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di Michele Paris
L’annuale convocazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York ha fornito l’occasione al governo iraniano in carica da poche settimane di lanciare una sorta di offensiva diplomatica volta a riaprire un dialogo reale con l’Occidente dopo anni di contrapposizione pressoché totale.
L’arrivo al Palazzo di Vetro del neo-presidente, Hassan Rouhani, e del ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, è apparso perciò come il banco di prova per un percorso di riconciliazione con Teheran che, soprattutto a Washington e Tel Aviv, trova ancora molti irriducibili oppositori.
La trasferta in territorio americano dei due leader iraniani era stata accuratamente preparata da una serie di dichiarazioni concilianti e di interventi nei media occidentali e sui social network per lanciare messaggi inequivocabili della disponibilità dei vertici della Repubblica Islamica a discutere le questioni che hanno rappresentato continui motivi di scontro in questi anni, a cominciare dal programma nucleare di Teheran.
Questa settimana, così, è iniziata con svariati incontri alle Nazioni Unite, con Zarif che lunedì è stato ad esempio protagonista di faccia a faccia con i suoi omologhi di Gran Bretagna, Italia e Olanda, oltre che con la responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton.
Quest’ultima ha annunciato che lo stesso ministro iraniano parteciperà ad un meeting previsto per giovedì con i rappresentanti dei paesi facenti parte del gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) in vista del prossimo vertice sul nucleare in programma nel mese di ottobre dopo l’ultimo andato in scena in Kazakistan ad aprile e conclusosi con un nulla di fatto.
Se la Ashton ha provato a smorzare gli entusiasmi, precisando che nel suo incontro con Zarif non si è parlato delle iniziative concrete che l’Iran potrebbe essere pronto ad adottare per rassicurare i suoi interlocutori circa il proprio programma nucleare, i toni delle dichiarazioni dei vari diplomatici coinvolti nel possibile processo di distensione in corso sono apparsi sostanzialmente ottimisti.
In particolare, la stampa americana ha sottolineato come l’incontro che dovrebbe avvenire nella giornata di giovedì tra Zarif e il segretario di Stato, John Kerry, sarebbe il faccia a faccia di più alto livello tra Stati Uniti e Iran da molti anni a questa parte.
Il presidente Obama e Rouhani si sono inoltre avvicendati martedì sul podio dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dopo che nelle scorse settimane erano stati protagonisti di un cortese scambio di lettere.
Nel suo discorso, l’inquilino della Casa Bianca ha confermato che le aperture dell’Iran potrebbero rappresentare la base per un accordo sul nucleare, così che “la strada della diplomazia deve essere messa alla prova”.
A ribadire la nuova attitudine della classe dirigente iraniana è stato sempre lunedì anche un editoriale pubblicato dal quotidiano britannico Guardian a firma dell’ex presidente riformista Mohammad Khatami, il quale continua ad essere ben visto da molti in Occidente. Khatami ha ribadito come Rouhani si presenti a New York con “un’agenda per il cambiamento” per raggiungere “una soluzione diplomatica con l’Occidente non solo attorno al nucleare ma anche ad altre questioni di politica estera”.
L’ex presidente iraniano ha poi confermato come l’offensiva diplomatica di Rouhani sia “sostenuta pubblicamente e in maniera esplicita” dalla Guida Suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, al quale spettano le decisioni ultime in materia di politica estera e sul programma nucleare del suo paese.
Lo stesso Khamenei, infatti, secondo molti osservatori sembra avere allentato almeno temporaneamente la propria linea dura nei confronti dell’Occidente, autorizzando il nuovo presidente moderato addirittura a partecipare a colloqui diretti con gli Stati Uniti. In una recente intervista rilasciata a NBC News, Rouhani aveva egli stesso affermato di avere ricevuto un “mandato pieno” da parte di Khamenei per risolvere la disputa sul nucleare.
In alcuni suoi interventi pubblici, Khamenei ha effettivamente lasciato intendere di avere dato la propria approvazione alla ricerca di un dialogo con l’Occidente. In un discorso tenuto lo scorso 17 settembre di fronte ad una platea composta da membri della Guardia della Rivoluzione, l’ayatollah aveva così espresso il concetto di “flessibilità eroica”, secondo il quale, in una controversia diplomatica come quella con gli Stati Uniti, è ammissibile mostrare appunto una certa flessibilità pur senza dimenticare la natura della propria controparte.
La cauta apertura al dialogo mostrata da Khamenei, concretizzatasi nelle iniziative di Rouhani e Zarif, è in larga misura la conseguenza delle durissime sanzioni applicate ai danni dell’Iran dagli USA e dall’Occidente in genere. Queste misure punitive senza precedenti hanno infatti determinato un crollo delle esportazioni petrolifere, fatto impennare i livelli di inflazione e di disoccupazione, nonché praticamente tagliato fuori l’Iran dai circuiti bancari internazionali.
I timori per un’esplosione sociale dovuta al rapido deteriorarsi delle condizioni di vita nel paese ha perciò spinto i massimi vertici della Repubblica Islamica a lasciare mano relativamente libera a Rouhani, già protagonista durante la presidenza Khatami di un accordo di breve durata con l’Occidente per la sospensione delle attività di arricchimento dell’uranio.
Se i media e i governi occidentali continuano a interrogarsi sulla sincerità delle aperture iraniane e invitano ad attendere atti concreti che dimostrino le buone intenzioni della Repubblica Islamica, in realtà l’eventuale avvio di un autentico processo di distensione dipende in larghissima parte dall’atteggiamento degli Stati Uniti e dei loro alleati, in particolare dalla disponibilità - finora inesistente - di questi ultimi a riconoscere le legittime aspirazioni iraniane.
L’amministrazione Obama, da parte sua, ha segnalato in questo giorni la propria volontà a sondare l’ipotesi di un dialogo diretto, ma sempre agitando l’opzione militare o aggiungendo condizioni legate ad una verifica della “serietà” dell’Iran nell’affrontare la questione del nucleare. Vale a dire, in sostanza, della disponibilità a sottomettersi alle richieste occidentali nonostante non esista una sola prova che il programma di Teheran abbia come scopo la realizzazione di armi atomiche.
Come hanno mostrato i vari round di negoziati con i P5+1 di questi anni, nei quali i segnali di apertura iraniani sono stati puntualmente respinti da Washington e spesso seguiti da sanzioni sempre più pesanti, l’obiettivo ultimo degli americani è d’altra parte quello di utilizzare la diatriba attorno al nucleare per forzare un cambio di regime a Teheran o, quanto meno, sottomettere la Repubblica Islamica ai propri interessi e a quelli dei propri alleati nella regione mediorientale.La predisposizione al dialogo mostrata in queste settimane da Rouhani, almeno per il momento, viene però valutata con estrema attenzione da parte dell’amministrazione Obama, soprattutto dopo avere constatato la massiccia opposizione popolare a possibili nuove guerre quando l’aggressione militare contro la Siria sembrava non dover trovare alcun ostacolo.
La diplomazia americana dovrà comunque fare i conti con quanti chiedono a Obama di mantenere la linea dura nei confronti dell’Iran. Pressioni in questo senso sono già state ampiamente esercitate dal Congresso e da Israele, da dove in molti considerano quella di Rouhani come una strategia di facciata per prendere tempo e proseguire in maniera più decisa nel programma di arricchimento dell’uranio a scopi militari.
Un gruppo di senatori democratici e repubblicani ha così indirizzato lunedì una lettera alla Casa Bianca, invitando il presidente a non allentare in nessun modo le sanzioni economiche che colpiscono l’Iran.
Questa iniziativa, al di là dei possibili incontri tra i leader dei due paesi nemici nei corridoi delle Nazioni Unite, non promette nulla di buono per il futuro di un eventuale processo di distensione.
Infatti, un alleggerimento significativo delle sanzioni - cioè la ragione principale che ha spinto Teheran ad inaugurare una vera e propria svolta diplomatica - dovrebbe essere approvato proprio da un Congresso americano che, dietro le pressioni della lobby israeliana, a grandissima maggioranza continua ad opporsi in maniera ferma a qualsiasi forma di dialogo con la Repubblica Islamica dell’Iran.
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di Michele Paris
Mentre il governo siriano di Bashar al-Assad sembra avere finora rispettato i termini imposti dall’accordo tra Stati Uniti e Russia sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco, l’amministrazione Obama continua a manovrare dietro le quinte per riuscire a creare un pretesto che giustifichi un intervento armato nel paese mediorientale.
Se l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW) ha fatto sapere nel fine settimana che la Siria ha consegnato venerdì l’elenco delle proprie armi chimiche secondo le scadenze previste, le trattative per definire l’implementazione dell’accordo continuano ad incontrare ostacoli a causa dell’atteggiamento americano.
In particolare, la Russia da una parte e gli sponsor occidentali dell’opposizione armata siriana dall’altra non hanno ancora superato le loro divergenze sulla questione dei provvedimenti da adottare nel caso la Siria dovesse violare le procedure previste per la consegna e la distruzione delle proprie armi chimiche.
Gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, insistono cioè nell’introdurre in un’eventuale risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il riferimento al cosiddetto “Capitolo 7” della carta ONU, il quale prevede appunto l’autorizzazione all’uso della forza in caso di mancato rispetto di quanto stabilito dalla risoluzione stessa.
Come hanno riportato i media americani nei giorni scorsi, inoltre, la Casa Bianca vedrebbe con favore l’adozione di un altro meccanismo che faciliterebbe un’aggressione contro la Siria, vale a dire l’assegnazione all’OPCW dell’autorità di stabilire se Damasco ha violato o meno l’accordo sulle armi chimiche. Questa ipotesi, viene ovviamente respinta da Russia e Cina, poiché consentirebbe agli USA di agire militarmente bypassando il Consiglio di Sicurezza.
In un’intervista concessa nella giornata di domenica alla TV russa, il ministro degli Esteri di Mosca, Sergei Lavrov, ha rilasciato dichiarazioni molto pesanti nei confronti dell’amministrazione Obama, accusandola di volere “ricattare” il Cremlino. Per Lavrov, a differenza di quanto stabilito inizialmente assieme al Segretario di Stato, John Kerry, gli Stati Uniti stanno minacciando di ritirare il proprio appoggio all’accordo sulla consegna delle armi chimiche siriane se la Russia non accetterà una risoluzione che includa il riferimento al Capitolo 7 della carta ONU.
Il governo russo, così come quello cinese, è ben consapevole che la richiesta di Washington ha come scopo quello di ottenere una parvenza di legittimità per un attacco unilaterale contro la Siria. Mosca e Pechino, infatti, hanno imparato la lezione del 2011, quando la loro astensione al Consiglio di Sicurezza consentì l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia, subito manipolata dalla NATO per condurre una campagna di bombardamenti su vasta scala e rimuovere Gheddafi dal potere.Sempre secondo le parole di Lavrov, dunque, “gli USA non vedono nell’accordo con la Russia un’occasione per salvare il pianeta dall’uso di consistenti quantitativi di armi chimiche, bensì come un’occasione per ottenere ciò che Russia e Cina non permettono: fare approvare una risoluzione che autorizzi l’uso della forza contro il regime di Assad a tutto vantaggio dell’opposizione”.
Con un simile strumento nelle loro mani, gli Stati Uniti potrebbero così in qualsiasi momento denunciare la mancanza di collaborazione da parte di Damasco nell’applicazione dei complessi termini dell’accordo sulla distruzione delle armi chimiche e giustificare un attacco militare che, a loro dire, trarrebbe legittimità da una risoluzione ONU.
L’inaccettabilità della pretesa degli americani e dei loro alleati europei appare poi ancora più evidente dal fatto che essa si basa su un presupposto tutt’altro che appurato, vale a dire la responsabilità del regime siriano nell’attacco con armi chimiche nella località di Ghouta - presso Damasco - lo scorso mese di agosto.
Un altro aspetto del tutto trascurato dagli Stati Uniti e dall’Occidente e su cui Lavrov ha invece portato l’attenzione nella sua intervista del fine settimana, è legato alle armi o sostanze chimiche letali nelle mani dell’opposizione armata. Per il capo della diplomazia di Mosca, l’accordo prevederebbe cioè anche la consegna agli ispettori internazionali delle armi non-convenzionali detenute dai gruppi anti-Assad.
Come ha sostenuto Lavrov, gli stessi servizi segreti israeliani avrebbero infatti confermato almeno due casi nei quali i “ribelli” hanno assunto il controllo di aree dove si trovavano depositi di armi chimiche dell’esercito siriano.
Su questa condizione avanzata dalla Russia, in ogni caso, gli Stati Uniti non si sono ancora pubblicamente espressi ma è improbabile che Washington acconsenta ad introdurla nell’accordo. Nonostante i molti indizi emersi circa la disponibilità da parte dei “ribelli” di armi e sostanze tossiche in quantità sufficiente per condurre attacchi come quello del 21 agosto grazie all’assistenza dei governi che li sostengono, gli USA continuano ad affermare il contrario.
La fermezza americana su questo punto consente d’altra parte all’Occidente di continuare a negare qualsiasi ipotesi che implichi i “ribelli” nei fatti di Ghouta e a promuovere la versione - propagandata da quasi tutti i media “mainstream” - che il rapporto degli ispettori ONU assegni sia pure implicitamente al regime di Assad la responsabilità degli attacchi con armi chimiche.
Il rapporto, in realtà, non identifica gli autori dell’attacco ma i vari governi che sostengono l’opposizione siriana avrebbero dedotto da alcuni dati tecnici in esso contenuti che almeno due dei missili esplosi il 21 agosto sarebbero stati lanciati da un’area della città sotto il controllo delle forze del regime. Inoltre, la quantità relativamente consistente di sarin impiegato era tale che sarebbe stato impossibile per i “ribelli” venirne in possesso.
Questa versione è stata però messa in discussione da molti esperti e analisti, tra i quali alcuni sostengono come l’attacco su “larga scala” descritto dagli ispettori ONU avrebbe dovuto fare migliaia o forse decine di migliaia di vittime se il gas sarin lanciato con più missili si fosse propagato nell’ambiente come si deduce dalla versione ufficiale dei fatti.
Alla luce delle conseguenze provocate, appare più ragionevole ad esempio l’ipotesi, avanzata qualche settimana fa da una testata on-line americana, dell’esplosione accidentale delle armi in mano ai “ribelli” dopo che questi ultimi le avevano ricevute dai servizi segreti sauditi.
Ancora, qualche media alternativo ha messo in discussione la credibilità stessa del capo della missione ONU in Siria, lo svedese Ake Sellstrom, i cui indizi seminati nel rapporto hanno consentito a Washington, Parigi e Londra di puntare il dito contro Assad.
Come ha fatto notare qualche giorno fa un giornalista investigativo giapponese sul sito web globalresearch.ca, ad esempio, Sellstrom lavora in un centro di ricerca presso un’università svedese sponsorizzata dal ministero della Difesa di Stoccolma e i finanziamenti ricevuti da essa per vari progetti di studio sono finanziati dai fondi dell’Unione Europea destinati alla “lotta contro il terrorismo”. La stessa università di Sellstrom collabora poi con un istituto di ricerca di Tel Aviv che, a sua volta, mantiene stretti contatti con le forze armate e i servizi segreti israeliani.
Quasi mai preso in considerazione è infine il calcolo strategico del regime di Assad nel decidere un attacco con armi chimiche proprio mentre erano presenti in territorio siriano ispettori ONU giunti dietro invito di Damasco. Alla luce delle minacce lanciate da oltre un anno da parte dell’Occidente in caso di ricorso ad armi chimiche, per il governo l’utilizzo di questo genere di armi sarebbe stato un autentico suicidio, oltretutto dopo avere sostanzialmente ribaltato gli equilibri sul campo e avere messo alle corde i “ribelli” in molte aree del paese.
In questa prospettiva, l’ipotesi forse più plausibile per spiegare i fatti di Ghouta continua ad essere quella di un’operazione messa in atto più o meno intenzionalmente dai “ribelli” stessi, con l’intenzione di incolpare il regime e provocare un intervento militare esterno.
Questo piano, verosimilmente concordato con gli Stati Uniti e i loro alleati, era stato sul punto di dare i risultati sperati nei giorni successivi all’attacco. L’amministrazione Obama si è però trovata a fare i conti con una inaspettata opposizione popolare ad un nuovo conflitto, vedendosi costretta dapprima a chiedere l’autorizzazione all’uso della forza al Congresso e, di fronte alla prospettiva di subire un’umiliante sconfitta vista la contrarietà anche di molti deputati e senatori democratici, ad abbracciare l’iniziativa russa sullo smantellamento delle armi chimiche di Assad.
Come dimostrano i contrasti con Mosca di questi giorni e l’insistenza americana per una risoluzione ONU che contempli l’ipotesi militare, tuttavia, la minaccia di guerra è solo rimandata e l’accordo in fase di finalizzazione, per l’amministrazione Obama, non è altro che un ulteriore mezzo per giungere finalmente alla rimozione con la forza di un regime ostile ai propri interessi in Medio Oriente.
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di Mario Lombardo
Con la seconda migliore prestazione fatta segnare dal suo partito dal 1990, la cancelliera Angela Merkel si è garantita domenica un terzo mandato alla guida della Germania. I risultati non ancora ufficiali lasciano però in dubbio la composizione del prossimo governo che sarà determinata dal numero definitivo dei seggi conquistati dai Cristiano Democratici (CDU) e dall’Unione Cristiano Sociale (CSU), nonché dall’eventuale ingresso nel “Bundestag” del partito anti-europeista AfD (Alternative für Deutschland).
La CDU della Merkel e la CSU avrebbero dunque ottenuto circa il 42% dei consensi, con un guadagno superiore all’8% rispetto alle elezioni del 2008. Nonostante il modesto miglioramento dei Social Democratici (SPD), il principale partito di opposizione ha invece chiuso con un bilancio fallimentare, riuscendo a conquistare poco meno del 26% dei voti espressi.
In netto calo sono risultati anche i Verdi e Die Linke, incapaci di proporsi come alternativa convincente ai due principali partiti del panorama politico tedesco e fermatisi rispettivamente all’8,1% e all’8,5%.
Le uniche cattive notizie per la Merkel sono state rappresentate dal tracollo del proprio partner di governo, il partito Liberale Democratico (FDP) pro-business, fermatosi al 4,7%. Come previsto e già anticipato dai risultati delle recenti elezioni locali in Baviera, quest’ultimo partito per la prima volta dal dopoguerra non è riuscito a superare la soglia di sbarramento del 5% prevista per l’ingresso nella camera bassa del Parlamento tedesco, perdendo perciò tutti e 93 i seggi attualmente occupati grazie al 14,6% dei voti ottenuti cinque anni fa.
Senza la possibilità di contare sull’FDP e nel caso non riuscissero a garantirsi la maggioranza assoluta, la CDU e la CSU dovranno cercare altrove il sostegno necessario a formare un governo. L’ipotesi più probabile è quella della riproposizione della cosiddetta “Grosse Koalition” con l’SPD dopo quella guidata sempre dalla Merkel tra il 2005 e il 2009. Ugualmente percorribile, anche se meno probabile, potrebbe essere poi un’alleanza inedita della CDU e della CSU con i Verdi.
Il candidato alla cancelleria per l’SPD, Peer Steinbrück, è stato d’altra parte il Ministro delle Finanze nel governo Merkel sorto dopo le elezioni del 2009 e si trova su posizioni per certi versi molto vicine a quelle della leader dei conservatori tedeschi nonostante una campagna elettorale nella quale ha promesso di lavorare alla riduzione delle differenze di reddito e di aumentare il carico fiscale per i tedeschi più ricchiAlla diffusione dei primi risultati nella serata di domenica, Steinbrück ha in sostanza confermato la disponibilità del suo partito per una Grande Coalizione, affermando che “la palla è ora nel campo della signora Merkel che ha la responsabilità di mettere assieme una maggioranza”.
Questa prospettiva di un nuovo governo CDU-CSU-SPD diventerebbe poi una certezza se gli anti-europeisti di AfD dovessero superare la soglia del 5% e ottenere una rappresentanza nel Bundestag, visto che i seggi da assegnare ai vari partiti dovrebbero essere riconteggiati. Le proiezioni indicano per questo partito, fondato solo lo scorso mese di febbraio, un risultato tra il 4,8 e il 4,9%.
La Grande Coalizione è in ogni caso la soluzione preferita da Bruxelles e dagli ambienti finanziari internazionali, certi che l’ingresso nel governo dei Social Democratici potrebbe garantire la copertura “progressista” necessaria per tenere a freno le tensioni sociali in vista delle misure impopolari che si prospettano anche per la Germania.
Infatti, al di là dei consueti resoconti giornalistici che esaltano le prestazioni economiche della Germania e il basso livello di disoccupazione, la crescita che questo paese è riuscito a mantenere durante questi anni di crisi ha prodotto risultati contraddittori.
Gli ultimi due decenni hanno cioè registrato anche qui un nettissimo aumento delle disuguaglianze sociali e dei livelli di povertà, dovuti in gran parte alle misure che, secondo la versione ufficiale, hanno garantito la crescita economica tedesca.
A tutt’oggi, infatti, quasi un quarto di tutti i lavoratori dipendenti in Germania ha un impiego sottopagato, una percentuale in Europa inferiore soltanto alla Lituania. Dei risultati della “locomotiva” tedesca, perciò, hanno beneficiato quasi esclusivamente i redditi più alti, grazie soprattutto alle “riforme” dello stato sociale e del mercato del lavoro implementate proprio dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder tra il 1998 e il 2005. Difficile che la musica cambi.
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di Mario Lombardo
L’assassinio premeditato avvenuto mercoledì ad Atene del rapper e attivista anti-fascista Pavlos Fyssas ad opera di un membro del partito di estrema destra Alba Dorata (Chrysi Avgi) ha messo in luce in maniera drammatica la crescente audacia di un movimento a lungo ai margini della società greca e oggi sempre più influente grazie a legami con organi dello stato e alla devastazione sociale del paese voluta dagli ambienti finanziari internazionali e dai loro rappresentanti di Bruxelles.
Il 34enne artista hip-hop, noto anche con il nome di Killah P, è stato accoltellato al petto mentre si trovava con un gruppo di amici nel quartiere popolare Keratsini poco dopo essere stato fermato all’uscita di un caffè da una trentina di affiliati ad Alba Dorata.
Secondo alcuni testimoni, dei poliziotti in motocicletta avrebbero assistito all’omicidio, intervenendo però solo dopo che Fyssas è stato colpito e alcuni dei suoi assalitori fuggiti. Questo resoconto dei fatti confermerebbe i rapporti molto stretti e ampiamente documentati tra il partito neo-fascista e le forze di polizia, le quali continuano a garantire una sorta di protezione ai suoi membri frequentemente impegnati in azioni violente. Come aveva rivelato un’indagine seguita alle ultime elezioni greche, oltre la metà degli agenti di polizia del paese ha votato a favore di Alba Dorata.
Gli imbarazzanti legami con Alba Dorata hanno anche probabilmente spinto la polizia a cercare di nascondere l’appartenenza a questo partito del presunto assassino di Fyssas. Alcuni media greci avevano infatti citato esponenti della polizia che sostenevano come l’accusato fosse soltanto un “simpatizzante” di Alba Dorata, anche se il 45enne già finito agli arresti avrebbe ammesso di far parte del movimento e di avere ordinato alla moglie di fare sparire la sua tessera del partito.
La notizia della morte di Fyssas ha scatenato una serie di proteste nelle principali città della Grecia, dove i manifestanti hanno cercato di raggiungere le sedi del partito Alba Dorata prima di essere fermati dalle forze di sicurezza.
I vertici del movimento neo-fascita hanno invece respinto ogni responsabilità, accusando coloro che puntano il dito contro il partito di volere “sfruttare un tragico evento per scopi politici, così da conquistare voti e dividere la società greca”.Le principali forze politiche del paese, da parte loro, hanno rilasciato dure dichiarazioni di condanna nei confronti di Alba Dorata, mentre il ministro per l’Ordine Pubblico, Nikos Dendias, ha cancellato un viaggio all’estero per sottoporre al governo la proposta di una legge di emergenza che metterebbe fuori legge il partito entrato in Parlamento per la prima volta dopo le elezioni dello scorso mese di giugno.
Nella giornata di giovedì ha parlato pubblicamente anche il primo ministro conservatore, Antonis Samaras, il quale ha affermato che il suo governo “non permetterà agli eredi del nazismo di destabilizzare la Grecia”.
Con una buona dose di ipocrisia per un capo di governo che ha presieduto alla devastazione sociale del proprio paese imponendo misure semi-dittatoriali, il premier ha poi assicurato che “la democrazia è molto più forte di quanto credano i suoi nemici”.
Ancora più grottesca è stata la presa di posizione dell’Unione Europea, con il Consiglio d’Europa che, ad esempio, ha espresso la propria preoccupazione per l’avanzata dell’estremismo in Grecia e nel resto dell’Europa.
L’atmosfera sociale esplosiva in cui versa la Grecia, nella quale l’estrema destra ha trovato terreno fertile per proporsi come una delle principali forze politiche del paese, è infatti la diretta conseguenza delle misure anti-sociali prescritte ad Atene.
Di fronte alla rabbia popolare esplosa per l’assassinio di Fyssas, in ogni caso, la polizia si è vista costretta a prendere provvedimenti. Alcuni uffici di Alba Dorata in varie località del paese sono stati così perquisiti, mentre giovedì il quotidiano Ekathimerini ha riportato l’arresto di un ex autista e guardia del corpo del leader del partito, Nikos Michaloliakos, il quale deteneva svariate armi nella propria abitazione di Atene.
Al di là delle dichiarazioni di questi giorni, qualsiasi misura dovesse essere adottata dal governo contro Alba Dorata, per quato auspicabile, servirebbe in primo luogo ad occultare le responsabilità dei principali partiti greci nella sua ascesa e, oltretutto, l’implementazione di un eventuale bando ai danni del partito di estrema destra sarebbe tutt’altro che garantita visto che spetterebbe ad una polizia che ha finora in buona parte appoggiato e, di fatto, protetto i suoi membri.
È inoltre tutt’altro che da escludere anche la possibilità che l’establishment politico di Atene possa usare nel prossimo futuro l’annunciata legge di emergenza per colpire movimenti e partiti di “estrema sinistra”, considerati come minacce alla stabilità dello stato in un frangente storico caratterizzato da crescenti tensioni sociali.L’assassinio di Fyssas ha comunque rappresentato uno shock per la Grecia nonostante la risaputa aggressività e il ricorso alla violenza dei membri di Alba Dorata. Questo partito - che detiene attualmente 18 seggi in Parlamento - aveva finora preso di mira sia retoricamente che fisicamente soprattutto gli immigrati che vivono sul territorio greco, così che l’assassinio politico di mercoledì nella capitale è apparso come un preoccupante cambio di passo della strategia neo-fascista.
Oltre ad avere avuto la possibilità di proporsi come unica forza alternativa al servilismo mostrato dai principali partiti greci nei confronti delle istituzioni europee e delle grandi banche, l’avanzata negli ultimi anni di Alba Dorata - come ad esempio del Fronte Nazionale in Francia - è stata favorita anche dall’appello alle forze più retrograde e reazionarie della società greca da parte degli stessi leader politici impegnati nell’applicare rovinose e impopolari misure di austerity.
La promozione del razzismo e della xenofobia ha infatti trovato ampio spazio nel vocabolario politico degli ultimi governi di Atene, intenzionati come nel resto d’Europa a sfruttare questi sentimenti per distogliere l’attenzione della popolazione dalle politiche di classe ordinate da Bruxelles e per cercare di neutralizzare sul nascere qualsiasi reale opposizione organizzata nel paese.
In questo clima, l’intolleranza e l’estremismo fascista di Alba Dorata hanno perciò raccolto consensi tra una parte degli elettori più disorientanti, consentendo al partito di trovare spazio all’interno del panorama politico con conseguenze drammatiche come quelle a cui tutta la Grecia ha assistito nella giornata di mercoledì in seguito al brutale assassinio di Pavlos Fyssas nelle strade di Atene.
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di Michele Paris
La disputa attorno alle elezioni generali in Cambogia del 28 luglio scorso continua a pesare sulle sorti del paese del sud-est asiatico anche dopo i colloqui dei giorni scorsi tra il primo ministro, Hun Sen, e il leader dell’opposizione, Sam Rainsy. Pur avendo fatto segnare una netta flessione, il partito al potere - Partito Popolare Cambogiano (CPP) - è riuscito a conservare la maggioranza in Parlamento, ma le accuse di brogli e irregolarità hanno dato vita a manifestazioni di protesta e richieste di riforma in un paese ancora fermamente situato nell’orbita di Pechino ma sempre più esposto agli approcci degli Stati Uniti nel quadro della cosiddetta “svolta” asiatica pianificata dall’amministrazione Obama in funzione anti-cinese.
I dati ufficiali resi noti solo l’8 settembre scorso dalla Commissione Elettorale Nazionale hanno sostanzialmente confermato quelli provvisori diffusi nel mese di agosto. Il CPP ha cioè conquistato 68 dei 123 seggi dell’Assemblea Nazionale cambogiana, mentre il Partito della Salvezza Nazionale (CNRP) dell’ex ministro delle Finanze Rainsy si sarebbe fermato a 55.
Quest’ultimo e i suoi sostenitori avevano subito contestato i risultati, affermando che le urne, se le operazioni di voto fossero state regolari, avrebbero dovuto premiare il CNRP con almeno 63 seggi, sufficienti a conquistare la maggioranza assoluta e a rimuovere dal potere il CPP - o il suo predecessore, il Partito Rivoluzionario del Popolo Kampucheano - per la prima volta dalla fine del regime di Pol Pot e dei Khmer Rossi.
I ricorsi presentati da Rainsy, tuttavia, sono stati respinti sia dalla Commissione Elettorale che dalla Corte Costituzionale, due organi peraltro composti da fedelissimi del premier. Irregolarità nelle operazioni di voto sono state in realtà riscontrate ma non tali da giustificare l’annullamento del voto o da confermare i risultati proposti dall’opposizione.
Le proteste di piazza scoppiate dopo il voto si sono così intensificate nei giorni scorsi fino a sfociare in scontri violenti tra i manifestanti e la polizia. Nella giornata di domenica, si sono contati cinque feriti e un morto nella capitale, Phnom Penh, mentre le manifestazioni sono proseguite in maniera relativamente pacifica fino a martedì.
Già sabato scorso, tuttavia, Hun Sen e Sam Rainsy erano stati ricevuti dal capo nominale dello stato cambogiano, il re Norodom Sihamoni, il quale aveva invitato i due leader politici a superare i propri disaccordi e i deputati dell’opposizione a lasciar cadere la loro minaccia di boicottare l’inaugurazione dei lavori della nuova Assemblea Nazionale prevista per il 23 settembre prossimo.
Come già anticipato, Hun Sen e Rainsy si sono poi incontrati lunedì e martedì ma senza risultati significativi se non il raggiungimento di un vago accordo per riformare la Commissione Elettorale. Il primo ministro, invece, non ha accolto la richiesta principale dell’opposizione, cioè l’avvio di un’inchiesta indipendente - oppure condotta dalle Nazioni Unite - sulla regolarità delle elezioni di fine luglio.
Presentatosi martedì di fronte a circa 20 mila sostenitori a Phnom Penh, Rainsy ha ammesso che le trattative si sono risolte in un nulla di fatto ma ha minacciato nuove manifestazioni nel caso il Parlamento venisse convocato senza un accordo sulle discusse elezioni. Sempre possibile sarebbe infine anche il boicottaggio dell’Assemblea Nazionale, nonostante i tentativi di sventare questa ipotesi da parte del sovrano.Se Hun Sen non sembra finora intenzionato a cedere terreno e continua così a dare l’impressione di volere trattare da una posizione di forza, sono in molti a pensare che il premier finirà per fare più di una concessione all’opposizione, soprattutto nel caso le proteste di piazza dovessero riprendere o diffondersi dalla capitale al resto del paese.
Già l’avere accettato di trattare con i leader dell’opposizione rappresenta d’altra parte una sorta di novità per lo stile di governo autoritario dell’ex ufficiale dei Khmer Rossi, fuggito in Vietnam nel 1977 per sottrarsi ad una purga interna al regime e successivamente installato al potere dall’esercito di quest’ultimo paese dopo l’invasione della Cambogia nel 1979 che pose fine alla dittatura di Pol Pot.
Il risultato della quinta elezione multipartitica in Cambogia dal 1993 è stato comunque estremamente negativo per il CPP, il quale ha perso ben 22 seggi rispetto al voto del 2008, vinto a valanga contro un’opposizione frammentata.
Quest’ultima, nella tornata elettorale di luglio ha invece beneficiato della fusione tra il Partito dei Diritti Umani dell’attivista Kem Sokha e del Partito Sam Rainsy, ma soprattutto ha cavalcato sapientemente il malcontento ampiamente diffuso in Cambogia per gli elevati livelli di povertà e disoccupazione, le crescenti disparità sociali, la corruzione endemica e, negli ultimi tempi, le sempre più frequenti concessioni terriere garantite spesso arbitrariamente agli investitori stranieri.
Sam Rainsy, inoltre, ha goduto di una certa popolarità dopo essere stato accolto trionfalmente dai suoi sostenitori quando lo scorso mese di luglio era tornato in patria grazie ad un provvedimento di clemenza del re cambogiano. Questa misura del sovrano aveva messo fine ad un esilio volontario per sfuggire ad una serie di condanne, a detta di Rainsy, politicamente motivate. La grazia nei suoi confronti era stata con ogni probabilità decisa dallo stesso premier Hun Sen il quale, per il timore delle crescente tensioni sociali, aveva acconsentito al suo ritorno nel paese alla vigilia delle elezioni.
Già dirigente di svariati istituti finanziari in Francia prima del suo ritorno in Cambogia nel 1992, Rainsy non ha però potuto candidarsi per le elezioni concluse qualche settimana fa ma ha comunque condotto una breve e aggressiva campagna elettorale, fatta spesso di invettive anti-cinesi e anti-vietnamite.
Se il suo partito ha saputo trovare il gradimento soprattutto di buona parte degli elettori più giovani e sfiduciati, le politiche economiche proposte da Rainsy non si discostano particolarmente da quelle di Hun Sen. Per entrambi, infatti, la Cambogia deve continuare ad attrarre il capitale straniero attraverso la messa a disposizione di manodopera indigena a costi irrisori.Se, però, Hun Sen e il CPP sono stati finora fedeli alleati della Cina, le inclinazioni di Rainsy e del CNRP risultano essere decisamente filo-occidentali, come dimostrano gli appelli lanciati agli Stati Uniti e all’Europa per sostenere la loro battaglia volta a ribaltare l’esito del voto di luglio.
Gli Stati Uniti, da parte loro, non hanno nascosto negli ultimi anni la volontà di stabilire rapporti cordiali con il governo di Phnom Penh e Washington ha trovato in Hun Sen un interlocutore disponibile a valutare un possibile graduale sganciamento da Pechino, così da bilanciare la propria politica estera tra le prime due economie del pianeta, secondo alcuni sull’esempio del percorso intrapreso dalla ex Birmania (Myanmar).
L’amministrazione Obama, in particolare, nel quadro della nuova strategia asiatica messa in atto per contenere l’espansionismo di Pechino, ha rivolto la propria attenzione anche alla Cambogia, con cui la cooperazione militare era stata avviata già nel 2006. Gli aiuti economici destinati a questo paese sono così aumentati sensibilmente negli ultimi anni, mentre a suggellare la fase ascendente dei rapporti diplomatici bilaterali nel novembre del 2012 Barack Obama è diventato il primo presidente americano in carica a recarsi in visita ufficiale in Cambogia.
Sul fronte delle elezioni, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno per ora mantenuto una posizione cauta, verosimilmente in attesa di verificare gli sviluppi della situazione. La settimana scorsa, ad esempio, una portavoce del Dipartimento di Stato si era limitata a chiedere una “revisione trasparente” delle presunte irregolarità del voto, senza però appoggiare le proteste dell’opposizione.
La circospezione dell’amministrazione Obama non esclude in ogni caso il favore di Washington per un rafforzamento del partito filo-occidentale di Rainsy, anche se il sostanziale silenzio in relazione ai presunti brogli rivela allo stesso tempo una certa soddisfazione per i rapporti stabiliti con l’attuale regime, nonché la fiducia nella possibilità di allentare comunque il legame tra la Cambogia e la Cina in un futuro non troppo lontano.