile.

Alla destra del Likud ha fatto segnare un discreto risultato, anche se inferiore alle aspettative, il partito Habayit Hayehudi (“Focolare Ebraico”), guidato dall’imprenditore di origine americana ed ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett. Questo movimento di estrema destra e il suo leader avevano occupato gran parte delle cronache giornalistiche durante la campagna elettorale, anche se gli 11 seggi ottenuti appaiono in buona parte il risultato dell’emorragia di consensi per il Likud, in particolare tra l’elettorato religioso non fondamentalista che vede con sospetto il secolarismo del partito di Lieberman. Bennet, in ogni caso, si oppone apertamente alla creazione di due stati per risolvere la questione palestinese e propone l’annessione del 60% della Cisgiordania, così che, appunto, una coesistenza del suo partito con il centrista Lapid appare problematica.

Quella che secondo alcuni commentatori sarà una necessità per Netanyahu di guardare al centro per formare il suo nuovo governo, al contrario di quanto auspicava dopo avere sciolto il Parlamento, potrebbe far considerare al premier un’alleanza con altre due formazioni moderate, come Kadima e Hatnuah (“Il Movimento”). Il risultato di questi due partiti è stato però tutt’altro che entusiasmante e anche un eventuale accordo con entrambi obbligherebbe Netanyahu a fare comunque affidamento almeno su un altro partner alla propria destra.

Kadima, in particolare, ha raccolto appena due seggi dopo che nelle elezioni del 2009 era risultato il primo partito della Knesset con 28. Screditato da una breve esperienza nel governo Netanyahu la scorsa primavera, Kadima aveva successivamente assistito anche alla defezione di uno dei suoi membri più autorevoli, l’ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, la quale con il suo nuovo partito, Hatnuah, martedì ha ottenuto 6 seggi.

L’avversione per l’attuale governo ha prodotto poi qualche beneficio anche a sinistra. Il Partito Laburista ha fatto segnare un modesto incremento della propria rappresentanza in Parlamento (da 13 a 15 seggi), mentre il social-democratico Meretz è passato da 3 a 6. Infine, rimangono come al solito fuori da ogni calcolo politico i partiti che rappresentano una popolazione araba-israeliana sempre più alienata all’interno dello stato ebraico. Tre formazioni che fanno riferimento a questa fetta di elettorato si spartiranno un totale di 12 seggi.

Il brusco risveglio di Netanyahu lo costringerà così a fare i conti con un elettorato israeliano spostato decisamente a sinistra, a dispetto di una classe politica orientata sempre più a destra di fronte all’inasprirsi delle difficoltà economiche interne e all’aumento delle tensioni nella regione mediorientale. Una realtà che finirà con ogni probabilità per pesare in maniera significativa su un nuovo esecutivo che, qualsiasi sarà la sua composizione, si preannuncia estremamente instabile.

Oltre alle difficili scelte di politica economica che Netanyahu sarà chiamato a mettere in atto in un paese già segnato da elevatissimi livelli di povertà e disuguaglianze sociali, a pesare sul futuro del governo saranno soprattutto il moribondo processo di pace con i palestinesi, il nucleare iraniano e la crisi in Siria, tutte questioni che si incroceranno con i rapporti con gli Stati Uniti. Una relazione quella con il principale alleato di Tel Aviv che sarà in parte da ricostruire, alla luce delle frequenti incomprensioni del recente passato e dell’attitudine teoricamente meno servile verso Israele mostrata dalle forze nuove volute dal presidente Obama per guidare il Pentagono e il Dipartimento di Stato.

di Michele Paris

In un’atmosfera decisamente più cupa rispetto all’euforia di quattro anni fa, nella giornata di lunedì il presidente Obama ha ufficialmente aperto il suo secondo mandato alla Casa Bianca dopo la vittoria elettorale dello scorso novembre. Il suo breve discorso pubblico tenuto di fronte al Congresso è risultato ancora una volta un concentrato di demagogia e proclami fuorvianti, necessari per occultare la realtà di politiche sempre più reazionarie dietro ad una retorica che ha cercato di prospettare una più che improbabile visione progressista per il futuro degli Stati Uniti.

Il giuramento vero e proprio del presidente democratico era in realtà avvenuto il giorno precedente alla Casa Bianca nel corso di una cerimonia con pochi partecipanti, poiché la scadenza costituzionale del mandato di Obama ricorreva appunto nella giornata di domenica. Se pure a Washington sono giunte centinaia di migliaia di persone per l’inaugurazione presidenziale, il numero è stato nettamente inferiore rispetto al 2009, coerentemente con la presa di coscienza in questi quattro anni da parte di ampie fasce della popolazione americana dell’impossibilità di vedere realizzati i cambiamenti promessi.

Nel suo discorso, Obama ha fatto riferimento sia alle origini della democrazia americana che alle battaglie per l’emancipazione razziale, proponendo un percorso per ridurre le disuguaglianze e ottenere la piena affermazione dei diritti individuali. Pur senza entrare nel merito di proposte specifiche, l’inquilino della Casa Bianca ha affermato poi la necessità di agire sul fronte del cambiamento climatico, della “salvaguardia” dei programmi di assistenza pubblica, della lotta alla povertà, dell’immigrazione e dei diritti degli omosessuali.

La retorica di Obama, in ogni caso, non deve aver convinto più di tanto la maggior parte degli americani che hanno ascoltato il suo discorso, dal momento che lo stesso presidente democratico nei suoi primi quattro anni alla guida del paese non ha rappresentato altro che la continuazione di politiche tese piuttosto a indebolire le garanzie democratiche e alla difesa dei grandi interessi economici e finanziari di cui la classe politica di Washington è espressione unica.

Riguardo alle politiche ambientali, ad esempio, c’è da chiedersi quali iniziative per combattere il cambiamento climatico possa mettere in atto un’amministrazione che poco o nulla di realmente significativo ha realizzato dal 2009 a oggi o che, ancor peggio, ha fatto di tutto per salvare il colosso petrolifero BP dopo il disastro ambientale del 2010 nel Golfo del Messico o che ha aperto alle trivellazioni svariate aree ecologicamente fragili in Alaska e altrove.

Inoltre, in merito alla necessità di “difendere” programmi come Medicare, Medicaid o Social Security, come esige il linguaggio orwelliano della politica americana, va ricordato che questi ultimi sono già stati privati di centinaia di miliardi di dollari per i prossimi anni con l’approvazione della cosiddetta riforma sanitaria di Obama e che nuovi devastanti tagli sono all’orizzonte nell’ambito delle imminenti trattative con i repubblicani per la riduzione del debito federale.

Solo marginale è stato invece il riferimento alla lotta al terrorismo e alle avventure belliche degli Stati Uniti. Ben consapevole dell’impopolarità delle politiche del governo in questo ambito, Obama si è limitato a fare intravedere la fine delle guerre iniziate più di un decennio fa. Mentre il presidente parlava agli americani, tuttavia, l’apparato militare del quale è a capo continuava a discutere dell’opportunità di partecipare attivamente al conflitto in Mali per promuovere gli interessi imperialistici occidentali. Allo stesso modo, i preparativi per un’aggressione illegale contro l’Iran e per un intervento diretto in Siria per rovesciare un regime sgradito proseguono senza sosta.

Il relativo disimpegno prospettato da Obama, in ogni caso, riguarda unicamente l’inopportunità - politica ed economica - di continuare ad inviare all’estero grandi contingenti militari, come in Iraq e in Afghanistan, facendo affidamento piuttosto su operazioni segrete delle forze speciali o su assalti condotti con i droni, come quelli che pressoché quotidianamente seminano il terrore tra i civili in paesi come Pakistan, Afghanistan, Yemen e Somalia.

Particolarmente rivelatrici sono state poi le parole sui diritti degli omosessuali, le quali hanno mandato in visibilio i media liberal, dal momento che Obama sarebbe stato il primo presidente a pronunciare la parola “gay” durante un discorso inaugurale. Questo riferimento appare indirizzato in particolare ai sostenitori di sinistra del presidente, ben disposti a passare sopra a qualsiasi eccesso in cambio di un generico impegno nell’ambito delle politiche identitarie.

