di Michele Paris

I governi di Stati Uniti e Afghanistan sembrano avere fatto nei giorni scorsi un significativo passo avanti verso la stipula di un sofferto accordo militare bilaterale per mantenere un numero significativo di truppe americane sul territorio del paese centro-asiatico dopo il ritiro della maggior parte delle forze di occupazione NATO alla fine del 2014.

L’annuncio di una bozza preliminare di accordo è stato fatto nello scorso fine settimana, in seguito a due giorni di serrate discussioni tra il presidente afgano, Hamid Karzai, e il segretario di Stato americano, John Kerry. La stesura di un testo definitivo approvato da entrambe le parti appare però ancora relativamente lontana e dipenderà, in sostanza, dal grado in cui Washington e Kabul riusciranno a superare o a resistere la diffusa ostilità tra la popolazione locale per una presenza statunitense continuata in Afghanistan.

Secondo quanto riferito alla stampa dai diplomatici americani, il documento su cui Kerry e Karzai avrebbero raggiunto un’intesa di massima dovrà essere sottoposto ad un processo di revisione legale negli Stati Uniti, anche se l’amministrazione Obama vorrebbe mandare in porto l’accordo definitivo già entro la fine di ottobre.

Le maggiori preoccupazioni riguardano tuttavia l’approvazione dell’accordo da parte di un’assemblea tradizionale di leader tribali afgani (“Loya Jirga”) a cui Karzai intende rivolgersi per dare una qualche legittimità ad una misura tutt’altro che gradita alla popolazione e che perpetuerebbe per molti anni la presenza militare americana nel paese.

In particolare, uno dei punti più controversi risulta essere l’immunità legale da assicurare ai militari statunitensi dispiegati sul territorio afgano e su cui le autorità di Washington appaiono irremovibili. Lo stesso Kerry è stato infatti estremamente chiaro, affermando che, “se la questione della giurisdizione [immunità] non dovesse essere risolta, purtroppo non ci sarà alcun accordo bilaterale”.

Dal momento che un’occupazione come quella in corso da oltre un decennio in Afghanistan contro il volere della maggioranza della popolazione richiede il ricorso a metodi brutali - evidenziati dagli innumerevoli crimini commessi dai militari stranieri in questi anni - la richiesta di giudicare negli Stati Uniti coloro che violano le leggi locali è una condizione imprescindibile per qualsiasi accordo con Kabul.

Sulle trattative pesa anche il precedente dell’Iraq del 2011, quando la mancata intesa con il governo Maliki sulla stessa questione dell’immunità contribuì a far naufragare le trattative per la permanenza indefinita nel paese che fu di Saddam Hussein di un contingente militare americano dopo il ritiro previsto per la fine di quell’anno.

Un’altra disputa che sta complicando i negoziati tra Washington e Kabul è poi quella legata alle operazioni “anti-terrorismo” condotte dalle forze speciali americane e che si risolvono puntualmente in un motivo di imbarazzo per il governo afgano. Queste operazioni sono profondamente avversate dalla popolazione, visto che consistono spesso in assalti notturni ad abitazioni private con “danni collaterali” di civili tutt’altro che trascurabili.

Sulle operazioni delle forze speciali a stelle e strisce, le quali mettono in discussione anche la sovranità stessa dello stato afgano, Karzai ha spesso dovuto esprimere pubblicamente la propria condanna nei confronti degli Stati Uniti. La delicatezza della questione è apparsa evidente ancora una volta proprio nel fine settimana, quando gli americani hanno “catturato” in territorio afgano un leader dei Talebani pakistani - Latif Mehsud - mentre era sotto custodia proprio del governo di Kabul.

In definitiva, Karzai si ritrova a dover cercare a tutti i costi di finalizzare un accordo militare con gli Stati Uniti di fronte alle resistenze manifestate contro di esso dalla maggioranza degli afgani poiché dalla presenza a lungo termine delle forze di occupazione dipende la sua permanenza al potere e quella della sua cerchia familiare. Anche se non potrà ricandidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo mese di aprile, Karzai ha comunque bisogno del sostegno e della presenza americana per garantire un passaggio di consegne indolore ad un futuro presidente di sua scelta.

