di Michele Paris

In una lettera indirizzata al presidente della commissione per le Forze Armate del Senato, il capo di stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, ha elencato questa settimana le opzioni militari preparate dal Pentagono per un possibile catastrofico intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Se l’ufficiale più altro in grado degli USA ha allo stesso tempo manifestato molte perplessità nei confronti di una nuova guerra in Medio Oriente, l’amministrazione Obama sta indubbiamente valutando questa ipotesi per rimuovere con la forza il regime di Assad, come chiedono da tempo alcune potenti sezioni dell’apparato politico-militare d’oltreoceano.

Il ventaglio di opzioni proposto dal Dipartimento della Difesa va dall’addestramento di “ribelli” sul territorio di paesi confinanti con la Siria all’implementazione di una no-fly zone con massicci bombardamenti sugli obiettivi situati nelle aree del paese controllate da Damasco. Tutte le possibili scelte sono corredate dei relativi esorbitanti costi per il governo americano, nonché dalla portata dello sforzo logistico che ognuna di esse comporterebbe.

La diffusione della notizia dei preparativi per una vera e propria guerra in Siria è giunta in seguito ad una serie di dichiarazioni di vari esponenti dei vertici militari e del governo che nei giorni scorsi avevano espresso il timore per la prospettiva concreta che, in assenza di interventi esterni, Assad riesca a rimanere alla guida del paese mediorientale ancora a lungo. Lo stesso generale Dempsey, nel corso di un’audizione al Senato sul prolungamento del suo incarico, settimana scorsa aveva affermato che Assad sarà con ogni probabilità ancora al suo posto anche tra un anno.

Nella lettera recapitata al senatore democratico Carl Levin, in risposta alle perplessità del falco repubblicano John McCain sulla presunta passività dell’amministrazione Obama riguardo la Siria, Dempsey ha spiegato che le forze armate USA, nel caso venisse ordinato dalla Casa Bianca, sono pronte ad addestrare e “consigliare” l’opposizione anti-Assad, ma anche a lanciare attacchi missilistici, imporre una no-fly zone, creare zone-cuscinetto oltre i confini di Giordania e Turchia e prendere il controllo dell’arsenale di armi chimiche a disposizione del regime.

Per mettere bene in chiaro ciò che ognuna di queste opzioni comporta, Dempsey ha ricordato che, “una volta presa un’iniziativa, dovremo preparaci a qualsiasi evenienza”, così che “un coinvolgimento più profondo sarà difficile da evitare”, visto che “la decisione di utilizzare la forza rappresenta né più né meno un atto di guerra”. Allo stesso tempo, un’azione di questo genere da parte degli Stati Uniti “potrebbe inavvertitamente rafforzare i gruppi estremisti e provocare l’uso di quelle stesse armi chimiche sulle quali cerchiamo di prendere il controllo”.

Sul fronte dei costi per le casse federali in un periodo di pesantissimi tagli alla spesa pubblica, il solo programma di addestramento di alcune migliaia di truppe “ribelli” richiederebbe circa 500 milioni di dollari all’anno. Un’offensiva con missili a lungo raggio diretti contro obiettivi militari in Siria comporterebbe invece il dispiegamento di centinaia di aerei e navi da guerra, facendo salire il costo a non meno di un miliardo di dollari per ogni mese di operazioni.

Quest’ultimo importo, infine, è stato indicato dallo stesso Dempsey anche nel caso venisse decisa una campagna di terra, condotta da “migliaia di uomini appartenenti alle Forze Speciali”, per “mettere al sicuro” le armi chimiche di Assad.

Ciò che il capo di stato maggiore americano ha mancato di elencare, così come i politici di Washington che chiedono un intervento diretto degli Stati Uniti in Siria, è il costo di simili operazioni in termini di vite umane. L’utilizzo della forza per rovesciare il regime di Damasco, infatti, è una soluzione che, per mettere teoricamente fine al conflitto in corso, finirebbe per provocare un bagno di sangue ancora maggiore di quello in corso.

Una prospettiva di questo genere è facilmente prevedibile, soprattutto alla luce della lezione della crisi in Libia, dove nel 2011 i bombardamenti delle forze NATO fecero molti più danni e vittime civili dello scontro tra le forze di sicurezza di Gheddafi e i “ribelli”. In Siria, oltretutto, la posta in gioco dal punto di vista geo-politico è decisamente superiore rispetto al paese nordafricano, così che il rischio di una conflagrazione su vasta scala risulta essere molto alto, come dimostra l’evoluzione già in corso della crisi in un conflitto regionale con il coinvolgimento diretto o indiretto non solo delle principali potenze mediorientali ma anche di quelle planetarie.

La strategia degli Stati Uniti, per il momento, prevede il via libera alla fornitura di armi ai “ribelli”, come promesso dal presidente Obama lo scorso mese di giugno dopo l’annuncio, basato su prove a dir poco incerte, che il regime avrebbe fatto uso di armi chimiche. Oltre a far fronte alle divisioni all’interno della propria amministrazione, il presidente democratico ha dovuto attendere anche il parziale scioglimento delle riserve al Congresso, dove molti parlamentari di entrambi gli schieramenti nutrono seri dubbi sulle conseguenze che comporterà anche solo il trasferimento di armi ad un’opposizione dominata da formazioni integraliste.

Così, nella giornata di lunedì la commissione sui servizi segreti della Camera dei Rappresentanti ha dato il via libera al dirottamento di fondi già stanziati per la CIA da destinare alla fornitura di armi alle forze anti-Assad in Siria. Vista la palese illegalità di un’operazione unilaterale che implica la partecipazione ad una guerra civile a fianco di una delle due parti in conflitto, l’amministrazione Obama ha infatti deciso di non incaricare il Dipartimento della Difesa del trasferimento di armi ma di assegnare la responsabilità di un’operazione ufficialmente clandestina alla CIA.

Al di là della propaganda di Washington, la fornitura di armi ai “ribelli” in Siria, oltre ad essere una mossa in contravvenzione del diritto internazionale, non farà altro che aggravare la situazione sul campo. A sottolinearlo, tra gli altri, è stato anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, il quale ha affermato che “le armi non portano la pace” e che preferirebbe “veder cessare le spedizioni di armi da tutte le parti coinvolte”.

Il coinvolgimento degli USA nel finanziamento e nel trasferimento di armi alle milizie anti-Assad, comprese quelle legate ad Al-Qaeda, non inizierà comunque dopo il voto del Congresso, poiché la CIA svolge da tempo un ruolo di facilitazione e coordinamento delle spedizioni di materiale bellico proveniente da paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia.

La pretesa sostenuta dal governo americano di avere tenuto finora un approccio cauto alla crisi siriana è soltanto di facciata e serve ad evitare di alimentare l’ostilità ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica domestica e internazionale nei confronti di una nuova e rovinosa avventura bellica in Medio Oriente.

I rovesci patiti dalle forze dell’opposizione in questi ultimi mesi hanno però spinto i loro sponsor occidentali a moltiplicare gli sforzi con nuove iniziative, come appunto la decisione presa da Obama nel mese di giugno. L’importanza del via libera agli armamenti diretti in Siria, come primo passo verso un intervento militare degli USA, è apparso chiaro anche dall’impegno di personalità come, ad esempio, il segretario di Stato John Kerry, il vice-presidente Joe Biden e il direttore della CIA John Brennan, i quali nei giorni scorsi hanno cercato di convincere i membri più riluttanti della commissione della Camera per i servizi segreti a votare a favore dello sblocco dei fondi dell’agenzia di Langley.

Senza alcuno scrupolo per le possibili conseguenze in tutto il Medio Oriente causate da una sempre più probabile escalation del conflitto in Siria, alla luce dei loro “investimenti” in questo paese da oltre due anni, gli Stati Uniti e i loro alleati ritengono che la situazione abbia ormai raggiunto il punto di non ritorno.

Per questa ragione, il rischio di provocare altre decine di migliaia di vittime con un intervento militare, l’intensificarsi dello scontro settario già in corso o l’ulteriore rafforzamento di organizzazioni fondamentaliste legate al terrorismo internazionale sono il prezzo da pagare per evitare lo scenario peggiore per i loro interessi strategici, vale a dire una vittoria di Assad con il conseguente ristabilimento del controllo da parte del regime su tutta la Siria, ma anche il consolidamento della posizione di Hezbollah in Libano e l’espansione dell’influenza dell’Iran nel Golfo Persico e nell’intera regione mediorientale.

di Rosa Ana De Santis

I computer dell’ONU dicono che nel 2100 4 persone su 10 saranno africane. Pelle scura e capelli crespi i tratti tipici della popolazione terrestre. Gli europei quasi scomparsi, ridotti a 1 su 10. Questi numeri demografici uniti al surriscaldamento del clima dicono quindi che i flussi migratori aumenteranno vertiginosamente e il mare umano che si muoverà dal più antico dei continenti troverà praterie da abitare.

Divertente e preoccupante insieme unire questi numeri, frutto di studi e precise analisi demografiche, alla politica arroccata dell’Occidente che prova a blindare i propri confini sicuro del proprio sviluppo e della propria ricchezza. La natura, come è evidente, farà il suo corso e i migranti, finora trattati come elementi di disturbo o come risorsa da utilizzare, diventeranno invece protagonisti di un autentico ribaltamento di civiltà. Un capitolo storico che pochi oggi hanno il coraggio di mettere al centro dell’agenda politica. L’avamposto Lampedusa, della nostra piccola penisola, descrive bene questa miopia delle azioni di governo.

Robert M. Pirzig, nel suo Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta, descrive in modo mirabile, con un’immagine efficacissima, il rapporto dei Greci con il passato, opposto a quello oggi diffuso nella nostra cultura. Per i Greci il passato era davanti agli occhi, sterminato e chiarissimo all’analisi, mentre era il futuro ad essere alle spalle. Quest’immagine sembra aderire perfettamente al nostro destino culturale.

L’Africa che siamo abituati a pensare soltanto come origine remota della storia dell’uomo, l’abbiamo confinata nei volumi zero della storia, fingendo di non vederla e trattandola come un capitolo chiuso di civiltà capace solo di partorire qualche flusso di clandestini che non vogliono soccombere alle guerre e alla fame. E non abbiamo compreso in tempo, non vedendola più davanti a noi quanto essa fosse nel futuro. Alle nostre spalle, come pensano i Greci, proprio dietro al mare.

Salvo eventuali pandemie o catastrofi naturali, la crescita demografica, legata soprattutto alla fertilità della donna e a determinate condizioni che ne caratterizzano la vita sociale - dalla scolarizzazione ai diritti - sarà l’Africa a crescere, più della Cina dove la politica del “figlio unico” porterà i suoi frutti di arresto della crescita della popolazione. Di contro l’Europa, come gli USA del resto, sarà un paese di vecchi e anche solo per ragioni legate all’età è destinata a soccombere ai flussi migratori che verranno dal Sud del Mondo e chiamarli flussi sarà un eufemismo.

Tenuto conto infatti che quasi sette milioni di “giovani e giovanissimi” si ritroveranno a vivere in paesi desertificati lo scenario è facilmente intuibile. La sopravvivenza e il bisogno daranno luogo a un vero e proprio capovolgimento di mondi più che alla migrazione come siamo abituati a vederla e percepirla oggi.

Prima ancora di pensare alle difficoltà di un sovvertimento culturale tutt’altro che indolore ci saranno altri problemi da gestire quale il fabbisogno alimentare di persone che si abitueranno presto ad assumere un’altra dieta, a non morire di riso e acqua sporca, a mangiare proteine. Gli equilibri risorse-bisogni, finora fondati sull’ingiustizia di un mondo piccolo e ricco che divora per tutti, salteranno come coriandoli.

La soluzione, per ora inesistente, diventa impossibile se affidata a quella sottofilosofia della politica che questo rischio ha provato strenuamente solo a negarlo in virtù di una superiorità economica che, dopo la crisi degli ultimi anni, è rimasta a rappresentare le spoglie di un dogma più che una verità storica. Forse, come avviene per finzione cinematografica e altamente simbolica, nel cuore di Metropoliz - fabbrica occupata da immigrati e poveri nella periferia di Roma - la soluzione è quella di sparare i protagonisti di questa nuova Terra sulla luna.

Questo il film originale e di talento di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis. Verso la stessa luna dove è depositato in un’ampolla il senno dell’Orlando Furioso, e il canto dei nostri poeti, l’umanità dei ricchi occidentali sotto assedio dovrebbe spedire i migranti, i clandestini, i rom e in primis tutta l’Africa.

A questa opera di espulsione senza orizzonte sembra votato l’Occidente da troppo tempo. Proprio come fosse pronta, da un momento all’altro, una spedizione verso la Luna. Chissà se gli Europei e l’Occidente in generale capiranno in tempo che questa è una guerra già persa, perché si combatterà senza armi e senza soldi, ma con i numeri dei nuovi abitanti del pianeta. Che non avranno quasi più gli occhi azzurri e non saranno mai più bianchi.

di Michele Paris

Con una decisione in bilico tra ipocrisia e vigliaccheria, i 28 membri dell’Unione Europea hanno deciso questa settimana di aggiungere alla propria lista delle organizzazioni terroristiche l’ala militare del partito/milizia sciita libanese Hezbollah. La mossa, impensabile solo pochi mesi fa, è il frutto di una spregevole offensiva diplomatica di Stati Uniti e Israele, con la collaborazione di Gran Bretagna, Canada e Olanda, e nulla ha a che fare con la natura attuale del “Partito di Dio”, bensì con la promozione degli interessi di Washington e Tel Aviv e con il deteriorarsi della situazione in Siria per i cosiddetti “ribelli” appoggiati dall’Occidente.

Il contenuto del provvedimento adottato a Bruxelles nella serata di lunedì rivela le divisioni e i dubbi sulla decisione di svariati membri dell’Unione - come Austria, Irlanda, Spagna e la stessa Italia - preoccupati per le possibili conseguenze sia sulla stabilità del Libano sia per le sorti della missione ONU nel sud del paese mediorientale alla quale essi contribuiscono con un numero significativo di soldati. Il loro piegarsi senza troppa fatica alle pressioni americane e israeliane rivela anche il desolante abbandono di qualsiasi velleità di politiche anche minimamente indipendenti e non appiattite su Washington in Medio Oriente.

Per superare le perplessità e raggiungere l’unanimità richiesta per designare una qualsiasi entità come terroristica, oltre a risparmiare per ora l’ala politica di Hezbollah, l’UE ha affermato che rimarranno aperti i canali diplomatici con tutti i partiti libanesi e che i trasferimenti di denaro legali verso l’organizzazione guidata da Sayyed Hassan Nasrallah non verranno interrotti.

In sostanza, perciò, i governi europei si sono dati da fare per rassicurare il Libano dopo avere preso una decisione che contribuirà ulteriormente a destabilizzare questo paese, già spinto sull’orlo della guerra civile a causa delle politiche irresponsabili perseguite dall’Occidente in Siria.

Oltretutto, l’aggiunta alla lista nera UE avrà per il momento ben pochi effetti concreti, visto che Hezbollah stesso non opera alcuna distinzione tra la propria ala militare e quella politica, così che le risorse finanziare in territorio europeo che potrebbero essere congelate saranno difficilmente individuabili, così come gli individui da colpire con eventuali divieti di ingresso.

La decisione appare dunque soprattutto politica e rappresenta in ogni caso solo il primo passo verso la totale messa al bando da parte dell’Europa di un’organizzazione che costituisce una spina nel fianco per gli interessi di Israele e degli Stati Uniti in Medio Oriente.

In particolare, come ha spiegato martedì al quotidiano libanese Daily Star Matthew Levitt, ex vice-assistente del segretario al Tesoro USA, il nuovo scenario aperto dopo la decisione di Bruxelles consentirà ai vari governi dell’Unione di avviare indagini sulle attività di Hezbollah in Europa per verificarne la conformità alle sanzioni. In seguito a queste verifiche, con ogni probabilità, l’UE finirà per riscontrare irregolarità che a loro volta serviranno per giustificare ulteriori misure punitive.

La notizia dell’inclusione del “Partito di Dio” tra i gruppi terroristi non appare tanto un motivo di imbarazzo per quest’ultimo, come ha spiegato con la consueta arroganza il New York Times, quanto per la stessa UE, i cui governi membri hanno dimostrato nuovamente tutto il loro servilismo verso gli USA e Israele proprio a pochi giorni da quello che i media di mezzo mondo avevano definito come una dura presa di posizione contro Tel Aviv con l’approvazione da parte di Bruxelles di un limitato boicottaggio economico dei prodotti provenienti dai territori palestinesi occupati illegalmente.

Questi stessi media ufficiali stanno inoltre ricordando in questi giorni come a spingere i paesi UE più riluttanti a bollare Hezbollah come gruppo terrorista sarebbero stati i risultati delle indagini sull’attentato dell’estate scorsa nella località bulgara di Burgas, sul Mar Nero, contro un autobus di turisti israeliani che provocò sei morti, dimenticando opportunamente di aggiungere che l’attribuzione della responsabilità all’ala militare del movimento sciita non è supportata da alcuna prova schiacciante né, tantomeno, dalla sentenza di un tribunale.

Nel febbraio di quest’anno, semplicemente, il governo conservatore di Sofia, in risposta alle pressioni di USA e Israele, aveva indicato Hezbollah come “probabile” responsabile dell’attentato, pur senza esprimerne la certezza. Successivamente, varie indagini giornalistiche avrebbero mostrato la debolezza degli indizi contro il partito sciita libanese, mentre ai primi di giugno il nuovo esecutivo bulgaro a guida socialista ha fatto marcia indietro, avvertendo l’UE a non aggiungere Hezbollah all’elenco delle organizzazioni terroriste sulla base di “prove tutt’altro che chiare”.

I fatti di Burgas sono stati comunque sfruttati ad arte per convincere, se mai fosse stato necessario, paesi come Francia e Germania a dare il loro consenso alle sanzioni contro Hezbollah. Il processo che ha portato al voltafaccia di Parigi e Berlino nel mese di maggio è stato descritto nel dettaglio da un articolo pubblicato martedì dal quotidiano israeliano Haaretz.

Il reporter Barak Ravid ha cioè raccontato di come il governo Netanyahu avesse istituito una speciale task force dopo le bombe sul Mar Nero con l’incarico, tra l’altro, di fornire ai governi UE materiale di intelligence ottenuto da Israele non solo su questo attentato ma anche sulle altre presunte attività illegali di Hezbollah, compreso il coinvolgimento dei suoi membri nel conflitto in Siria.

Francia, Germania, Italia e Spagna hanno poi ricevuto anche informazioni da Israele sulla presenza di “cellule dormienti” di Hezbollah entro i loro confini e, soprattutto, subito dopo l’attacco terroristico di Burgas, Tel Aviv ha inviato in Bulgaria una propria squadra di esperti per “aiutare” le autorità locali nelle indagini.

Alle indagini hanno partecipato anche Stati Uniti, Canada, Germania e Australia, a conferma dell’imparzialità dei risultati presentati dal governo di Sofia nel mese di febbraio. L’annuncio dell’allora ministro degli interni, Tsvetan Tsvetanov, era stato infatti il risultato dell’opera di convincimento di questi paesi per spingere Sofia a puntare il dito contro Hezbollah.

Secondo Haaretz, “fin dall’inizio la task force [israeliana] sapeva che l’ostacolo maggiore sarebbe stato trasformare le informazioni su Hezbollah in prove che avrebbero dovuto reggere in un tribunale europeo”. In altre parole, Israele e i suoi più stretti alleati si sono dati da fare con la Bulgaria e il resto dell’Unione Europa per costruire prove e un’accusa apparentemente solida contro il “Partito di Dio”, così da fornire a Germania e Francia una giustificazione sufficiente al cambio di opinione sulla sua aggiunta alla lista nera.

Il lavoro dietro le quinte di Israele, conclude Haaretz, è stato ultimato a maggio e il dossier sui fatti di Burgas consegnato a mano al ministro dell’Interno tedesco. Il giorno 22 dello stesso mese, il governo di Berlino ha così ritenuto di avere la copertura politica necessaria per annunciare pubblicamente la propria approvazione all’aggiunta di Hezbollah all’elenco delle organizzazioni terroriste stilata dall’UE.

Con Germania e Francia a bordo, le residue resistenze degli altri paesi sono state superate agevolmente, non senza però l’intervento personale di Netanyahu e del presidente israeliano Shimon Peres, protagonisti di telefonate ai capi dei governi più difficili da convincere, come ad esempio quello austriaco.

Per l’Europa ha pesato in maniera decisiva sulla decisione di lunedì anche la situazione in Siria, visto che le opinioni su Hezbollah sono cominciate a cambiare dopo che Nasrallah qualche mese fa aveva ammesso pubblicamente l’invio di un certo numero di uomini a combattere a fianco delle forze fedeli a Bashar al-Assad nelle aree vicine al confine con il Libano.

Il tentativo di danneggiare Hezbollah rientra perciò nella strategia messa in atto dall’Occidente per soccorrere forze “ribelli” totalmente inadeguate ad abbattere il regime di Damasco, poiché sostanzialmente osteggiate dalla maggior parte della popolazione siriana.

Senza nemmeno un’ombra di vergogna, i leader europei e americani hanno ammesso che la decisione appena presa a Bruxelles è stata in larga misura determinata dall’evoluzione della crisi in Siria e dal ruolo svolto da Hezbollah nella guerra civile in corso. Il Segretario di Stato USA, John Kerry, ricorrendo a definizioni che meglio si adatterebbero al suo governo, ha ad esempio messo in luce il ruolo “pericoloso e destabilizzante” svolto in Siria dal partito/milizia libanese.

Lo stesso ex senatore democratico ha poi definito la decisione di Bruxelles come “un messaggio a Hezbollah, il quale non può operare nell’impunità”, come è consentito invece a Stati Uniti, Israele e ai loro alleati, veri responsabili del baratro in cui è precipitata la Siria da due anni e mezzo a questa parte.

Il capo della diplomazia UE, Catherine Ashton, nei giorni scorsi aveva a sua volta confessato all’emittente saudita Al-Arabiya di avere presentato la proposta di mettere all’indice Hezbollah ai 28 paesi membri proprio a causa del coinvolgimento di quest’ultima organizzazione nella vicenda siriana. La Ashton, nella giornata di lunedì, ha inoltre sostenuto che il provvedimento adottato dimostra come “l’Unione Europea non intenda tollerare il terrorismo in nessuna forma”, tranne che, si intende, per i gruppi fondamentalisti che Bruxelles e Washington sostengono più o meno indirettamente per avanzare i propri interessi strategici, come in Libia e ora in Siria.

La notizia proveniente dall’Europa, come è ovvio, è stata accolta duramente dai vertici di Hezbollah, i quali l’hanno definita una decisione “aggressiva e ingiusta”, nonché “scritta da mani americane con inchiostro israeliano e semplicemente sottoscritta dall’UE”. Anche il presidente libanese, Michel Suleiman, ha espresso la propria preoccupazione, chiedendo al ministro degli Esteri di Beirut di insistere con i governi europei per convincerli a tornare sui loro passi.

Quella di lunedì, tuttavia, non è una mossa affrettata bensì una decisione ben ponderata e senza possibilità di ripensamenti che ha tenuto presente sia i vantaggi che possibili ripercussioni negative, con l’intento preciso di provocare i maggiori danni possibili a Hezbollah, come era accaduto ad esempio con la creazione del cosiddetto Tribunale Speciale per il Libano, creato sotto l’egida delle Nazioni Unite appositamente per attribuire all’organizzazione sciita la responsabilità dell’assassinio nel febbraio 2005 dell’ex primo ministro sunnita, Rafik Hariri.

Per questo, la revisione della politica UE nei confronti di Hezbollah tra sei mesi non servirà in nessun modo, come auspicano alcuni, a valutare l’annullamento delle sanzioni che verranno definite nei prossimi giorni, ma se mai ad applicarne altre ancora più pesanti, così da aggiungere un ulteriore tassello al tentativo di spezzare l’asse della “resistenza” in Medio Oriente, formato appunto da Hezbollah, Siria e Iran, tutti al centro delle manovre militari, diplomatiche ed economiche degli Stati Uniti e dei loro servili alleati.

di Mario Lombardo

Nonostante le previsioni della vigilia siano state confermate nel risultato del voto di domenica per il rinnovo della metà dei seggi della camera alta del parlamento giapponese (“Dieta”), il successo della coalizione del premier conservatore Shinzo Abe non è apparso del tutto convincente, a conferma dello scetticismo di buona parte degli elettori per le politiche militariste e di libero mercato promesse dal redivivo leader del partito Liberal Democratico (LDP).

Abe, in ogni caso, è riuscito nell’obiettivo di conquistare la maggioranza assoluta anche nella Camera dei Consiglieri, mettendo fine al controllo di questo ramo del parlamento da parte dell’opposizione. L’LDP e il suo partner di governo - il partito buddista Nuovo Komeito - hanno così ottenuto 76 seggi sui 121 in palio domenica, i quali vanno ad aggiungersi ai 59 che le due formazioni già controllavano e che non erano interessati dal voto.

Il risultato non permetterà però all’ambizioso premier di contare sui due terzi dei seggi come auspicava, mettendo in dubbio perciò le sue possibilità di fare approvare le annunciate modifiche alla Costituzione del 1947 per indebolirne il carattere marcatamente pacifista.

Il mandato ottenuto da Abe, che fa seguito al trionfo dello scorso dicembre nel voto per la più importante camera bassa, non appare comunque solido come sembrano suggerire i risultati. Quasi la metà degli aventi diritto, infatti, non si è nemmeno presentata alle urne e l’affluenza ha fatto registrare quasi sette punti percentuali in meno rispetto al precedente appuntamento elettorale per questo ramo del parlamento nel 2010, quando sfiorò il 58%.

La sostanziale apatia e la sfiducia verso tutto l’establishment politico giapponese sono apparse evidenti anche dal tracollo del Partito Democratico (DPJ) di centro-sinistra, passato all’opposizione qualche mese fa dopo tre anni di delusioni e promesse mancate. Secondo i dati diffusi nella giornata di lunedì, il DPJ ha ottenuto appena una quindicina di seggi, facendo segnare la peggiore prestazione dalla sua nascita nel 1998. A beneficiare del voto di protesta e della seconda batosta incassata in sette mesi dal DPJ è stato soprattutto il Partito Comunista Giapponese (JCP), in grado di raccogliere seggi nelle prefetture di Tokyo, Osaka e Kyoto dopo oltre un decennio di digiuno.

Il DPJ ha infatti perso terreno in particolare tra la borghesia urbana, considerata la propria tradizionale base elettorale e ora invece sfiduciata a causa del rapido abbandono da parte del partito delle modeste politiche di spesa prospettate nel 2009 e del tentativo abortito di mettere in atto una politica estera più indipendente rispetto al tradizionale appiattimento sulla linea dettata dagli Stati Uniti dei precedenti governi giapponesi.

Abe, da parte sua, già nella serata di domenica ha ribadito la volontà di portare avanti le “riforme” promesse per “rivitalizzare l’economia”, sottolineando il supporto a suo dire mostrato dagli elettori per le politiche già avviate nei mesi scorsi.

Le cosiddette “Abenomics” hanno determinato nel corso del 2013 una certa accelerata dell’economia giapponese e un balzo consistente del mercato azionario, grazie soprattutto all’aggressiva politica monetaria della Banca Centrale che, sul modello del “quantitative easing” della Fed americana, sta inondando di liquidità il sistema finanziario. La conseguente svalutazione dello yen ha così reso più competitive le esportazioni nipponiche, contribuendo al momentaneo rinvigorimento dell’economia che, con ogni probabilità, ha favorito la coalizione di governo nel voto del fine settimana.

Oltre alla politica monetaria della Banca Centrale, le altre due “frecce” nell’arco di Shinzo Abe sono l’aumento della spesa per stimolare l’economia e quella che il quotidiano conservatore giapponese Yomiuri Shimbun ha definito lunedì come “una strategia di crescita per incoraggiare gli investimenti privati”, vale a dire, in primo luogo, lo smantellamento delle garanzie  del lavoro dipendente.

Quest’ultima “freccia” sembra essere quella che incontrerà le maggiori difficoltà ad andare a segno, vista l’impopolarità delle misure che comporta. Per questa ragione, il premier Abe è stato incoraggiato subito dopo la chiusura delle urne a procedere con le “riforme” promesse in questo ambito.

I leader del business giapponese, ad esempio, hanno fatto a gara nel complimentarsi con il primo ministro per il successo, definito senza riserve come la prova del consenso espresso dai giapponesi per le misure di “crescita” che dovranno essere implementate.

Oltre a rendere ancora più flessibile il mercato del lavoro, le “riforme” che le élite economico-finanziarie del Giappone si aspettano da Abe comprendono, tra l’altro, l’abbattimento dell’aliquota fiscale riservata alle grandi aziende, l’aumento della tassa sui consumi e massicci tagli alla spesa pubblica per ridurre un debito che supera il 200% del PIL del paese. Tutti questi temi, come è ovvio, sono stati toccati solo marginalmente nel corso della campagna elettorale.

Parallelamente a questo percorso in ambito economico, Abe intende perseguire anche un’agenda nazionalista e militarista che deve fare i conti allo stesso modo con una serie di incognite e ostacoli. Le provocazioni nei confronti della Cina sono state utilizzate in questi mesi per ingigantire la minaccia che la seconda economia del pianeta rappresenterebbe per Tokyo, così da giustificare l’impulso alla militarizzazione del paese, ma anche per sviare l’attenzione dei giapponesi dalle difficili decisioni economiche che si prospettano.

Visto lo scarso entusiasmo generato tra la popolazione per una revisione in senso militarista della Costituzione, con iniziative che dovrebbero tra l’altro consentire alle forze armate di colpire preventivamente presunte minacce alla sicurezza del paese, secondo molti analisti una strada simile potrebbe essere seguita dal governo Abe solo se l’economia dovesse essere in grado di generare benefici diffusi per la maggioranza dei giapponesi. Un tale scenario, peraltro, appare improbabile visti gli effetti negativi che avranno prevedibilmente le “riforme” di libero mercato volute dalla maggioranza conservatrice sulla gran parte dei giapponesi.

L’impronta aggressiva data da Abe alla politica estera del Giappone, infine, potrebbe incontrare più di un ostacolo anche per il fatto che essa viene vista con qualche sospetto a Washington. Gli Stati Uniti, infatti, pur favorendo un maggiore impegno militare di Tokyo a sostegno dei propri obiettivi imperialistici, considerano le rinnovate ambizioni da grande potenza dell’alleato asiatico anche come una minaccia alla strategia americana di contenimento della Cina basata sulla collaborazione dei governi amici in Estremo Oriente, poiché rischiano di complicare i rapporti con alcuni di questi paesi - a cominciare dalla Corea del Sud - tuttora segnati dalla brutale occupazione dei loro territori da parte del Giappone nella prima metà del secolo scorso.

di Michele Paris

Un tribunale federale americano ha emesso qualche giorno fa un’importantissima sentenza nell’ambito di una fuga di notizie dalla CIA, gettando una nuova lunga ombra sulla garanzia della libertà di stampa negli Stati Uniti. La vicenda che ha portato venerdì all’inquietante verdetto ha infatti imposto ad un noto giornalista del New York Times di testimoniare nel processo contro la fonte interna al governo di una rivelazione che lo stesso reporter aveva raccontato in suo libro dedicato alle questioni della sicurezza nazionale.

Tre giudici della corte d’Appello per il “Quarto Circuito” di Richmond, in Virginia, hanno in sostanza stabilito che il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione non è stata autorizzata dall’autorità di governo. I giornalisti, perciò, possono essere costretti a testimoniare contro le persone sospettate di avere rivelato loro le informazioni in questione.

Nella sentenza, i due giudici di maggioranza hanno scritto che “chiaramente, un resoconto diretto e di prima mano da parte di [James] Risen sulla condotta criminale oggetto di indagini di un Grand Jury non può essere ottenuto con mezzi alternativi, dal momento che Risen è indubitabilmente l’unico testimone in grado di offrire questa fondamentale testimonianza”.

James Risen è un giornalista premio Pulitzer del New York Times ma la vicenda in cui è coinvolto riguarda esclusivamente il suo volume “State of War” del 2006, in un capitolo del quale raccontava come la CIA durante l’amministrazione Clinton avesse cercato di ingannare gli scienziati iraniani, spingendoli ad accettare da un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco nucleare appositamente alterato.

L’autore della rivelazione era stato individuato nel dicembre del 2010 nell’ex agente della CIA Jeffrey Sterling, prontamente incriminato dall’amministrazione Obama secondo il dettato dell’Espionage Act, la legge reazionaria del 1917 che il governo USA avrebbe successivamente utilizzato per accusare Bradley Manning e Edward Snowden. Contro Sterling, lo stesso Risen sarà ora costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury, anche se il giornalista ha affermato di essere disposto ad andare in carcere piuttosto che rivelare la propria fonte o, quanto meno, di portare il proprio caso fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Sul caso Risen si era espressa nel 2011 una corte federale di primo grado, la quale aveva opportunamente limitato il potere dell’esecutivo nel richiedere ad un giornalista l’identità delle proprie fonti riservate. Secondo l’amministrazione Obama, tuttavia, non esisterebbe alcun diritto alla riservatezza garantito dal Primo Emendamento in casi simili ed ha quindi fatto appello, ottenendo la sentenza favorevole di venerdì scorso.

L’interpretazione proposta dalla corte d’appello mette così in grave pericolo il principio della riservatezza delle fonti giornalistiche e rappresenta un altro passo verso la totale criminalizzazione dei cosiddetti “whistleblowers”, coloro cioè che forniscono un servizio di inestimabile valore all’opinione pubblica, rivelando alla stampa le malefatte e i crimini del governo a cui essi hanno assistito. Queste fonti, oltretutto, dovrebbero essere teoricamente protette dalla legge, come stabilisce il “Whistleblower Protection Act” del 1989.

Per l’amministrazione Obama, al contrario, la protezione della legge deve essere garantita solo a coloro che all’interno del governo si sono macchiati dei crimini esposti, mentre per quanti mettono a rischio la propria carriera se non addirittura la libertà o la vita per rendere noti questi stessi crimini, vengono riservati procedimenti giudiziari, ma anche torture - come è accaduto a Manning - e misure estreme per metterli a tacere, come nel caso di Snowden.

La sentenza di venerdì fissa dunque un precedente preoccupante per la libertà di informazione negli Stati Uniti che, assieme allo sforzo senza precedenti per mettere le mani su Edward Snowden e alla corte marziale in atto contro Bradley Manning, intende scoraggiare future fughe di notizie sulle attività illegali del governo.

Teoricamente, la decisione della corte d’Appello di Richmond avrebbe effetto soltanto all’interno del “circuito” sul quale essa esercita la propria giurisdizione. Se anche così fosse, però, l’autorità di questa corte copre stati come Maryland e Virginia, dove si trovano istituzioni come il Pentagono, la CIA e la National Security Agency (NSA), all’interno delle quali viene elaborata e messa in atto la grande maggioranza delle azioni illegali di cui si macchia il governo, con effetti su tutti gli Stati Uniti e non solo.

La sentenza che ha accolto l’appello del Dipartimento di Giustizia contribuisce infine a smascherare il vero significato della decisione presa recentemente dal ministro Eric Holder in risposta agli scandali che hanno coinvolto in questi mesi l’amministrazione Obama, tra cui la notizia dell’intercettazione segreta delle comunicazione telefoniche di decine di giornalisti dell’Associated Press nell’ambito di un’indagine sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato terroristico sventato.

Secondo i principali media d’oltreoceano, le nuove “linee guida” adottate dal governo una decina di giorni fa servirebbero a ridurre significativamente le circostanze nelle quali le informazioni ottenute dai giornalisti possono essere requisite. In realtà, come dimostrano i procedimenti giudiziari ai danni di un numero record di “whistleblowers” avviati dal 2009 ad oggi e l’appello contro la sentenza di primo grado nel caso del giornalista James Risen, l’amministrazione Obama non ha alcun interesse nella difesa della libertà di stampa.

Infatti, le direttive del Dipartimento di Giustizia non fanno altro che stabilire limiti ingannevoli alle facoltà del governo, confermando il potere di controllare e limitare la libertà di stampa ogniqualvolta vengano rivelate informazioni riservate, la cui provenienza debba essere individuata ai fini di un’indagine su questioni considerate “essenziali” per la sicurezza nazionale.


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