Più in generale, come ha evidenziato martedì un editoriale di raro cinismo del New York Times, Obama nel suo discorso si sarebbe concentrato sulla sua “filosofia politica”, la quale in sostanza prevede che la libertà e la prosperità degli Stati Uniti dipendano dalla capacità di “agire collettivamente”.

Assieme all’appello alle politiche identitarie, simili affermazioni servono a confondere le idee circa le vere ragioni della crisi in atto, vale a dire le macroscopiche differenze di classe che caratterizzano la società americana, come se gli interessi di lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati siano conciliabili con quelli di una ristretta cerchia che occupa i vertici della politica, dell’economia e dell’industria finanziaria americana.

Il ricorso alla promozione di campagne per l’emancipazione delle minoranze - siano esse di razza o di orientamento sessuale - oppure per la lotta al cambiamento climatico, se pure meritevoli e assolutamente necessarie, hanno in realtà lo scopo di tenere a freno tensioni sociali sempre più evidenti, risultato di politiche di classe messe in atto da almeno tre decenni a questa parte e che hanno prodotto gigantesche differenze di reddito, nonché disoccupazione e povertà dilaganti.

Al di là della retorica pubblica, d’altra parte, Obama ha avuto parole più concilianti verso coloro che si opporrebbero alla sua presunta agenda progressista. In un ricevimento seguito all’inaugurazione, il presidente si è infatti intrattenuto con i leader di entrambi i partiti al Congresso, ricordando come le loro posizioni non siano poi così inconciliabili, visto che hanno lo stesso obiettivo di salvare il capitalismo americano dalla crisi strutturale in atto facendone pagare tutte le conseguenze alla classe media e ai lavoratori.

In ogni caso, la visione “liberal” presentata nel discorso inaugurale da un Obama insolitamente poco incline ai consueti appelli bipartisan è sintomo infine di una più che giustificata preoccupazione negli ambienti di potere americani per un malcontento diffuso nei confronti di politiche volte unicamente a salvaguardare gli interessi dei poteri forti e che stanno causando un continuo peggioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di persone. Da qui la necessità di provare a proiettare l’immagine di un presidente pronto a battersi per una società più giusta.

Se la vera natura delle politiche perseguite a Washington non può ovviamente essere discussa apertamente, la retorica progressista di Obama suona però del tutto vuota proprio perché non è in grado e non ha alcuna volontà di individuare le radici della crisi del sistema, facendone perciò, ad esempio, una questione di diritti gay invece che, più opportunamente, una questione di rapporti di classe, argomento da tempo inavvicinabile per tutta la classe dirigente d’oltreoceano.

di Michele Paris

Mentre il bilancio delle vittime del blitz condotto nel fine settimana dalle forze di sicurezza algerine in un impianto di estrazione di gas naturale al confine con la Libia continua a salire, le collegate operazioni militari della Francia nel vicino Mali indicano una possibile escalation del conflitto nel paese dell’Africa occidentale, con possibili gravi ripercussioni per tutta la regione del Sahel e non solo.

Come è noto, l’assalto finale delle forze speciali di Algeri ha avuto luogo nella giornata di sabato e si è risolto in un vero e proprio bagno di sangue. I morti tra gli ostaggi e gli affiliati ad una brigata integralista legata ad Al-Qaeda che aveva preso possesso dell’installazione ammontano a svariate decine, anche se, per stessa ammissione del governo locale, numerose vittime devono ancora essere identificate.

L’azione dei reparti speciali algerini è stata decisa senza consultare i paesi da cui provenivano molti degli operatori della struttura estrattiva di In Amenas ed è avvenuta dopo il rifiuto da parte delle autorità governative di trattare con i leader dei jihadisti per la liberazione degli ostaggi. In un video postato su un sito web nord-africano, infatti, il leader del gruppo che ha rivendicato l’operazione, Mokhtar Belmokhtar, si era detto pronto a negoziare con l’Occidente e con il governo algerino se fossero stati interrotti i bombardamenti francesi in Mali.

Le dichiarazioni del veterano guerrigliero islamista, ben noto ai servizi segreti algerini e francesi ma anche americani, dal momento che aveva mosso i suoi primi passi nel movimento jihadista finanziato da Washington in Afghanistan negli anni Ottanta, confermano dunque i timori di quanti prevedevano serie conseguenze del nuovo fronte di guerra aperto da Parigi una decina di giorni fa.

In Mali, dove la Francia ha inviato finora più di duemila uomini come truppe di terra, gli sviluppi più recenti delle operazioni belliche indicano ripetuti bombardamenti contro le roccaforti degli estremisti islamici nel nord del paese, in particolare nei pressi di Timbuktu. Nella località del Mali centrale, Diabaly, a poco più di 300 km dalla capitale, Bamako, le forze francesi e l’esercito regolare avrebbero invece ripreso il controllo della situazione, con i “ribelli” costretti almeno momentaneamente alla fuga.

Alla luce della strage nella struttura estrattiva in Algeria e di possibili attentati anche in territorio francese, tuttavia, il governo socialista di François Hollande continua ad affermare che l’intervento in Mali sarà di breve durata e che dovranno essere i paesi africani a farsi carico della difficile stabilizzazione del paese, o meglio a dover agire come strumento delle mire neo-colonialiste di Parigi.

A questo scopo, in un summit organizzato nel fine settimana ad Abidjan, in Costa d’Avorio, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha sollecitato la formazione di una forza multinazionale di intervento in Mali, già autorizzata da una recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Quest’ultima decisione prevedeva in realtà tempi di intervento molto più lunghi ma l’avanzata dei “ribelli” islamici verso il sud del paese ha spinto la Francia a muoversi anticipatamente. In ogni caso, già domenica sarebbero giunti a Bamako almeno 400 soldati provenienti da Nigeria, Togo, Benin e Ciad, un anticipo di un totale di oltre tremila uomini complessivamente promessi assieme ad altri paesi africani.

L’intervento francese in Mali, come ampiamente previsto, è subito diventato un potente strumento in mano ai gruppi integralisti per reclutare nuovi adepti della jihad globale, trasformando con ogni probabilità una minaccia limitata al paese dell’Africa occidentale o, tutt’al più, a quelli confinanti, in un pericolo anche per l’Occidente.

Questa nuova realtà ha già scatenato una serie di commenti e analisi allarmate circa gli scenari che si preannunciano sul fronte della “guerra al terrore”, accompagnati da appelli a nuove inevitabili iniziative di più ampio respiro e di lunga durata. Tra i leader occidentali che si sono pronunciati in questo senso nei giorni scorsi c’è ad esempio il primo ministro britannico, David Cameron, il quale ha definito le attività di gruppi come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) “una minaccia globale che richiederà una risposta globale” da attuarsi “nei prossimi anni o addirittura decenni”.

In precedenza, il Segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, aveva anch’egli ipotizzato un maggiore impegno in Africa da parte del suo paese, dal momento che Washington “ha preso l’impegno di combattere Al-Qaeda ovunque”. Il capo del Pentagono, che lascerà a breve il proprio incarico al relativamente più moderato ex senatore repubblicano Chuck Hagel, ha poi ricordato minacciosamente che gli Stati Uniti hanno già contrastato i “terroristi” in “Afghanistan, in Pakistan, in Somalia” e che perciò non avranno alcuno scrupolo ad impegnarsi anche in Nord Africa.

La nuova crociata guidata dalla Francia e dagli USA fa parte dunque di una strategia che, in vista del relativo disimpegno in Medio Oriente e in Asia centrale, nei prossimi anni avrà al centro dell’attenzione il continente africano, obiettivo ambito dalle potenze internazionali per le proprie ingenti risorse naturali in buona parte ancora da esplorare e terreno nel quale è già in corso un’accesa competizione con la penetrazione cinese.

L’implementazione di questo disegno ha fatto segnare una netta accelerazione proprio con l’intervento francese in Mali, e prima ancora con l’aggressione della NATO contro la Libia per rimuovere il regime di Gheddafi. Come hanno fatto osservare alcuni analisti, l’inaugurazione di un fronte africano della “guerra al terrore” è stato teorizzato da tempo negli ambienti “neo-con” d’oltreoceano e la militarizzazione del continente per controllarne le riserve energetiche di fronte alla minaccia cinese sarebbe appunto il compito principale, anche se non ufficiale, assegnato al Comando Africano del Pentagono (AFRICOM), creato dall’amministrazione Bush nel 2008.