La classe dirigente afgana, più in generale, vede con favore la prosecuzione dell’occupazione americana, non solo perché deve a Washington la propria posizione di privilegio ma soprattutto perché la situazione della sicurezza nel paese asiatico è tornata a deteriorarsi negli ultimi tempi. Le forze di sicurezza locali non sono infatti in grado di operare autonomamente e un eventuale abbandono dell’Afghanistan da parte del contingente NATO riporterebbe con ogni probabilità al potere i Talebani, con i quali oltretutto il complicato processo di pacificazione ha subito una nuova battuta d’arresto dopo l’ennesimo annuncio dell’apertura del dialogo qualche settimana fa.

Allo stesso tempo, Karzai è ben consapevole che la presenza di una forza occupante in Afghanistan contribuisce ad alimentare l’instabilità e le tensioni nel paese. Come ha spiegato in un’intervista al Wall Street Journal nel fine settimana Shahmahmood Miakhel, responsabile per l’Afghanistan del think tank di Washington U.S. Institute for Peace, Karzai perciò “vuole il trattato bilaterale sulla sicurezza ma non ne vuole la responsabilità”.

Anche per questa ragione, Karzai ha deciso di sottoporre la questione ad un’assemblea tribale che, però, non rappresenta tanto il volere della popolazione quanto i leader locali afgani, spesso fedeli allo stesso presidente e comunque esposti alle pressioni e alle promesse del governo centrale, soprattutto in vista delle elezioni della prossima primavera.

In ogni caso, questa sorta di prova di democrazia tribale per decidere il futuro dell’accordo bilaterale con Washington dovrebbe tenersi entro un mese e ad essa parteciperà qualche centinaia di persone, una parte delle quali hanno già approvato negli ultimi anni svariate iniziative del presidente Karzai, compresa la sua elezione alla guida del paese nel 2002.

di Emanuela Muzzi

Londra. Qui la chiamano "royal charter". E’ un decreto legge sulla regolamentazione dei quotidiani inglesi, ma il senso, nonostante il fascino del sound anglosassone, resta sempre quello: legge bavaglio. Il voto sul disegno di legge che propone l’introduzione di un’autorità di controllo sull’autoregolamentazione della carta stampata, è atteso per il prossimo 30 Ottobre. Nel frattempo la polemica impazza e sconfina nei blog: nel piovoso weekend i giornalisti inglesi si sono chiusi in casa a twittare contro la “press regulation”.

Il vento freddo che spiffera dalle porte dell’inverno ha portato con sé la brutta notizia della bozza in arrivo. Una proposta “tripartisan” sottoscritta di buon grado dai tre leader di partito; il Premier David Cameron (Conservatori), il vice premier Nick Clegg (Liberal Democratici, partito di coalizione), ed il leader dell’opposizione Ed Miliband (Labour). Mai visti i tre così sorridenti, d’amore e d’accordo: del resto, quando si tratta di dare a stampa e giornalisti il “giusto ed etico codice di condotta” non si tirano indietro. Nel caso venisse approvata, la legge potrebbe anche subire degli emendamenti approvati con i tre quarti dei voti sia ai Lords che ai Comuni.

Background: l’esigenza di imporre una forma di "press regulation" risale allo scandalo “phone hackings”, quelle che chiameremmo volgarmente intercettazioni: i “giornalisti” di News of the World e testate affini (come il The Sun tra gli altri) di proprietà di Rupert Murdoch, hanno fatto per anni un uso sicuramente non etico e poco limitato di piccoli dispositivi sensibili al suono, dimenticandosi di avvertire centinaia di vittime - come ad esempio i genitori della bimba scomparsa Madeleine McCann, fino a Prince William - che i loro telefoni, segreterie telefoniche, cellulari e così via erano costantemente monitorati da giornalisti, e in nei casi più gravi, anche da Scotland Yard.

Con l’ammissione da parte dei giornalisti dell’allora The News of the World di aver intercettato il telefono dell’adolescente inglese Milly Dowler nel lasso di tempo tra il rapimento e l’assassinio, nel 2002, si è infine toccato il fondo: è un punto di non ritorno, una pagina nera della storia del giornalismo.

Il phone hacking scandal era finito su tutti i giornali, anche su quelli di Murdoch: la faccia rugosa del patron di Sky e la chioma rossa al vento della ex executive di News International, Rebekah Brooks, hanno tenuto banco dalla prima pagina del Financial Times. Sulla fonte privilegiata della finanza anglosassone ed internazionale si approfondiva l’ipotesi del tentativo da parte del governo inglese di evitare tramite la Leveson Inquiry l’offerta di acquisto da parte di Murdoch su BskyB per impedirgli di acquisire una posizione di monopolio sui media britannici.

La notizia campeggiava però fino sulle pagine patinate di Vogue, dove chi voleva sapere se Hugh Grant mentre protestava a squarciagola contro il phone hacking di fronte al Parlamento avesse perso qualche chilo, poteva trovare soddisfazione.

Il Gran Finale: i protagonisti sono, quasi tutti, finiti sul banco degli imputati di fronte al giudice Leveson. Sì, gli arresti ci sono stati, i Murdoch hanno subito un parziale ridimensionamento dell’impero con un danno d’immagine fino alla seconda generazione: in seguito all’inchiesta James Murdoch aveva lasciato al poltrona di Ceo del gruppo NGN News Group Newspapers, la holding che controlla il Sun e il Times.

Ma tutto questo a Westminster oggi non basta; bisogna estirpare la mala erba dalla radice: ci vuole legge che regoli il Quarto potere, ma che sia applicabile a tutta la stampa e non solo ai responsabili che hanno ridotto ruolo, prassi e contenuti del giornalismo, nonché la figura del giornalista, al livello dei dilettanti di X Factor e degli “zori” del Grande Fratello.

Un giornalismo d’intrattenimento e di consumo mutuato dal modello televisivo di Sky e sconfinato sui quotidiani che pagina dopo pagina rincorrono a fatica il nonsense delle news minuto per minuto. Questi sono i danni che ancora paghiamo nell’era post-Murdoch.

Lo scenario: Fare una regolamentazione ad hoc non è possibile del resto, né nel Regno Unito né altrove e certamente ogni forma di regolamentazione non deve certo venire dal Parlamento e dall’establishment. Va detto che un codice etico del giornalismo già esiste ed una chiara legge sulle intercettazioni è già in vigore in Inghilterra. La parola resta ai gruppi editoriali dei quotidiani che sono comunque chiamati a sottoscrivere la "royal charter". Sembra che non siano intenzionati a farlo.

Bob Satchwell, a capo della Società degli editori (che include anche televisioni e radio britanniche) ha rivendicato l’indipendenza della stampa; tuona dagli schermi della BBC con una voce degli anni Cinquanta che è un tuffo nel passato delle democrazie post Seconda Guerra. Quando tutto, anche i diritti fondamentali, era da ricostruire.

di Michele Paris

Con l’inizio di questa settimana si è aperto negli Stati Uniti il nuovo anno giudiziario della Corte Suprema che, come nei due precedenti, finirà per valutare ed eventualmente deliberare su una serie di importanti questioni costituzionali emerse durante i dibattimenti nei tribunali inferiori. Come è ormai consueto per la Corte guidata da otto anni dal giudice capo (“chief justice”), John Roberts, i prossimi mesi vedranno con ogni probabilità una serie di sentenze in gran parte destinate a comprimere i diritti democratici individuali e a promuovere gli interessi delle corporations e delle classi privilegiate.

Il caso sul quale potrebbe concentrarsi la maggiore attenzione mediatica riguarda i limiti delle donazioni che singoli individui possono elargire ai candidati a pubblici uffici e che minaccia di abbattere definitivamente i limiti imposti per legge alla quantità di denaro destinata alle campagne elettorali dei politici americani.

La Corte Suprema aveva già affrontato questo tema nel 2010 con la storica sentenza nel caso “Citizens United contro Commissione Elettorale Federale”, nella quale era stato cancellato il tetto massimo dei contributi a favore di gruppi o associazioni che sostengono determinati candidati, purché le loro campagne non vengano coordinate con questi ultimi.

Nel nuovo caso che il tribunale ha iniziato a discutere già martedì - “McCutcheon contro Commissione Elettorale Federale” - in pericolo è invece il limite stabilito per le donazioni dirette ai candidati e ai partiti, basato a sua volta su un verdetto della Corte Suprema del 1976 (“Buckley contro Valeo”). L’appello era scaturito da una causa intentata da un uomo d’affari dell’Alabama (Shaun McCutcheon) che riteneva incostituzionale, perché lesivo del diritto di espressione, il tetto di 123 mila dollari che ogni singolo donatore può versare complessivamente a candidati per cariche federali in un periodo di due anni.

L’attuale Corte a maggioranza conservatrice, secondo gli osservatori, appare decisamente propensa ad abbattere una delle residue barriere alla totale influenza del denaro sulla vita politica americana e, per raggiungere questo obiettivo, potenti forze politiche si sono già attivate, come dimostra l’intervento a favore della cancellazione di ogni limite alle donazioni fatto di fronte ai nove giudici supremi nella giornata di martedì da un legale del leader di minoranza al Senato, il repubblicano Mitch McConnell.

All’attenzione del supremo tribunale degli Stati Uniti arriverà poi anche un altro caso di estrema rilevanza e con il potenziale di ridefinire alcuni dei poteri attribuiti al presidente (“National Labor Relations Board contro Noel Canning”). La questione verte attorno alla facoltà degli inquilini della Casa Bianca di nominare membri del governo o di agenzie governative senza il voto costituzionalmente richiesto del Senato.

Il presidente, in realtà, è autorizzato a fare i cosiddetti “recess appointments” quando il Senato non è riunito ma queste nomine, per risultare definitive, devono essere confermate da un voto della stessa camera alta del Congresso entro la fine della sessione successiva. Anche in questo caso, l’appello alla Corte Suprema è stato promosso dagli ambienti di destra negli Stati Uniti in seguito alla nomina da parte di Obama di alcuni membri del National Labor Relations Board - l’agenzia governativa che dovrebbe contrastare le pratiche illegali messe in atto contro i lavoratori dalle aziende - in un periodo in cui il Senato non era in sessione, così da superare l’ostruzionismo repubblicano.

La scottante questione dell’aborto potrebbe inoltre essere affrontata dai giudici della Corte Suprema, i quali si ritroveranno a decidere sull’ammissibilità di due casi: “McCullen contro Coakley” e “Cline contro Oklahoma Coalition for Reproductive Justice”. Il primo riguarda la costituzionalità di una legge dello stato del Massachusetts - simile ad un’altra del Colorado ritenuta legittima dalla Corte Suprema nel 2000 - che limita le manifestazioni di protesta nei pressi di strutture mediche che praticano le interruzioni di gravidanza, mentre il secondo ha a che fare con la facoltà dei singoli stati di restringere il ricorso a medicinali che inducono l’aborto.

Il diritto all’aborto, sancito con la storica sentenza “Roe contro Wade” del 1973, è sotto attacco ormai da alcuni anni negli Stati Uniti, soprattutto a livello statale con provvedimenti messi in atto da amministrazioni repubblicane che, ad esempio, stanno imponendo regolamentazioni difficili da rispettare per le cliniche mediche o riducono drasticamente il numero di settimane di gravidanza oltre le quali l’aborto viene dichiarato illegale.

In molti tra gli anti-abortisti americani spingono però per portare la questione all’attenzione della Corte Suprema, nella speranza che lo spostamento a destra del tribunale durante la presidenza Roberts possa quanto meno gettare le basi per un futuro smantellamento del diritto stabilito con la già ricordata sentenza del 1973.

Dopo la sostanziale conferma della legittimità della “riforma” sanitaria di Obama durante l’anno giudiziario appena terminato, la Corte Suprema potrebbe tornare ad occuparsi di questo argomento, questa volta per valutare un aspetto caro all’integralismo religioso d’oltreoceano. Ribaltando il senso stesso del dettato costituzionale - che stabilisce la laicità della repubblica - sulla base della libertà di religione, coloro che promuovono il caso in questione vorrebbero vedere abolito l’obbligo previsto dalla “riforma” sanitaria che le aziende americane hanno di includere la fornitura di contraccettivi all’interno dei piani di assicurazione offerti ai loro dipendenti.

La laicità delle istituzioni civili sarà in gioco anche nel caso “Città di Greece contro Galloway”, nel quale i nove giudici potrebbero considerare la pratica delle autorità della località dello stato di New York di iniziare ogni assemblea pubblica con una preghiera religiosa.

Tra i numerosissimi casi che la Corte Suprema dovrà decidere se discutere o meno ce n’è infine uno che potrebbe assestare un ulteriore colpo al diritto alla privacy negli Stati Uniti. In “Stati Uniti contro Wurie”, infatti, verrà valutato se il Quarto Emendamento della Costituzione consente alla polizia di esaminare senza l’autorizzazione di un tribunale il contenuto del telefono cellulare di una persona arrestata legalmente.

Sull’esito delle cause che verranno discusse, infine, peserà l’orientamento sempre più conservatore e pro-business dell’attuale Corte Suprema, in particolare in seguito alla nomina da parte di George W. Bush del giudice Samuel Alito nel 2006 al posto della moderata Sandra Day O’Connor. Gli equilibri interni, però, nella maggior parte dei casi più delicati continuano ad essere decisi dal cosiddetto “swing justice” Anthony Kennedy, il quale si schiera alternativamente con i quattro giudici moderati (Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor, Elena Kagan) o, sempre più spesso, con i quattro ultra-conservatori (Roberts, Alito, Clarence Thomas, Antonin Scalia).

I casi che la Corte Suprema deciderà di discutere nei prossimi mesi saranno comunque come di consueto soltanto alcune decine sulle migliaia che vengono sottoposti alla sua attenzione e i criteri di selezione risponderanno sempre più a ragioni di ordine politico, dettate in gran parte dall’agenda conservatrice della maggioranza dei giudici che fanno parte del più alto tribunale degli Stati Uniti d’America.

di Michele Paris

Pur senza particolare entusiasmo, nella giornata di mercoledì il presidente Obama ha nominato ufficialmente l’economista Janet Yellen alla guida della Federal Reserve degli Stati Uniti. L’attuale vice del presidente uscente, Ben Bernanke, non ha infatti legami particolarmente solidi con l’amministrazione democratica ma era recentemente diventata l’unica candidata per dirigere la Banca Centrale più influente del pianeta in seguito al ritiro di Larry Summers.

Jenet Jellen, 67enne nativa di Brooklyn, dopo gli studi in economia a Yale,  ha insegnato all’università di Berkeley per un decennio prima di entrare a far parte, nel 1994, del consiglio direttivo della Fed. Nel 1997 lasciò quest’ultimo incarico per diventare la prima consigliera economica del presidente Clinton, mentre a partire dal 2004 ha guidato la sede della Banca Centrale americana di San Francisco per poi essere promossa, nel 2010, all’incarico attualmente ricoperto che l’ha infine proiettata verso la presidenza di quella che viene universalmente considerata come l’istituzione finanziaria più importante del pianeta.

Il naufragio della candidatura di Summers é stato la diretta conseguenza dei malumori espressi dalle banche di Wall Street nelle ultime settimane per il possibile ritiro in tempi brevi delle misure di “stimolo” all’economia che il controverso segretario al Tesoro durante l’amministrazione Clinton si era permesso di ipotizzare.

Janet Yellen è considerata invece una degli architetti dell’aggressiva politica monetaria messa in atto dalla Fed di Bernanke da qualche tempo a questa parte (“quantitative easing”) e fondata principalmente su tassi di interessi prossimi allo zero e sull’immissione nei mercati finanziari di liquidità pari a 85 miliardi di dollari al mese tramite l’acquisto di bond.

Questa strategia, secondo la versione ufficiale, dovrebbe servire a stimolare la crescita economica e a ridurre il livello di disoccupazione ma si risolve in realtà in una promozione della speculazione finanziaria, come dimostra la crescita artificiosa dei mercati con il rischio di una nuova bolla pronta ad esplodere nel prossimo futuro. Se confermata dal Senato, colei che dovrebbe diventare la prima donna a capo della Banca Centrale di una delle prime economie del pianeta, garantirà dunque quasi certamente la prosecuzione del “quantitative easing” gradito da Wall Street.

Per questo motivo, sia i democratici che alcuni repubblicani stanno già esprimendo il loro gradimento per la scelta di Obama, facendo intravedere perciò un processo di conferma tutt’altro che faticoso. Molti compagni di partito del presidente, d’altra parte, avevano manifestato durante l’estate la loro opposizione alla candidatura di Summers, ufficialmente per il suo coinvolgimento durante l’amministrazione Clinton nel processo di deregolamentazione dell’industria finanziaria, spianando di fatto la strada a Janet Yellen.

Obama, da parte sua, facendo cinicamente riferimento alle credenziali “liberal” della neo-nominata alla presidenza della Fed, nel dare l’annuncio della sua decisione ha definito la Yellen come “una campionessa delle famiglie e dei lavoratori americani”, quando la scelta è stata determinata invece dalle pressioni fatte più o meno apertamente dai colossi finanziari di Wall Street, spaventati per le conseguenze di un eventuale rallentamento delle misure di “stimolo” di cui essi stanno ampiamente beneficiando.

Come già anticipato, inoltre, i senatori democratici appaiono entusiasti per la scelta di Janet Yellen, tanto che qualche settimana fa una ventina di loro aveva preso un’iniziativa insolita a favore di quest’ultima, inviando cioè una lettera a Obama per chiedergli di optare per la vice di Bernanke alla guida della Fed.

Con l’ormai quasi certezza della nomina di Janet Yellen, così, già martedì gli indici di borsa avevano fatto segnare sensibili rialzi, anche se i segni negativi sono riapparsi in fretta per l’effetto dello stallo al Congresso sul bilancio federale e l’innalzamento del tetto del debito pubblico.

Sulla sponda repubblicana sembra esserci maggiore freddezza, in particolare per il timore che l’aggressiva politica monetaria messa in atto in questi anni possa far risalire i livelli di inflazione e riesplodere una rovinosa bolla speculativa. L’approvazione per la Yellen mostrata da Wall Street, tuttavia, dovrebbe garantirle l’ottenimento dei 60 voti al Senato necessari per farla succedere al suo attuale superiore a partire dal primo febbraio prossimo. Se così sarà, Janet Yellen sarà la prima presidente della Fed installata da un presidente democratico dal 1979, quando Jimmy Carter scelse Paul Volcker.

di Michele Paris

Mentre la chiusura degli uffici governativi americani entra martedì nella seconda settimana, a Washington non sembra essere in vista nessun accordo tra democratici e repubblicani sull’approvazione del bilancio federale che metta fine al cosiddetto “shutdown”. Anzi, l’impasse attuale appare destinata sempre più a confluire in un’altra questione controversa e ancora più delicata, cioè quella dell’innalzamento del livello del debito pubblico che dovrà essere autorizzato poco dopo la metà di ottobre per evitare il primo clamoroso default della storia degli Stati Uniti.

A respingere ogni ipotesi di sbloccare la situazione con un pacchetto di emergenza per finanziare il governo almeno per alcune settimane è stato nel fine settimana lo speaker della Camera dei Rappresentanti, John Boehner. Apparso domenica sulla ABC, il leader repubblicano ha ribadito la posizione dell’ala più conservatrice del suo partito, la quale è disponibile a dare il via libera al bilancio 2013/2014 solo in cambio di consistenti concessioni da parte democratica che limitino l’entrata in vigore della “riforma” sanitaria di Obama.

La battaglia condotta dai deputati repubblicani vicini ai Tea Party non è in realtà condivisa da tutto il partito, all’interno del quale sono in molti a temere le ripercussioni politiche causate dalle responsabilità per la paralisi del governo iniziata ufficialmente alla mezzanotte di martedì scorso.

Non pochi tra gli stessi repubblicani, infatti, vorrebbero che Boehner mettesse in calendario un voto alla Camera per approvare il bilancio licenziato dal Senato senza emendamenti relativi alla “riforma” sanitaria, poiché certi che esista una maggioranza trasversale. Il deputato di New York, Peter King, lo ha ad esempio confermato domenica alla stampa USA, rivelando che i repubblicani disposti a rompere con i compagni di partito più intransigenti sarebbero tra i 50 e i 75, se non addirittura 150 in caso di voto segreto. Numeri simili, sommati ai deputati democratici, consentirebbero il passaggio senza difficoltà del nuovo bilancio secondo la versione già approvata dal Senato.

Boehner, tuttavia, continua ad affermare il contrario e, in ogni caso, ha ribadito di non volere portare in aula un provvedimento di questo genere, rimanendo per ora sulla linea dei suoi colleghi conservatori, verosimilmente per non danneggiare ulteriormente la sua leadership con nuovi attacchi dalla destra del partito.

Mostrando un ulteriore irrigidimento della propria posizione, Boehner ha inoltre confermato che la Camera non approverà nemmeno l’innalzamento del tetto del debito federale senza concessioni da parte della Casa Bianca e dei democratici al Congresso. Con un cambiamento di strategia estremamente significativo, lo speaker ha però lasciato intendere che l’obiettivo repubblicano in questo caso non sarà tanto la “riforma” sanitaria, bensì programmi pubblici come Medicare e Social Security.

Dal momento che l’amministrazione Obama ha mostrato una totale chiusura sulla legge del 2010 destinata a tagliare i costi, la quantità e la qualità dei servizi sanitari negli Stati Uniti, i due partiti potrebbero così accordarsi sulla riduzione della spesa pubblica, attorno alla quale i democratici continuano a mostrare più di un’apertura.

La necessità di intervenire per rendere “sostenibili” sia i programmi di assistenza sanitaria destinati agli americani più anziani che l’insieme di benefit di cui godono i pensionati, è stata perciò ripetuta da Boehner nella giornata di domenica, quando contemporaneamente il segretario al Tesoro, Jacob Lew, ha confermato la disponibilità del presidente democratico a trattare con i repubblicani su questi temi.

Nel linguaggio della politica di Washington, com’è ovvio, la garanzia della “sostenibilità” di questi popolari programmi pubblici nel lungo periodo si traduce in tagli sostanziali che ne alterino la natura stessa o nel restringerne drasticamente l’accesso. Il tutto, come ha tenuto a spiegare lo stesso Boehner, senza concedere in cambio alcun aumento del carico fiscale per i redditi più elevati.

Ciò che i democratici proporranno nelle trattative sul tetto del debito - il cui sforamento è previsto per il 17 ottobre - sarà invece una sorta di riforma fiscale, che dovrebbe concretizzarsi in una riduzione delle aliquote per i redditi più elevati da compensare con la cancellazione di trascurabili scappatoie legali che consentono alle corporation e ai più ricchi di abbattere le tasse da pagare.

In definitiva, lo stallo sul bilancio federale e sul livello di indebitamento degli Stati Uniti viene nuovamente sfruttato ad arte dai due partiti di Washington per creare il consueto clima di crisi come è già stato fatto più volte negli ultimi tre anni, così da trasformare una situazione apparentemente di scontro in un esito condiviso che spiani la strada a nuovi attacchi a programmi pubblici essenziali da cui dipende la sopravvivenza di decine di milioni di persone.

Non a caso, infatti, nei corridoi di Washington comincia a circolare una nuova ipotesi relativa al cosiddetto “grande accordo” bipartisan, continuamente evocato nel recente passato e mai andato in porto. In uno scenario sufficientemente drammatico, questa opzione potrebbe essere presa finalmente in considerazione da entrambi gli schieramenti, in modo da combinare in un unico pacchetto il nuovo bilancio federale, l’innalzamento del tetto del debito, la “riforma” del fisco e, soprattutto, i tagli alla spesa pubblica che ridimensionerebbero i programmi destinati alle fasce più deboli della popolazione.

A riproporre il “grand bargain”, secondo quanto riportato dalla testata on-line Politico.com, sarebbe stato lo stesso John Boehner nel corso di un incontro con Obama alla Casa Bianca. Se l’idea sarebbe stata accolta con ironia dai presenti visto il fallimento nel raggiungere un accordo di questo genere in passato, essa starebbe raccogliendo sempre maggiore seguito sia tra i repubblicani che i democratici, entrambi intenzionati ad uscire quanto prima dallo stallo in corso e a far segnare passi avanti verso lo smantellamento di programmi pubblici che, dal loro punto di vista, non rappresentano altro che uno spreco di risorse da indirizzare piuttosto ai grandi interessi a cui fanno unicamente riferimento.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy