di Mario Lombardo

Come quasi sempre accaduto all’indomani dei principali atti di “terrorismo” portati a termine o sventati nell’ultimo decennio in Occidente, anche i due accusati del recente orribile assassinio di un militare britannico in una strada di Woolwich, a sud-est di Londra, erano da tempo noti alle autorità del Regno Unito per i loro legami con il fondamentalismo islamico.

Il 28enne di origine nigeriana Michael Adebolajo, ad esempio, dopo essere stato tenuto sotto osservazione in Inghilterra per le sue campagne a favore dell’integralismo jihadista, era stato arrestato nel 2010 in Kenya con l’accusa di volersi unire al gruppo terrorista somalo affiliato ad Al-Qaeda, Al-Shabab. Dopo varie torture e un’apparizione in un tribunale di Mombasa, Adebolajo era stato deportato in Gran Bretagna, dove, secondo quanto rivelato in un’intervista al programma della BBC Newsnight da un amico di quest’ultimo, era stato avvicinato da agenti dell’MI5 in un tentativo di reclutarlo come informatore.

Secondo quanto riportato dal Guardian, inoltre, lo scorso anno Adebolajo aveva addirittura contattato un legale per porre fine alle molestie dei servizi segreti britannici nei suoi confronti. L’amico di infanzia di Adebolajo, Abu Nusaybah, dopo le sue rivelazioni è stato invece arrestato negli studi della BBC, ufficialmente per motivi non legati ai fatti di Woolwich ma per il suo coinvolgimento nel gruppo estremista Al-Muhajiroun, messo da tempo fuori legge dal governo di Londra e attorno al quale gravitava lo stesso Adebolajo.

Anche prima del suo viaggio in Kenya, in ogni caso, Adebolajo era stato toccato, sia pure marginalmente, da varie indagini dell’anti-terrorismo britannico, in particolare dopo la sua conversione dal cristianesimo all’Islam nel 2003, lo stesso anno dell’invasione illegale dell’Iraq da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti che avrebbe scatenato un lungo periodo di violenza settaria nel paese mediorientale e una campagna anti-musulmana sul fronte domestico.

Il complice di Adebolajo, il 22enne Michael Adebolawe, era anch’esso finito sotto il radar della polizia britannica dopo essere passato attraverso un processo di radicalizzazione in seguito ad un’aggressione razzista subita alcuni anni fa.

Tutti questi sviluppi hanno costretto le autorità della Gran Bretagna a negare la versione iniziale del cosiddetto “lone wolf”, cioè di uno o più giovani disturbati che avrebbero agito al di fuori di ogni connessione con le reti integraliste conosciute e le cui azioni erano perciò impossibili da prevedere per l’intelligence e le forze di polizia.

Queste ultime, al contrario, erano perfettamente a conoscenza della situazione personale e dei rapporti con il fondamentalismo islamico di Adebolajo e Adebolawe, i quali però, secondo la versione ufficiale, non erano stati considerati una minaccia per la Gran Bretagna. Alla luce dei livelli di paranoia che caratterizzano l’anti-terrorismo inglese, così come quello statunitense e di quasi tutti i paesi occidentali, appare però quanto meno dubbia la versione ufficiale e legittimo invece interrogarsi sulle responsabilità di agenzie governative come l’MI5 che cercano di utilizzare giovani radicalizzati per i propri discutibili fini, a volte con conseguenze disastrose.

Per quanto riguarda la Gran Bretagna, un drammatico esempio di questa ambiguità è quello di uno dei responsabili degli attentati suicidi del 7 luglio 2005 a Londra, Mohammed Sidique Khan, il quale era ben noto per i suoi legami con il terrorismo internazionale sia alla CIA che all’intelligence inglese, anche se per entrambe sembrava non rappresentare un reale pericolo.

Più recentemente, anche gli autori dell’attentato alla maratona di Boston, negli Stati Uniti, erano stati al centro di indagini dell’FBI su indicazione delle autorità russe dopo un viaggio di uno dei due in Cecenia e in Daghestan, dove il governo USA da tempo collabora in maniera clandestina con i gruppi integralisti in guerra con il Cremlino.

Pur trattandosi di un atto barbaro da condannare fermamente, l’omicidio di Woolwich affonda innegabilmente le proprie radici nella politica estera britannica dopo l’11 settembre 2001, caratterizzata da avventure imperialiste a fianco degli Stati Uniti che hanno causato milioni di morti e la totale distruzione del tessuto sociale di paesi come Iraq e Afghanistan, producendo come diretta conseguenza il radicalizzarsi di giovani musulmani che non trovano altro mezzo per manifestare la propria frustrazione.

Una politica, quella di Londra e Washington, oltretutto apparentemente schizofrenica, dal momento che quegli stessi gruppi terroristi che da oltre un decennio vengono indicati come i nemici giurati dell’Occidente e le cui azioni hanno giustificato guerre illegali, nonché un drammatico deterioramento dei diritti democratici in patria, operano di fatto come alleati in determinate circostanze.

Questo è infatti il caso di Libia e Siria, dove formazioni integraliste spesso legate ad Al-Qaeda sono state usate o continuano ad essere usate come forze d’avanguardia per promuovere gli interessi occidentali, nello specifico il cambio di regime in paesi poco disposti a piegarsi al volere dell’Occidente.

Significativamente, non molti giorni prima del feroce assassinio di Woolwich - prontamente bollato come un atto terroristico da media e politici britannici - i cosiddetti “ribelli” anti-Assad in Siria avevano diffuso un agghiacciante filmato in rete nel quale il leader di una brigata jihadista appoggiata dall’Occidente apriva il petto di un soldato dell’esercito regolare per poi divorarne il cuore davanti alla telecamera.

Nonostante tutte le perplessità del caso, infine, i fatti di Woolwich sono stati puntualmente utilizzati dalla classe politica britannica per cercare di implementare nuove misure straordinarie che assegnino poteri sempre più ampi al governo e alle forze di polizia.

Il ministro dell’Interno, Theresa May, nella giornata di domenica ha così manifestato la volontà di riproporre una bozza di legge nota come “Snooper’s Charter”, già proposta nei mesi scorsi e successivamente ritirata a causa della massiccia opposizione della società civile e dello stesso partner di governo dei conservatori, il leader dei liberal-democratici e vice-primo ministro Nick Clegg.

Questo provvedimento, tra l’altro, consentirebbe alle forze di polizia e ai servizi segreti di accedere pressoché indiscriminatamente alle informazioni e ai dati raccolti dai provider di servizi internet, inclusi i dettagli sui siti visitati dagli utenti e i messaggi scambiati sui social network.

Ben lontano anche solo dal considerare una qualche autocritica, ciò che il premier David Cameron - partito questa settimana per una lussuosa vacanza a Ibiza - intende preparare dopo l’assassinio della scorsa settimana è dunque una nuova pericolosa invasione della privacy, anche se, come dimostrano le rivelazioni emerse negli ultimi giorni, la vera minaccia continua ad arrivare dalla condotta dello stesso governo o da elementi radicali già noti alle autorità anche senza il ricorso a misure anti-democratiche come il monitoraggio delle comunicazioni elettroniche dei cittadini britannici.

di Michele Paris

La trasferta mediorientale di questa settimana del segretario di Stato americano, John Kerry, avrebbe dovuto ufficialmente contribuire a gettare le basi per i preparativi dell’imminente conferenza di pace di Ginevra per risolvere la crisi in Siria. In realtà, la visita di Kerry ha mostrato ancora una volta come gli americani intendano continuare ad alimentare lo scontro nel paese, così da giustificare un impegno diretto per rovesciare con la forza il regime filo-iraniano di Bashar al-Assad.

Dopo una visita al dittatore dell’Oman, il sultano Qaboos bin Said Al Said, per favorire la firma di un contratto di fornitura di armi per oltre due miliardi di dollari, l’ex senatore del Massachusetts è atterrato mercoledì ad Amman, in Giordania, dove in serata è andato in scena un vertice di 11 stati –compresa l’Italia, rappresentata dal ministro Bonino - facenti parte dei cosiddetti “Amici della Siria”, il gruppo di governi direttamente responsabili della devastazione causata in questo paese da oltre due anni di conflitto.

A riassumere efficacemente la natura del consesso è stato l’ambasciatore di Damasco presso il regno Hascemita di Giordania, Bahjat Suleiman, il quale in una conferenza stampa poco prima dell’arrivo di Kerry ha denunciato “il meeting dei nemici della Siria”, impegnati ad “armare, finanziare e promuovere gruppi di terroristi e bande criminali”. L’ambasciatore ha poi ribadito la disponibilità del regime a “cooperare e collaborare con qualsiasi opposizione che abbia un programma nell’interesse della Siria”.

Kerry, in ogni caso, ha espresso in particolare la preoccupazione per il contagio del caos siriano ai paesi vicini, in particolare il Libano, paese definito ormai “a rischio”. L’amministrazione Obama è estremamente allarmata per i rovesci subiti nelle ultime settimane dai “ribelli” armati, in parte prodotti dall’arrivo in Siria di un certo numero di combattenti inviati da Hezbollah, la milizia/partito sciita libanese alleata del regime alauita di Assad.

L’intervento di Hezbollah in Siria occidentale, secondo numerosi analisti, avrebbe permesso a Damasco di essere sul punto di strappare al controllo dei “ribelli” la località strategica di Qusayr, dove da qualche giorno infiamma una durissima battaglia che ha fatto parecchie vittime e costretto la maggior parte dei civili ad abbandonare le proprie abitazioni.

Questa città, situata ad una manciata di chilometri dal confine con il Libano, rappresenta uno dei punti principali di transito di guerriglieri e armi destinate all’opposizione siriana e il suo controllo da parte del governo permetterebbe di ristabilire i collegamenti tra la capitale e la costa mediterranea. Se un inviato a Qusayr del quotidiano libanese Al Akhbar ha affermato mercoledì che la battaglia per la città non è ancora vinta dalle forze del regime, queste ultime sembrano essere comunque sul punto di liberarla dai “ribelli”, per poi puntare verso nord e avviare probabilmente un ulteriore assalto alle loro postazioni a Homs.

Questa evoluzione favorevole al regime sul campo ha spinto lunedì scorso Barack Obama a telefonare al presidente libanese, Michel Suleiman, invitandolo a fare il possibile per impedire l’afflusso di uomini e armi di Hezbollah in Siria. Con l’estremo cinismo che caratterizza il governo americano, Obama ha aggiunto che l’ultima cosa che gli Stati Uniti si augurano è un’esplosione di violenza settaria anche in Libano.

I timori di Kerry e Obama - così come quelli dei falchi democratici e repubblicani al Congresso che temono di assistere al fallimento delle loro speranze di far cadere un regime odiato proprio quando ciò sembrava essere a portata di mano - occultano ovviamente la questione principale, vale a dire le responsabilità di Washington, dell’Europa, di Israele e delle monarchie assolute del Golfo Persico nell’alimentare lo stesso conflitto settario che dalla Siria si sta allargando al Libano ma anche all’Iraq tramite la promozione di gruppi integralisti sunniti utilizzati per abbattere Assad e la sua cerchia di potere.

Le stesse accuse rivolte a Hezbollah per avere deciso l’invio di un proprio contingente a combattere a fianco dell’esercito regolare sono quanto meno ipocrite, visto che dal Libano, così come dalla Giordania, dall’Iraq e dalla Turchia, da tempo viene facilitato l’ingresso in Siria di estremisti violenti per combattere sul fronte opposto, spesso legati ad Al-Qaeda e responsabili di una lunga serie di orrendi attentati contro obiettivi civili.

Per il segretario di Stato americano, inoltre, l’intervento di Hezbollah sarebbe la ragione principale dei rovesci militari patiti dai ribelli armati in varie parti del paese. Simili teorie, amplificate dai media occidentali, hanno il preciso scopo di nascondere il vero motivo degli insuccessi dell’opposizione, cioè la loro sostanziale impopolarità tra la popolazione siriana, compresa buona parte della maggioranza sunnita con cui condivide la fede religiosa.

Insistendo su questo punto e basandosi pressoché esclusivamente su dubbi resoconti dei “ribelli”, esponenti dell’amministrazione Obama nei giorni scorsi hanno anche diffuso la notizia che l’Iran starebbe partecipando attivamente al conflitto in Siria con un certo numero di propri soldati.

Per quanto riguarda il vertice di Amman, invece, le dichiarazioni ufficiali dei partecipanti hanno rivelato a sufficienza il senso che gli Stati Uniti e i loro alleati intendono dare alla conferenza già definita come “Ginevra II”, in riferimento ad un primo incontro tra le potenze internazionali avvenuto lo scorso anno nella città svizzera per cercare inutilmente di accordarsi su un esito condiviso della crisi siriana.

In particolare, John Kerry ha avvertito il regime di Assad che, nel caso dovesse dimostrarsi poco collaborativo per “negoziare una soluzione politica”, ovvero dovesse rifiutare di sottostare alle imposizioni di Washington, l’amministrazione Obama prenderebbe in considerazione un impegno ancora maggiore a favore dei ribelli.

Dal momento che tra le condizioni annunciate dagli USA e dall’opposizione sostenuta dall’Occidente in vista di Ginevra ci sono le dimissioni di Assad per fare spazio ad un governo di transizione, l’esito della conferenza appare facilmente prevedibile, così come risulta evidente l’utilizzo di essa da parte degli americani come un altro pretesto per giustificare un intervento diretto in Siria e ribaltare l’esito del conflitto.

Lanciato di comune accordo con il Cremlino nel corso di un recente vertice a Mosca tra Kerry e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, l’incontro di Ginevra, nell’eventualità più che probabile che dovesse risolversi in un fallimento, verrebbe dunque utilizzato dagli Stati Uniti per puntare il dito contro Damasco di fronte alla comunità internazionale, accusando Assad di non essere disponibile ad una soluzione pacifica del conflitto.

In sostanza, Ginevra II non rappresenta altro per gli USA che un ulteriore strumento per avanzare i propri obiettivi strategici connessi alla situazione in Siria, cioè il cambio di regime per istituire un governo fantoccio al proprio servizio e spezzare l’asse della “resistenza” anti-americana e anti-israeliana in Medio Oriente, così da isolare l’Iran e Hezbollah e renderli relativamente inoffensivi in vista di future aggressioni nei loro confronti per espandere il controllo americano sull’intera regione.

La strada verso il coinvolgimento americano in una nuova guerra continua infatti ad essere preparata anche a Washington, dove questa settimana la commissione Esteri del Senato ha gettato le basi legislative per la partecipazione attiva degli USA alla guerra in Siria. Con una maggioranza schiacciante, la commissione già presieduta dall’attuale segretario di Stato ha approvato una proposta che autorizzerà la Casa Bianca a fornire direttamente armamenti pesanti ad un’opposizione dominata da elementi radicali e totalmente incapace in più due anni di raccogliere un reale consenso tra la popolazione siriana.

di Michele Paris

Con una decisione parzialmente a sorpresa, nella serata di martedì il consiglio deputato alla valutazione dei candidati da ammettere alla competizione per la presidenza dell’Iran ha escluso l’ex presidente, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, e il favorito di Mahmoud Ahmadinejad, il suo capo di gabinetto Esfandiar Rahim Mashaei. La decisione assicura virtualmente la presidenza del paese ai conservatori fedeli all’ayatollah Ali Khamenei, estromettendo due candidati in teoria in grado di intercettare fasce relativamente ampie dell’elettorato, chiamato alle urne il 14 giugno prossimo.

Dei quasi 700 aspiranti alla presidenza che avevano presentato la loro candidatura preliminare entro la scorsa settimana, il Consiglio dei Guardiani - i cui membri sono nominati dalla Guida Suprema e dal Parlamento - ne ha ammessi appena otto, in gran parte ascrivibili alle fazioni conservatrici.

A differenza di quella in gran parte prevista di Mashaei, non del tutto inattesa ma ugualmente sorprendente è stata la bocciatura di Rafsanjani, il quale aveva deciso di cercare un terzo mandato alla guida del paese solo all’ultimo minuto e, secondo molti osservatori, almeno con il tacito consenso di Khamenei.

Secondo la figlia dell’ex presidente, una delle ragioni ufficiali della sua esclusione sarebbe stata l’età - 78 anni - anche se essa stessa in un’intervista ad un sito web vicino all’opposizione iraniana ha lasciato intravedere implicazioni ben diverse. Il padre, infatti, a suo dire negli ultimi giorni sarebbe stato oggetto di forti pressioni da parte di personalità non meglio identificate per abbandonare volontariamente la corsa alla presidenza.

Se corrispondenti al vero, queste rivelazioni indicano una decisione in qualche modo sofferta da parte di un Consiglio dei Guardiani che avrebbe preferito un ritiro spontaneo di Rafsanjani, così da evitare possibili ripercussioni negative in seguito alla sua esclusione.

Quest’ultimo, infatti, sembrava avere ottenuto almeno il parziale sostegno dell’opposizione riformista iraniana, protagonista delle proteste di piazza seguite alle elezioni che nel 2009 assegnarono un secondo mandato ad Ahmadinejad e ipoteticamente in grado di mobilitare qualche manifestante per contestare l’esclusione di Rafsanjani. Sui timori per possibili agitazioni tra le sezioni della borghesia urbana che si riconoscono nelle posizioni pragmatiche ed economicamente liberali di Rafsanjani ha però prevalso la necessità di assicurare la presidenza ad una figura meno divisiva.

In altre parole, come ha spiegato martedì un’analisi della testata on-line Al-Monitor, anche se la presenza del nome di Rafsanjani sulle schede elettorali avrebbe potuto dare maggiore legittimità al voto, ciò che più ha pesato nella decisione del Consiglio dei Guardiani è stata “la stabilità, specialmente in un momento in cui il regime deve fronteggiare divisioni interne e difficili sfide economiche”.

Perciò, “i benefici che sarebbero derivati dal permettere a Rafsanjani e a Mashaei di correre per la presidenza semplicemente non giustificavano il costo da pagare, dal momento che entrambi molto probabilmente avrebbero pubblicamente messo in discussione una serie di politiche che rientrano nella sfera di competenza del Leader Supremo”.

Le posizioni di Rafsanjani poco gradite all’establishment conservatore riguardano soprattutto la politica estera, visto che l’ex presidente auspica un rapido riavvicinamento all’Occidente e, inoltre, ha nel recente passato espresso seri dubbi sulla sopravvivenza del regime siriano di Bashar al-Assad. Per quanto riguarda invece Mashaei, è il suo populismo in ambito economico che preoccupa un élite intenzionata a procedere alla soppressione dei sussidi destinati alle classi più disagiate e all’implementazione di altre misure per ridurre la spesa pubblica.

Più in generale, le candidature di Rafsanjani e Mashaei avrebbero potuto alimentare pericolose aspettative rispettivamente tra la borghesia iraniana e la classe lavoratrice, traducendosi in tensioni sociali che il regime intende accuratamente evitare in una fase storica così delicata per la Repubblica Islamica.

Il nervosismo del regime è apparso in ogni caso evidente dalla decisione di diffondere la notizia dell’esclusione di Rafsanjani e Mashaei solo nella tarda serata di martedì, nonché dall’insolitamente folta presenza di forze di polizia a presidiare le strade di Teheran, come testimoniato ad esempio dal corrispondente del Washington Post nella capitale iraniana.

Il voto dei riformisti, comunque, potrebbe almeno in parte confluire su tre candidati approvati dal Consiglio dei Guardiani, considerati su posizioni centriste o moderatamente riformiste, anche se decisamente meno noti e carismatici di Rafsanjani, come l’ex negoziatore sul nucleare vicino all’ex presidente, Hassan Rowhani, il vice dell’ex presidente Khatami, Mohammad Reza Aref, e Mohamad Gharzi, più volte ministro durante la presidenza Rafsanjani e il mandato di primo ministro (carica successivamente abolita) del leader del “Movimento Verde” agli arresti domiciliari, Mir-Hossein Mousavi.

Salvo clamorose sorprese, i veri favoriti per la vittoria e per l’accesso al ballottaggio sono però i candidati espressione della fazione conservatrice o “principalista” e soprattutto l’attuale capo dei negoziatori sul nucleare, Saeed Jalili, ma anche il sindaco di Teheran, Mohammed Baqer Qalibaf, l’ex presidente del Parlamento, Gholam Haddad Adel, e l’ex ministro degli Esteri e consigliere dell’ayatollah, Ali Akbar Velayati. A chiudere l’elenco degli otto candidati ammessi alla corsa per la presidenza è infine l’ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohsen Rezaee.

Se Rafsanjani non ha ancora commentato pubblicamente la sua esclusione, Mashaei ha invece come previsto reagito subito alla decisione del Consiglio dei Guardiani. Il capo di gabinetto del presidente Ahmadinejad - fortemente osteggiato dai conservatori che lo hanno spesso accusato di “deviazionismo” e di privilegiare il nazionalismo persiano rispetto alla dottrina islamica - ha infatti definito “ingiusta” la bocciatura, chiedendo la riconsiderazione della sua candidatura. In caso contrario, ha aggiunto Mashaei, verrà chiesto direttamente all’ayatollah Khamenei di ribaltare il verdetto del Consiglio dei Guardiani.

La Guida Suprema, in effetti, ha in teoria la facoltà di intervenire per reinstallare i candidati esclusi, come fece ad esempio nel 2005 con il riformista Mostafa Moeen. La decisione dell’altro giorno, tuttavia, è stata con ogni probabilità avallata dallo stesso Khamenei e, oltretutto, il portavoce del Consiglio dei Guardiani, Abbas Ali Kadkhodaei, si è affrettato ad affermare in diretta televisiva che non ci sarà tempo per appellarsi contro le esclusioni, dal momento che la campagna elettorale vera e propria prenderà il via già nella giornata di giovedì.

di Michele Paris

Per la prima volta dal 1966, un presidente in carica della ex Birmania (Myanmar) è stato ricevuto nel corso di una visita di stato alla Casa Bianca dal proprio omologo statunitense. L’arrivo a Washington del generale Thein Sein ha suggellato un percorso diplomatico durato due anni, durante i quali la giunta militare al potere nel paese del sud-est asiatico ha portato avanti una serie di “riforme” in gran parte cosmetiche per sganciarsi dalla dipendenza dalla Cina e offrirsi come strumento degli interessi strategici ed economici occidentali.

Lunedì scorso, dunque, il presidente Obama ha riservato un’accoglienza calorosa a Thein Sein, elogiato senza riserve per avere mostrato la sua leadership nell’indirizzare “il Myanmar su un cammino di riforme politiche ed economiche”. Inoltre, ha aggiunto l’inquilino della Casa Bianca, a convincere gli Stati Uniti sarebbero state anche “elezioni credibili” e la formazione di un Parlamento che procede verso un processo di “inclusione e maggiore rappresentanza dei vari gruppi etnici” del paese.

Lo stesso impiego da parte di Obama del nome “Myanmar” - assegnato ufficialmente al paese dal regime militare nel 1989 - è apparso altamente significativo, dal momento che gli Stati Uniti negli affari ufficiali continuano ad utilizzare la precedente definizione di “Birmania”.

Dietro le pressioni delle organizzazioni a difesa dei diritti umani e di alcuni gruppi di manifestanti di fronte alla Casa Bianca, Obama allo stesso tempo è stato costretto a sollevare pubblicamente la questione della repressione delle minoranze etniche e dei numerosi episodi di violenza ai danni soprattutto della popolazione birmana di fede musulmana, nelle quali le forze di sicurezza del regime sono ampiamente coinvolte.

“Lo sradicamento e le violenze dirette contro le minoranze devono cessare” ha affermato il presidente americano, aggiungendo, non senza una certa dose di cinismo, che per prosperare “gli stati devono trarre beneficio dal talento di tutta la popolazione e garantire il rispetto dei diritti umani”.

Da parte sua, Thein Sein ha promesso una maggiore attenzione a questi problemi, ricordando però che il suo paese è guidato da “un governo democratico da soli due anni” e che servirà quindi “maggiore esperienza” per superare “gli ostacoli e le sfide che si presenteranno nel corso del processo di democratizzazione” del Myanmar.

A rappresentare un gravissimo motivo di imbarazzo per gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali che negli ultimi due anni hanno ristabilito i rapporti con la ex Birmania sono state in primo luogo le violenze che in due occasioni nel corso del 2012 hanno visto frange estremiste buddiste perseguitare la minoranza musulmana (Rohingya) nello stato occidentale di Rakhine.

Questi episodi hanno fatto più di 250 vittime e costretto decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie abitazioni e i propri villaggi. Come hanno confermato svariate indagini indipendenti, le forze di polizia hanno spesso mancato di intervenire per mettere fine alle violenze, mentre in altre occasioni hanno partecipato direttamente alle persecuzioni. I musulmani Rohingya, oltretutto, sono tradizionalmente soggetti a discriminazioni e, essendo originari del Bangladesh, non vengono nemmeno considerati cittadini del Myanmar pur risiedendovi da varie generazioni.

Altre violenze che hanno preso di mira i musulmani sono state registrate più recentemente anche nel mese di marzo in una regione centrale del paese, mentre proseguono tuttora le campagne militari del governo centrale contro svariate minoranze etniche, in particolare i ribelli Kachin al confine settentrionale con la Cina.

La ONG americana “US Campaign for Burma”, poi, in concomitanza con la visita di Thein Sein a Washington ha ricordato come nell’ultimo anno il regime abbia aggiunto ai detenuti politici già nelle carceri del paese oltre 1.100 birmani di etnia Rohingya e 250 Kachin. Lo stesso Dipartimento di Stato USA, sempre nella giornata di lunedì, ha infine pubblicato il proprio rapporto annuale sulle violazioni del diritto alla libertà di religione nel mondo, indicando il Myanmar come uno degli otto paesi più repressivi in questo ambito.

I presunti scrupoli per i diritti democratici manifestati da Obama - il quale era stato anch’egli protagonista di una storica visita in Myanmar lo scorso novembre - nascondono in ogni caso soltanto il timore di vedere smascherate le vere ragioni che hanno portato allo sdoganamento di un regime ancora dominato dai vertici militari.

Dopo il soffocamento da parte dei militari del movimento democratico esploso nel 1988, il Myanmar aveva visto interrompersi ogni contatto con gli Stati Uniti e l’Occidente, nonché l’imposizione di sanzioni punitive. Gli anni successivi sarebbero stati segnati perciò da un inesorabile avvicinamento alla Cina, diventata di gran lunga il principale partner economico e strategico della ex Birmania nonostante i sospetti dei decenni precedenti.

Proprio la necessità di liberarsi da questo rapporto esclusivo con Pechino, assieme probabilmente ai timori per le crescenti tensioni sociali in un paese piagato da una povertà diffusa e alla lezione appresa dalla sorte di paesi - come la Libia - coinvolti in “rivoluzioni” orchestrate dall’Occidente, un paio di anni fa il regime ha intrapreso una storica svolta diplomatico-strategica.

Una volta assicuratosi il dominio politico con una nuova costituzione e con le elezioni del novembre 2010, i militari hanno così lanciato segnali inequivocabili agli Stati Uniti e ai loro alleati, come quello del settembre dell’anno successivo, quando è stato improvvisamente cancellato un progetto cinese per la costruzione della mega centrale idroelettrica di Myitsone, nello stato di Kachin, citando come motivo ufficiale della decisione la diffusa ostilità della popolazione locale verso l’impianto.

Punto centrale nel processo di distensione con l’Occidente è stata poi la fine degli arresti domiciliari della cosiddetta icona del movimento democratico birmano, Aung San Suu Kyi, e il via libera garantito alla sua Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) all’ingresso in Parlamento di una manciata di deputati in seguito ad un’elezione speciale tenuta nell’aprile dello scorso anno.

Il ruolo di San Suu Kyi in questi mesi è stato quello di dare legittimità al regime, così da giustificare l’allentamento delle sanzioni internazionali e favorire una serie di “riforme” nel paese che facilitino l’apertura del mercato interno al capitale occidentale e giapponese. Come corollario, inoltre, il presidente Thein Sein e il governo birmano hanno accettato di liberare un certo numero di detenuti politici, ma anche di attenuare o cancellare alcune leggi repressive, ad esempio sulla libertà di stampa e sulla formazione di organizzazioni sindacali indipendenti.

La limitata apertura alla società civile si è però accompagnata all’intensificarsi dello scontro con quelle sezioni della popolazione tradizionalmente emarginate, mentre le divisioni e le contraddizioni irrisolte della storia del Myanmar sono riesplose proprio mentre il regime sta cercando di unificare il paese in una delicata fase di transizione, rivelando clamorosamente la persistente natura repressiva della cerchia di potere birmana.

Per gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali, comunque, il nuovo rapporto con il Myanmar ha poco o nulla a che fare con il presunto percorso democratico che il regime avrebbe intrapreso, bensì esclusivamente con la possibilità, da un lato, di trasformare questo paese in una fonte di manodopera a basso costo e, dall’altro, di indebolire l’influenza cinese in un’area strategicamente fondamentale per gli interessi di Pechino.

Quello che, prima di lasciare il Dipartimento di Stato, l’ex segretario Hillary Clinton aveva definito come il principale successo diplomatico dell’amministrazione Obama - vale a dire la riconciliazione con il Myanmar - per stessa ammissione del presidente rappresenta anche una sorta di esempio per quei paesi, come ad esempio la Corea del Nord o l’Iran, che sono tuttora sulla lista nera di Washington.

Per questi regimi come per la ex Birmania, infatti, gli Stati Uniti saranno prontissimi a chiudere un occhio sulla violazione dei diritti democratici e a stendere il tappeto rosso alla Casa Bianca per i loro leader in cambio di “riforme” di facciata e, soprattutto, di un allineamento agli interessi strategici dell’imperialismo americano.

di Michele Paris

La prima visita all’estero del neo primo ministro cinese, Li Keqiang, è stata inaugurata domenica in India a pochi giorni da un accordo provvisorio raggiunto tra gli eserciti dei due paesi vicini in seguito al più recente scontro legato all’annosa disputa di confine nella regione himalayana. La contesa rappresenta uno dei principali ostacoli all’incremento dei già consistenti scambi commerciali tra Delhi e Pechino, i cui rapporti sono ulteriormente complicati dalle trame statunitensi nel continente asiatico.

La quattro giorni di Li in India era stata preparata un paio di settimane fa dalla visita a Pechino del ministro degli Esteri di Delhi, Salman Khurshid, visita a sua volta a rischio proprio a causa delle più recenti schermaglie registrate in una zona di confine del distretto di Ladakh, nello stato indiano Jammu e Kashmir.

A metà aprile, infatti, i vertici militari indiani avevano accusato i militari cinesi di avere costruito una postazione provvisoria una ventina di chilometri all’interno dei propri confini. Per tutta risposta, gli indiani avevano mobilitato alcune truppe nell’area in questione minacciando azioni concrete, mentre Pechino aveva negato ogni responsabilità.

Solo il 5 maggio, infine, le due parti hanno concordato il ritiro delle rispettive truppe, consentendo agli incontri diplomatici bilaterali di procedere come precedentemente programmato. Cina e India condividono una linea di confine lunga 4 mila chilometri, oggetto di una disputa spesso accesa nella regione himalayana, attorno alla quale è stata combattuta anche una breve guerra nel 1962.

Le prime fasi della visita di Li Keqiang in India, in ogni caso, sono state caratterizzate da toni distesi e amichevoli, visto il timore condiviso da entrambe le parti per un conflitto che potrebbe facilmente sfuggire di mano.

Appena atterrato a Delhi nella giornata di domenica, il premier cinese si è detto fiducioso di potere contribuire a dare un impulso alla cooperazione e alla fiducia tra i due paesi più popolosi del pianeta. Lunedì, poi, Li ha annunciato un’intensificazione degli sforzi bilaterali per risolvere la questione del confine, offrendo a Delhi “una stretta di mano attraverso l’Himalaya”, così da facilitare la trasformazione dei due paesi nel “nuovo motore dell’economia globale”.

I rapporti economici tra Pechino e Delhi, anche se in declino rispetto al 2011, hanno toccato i 66 miliardi di dollari nel 2012 e l’auspicio di entrambe le parti è di sfondare quota 100 miliardi già nel 2015. Secondo gli osservatori e gli stessi membri dei due governi, tuttavia, le potenzialità degli scambi sono frenate da contese come quella attorno alla linea di confine himalayana.

Le questioni economiche sono al centro dei colloqui di questi giorni e stanno particolarmente a cuore all’India, visto il deficit di quasi 30 miliardi a proprio sfavore a causa delle ingenti esportazioni cinesi dirette verso questo mercato, ormai superiori anche a quelle americane, tedesche e giapponesi.

La controversia legata alla definizione del confine ha però inevitabilmente occupato le prime pagine dei giornali dei due paesi fin dalla vigilia della partenza di Li Keqiang per Delhi. Gli organi di stampa cinesi, soprattutto, hanno lanciato segnali distensivi all’India, facendo intravedere una possibile accelerazione delle trattative per risolvere lo scontro. A partire dagli anni Ottanta, Cina e India hanno tenuto quindici round di negoziati senza raggiungere alcun risultato significativo.

L’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, così, nella giornata di sabato ha aperto un editoriale sulla visita del premier cinese in India affermando che “rapporti ostili tra i due paesi vicini penalizzano gli interessi di entrambi”. Lo stesso articolo, inoltre, ha affrontato indirettamente il ruolo degli Stati Uniti nell’alimentare, o quanto meno sfruttare, le tensioni tra Cina e India, così da isolare Pechino nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica decisa fin dal 2009 dall’amministrazione Obama.

“Coloro che in Occidente tendono a definire le relazioni tra Cina e India attraverso le dispute territoriali”, ha scritto Yang Qingchuan su Xinhua, “dimenticano il fatto che il loro problema legato ai confini è in larga misura un’eredità del colonialismo occidentale”, dal momento che “per migliaia di anni queste due antiche civiltà raramente si sono scontrate per questioni territoriali”.

Il tentativo statunitense di sfruttare i propri solidi rapporti con Delhi per rafforzare il fronte anti-cinese in Asia, poi, viene denunciato ancora più chiaramente quando l’autore sostiene che la Cina “non ha mai cercato di irrobustire i legami con un qualsiasi paese a spese delle proprie relazioni con l’India” e che quest’ultima “perseguirà la sua politica nei confronti della Cina secondo il proprio volere, senza essere parte dei progetti di altre potenze”.

Il velato riferimento al ruolo di Washington nell’evoluzione dei rapporti sino-indiani dell’editoriale pubblicato qualche giorno fa da Xinhua conferma come l’aumento delle tensioni in questi ultimi anni attorno al confine himalayano sia da collegare almeno in parte alla già ricordata nuova strategia americana nel continente.

Per gli Stati Uniti, cioè, l’India rappresenta un partner fondamentale nell’implementazione della propria agenda in Asia mirata a contenere l’espansionismo cinese e per questa ragione l’amministrazione Obama continua ad incoraggiare le ambizioni da grande potenza di Delhi, producendo un inevitabile confronto con Pechino, nonostante i solidi rapporti commerciali tra i due giganti del continente.

Assieme alla contesa sul confine - ma anche all’ospitalità garantita dall’India al Dalai Lama e al suo governo tibetano in esilio e alla competizione per allargare le rispettive influenze nel sud-est asiatico - un altro motivo di scontro tra Delhi e Pechino è rappresentato poi dal Pakistan, tradizionale alleato della Cina e nemico storico dell’India, nonché anch’esso oggetto delle manovre di Washington.

Dopo avere incontrato il premier indiano, Manmohan Singh, il ministro degli Esteri Khurshid, la leader del Partito del Congresso al potere, Sonia Gandhi, ed esponenti della comunità finanziaria di Mumbai, il primo ministro cinese si recherà proprio in Pakistan nella giornata di mercoledì.

A Islamabad, Li Keqiang troverà una situazione politica in evoluzione anche sul fronte dei rapporti con il vicino orientale dopo le recenti elezioni che hanno segnato la netta sconfitta del Partito Popolare Pakistano e il trionfo dell’ex premier conservatore Nawaz Sharif, le cui aperture verso l’India sono state in passato motivo di scontro con i vertici militari del suo paese.


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