La minaccia estremista al governo del Mali, esplosa peraltro in seguito alla fine di Gheddafi, il cui governo svolgeva una funzione stabilizzatrice delle forze centrifughe che caratterizzano la ex colonia francese, è stata dunque sfruttata ancora una volta per promuovere gli obiettivi imperialistici degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente, dietro la consueta e ormai ben consolidata retorica della necessità di contrastare il terrorismo internazionale.

Le forze dell’integralismo islamico, d’altra parte, sono da tempo pedine nelle mani dei governi occidentali, i quali le usano alternativamente e a seconda delle necessità, come alleati più o meno ufficiali per combattere regimi sgraditi, come è accaduto in Libia e come sta avvenendo in Siria, oppure come casus belli per giustificare interventi diretti in aree del pianeta strategicamente fondamentali, come appunto in Mali.

La responsabilità della creazione di queste cellule estremiste è da attribuire all’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti e ai regimi alle loro dipendenze in Africa e in Medio Oriente. Se l’origine di Al-Qaeda, finanziata e armata da Washington e dalle monarchie assolute del Golfo Persico, è da ricercare nel conflitto in Afghanistan per mettere fine all’occupazione sovietica, in questi ultimi anni le crisi create in Libia e in Siria hanno consentito alla galassia jihadista di prosperare ed ampliare i propri obiettivi.

Per quanto riguarda la vicenda del Mali, non solo Al-Qaeda nel Maghreb Islamico - il gruppo islamista che controlla il nord del paese assieme ad Ansar Dine e al Movimento per l’Unicità e la Jihad in Africa Occidentale (MOJWA) - ha beneficiato delle armi fornite dalla NATO ai ribelli libici di matrice islamista (LIFG) in prima linea contro Gheddafi e con i quali sono alleati da anni, ma, secondo alcuni, sarebbe essa stessa una creatura dei servizi segreti dell’Algeria, il cui governo ha ora concesso il proprio spazio aereo ai velivoli francesi che bombardano le postazioni di AQIM nel vicino meridionale.

A sostenere questa tesi, in particolare, è Jeremy Keenan, autorevole esperto di questioni nord-africane e docente presso la London University. In numerose analisi su varie testate internazionali, in questi anni Keenan ha sottolineato come i guerriglieri islamisti che hanno preso possesso dallo scorso anno del Mali settentrionale abbiano goduto dell’assistenza del cosiddetto “Département du Renseignement et de la Sécurité” (DRS) di Algeri, tra l’altro accusato a più riprese di fare regolarmente ricorso a metodi di tortura e a detenzioni illegali.

Per Keenan, il DRS utilizzerebbe questi gruppi estremisti per convincere l’Occidente a continuare a fare affidamento sul regime algerino nella “guerra al terrore” in Nordafrica, mentre in collaborazione con le agenzie di intelligence occidentali avrebbe più volte organizzato operazioni terroristiche fabbricate ad arte per giustificare l’espansione del fronte globale contro il terrorismo nella regione sahariana e del Sahel.

La sempre maggiore presenza militare occidentale in Africa, come già anticipato, è infine anche e soprattutto una risposta ai successi fatti segnare dalla Cina in questo continente, dove Pechino ha costruito partnership che hanno fatto lievitare negli ultimi anni gli scambi commerciali bilaterali. In Mali, ad esempio, le aziende cinesi sono impegnate in vari settori, dalle costruzioni all’industria estrattiva, dall’agricoltura all’industria alimentare, contribuendo allo sviluppo minimo di cui ha beneficiato questo poverissimo paese nel recente passato.

Alcuni progetti di cooperazione con il governo del Mali vennero siglati nel febbraio 2009 durante una visita a Bamako dell’allora presidente cinese, Hu Jintao, invitato personalmente dal suo omologo Amadou Toumani Touré, la cui deposizione nel marzo dello scorso anno ha dato inizio alla crisi in cui è precipitato il paese africano. A rimuovere Touré a poche settimane dalla fine del suo mandato presidenziale fu un colpo di stato militare guidato da Amadou Sanogo, un capitano ribelle dell’esercito debitamente addestrato negli Stati Uniti d’America.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy