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di Fabrizio Casari
Non trova pace la Casa Bianca. Cuba gli scappa dalle mani. Alla ricerca frenetica di un consenso più ampio di quello di Israele e delle Isole di Palau per trovare legittimità internazionale all’odio anacronistico verso l’isola socialista, incappa in figuracce continue, che aumentano la già scarsa considerazione internazionale sulla legittimità delle condanne che Washington promulga a destra e manca. L’ultima trovata, non un inedito, è quella di inserire Cuba nella lista dei paesi che “patrocinano” il terrorismo.
Lo smaccato intento propagandistico dell’operazione politica è evidente. Washington sa perfettamente che Cuba non ha nulla a che vedere con il terrorismo, e sa altrettanto bene che proprio del terrorismo l’isola è semmai una vittima storica. Nessuno più degli Stati Uniti lo sa, dal momento che il carnefice è proprio il governo statunitense, che da oltre cinquant’anni organizza, dirige e finanzia attacchi terroristici delle bande operanti in Florida che agiscono di concerto con la Cia e con la protezione della Casa Bianca.
E così, in un singolare caso di sovrapposizione e inversione tra terrorismo e antiterrorismo, il paese propinatore del terrorismo accusa la sua vittima principale di appoggio al terrorismo. Gli Stati Uniti, si sa, amano le classifiche. In fondo rappresentano un modo elementare, privo di complessità, di esporre la realtà.
In linea con il proprio standard culturale, gli USA hanno costantemente bisogno di ricorrere a pagelle, ammonimenti, indicazioni e ordini, dal momento che la crisi del loro ruolo di direzione politica nello scenario internazionale è ormai costante ed appare irreversibile. Ovviamente, gli USA per definizione puntano il dito verso gli altri, incuranti di come le accuse che formulano rappresentano di per sé stesse un paradosso e la loro presentazione rappresenta un momento di autentica comicità involontaria.
Le risposte politiche di netta condanna all’ennesima provocazione statunitense non si sono fatte attendere. E se scontato e inevitabile è apparsa la reazione del governo cubano, non meno dura e netta è arrivata quella di tutto il subcontinente.
La CELAC, Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi, di cui sono membri 33 paesi del continente (non ne fanno parte solo Usa e Canada), ha infatti prontamente reagito alla provocazione statunitense, diramando una nota ufficiale nella quale si invita Washington ad esimersi dal promulgare pagelle e diramare giudizi il cui valore dal punto di vista del diritto internazionale è meno che zero.
Nel ricordare quanto già espresso con il comunicato speciale di appoggio alla “lotta contro il terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni”, approvato dalla CELAC nel Vertice di Santiago, il 27 e 28 Gennaio 2013, l’organismo continentale riafferma “il rifiuto alla elaborazione unilaterale di liste contenenti accuse a stati che risultano inconsistenti di fronte al diritto internazionale”.
La formazione di liste di proscrizione come si diceva, è un vezzo comune a tutte le Amministrazioni statunitensi e quella Obama non fa eccezione. L’obiettivo evidente è sempre quello di accusare l’isola socialista delle peggiori nefandezze, così da tentare una giustificazione a posteriori al mantenimento del blocco e dell’aggressione politica, economica, commerciale e militare. Prendiamo la questione dei diritti umani, un altro dei fronti su cui gli USA attaccano Cuba sapendo di mentire spudoratamente.
Ebbene, sulle presunte violazioni da parte di Cuba dei diritti umani, Washington ha sbattuto contro le prove documentate di come Cuba sia assolutamente in linea con gli standard internazionali. Oltre tutto, per colmo di sfortuna, gli USA devono incassare le continue felicitazioni che dalle Nazioni Unite agli organismi umanitari internazionali, globali e regionali, giungono a L’Avana. Che viene riconosciuta come paese che applica con equità e responsabilità le politiche sociali e culturali che garantiscono il rispetto dei cinque punti fondamentali dello sviluppo di un paese utilizzati dall’ONU come parametro per il rispetto dei diritti individuali e collettivi.
Cuba, da cinquantaquattro anni, commette però evidenti violazioni dei precetti statunitensi che costituiscono, dopo secoli, l’applicazione pedissequa della Dottrina Monroe, e da qui nasce la fobìa statunitense che vede nell’annessionismo unilaterale l’unica politica possibile verso l’isola. Del resto, proprio in relazione ai diritti umani, ad ulteriore conferma di come la loro presunta difesa da parte degli Stati Uniti sia totalmente strumentale nel merito e funzionale ai suoi interessi di politica estera nel metodo, basta vedere come il tema venga posto all’attenzione internazionale solo quando si tratta di paesi politicamente avversi.
Infatti, nella classifica sulle violazioni dei diritti umani non figurano i regimi amici di Washington, che praticano l’apartheid di razza, di genere e sociale, come le diverse monarchie del Golfo. Non trovano spazio i paesi amici come l’Ungheria, culla del nuovo fascismo europeo. Ma soprattutto è straordinario che il governo delle torture, di Abu Ghraib e di Guantanamo, delle bombe a grappolo sui civili in Asia e Medio Oriente, della deportazioni illegali di prigionieri, dell’assassinio come forma privilegiata di relazione con gli avversari politici, dello spionaggio di massa verso i suoi cittadini e dei dispositivi come il “Patriot act”, voluti allo scopo d’intensificare le politiche repressive interne ed estere, abbia la faccia di stilare pagelle sui diritti umani e non includersi al primo posto per le flagranti e continue violazioni degli stessi.
Difficile che con queste provocazioni gli Stati Uniti possano ricostruire la credibilità perduta in America Latina. La fine dell’epoca del Washington consensus avrebbe potuto e dovuto, su iniziativa degli USA, dar luogo ad una nuova fase storica nei rapporti tra Nord e Sud America, (come del resto aveva annunciato Obama in una delle sue innumerevoli promesse non mantenute). Serviva una fase nuova nella quale la parità e la reciprocità tra le nazioni e i blocchi di paesi avrebbe davvero consentito una nuova stagione di collaborazione e di sviluppo economico nel mercato continentale.
Ha invece dovuto incassare il rientro di Cuba negli OSA e la nascita della CELAC, passaggi notevoli e di chiara impronta politica indipendentista che aggiungono ulteriore forza e credibilità al blocco democratico latinoamericano e isolano ulteriormente gli Stati Uniti. Una partita persa quella di Obama in America Latina, parte consistente del complessivo fallimento nella politica estera della sua Amministrazione.
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di Mario Lombardo
La rivelazione del Guardian sul monitoraggio da parte dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) delle comunicazioni telefoniche di milioni di clienti della compagnia Verizon è stata seguita da un’altra esclusiva ancora più clamorosa sull’invasività del governo e resa nota dallo stesso quotidiano britannico in collaborazione con il Washington Post.
La stessa NSA e l’FBI avrebbero cioè regolare accesso ai server centrali di nove compagnie di servizi web, dai quali hanno facoltà di acquisire direttamente informazioni personali degli utenti, come filmati, file audio, immagini, e-mail e dati relativi alle loro connessioni internet. Le nove compagnie coinvolte nel programma denominato PRISM e finora tenuto segreto sono Apple, AOL, Facebook, Google, Microsoft, PalTalk, Skype, Yahoo! e YouTube. Alcune di queste compagnie, contattate dai reporter dei due giornali, hanno smentito il loro coinvolgimento nel programma dell’NSA.
Il programma PRISM, spiega il Washington Post, trae origine da un’iniziativa segreta simile, inaugurata dall’amministrazione Bush e successivamente interrotta una volta rivelata dalla stampa americana. Successivamente, l’allora presidente repubblicano, grazie all’approvazione al Congresso di due apposite leggi (Protect America Act del 2007 e FISA Amendments Act del 2008), sarebbe riuscito a proseguire le intercettazioni di massa degli americani, in primo luogo assicurando l’impunità alle compagnie web e di telecomunicazioni coinvolte.
Il governo avrebbe poi ottenuto dallo speciale Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) il via libera al monitoraggio delle comunicazioni elettroniche di decine o forse centinaia di milioni di americani in maniera indiscriminata, senza presentare prove del coinvolgimento degli intercettati in attività illegali.
Grazie a questo processo, l’amministrazione Obama si è così trovata tra le mani uno strumento formidabile per controllare la popolazione americana, contando su un’agenzia, come la NSA, incaricata ufficialmente di svolgere attività di intelligence solo al di fuori del territorio statunitense.
Nella tarda serata di giovedì, il programma di intercettazioni e di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche è stato alla fine confermato pubblicamente dal direttore dell’Intelligence Nazionale, nonché supervisore dell’NSA, James Clapper, costretto ad ammettere la violazione sistematica della privacy della popolazione e degli stessi principi costituzionali. Quest’ultimo, un paio di mesi fa, nel corso di un’audizione al Congresso aveva invece negato che l’NSA stava raccogliendo informazioni sui cittadini americani.
Nella sua dichiarazione, Clapper ha comunque cercato di sminuire la gravità delle rivelazioni del Guardian e del Washington Post, indicando inoltre il programma PRISM come fondamentale per la difesa del paese da minacce di natura terroristica.
Clapper ha sottolineato anche la presunta legalità di PRISM, poiché basato sulla legislazione fin qui approvata dal Congresso, nonché condotto sotto l’attento controllo del Dipartimento di Giustizia e vincolato al parere del Tribunale per la Sorveglianza, il quale peraltro non fa che assecondare, con delibere tenute nascoste all’opinione pubblica, ogni richiesta di intercettazione sottoposta dalle varie agenzie governative.
La dichiarazione ufficiale del numero uno dell’Intelligence USA si è chiusa con una velata minaccia ai responsabili delle rivelazioni e ai media che le hanno pubblicate, dal momento che, a detta di Clapper, “discutere pubblicamente programmi simili può avere un impatto sul comportamento dei nostri avversari e rendere per noi più difficile riuscire a comprendere le loro intenzioni”.
In precedenza, altri commenti ufficiali alle rivelazioni avevano cercato di rassicurare gli americani sull’inoffensività di simili misure, finendo però soltanto per confermare la totale assenza di scrupoli democratici all’interno della classe politica degli Stati Uniti. Il leader di maggioranza al Senato, Harry Reid, ha ad esempio lanciato un appello alla calma, assicurando che il programma non rappresenta “nulla di nuovo”, poiché, come se ciò rappresentasse un motivo di conforto, è stato avviato dietro le spalle degli americani già più di sette anni fa.
A conoscenza del programma PRISM come i loro colleghi, i senatori Dianne Feinstein (democratica) e Saxby Chambliss (repubblicano), rispettivamente presidente e vice-presidente della commissione per i Servizi Segreti del Senato, hanno invece organizzato in tutta fretta una conferenza stampa per calmare gli animi, garantendo che quelli raccolti dall’NSA sono solo “metadati” sulle comunicazioni elettroniche e che perciò non includono il contenuto delle comunicazioni stesse o i nomi delle persone sorvegliate. I due senatori hanno anch’essi riaffermato il loro parere circa la piena legalità del programma, del quale il Congresso era stato debitamente informato.
Gli stessi punti sono stati riaffermati infine venerdì dallo stesso presidente Obama, il quale in una dichiarazione dalla California piena di menzogne ha affermato che gli americani non possono sperare di “avere il 100 per cento della sicurezza e il 100 per cento della privacy senza inconvenienti”. L’inquilino della Casa Bianca ha poi aggiunto che, se i cittadini “non hanno fiducia non solo del governo ma nemmeno del Congresso e dei giudici federali… allora siamo di fronte a problemi seri”.
Involontariamente, Obama è così andato al cuore del problema, dal momento che gli americani si trovano ormai di fronte ad un potere esecutivo, legislativo e giudiziario interamente responsabili del progressivo smantellamento dei principi fondamentali dello stato di diritto negli Stati Uniti.
Le reazioni delle élite politiche statunitensi alle più recenti rivelazioni indicano in ogni caso un’evidente inquietudine per lo smascheramento dei metodi profondamente anti-democratici utilizzati dai governi succedutisi a Washington in oltre un decennio, responsabili della creazione di un apparato per la sicurezza nazionale degno di uno stato di polizia.
Tutto ciò viene puntualmente giustificato con la necessità di proteggere il paese dalla minaccia del terrorismo, nonostante quasi tutti gli attentati portati a termine o sventati in questi anni abbiano visto come protagonisti individui da tempo noti alle autorità e con i quali esse avevano spesso intrattenuto rapporti a dir poco ambigui.
Nell’impossibilità di dimostrare che i metodi di controllo della popolazione, come quello appena rivelato da Guardian e Washington Post, rispettino la legalità democratica, la classe dirigente americana chiede in sostanza ai cittadini di porre in maniera incondizionata la loro fiducia in un governo che conduce segretamente i propri affari, assicurando il rispetto formale di un sistema legale oggetto di continue manipolazioni per piegarlo alle necessità della “guerra al terrore”.
La gravità delle rivelazioni di questi giorni, tuttavia, comincia a fare emergere più di una voce critica anche all’interno dell’establishment politico e tra i media ufficiali, preoccupati per le possibili reazioni che potrebbe causare nel paese il discredito crescente di un governo che ha abbandonato da tempo ogni impegno per la difesa dei diritti democratici.
Non solo alcuni membri del Congresso hanno espresso critiche all’eccessiva segretezza delle pratiche “anti-terrorismo”, ma, ad esempio, lo stesso New York Times - fermo sostenitore del presidente democratico - nella giornata di venerdì ha pubblicato un editoriale insolitamente duro nei confronti dell’amministrazione Obama, accusata di “avere ormai perso ogni credibilità”, sia pure limitatamente alla questione dell’abuso del potere di intercettare i cittadini americani.
Una serie di fatti, notizie e rivelazioni negli ultimi mesi ha d’altra parte portato alla luce l’espansione incontrollata dell’apparato della sicurezza negli Stati Uniti. Nelle prime settimane dell’anno, ad esempio, era apparso su alcuni organi di stampa un parere del Dipartimento della Giustizia che esponeva le più che discutibili fondamenta legali su cui si baserebbe l’autorità assegnata al presidente di decidere l’assassinio extra-giudiziario di chiunque sia sospettato di legami con il terrorismo internazionale, cittadini americani compresi.
L’attentato alla maratona di Boston nel mese di aprile ha poi fornito la possibilità al governo di mettere in atto una sorta di esercitazione in vista di una futura rivolta popolare, assediando la città e limitando seriamente i diritti e le possibilità di movimento dei cittadini per catturare o eliminare i presunti responsabili delle esplosioni. Più recentemente, poi, l’amministrazione Obama è finita sotto accusa per avere disposto segretamente l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di alcuni giornalisti di Associated Press e FoxNews nell’ambito di un’indagine su fughe di notizie dall’interno del governo.
Un’evoluzione estremamente preoccupante quella indicata da tutti questi fatti e che si accompagna all’apertura, avvenuta proprio questa settimana, del processo davanti ad una corte marziale di Bradley Manning, simbolo della lotta contro un governo sempre più repressivo e impenetrabile che intende punire severamente chiunque provi a smascherare i propri crimini ed eccessi sul fronte domestico e in ogni angolo del pianeta.
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di Michele Paris
Una rivelazione esplosiva del quotidiano britannico Guardian ha messo in evidenza giovedì come la famigerata Agenzia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti (NSA) stia raccogliendo segretamente i dati relativi alle comunicazioni telefoniche di milioni di americani clienti della compagnia di telecomunicazioni Verizon.
L’ennesima colossale violazione della privacy dei propri cittadini commessa dal governo di Washington si basa su un ordine emesso dal cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) e riguarda i “metadati telefonici” relativi alle comunicazioni che avvengono all’interno degli Stati Uniti e tra questi ultimi e un paese estero.
Il documento top secret di cui è entrato in possesso il Guardian certifica il primo caso conosciuto nel quale l’attuale amministrazione democratica ha deciso il monitoraggio di massa di telefonate di cittadini americani, senza che essi siano necessariamente sospettati del coinvolgimento in attività illegali. L’ordine del tribunale è stato emesso il 25 aprile scorso e copre un periodo di poco meno di tre mesi, fino al 19 luglio prossimo. La data fissata dal Tribunale per la possibile divulgazione pubblica dell’ordine era il 12 aprile 2038.
Il Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera è stato creato nel 1978 dopo l’approvazione della legge sulla Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISA) appositamente per ricevere e valutare, o meglio assecondare, le richieste delle varie agenzie governative di mettere sotto controllo le comunicazioni di sospetti agenti segreti stranieri operanti in territorio americano.
Dopo l’11 settembre 2001, la legge è stata di fatto incorporata nell’apparato pseudo-legale della “guerra al terrore”, per essere poi modificata nel 2008 con misure che hanno ulteriormente allentato i limiti imposti al governo dietro l’apparenza di maggiori garanzie legali. Il Tribunale, come dimostrano i numeri relativi alle proprie sentenze, quasi mai respinge le richieste del governo ed è diventato perciò un vero e proprio strumento per spiare i cittadini americani con una parvenza di legalità.
I “metadati” che Verizon sta passando “su base quotidiana” alla NSA riguardano sostanzialmente i numeri di telefono di chi chiama e di chi risponde, i numeri di serie dei dispositivi telefonici utilizzati, l’orario e la durata delle telefonate e la località in cui si trovano le persone interessate al momento delle chiamate. Esclusi dall’ordine sono invece i contenuti delle comunicazioni stesse, così come l’identità e il domicilio dei clienti Verizon.
Questo genere di dati, che secondo il governo non sarebbe di natura personale o privata, permette in realtà di ricostruire un quadro molto chiaro di un individuo e dei suoi contatti. I “metadati” di comunicazioni telefoniche sono stati recentemente al centro di uno scandalo che ha coinvolto l’amministrazione Obama, responsabile della raccolta segreta di queste informazioni relative ad alcuni reporter dell’Associated Press nell’ambito di un’indagine su una fuga di notizie a favore dell’agenzia di stampa americana.
Come ha spiegato mercoledì un articolo di approfondimento del Guardian sulla vicenda, l’ottenimento e la conservazione dei “metadati” garantisce al governo un “potere di sorveglianza retroattiva”. In altre parole, se in un qualsiasi momento un individuo dovesse finire per qualsiasi ragione al centro di un’indagine giudiziaria, le informazioni telefoniche già raccolte in forma teoricamente anonima potrebbero fornire una ricostruzione dettagliata sui suoi movimenti, contatti e molto altro.
Le implicazioni di un simile programma di sorveglianza svincolato da specifiche indagini è evidente e comporta, in primo luogo, la facoltà di creare una sorta di banca dati riguardante il maggior numero possibile di cittadini, così da avere a disposizione informazioni che consentano di monitorare e incriminare potenzialmente qualsiasi oppositore del governo.
Tutto ciò è confermato dal carattere estremamente insolito della richiesta di intercettazioni di massa presentata al Tribunale per la Sorveglianza, il quale in genere è chiamato invece ad esprimersi su casi che riguardano singoli individui sospettati di avere qualche legame con gruppi terroristici o servizi segreti stranieri.
Nonostante l’assenza di commenti ufficiali da parte della Casa Bianca, un anonimo esponente dell’amministrazione Obama nella giornata di giovedì ha cercato di minimizzare la portata delle rivelazioni del Guardian, affermando che l’ordine in questione “non consente al governo di ascoltare le telefonate di nessuno”. Come di consueto, una misura che va contro i principi stessi della Costituzione è stata poi definita come “uno strumento cruciale per proteggere gli Stati Uniti dalle minacce terroristiche”.
L’estrema segretezza che avvolge simili iniziative, così come la mano pesante del governo nel punire ogni fuga di notizie riguardanti le pratiche anti-democratiche messe in atto dietro le spalle degli americani, indica una più che giustificata inquietudine tra la classe politica d’oltreoceano, la cui legittimità appare sempre più deteriorata agli occhi della popolazione.
Come ha ricordato il Guardian, infatti, la conduzione di programmi come quello appena rivelato e, verosimilmente, di altri ancora che rimangono occultati al pubblico, era stata oggetto di recenti critiche da parte di alcuni membri del Congresso USA, sia pure in maniera indiretta.
In particolare, i senatori democratici Ron Wyden (Oregon) e Mark Udall (Colorado) avevano accusato la Casa Bianca di utilizzare “interpretazioni legali segrete” per giustificare poteri di sorveglianza così ampi che, se fossero resi noti, lascerebbero gli americani “sconvolti”. Simili programmi invasivi si basano sull’interpretazione del contenuto della sezione 1861 del Patriot Act, firmato da George W. Bush all’indomani degli attacchi al World Trade Center.
Proprio la precedente amministrazione repubblicana era stata per prima al centro di accese polemiche per avere autorizzato segretamente un programma di intercettazioni telefoniche, ma anche di e-mail e traffico internet, senza nemmeno ottenere un mandato dal Tribunale per la Sorveglianza. Il programma era stato portato alla luce dal New York Times nel 2005 dopo che i vertici del giornale avevano evitato a lungo di pubblicare la notizia su richiesta della Casa Bianca per non danneggiare le chances di rielezione di Bush nell’autunno dell’anno precedente.
Inoltre, nel 2006 fu rivelato che l’NSA aveva segretamente ottenuto dati telefonici di decine di milioni di americani dalle principali compagnie di telecomunicazioni, come Verizon, AT&T e BellSouth, proprio come sta facendo la stessa agenzia fin dal 25 aprile sotto la direzione dell’amministrazione Obama.
Quest’ultima, d’altra parte, ha mostrato più volte di non essere intenzionata a interrompere le pratiche abusive e gravemente lesive dei diritti democratici degli americani inaugurate dall’amministrazione Bush. Misure che assegnino ampi poteri di sorveglianza ad agenzie come NSA o FBI sono infatti necessarie per un governo che raccoglie sempre meno consensi tra la popolazione e che, in una fase di crisi strutturale dell’economia, si trova costretto a mettere in atto provvedimenti profondamente impopolari per salvaguardare gli interessi dell’oligarchia economica e finanziaria di cui è espressione.
Solo qualche settimana fa, infatti, era circolata la notizia di una prossima presentazione da parte della Casa Bianca di una nuova legge che costringerebbe compagnie come Google o Facebook a creare appositi sistemi per consentire alle agenzie del governo di monitorare indiscriminatamente l’utilizzo delle comunicazioni sul web da parte degli utenti.
Questa rivelazione, assieme a quella pubblicata giovedì dal Guardian, conferma dunque ancora una volta come le fondamenta per la creazione di un vero e proprio stato di polizia negli Stati Uniti siano state gettate ormai da tempo, così da mettere a disposizione del governo strumenti legali per fronteggiare un’opposizione popolare sempre più diffusa a causa delle crescenti tensioni sociali che attraversano il paese.
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di Michele Paris
Coerentemente con l’abituale manipolazione delle notizie provenienti dalla Siria da parte dei principali media occidentali, le informazioni giunte in questi giorni dal paese mediorientale e dagli ambienti diplomatici internazionali continuano ad essere utilizzate per aumentare le pressioni sul regime di Bashar al-Assad e spianare la strada ad un intervento militare esterno per cambiare drasticamente le sorti del conflitto.
Ampio risalto è stato infatti assegnato, ad esempio, al rapporto di una speciale commissione delle Nazioni Unite sulle violenze commesse da entrambe le parti in Siria, così come alle nuove esplicite accuse lanciate dai governi di Francia e Gran Bretagna contro Damasco per avere fatto uso di armi chimiche contro i “ribelli” armati. Al contrario, decisamente meno spazio hanno trovato le notizie che non rientrano nel quadro della presunta repressione di un regime dittatoriale contro un’insurrezione popolare democratica e che raccontano invece una storia ben differente.
I risultati dell’indagine condotta dalla Commissione Internazionale d’Inchiesta sulla Siria sono stati presentati lunedì in una conferenza stampa a Ginevra e hanno dipinto un scenario sempre più allarmante della crisi in atto da oltre due anni. Quasi 7 milioni di persone sono ormai costrette a vivere in aree interessante dal conflitto, quasi 4,5 milioni di siriani hanno abbandonato forzatamente le proprie abitazioni e altri 1,6 milioni hanno trovato rifugio all’estero.
Il rapporto ONU indica poi come causa principale del prolungarsi della guerra l’afflusso ininterrotto di armi da altri paesi, con un possibile aggravamento della situazione dovuto sia alla recente decisione dell’Unione Europea di cancellare l’embargo sulla fornitura di armi all’opposizione sia all’annunciata spedizione del sistema missilistico S-300 dalla Russia al governo Assad. Mentre nel primo caso, equipaggiamenti militari sofisticati potrebbero finire nelle mani di gruppi jihadisti già responsabili di orrendi massacri in Siria, le batterie di missili russi hanno una funzione in larga parte difensiva e servono per contrastare un’eventuale no-fly zone che potrebbe essere imposta dall’Occidente.
Uno dei punti chiave del rapporto è comunque la conferma della prevalenza tra le fila dell’opposizione di formazioni integraliste sunnite, in alcuni casi legate direttamente ad Al-Qaeda, le quali, grazie a militanti stranieri provenienti da paesi vicini, contribuiscono con le loro azioni ad innalzare i livelli di “crudeltà e brutalità”.
Gli investigatori dell’ONU spiegano che esiste una disparità tra i crimini commessi dalle forze governative e quelli dei gruppi di opposizione, ancorché tale disparità riguarda l’intensità degli abusi e non la natura di essi. A scorrere il rapporto, tuttavia, emerge ancora una volta il ritratto di un’opposizione armata dai lineamenti a dir poco inquietanti e responsabile di “crimini di guerra, tra cui assassini, condanne ed esecuzioni senza un processo equo, torture, rapimenti e saccheggi”.
Particolarmente preoccupante viene poi definito il crescente reclutamento di bambini-soldato e la pratica sempre più diffusa della decapitazione di soldati disarmati dell’esercito regolare.
L’attenzione dei media si è rivolta però soprattutto alla sezione del rapporto relativa all’uso di armi chimiche, pretesto utilizzato per giustificare un possibile intervento militare diretto in Siria. Gli investigatori avrebbero infatti trovato per la prima volta prove dell’uso di bombe termobariche che, oltre ad un’esplosione, determinano un consumo istantaneo dell’ossigeno nell’area interessata, impedendo la respirazione. “Quantità limitate di agenti chimici tossici” sarebbero stati inoltre usate tra marzo e aprile in varie località, tra cui Aleppo, Damasco e Idlib.
Il presidente della commissione d’inchiesta dell’ONU, Paulo Pinheiro, non ha però fornito ulteriori dettagli, né ha spiegato a chi dovrebbe essere attribuita la responsabilità dell’uso di armi chimiche. Lo scorso mese di maggio, un membro autorevole della stessa commissione, l’ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva affermato in un’intervista che le prove raccolte indicavano un probabile uso di gas sarin da parte dei ribelli e non dalle forze del regime.
Da questa dichiarazione, rapidamente insabbiata dai media “mainstream”, avevano preso le distanze gli altri membri della commissione, probabilmente in seguito a pressioni internazionali, senza però smentirne il contenuto. Ugualmente omessa dalla maggior parte dei resoconti giornalistici è stata anche un’altra notizia di qualche giorno fa che ha descritto l’arresto in Turchia di una dozzina di guerriglieri appartenenti al Fronte al-Nusra - la principale formazione jihadista attiva in Siria - nelle cui abitazioni sono rinvenute sostanze chimiche come il sarin.
Gli arresti sono giunti in contemporanea con la rivelazione di un attentato sventato dalle autorità nella città turca di Adana, nonché un paio di settimane dopo la doppia devastante esplosione a Reyhanli, al confine con la Siria, che ha causato la morte di 52 persone ed attribuita sbrigativamente dal governo di Ankara al regime di Assad pur in presenza di molteplici segnali che riconducevano proprio ai gruppi integralisti in guerra contro Damasco.
Le conclusioni del rapporto ONU, in ogni caso, nonostante implichino nelle violenze entrambe le parti in lotta e rivelino ancora una volta la vera faccia dell’opposizione anti-Assad, hanno spinto media e governi occidentali ad intensificare le accuse nei confronti del regime e a promuovere un maggiore impegno a favore dei “ribelli”, propagandando la consueta favola della necessità di armare al più presto le fazioni “moderate”, in modo da emarginare quelle radicali.
Come hanno messo in luce svariate inchieste giornalistiche nei mesi scorsi, tuttavia, il predominio delle formazioni estremiste in Siria è ormai pressoché assoluto ed esse finiranno perciò per beneficiare ulteriormente di un intensificarsi del flusso di armi che andrebbero peraltro ad aggiungersi a quelle già ricevute da oltre due anni tramite gli alleati degli USA nella regione mediorientale sotto la supervisione di Washington.
Per favorire questa evoluzione, i governi di Londra e Parigi questa settimana hanno tra l’altro annunciato di essere in possesso di risultati di laboratorio che dimostrerebbero l’uso di gas sarin in molteplici occasioni. Secondo il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, “non ci sarebbero dubbi che i responsabili sono il regime e i suoi complici”. Mercoledì, poi, una dichiarazione simile è giunta dal “Foreign Office” britannico, anch’esso però incapace di produrre prove tangibili delle accuse rivolte contro Damasco.
Questa nuova offensiva dei principali paesi occidentali impegnati a manovrare per rimuovere Assad è stata lanciata tutt’altro che casualmente in concomitanza con lo sfondamento delle forze del regime, appoggiate da Hezbollah, nella località strategicamente fondamentale di Qusayr, poco lontano dal confine con il Libano.
Dopo settimane di scontri, mercoledì la televisione siriana ha infatti annunciato che l’esercito siriano ha ripreso il controllo totale della città, centro nevralgico per la fornitura di armi ai “ribelli”. In questi giorni, inoltre, alcuni media hanno citato testimonianze sul campo che indicano come l’esercito regolare e guerriglieri di Hezbollah stiano preparando un’imminente operazione militare ad Aleppo per riprendere la più grande città del paese, da mesi in mano all’opposizione armata.
I rovesci militari patiti da quest’ultima, al contrario di quanto generalmente sostenuto da governi e media occidentali, indicano in maniera evidente una clamorosa mancanza di seguito tra la popolazione siriana. Un’avversione, quella nutrita nei loro confronti anche dalla maggioranza sunnita, che si spiega facilmente scorrendo il già citato rapporto dell’ONU sulle atrocità commesse dai “ribelli” in oltre due anni di conflitto.
Di questa realtà ne sono perfettamente a conoscenza i governi che appoggiano incondizionatamente i “ribelli”, come dimostra un’indagine finita recentemente nelle mani dei vertici NATO e puntualmente trascurata dalla grande maggioranza dei media ufficiali. A fine maggio, cioè, la testata World Tribune aveva rivelato i risultati di una ricerca condotta da organizzazioni e attivisti sponsorizzati dall’Occidente, secondo la quale il presidente Assad godrebbe di un consenso tra la popolazione siriana ben superiore ai livelli che possono vantare, ad esempio, i governi di Washington, Londra o Parigi.
In particolare, circa il 70% dei siriani sosterrebbe il regime alauita, mentre il 20% si dichiara neutrale e un misero 10% è a favore dei “ribelli”. Questi dati smascherano clamorosamente la strategia degli Stati Uniti e dei loro alleati nei confronti della crisi siriana, sfruttata in maniera deliberata per avanzare i propri interessi, presentando come campioni della democrazia un insieme di formazioni integraliste e di dissidenti da tempo screditati con poco o nessun seguito nel paese.
Lo stesso presunto massacro a senso unico messo in atto dal regime contro una popolazione inerme appare infine ben lontano dalla realtà. A smentire questa versione sono stati i numeri forniti un paio di giorni fa all’agenzia di stampa americana McClatchy dall’Osservatorio per i Diritti Umani in Siria, un’organizzazione britannica che sostiene l’opposizione e che monitora gli eventi sul campo nel paese mediorientale.
Secondo questa indagine a pagare il prezzo più alto in termini di vite umane sono proprio i membri delle forze di sicurezza del regime, tra i quali si conterebbero finora quasi 25 mila morti. A questi vanno aggiunte poco più di 17 mila vittime tra gli appartenenti alle milizie filo-governative. I combattenti anti-Assad deceduti ammonterebbero invece a poco meno di 17 mila, mentre i civili morti nel conflitto a più di 35 mila, tra i quali l’Osservatorio non distingue però le numerosissime vittime delle operazioni condotte dai “ribelli”, compreso un lungo elenco di attentati di chiara matrice terroristica.
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di Fabrizio Casari
Almeno una volta, nella vita, ognuno di noi si chiede cosa può fare per migliorare il suo paese, proteggere le persone e le cose, difenderne la sovranità e la sua autodeterminazione. A Cuba questo pensiero per molti e di diverse generazioni, è pensiero quotidiano. Perché Cuba, oltre ad essere paese assolutamente diverso da altri, oltre a rappresentare un modello di società dove il mercato obbedisce alle persone, i politici agli elettori e le banche alla politica, è meta ossessiva dei suoi nemici.
E più i suoi nemici odiano, progettano morti e distruzione, sognano vendette e cospirano per terrorizzare, più gli uomini e le donne dell’isola socialista devono lavorare, pensare, immaginare, lavorare e cospirare per difendere il loro paese e la loro gente.
S’ inserisce semplicemente in questo quadro storico la vicenda scandalosa dell’arresto e della condanna a pene assurde - tanto relativamente alle accuse (mai provate) quanto in assoluto nel rapporto tra reato e pena prevista dai codici statunitensi - di Gerardo Hernandez, Ramon Labanino, Antonio Guerrero, Fernando Gonzalez e Renè Gonzalez, diventati prigionieri dell’impero nel 1998.
I cinque erano e sono patrioti. Persone che dovettero rinunciare ad una vita nel loro contesto naturale, lasciare il loro paese e andare a vivere negli Stati Uniti per portare a compimento il loro lavoro: la difesa di Cuba. Negli Stati Uniti Gerardo, Ramon, Antonio, Fernando e Renè hanno svolto la missione che gli era stata assegnata: infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche e mafiose dei fuoriusciti cubani in Florida, carpirne i segreti e i piani terroristici per allertate L’Avana e smontare i piani del terrore.
I cinque cubani detenuti e condannati negli Usa sono innocenti dei reati di cospirazione e di complicità in omicidio. Non hanno commesso nessun reato in violazione della sicurezza nazionale degli Usa, mentre hanno messo Cuba nella condizione di potersi difendere dagli attacchi terroristici che da Miami venivano e vengono finanziati, organizzati e realizzati. I cinque hanno svolto il loro compito smascherando prima ed indicando poi al loro Paese, gli autori, le date, i modi, i mezzi, gli obiettivi e le complicità con i quali il terrorismo made in Usa colpisce l’isola caraìbica da decenni.
Hanno svolto, insomma, il compito proprio di qualunque agente di qualunque servizio di qualunque paese: la difesa della sua integrità territoriale e dell’incolumità dei suoi cittadini, del suo gruppo dirigente e dei suoi obiettivi sensibili; il compito cioè, che ogni persona addetta alla sicurezza del proprio paese, indipendentemente da dove si trovi, è chiamato a svolgere. Un lavoro necessario, vista l’infame continuità della storia di attentati che le organizzazioni terroristiche hanno progettato e realizzato contro l’isola. Un triste computo, che nessuno si pregia di ricordare per non disturbare il manovratore statunitense.
La storia non prevede quasi mai letture univoche, ma in alcuni casi, e tra questi Cuba, parla chiaro. Da 54 anni una superpotenza aggredisce una piccolissima isola con un blocco economico, commerciale, politico e diplomatico, cui si aggiunge l’iniziativa di tipo militare. Il governo più potente al mondo realizza la politica nell’emisfero sotto la dettatura di organizzazioni terroristiche cubano-americane. Queste, con l’aiuto, il denaro e la copertura delle agenzie statunitensi, non solo si addestrano indisturbate ad azioni armate nella Florida, ma organizzano attentati nell’isola e fuori.
Il menù che il terrorismo cubano-americano, finanziato e organizzato dalla CIA nel quadro della sua politica criminale contro Cuba, ha fornito ogni tipo d’ingrediente: un’invasione mercenaria, stragi con bombe sugli aerei e negli hotel, attentati a strutture economiche, assassini mirati di dirigenti cubani e sequestri di aerei e navi, spargimento di agenti chimici letali nelle colture agricole, diffusione di virus tra la popolazione.
Esagerazioni? Dal 1959 al 2001 Cuba ha subito un’invasione (fallita), 3478 morti, 2099 feriti, 294 tentativi di dirottamenti marittimi ed aerei, 697 atti terroristici, 600 tentativi di assassinio di Fidel Castro, quasi 2000 miliardi di dollari di danni diretti e dimostrati procurati all’economia dell’isola. Non era pensabile né giusto che Cuba non cercasse di difendersi.
Ed essendo a Miami che si pianificano e si organizzano le azioni terroristiche contro Cuba è quindi a Miami che l’attività del controspionaggio cubano aveva deciso di operare. Il lavoro dei cinque agenti cubani ha evitato 44 attentati nell’isola e smascherato le attività, le complicità ed i legami tra i terroristi cubano-americani e le strutture federali e statali governative.
Il governo cubano, nel tentativo di operare concretamente per la riapertura di un dialogo diretto tra Washington e L’Avana senza dover passare per Miami, offrì a Clinton, attraverso Gabriel Garcia Marquez, documentazione, prove inoppugnabili sull’operato delle organizzazioni terroristiche che agiscono in Florida. L’Avana riteneva che in qualche modo gli Usa cercassero di liberarsi anch’essi di questo ricatto lungo all’epoca quarant’anni e che la nuova frontiera americana, definita come “la guerra al terrore” dalla sua propaganda, fosse davvero un obiettivo politico della volontà di governance planetaria degli Usa.
Il risultato fu che i terroristi rimasero liberi e gli agenti dell’antiterrorismo cubano vennero arrestati. Processi farsa celebrati tra Miami e Atlanta, prove finte, rifiuto dei testi e dei documenti a discarico, rinuncia ad una sede del processo effettivamente terza, furono il piatto su cui si posarono sentenze di condanna oltre ogni immaginazione, inedite per la storia giuridica, pure piena di ombre, degli Stati Uniti.
Venne inscenato un processo politico dal quale dovevano uscire condanne esemplari, che andassero ben oltre ogni limite concepito dallo stesso codice, fino all’outing vero e proprio rappresentato dal divieto di frequentazione dei luoghi noti per essere frequentati dai terroristi dopo aver scontato due ergastoli.
Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie si sono ripetutamente pronunciate contro i processi farsa e numerose personalità in tutto il mondo, sostenute da una incessante attività dei cubani e della solidarietà internazionale, hanno richiesto la liberazione dei detenuti, colpevoli solo di antiterrorismo e patriottismo.
Quello del terrorismo contro Cuba è un capitolo a sé stante nel libro degli orrori della politica estera statunitense. Vi si può leggere in ogni pagina una incestuosa e nauseabonda comunanza d’interessi tra i fedeli e i nostalgici di Batista, cui si è aggiunta nel corso dei decenni una marmaglia indistinta di mercenari, e gli obiettivi di politica regionale di Washington, che delega appunto la parte più sporca del lavoro alle bande terroristiche allocate in Florida. Non è un segreto che il governo degli Stati Uniti incoraggia - o perlomeno permette - le attività terroristiche delle organizzazioni criminali anticubane coordinate dalla FNCA della Florida.
La fondazione, che vide la sua nascita sotto la presidenza Reagan, è legata a triplice filo con la famiglia Bush e gode di aiuti economici e coperture legali, sostegno politico e favore di ogni normativa relazionata con Cuba. Dal blocco economico fino alla “legge del piede bagnato”, dalla legge Torricelli alla Helms-Burton, i gusanos sono l’interlocutore unico, addirittura il referente della politica statunitense nell’area.
In cambio, la rete della mafia cubano-americana s’incarica di offrire manovalanza criminale alle “covert actions” della CIA in America Latina e di dare sostegno elettorale ai candidati dei due schieramenti in Florida (Stato chiave per eleggere il Presidente USA). Ovvio, con una naturale preferenza verso i repubblicani, ma senza disdegnare i democratici che scendono a patti con loro. Non hanno problemi di schieramento alla FNCA: quale che sia il partito del candidato, l’importante è che s’impegni a conservare il dominio territoriale, le norme di favore, il sostegno alla formazione paramilitare dei loro aderenti, i finanziamenti pubblici e l’appoggio politico al terrorismo anticubano, core business della FNCA, mano d’opera fondamentale dell’agenzia con sede a Langley.
In questo binomio d’interessi sporchi, s’inseriscono leggi e norme costruite appositamente per permettere alla mafia cubana di prosperare finanziariamente sull’ostilità statunitense contro l’isola socialista. L’immigrazione clandestina dei cubani, che diversamente da ogni altro emigrato del mondo per il solo fatto di toccare con i piedi il suolo statunitense ottengono residenza e cittadinanza, permette uno dei business migliori per i gusanos, quello che deriva dal ruolo di scafisti. Che se operano nel Mediterraneo sono volgari banditi, ma nel Mar dei Caraibi diventano combattenti per la libertà.
Quindici anni dopo loro arresto, la battaglia per liberarli si va intensificando. Renè Gonzales, detentore della condanna minore (15 anni!!) è ormai libero. Tornato a Cuba per la morte del padre, ha ottenuto dal tribunale di Miami la possibilità di restarvi per sempre in cambio della rinuncia alla nazionalità statunitense. Ne restano ancora quattro tra gli artigli dell’impero e il loro definitivo rilascio è questione ormai solo politica, essendosi esaurito il percorso giuridico della loro vicenda. A Cuba, invece, si trova agli arresti Alan Gross, cittadino statunitense, di professione spia, che per conto di organismi USA consegnava materiali e denaro alla rete interna di mercenari americani che parlano cubano, meglio conosciuti come “dissidenti”.
I casi sono molto diversi, dal momento che i cinque cubani difendevano il loro paese dal terrore che parte dalla Florida, mentre da Cuba nessun attacco è mai partito all’indirizzo di Miami. I cinque non avevano nessun interesse a spiare uomini e istituzioni statunitensi, non era quella la loro missione, non era quello il loro interesse; loro infiltravano le bande terroriste per sventarne i piani. Alan Gross, invece, contribuiva alla costruzione di un fronte interno sovversivo a Cuba, in parte clandestinamente e in parte pubblicamente; dunque agiva contro gli interessi, l'ordine interno e la sovranità nazionale del paese nel quale era ospite, appunto come una perfetta spia. Arrestato e condannato, si trova in ospedale dove riceve cure ed attenzioni, oltre che visite, tutte cose che ai cinque cubani prigionieri negli Usa sono drasticamente negate, vittime ancora oggi di un regime carcerario durissimo che impedisce persino le cure e il contatto facilitato con i parenti.
Benché i casi siano completamente diversi, Cuba si è detta pronta ad una iniziativa umanitaria reciproca che porti ad uno scambio di prigionieri, ma gli Stati Uniti non sembrano voler accettare. Ovviamente non si tratta di riconoscimento della legittimità della procedura di scambio di prigionieri, dal momento che dagli USA è stata regolarmente praticata in lungo e largo per il mondo anche nei decenni recenti. Si tratta forse di non inimicarsi la comunità terroristico-mafiosa di Miami, già in passato capace di dimostrare come non approvi anche minimi segnali di mutamento di rotta dalla guerra aperta verso il dialogo da parte di Washington verso L’Avana.
Oggi, in ogni parte del mondo, come ogni cinque di ogni mese e di ogni anno e fino a quando sarà necessario, i difensori dei giusti saranno in piazza contro l’ingiustizia. Per protestare contro la prosecuzione della carcerazione di uomini per il cui operato si può andare orgogliosi.
Il premio Nobel Obama ha la possibilità di assegnare il perdono presidenziale ai quattro detenuti cubani e permettergli di tornare a Cuba dai loro cari. Non serve una riflessione lacerante: non un morto né un ferito statunitense è stato vittima del loro operato, nessun segreto militare statunitense è stato violato, nessun atto violento è stato commesso.
Non c’è nemmeno una ragione, almeno tra quelle rivendicabili pubblicamente, che può impedire il perdono presidenziale, in passato concesso persino a noti terroristi, tra cui Orlando Bosh, criminale cubano americano autore materiale di decine di attentati tra i quali l’esplosione in volo dell’aereo della Cubana de Aviacìòn sui cieli delle Barbados costato 73 morti. La mano di Bush non ha tremato mentre firmava il perdono all’assassino, perché quella di Obama dovrebbe tremare davanti a persone innocenti di ogni crimine?
La strada per Obama quindi c’è: ripari con il perdono presidenziale al torto giudiziario, reagisca con la clemenza alla vergogna di un paese che ha voluto tutelare i terroristi e imprigionare gli antiterroristi. Una firma giusta che potrebbe rispondere alle domande che tutti si pongono quando analizzano il rapporto USA-Cuba: per quanto tempo una comunità criminale su base locale dovrà dettare la politica estera regionale dell’unica superpotenza planetaria? Per quanto tempo terrore e odio dovranno rappresentare l’alfa e l’omega della relazione di Washington con L’Avana?