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di Mario Lombardo
La vicenda dell’ex contractor della NSA, Edward Snowden, è stata complicata in questi giorni dal caso che ha coinvolto il presidente boliviano, Evo Morales, il cui aereo presidenziale di ritorno da una visita in Russia nella prima mattinata di martedì è stato costretto ad atterrare a Vienna dopo che Francia, Portogallo, Spagna e Italia avevano negato il permesso di entrare nel proprio spazio aereo.
La decisione di questi paesi è stata presa in seguito alla diffusione della notizia che Morales aveva ospitato a bordo Edward Snowden, costringendo il presidente della Bolivia a rimanere per una decina di ore nella capitale austriaca prima di poter ripartire quando Parigi e Lisbona hanno fatto marcia indietro.
Oltre al fatto che la notizia non aveva alcun fondamento, visto che il velivolo di Morales è decollato da un aeroporto diverso da quello in cui si trova Snowden e un suo trasferimento nelle strade di Mosca avrebbe inevitabilmente allertato i media, la vicenda è un’ulteriore conferma del patetico servilismo verso Washington di questi governi europei, aggravato oltretutto da un’indebita perquisizione dell’aereo presidenziale boliviano da parte delle autorità austriache.
La Bolivia, in ogni caso, ha reagito duramente, facendo sapere mercoledì di avere presentato una protesta ufficiale presso le Nazioni Unite contro i paesi europei responsabili. Molti altri governi latinoamericani hanno fatto sentire la loro voce per condannare quello che è stato definito il “rapimento” di Morales. L’attuale presidente dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), il presidente del Perù Ollanta Humala, ha infine convocato per giovedì una riunione dei ministri della Difesa del gruppo per discutere dell’accaduto.
Per quanto riguarda invece Snowden, a quasi due settimane dal suo arrivo a Mosca continua ad essere bloccato nell’area di transito dell’aeroporto della capitale russa senza essere ancora riuscito ad ottenere la soddisfazione del più che giustificato diritto di asilo da uno solo degli oltre 20 paesi ai quali ha sottoposto la propria richiesta.
La sorte incerta di Snowden, oltre a sviare il dibattito pubblico in corso dai crimini americani da lui smascherati, ha messo in luce il divario abissale tra la gran parte della popolazione di tutto il mondo, che approva apertamente le sue azioni, e governi che continuano a negargli la dovuta protezione.
Come è ormai noto, Snowden ha recapitato tramite un proprio legale 21 richieste di asilo a svariati paesi, molti dei quali le hanno già respinte citando, tra l’altro, l’impossibilità di accogliere una domanda di questo genere se non viene presentata sul loro territorio o presso una delle loro rappresentanze diplomatiche all’estero.
Simili giustificazioni si basano su questioni tecniche di importanza trascurabile, tralasciando di considerare le enormi implicazioni democratiche della vicenda, e rivelano come i paesi in questione siano ben disposti a piegarsi alle pressioni del governo americano e alla sua campagna per mettere le mani su Snowden. Tanto più che la condizione imposta a quest’ultimo di presentare richiesta di asilo sul territorio di un paese che lo dovrebbe ospitare appare impossibile da soddisfare, visto che l’amministrazione Obama ha revocato in maniera a dir poco discutibile il suo passaporto appena prima di lasciare Hong Kong lo scorso 23 giugno.
Inoltre, come ha riportato martedì la Reuters, membri del governo russo hanno fatto sapere che una qualsiasi auto di un’ambasciata straniera che dovesse raccogliere Snowden all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca verrebbe considerata territorio diplomatico, rendendo quindi più che fattibile un suo accesso ad un’ambasciata per presentare di persona una richiesta d’asilo.
L’atteggiamento dei paesi che hanno respinto la richiesta di asilo di Snowden la dice lunga anche sullo stato delle loro democrazie, dal momento che questi governi condividono con gli Stati Uniti l’estrema diffidenza nei confronti di chiunque sia disposto a mettere in gioco la propria vita per smascherare crimini e attività illegali messe in atto da chi detiene il potere. Molti di questi stessi governi, d’altra parte, adottano da tempo sistemi di controllo dei propri cittadini simili a quelli rivelati dai documenti segreti dell’NSA pubblicati nelle ultime settimane.
Che Edward Snowden abbia pieno diritto ad ottenere asilo politico è in ogni caso fuori discussione. Le sue rivelazioni hanno portato alla conoscenza di tutto il pianeta il percorso autoritario verso la creazione di uno stato di polizia sul quale gli Stati Uniti si sono incamminati da anni, operando tramite agenzie clandestine come l’NSA sia entro i propri confini che all’interno di paesi sovrani, alleati compresi.
Come conferma la campagna mediatica di criminalizzazione nei suoi confronti, assieme al trattamento riservato a Bradley Manning e ai preparativi per incriminare Julian Assange, a Snowden non potrebbe inoltre essere garantito in nessun modo un processo equo in patria, tanto più che le accuse mossegli contro, come quella di “tradimento”, prevedono anche la pena capitale. Proprio l’assurdità di quest’ultima accusa o di essere una spia al servizio di Russia o Cina è stata clamorosamente smentita in questi giorni, visto che Mosca e Pechino hanno respinto la richiesta di asilo ricevuta da Snowden.
Il presidente Putin, da parte sua, commentando il caso Snowden lunedì scorso ha poi confermato ancora una volta quale sia la propria attitudine rispetto ai diritti democratici, affermando che l’ex analista dell’intelligence USA poteva rimanere in Russia solo se avesse rinunciato a “danneggiare” ulteriormente il governo americano con nuove rivelazioni. Opportunamente, Snowden ha rifiutato di diventare un vero e proprio ostaggio del Cremlino, ritirando la richiesta di asilo sottoposta al governo russo.
L’atteggiamento più sconcertante e ipocrita è stato quello dei governi europei - Italia compresa - i quali in seguito alle rivelazioni di Der Spiegel e Guardian dello scorso fine settimana sulle intercettazioni da parte americana delle sedi diplomatiche europee negli Stati Uniti, dei palazzi UE a Bruxelles e di telefonate e comunicazioni elettroniche sui loro stessi territori avevano accusato con toni molto accesi il governo di Washington, chiedendo immediate spiegazioni di questo comportamento.
Di fronte alla sua richiesta di protezione, però, questi stessi paesi europei si mostrano ora pronti a lasciare che Snowden venga rimpatriato e che subisca un processo ingiusto per mano di quello stesso governo che essi hanno denunciato per avere agito illegalmente nei loro confronti.
Maggiori speranze per Snowden sembravano dovere provenire dall’America Latina, dove alcuni paesi avevano manifestato la volontà di accoglierlo, anche se per il momento non è giunto alcun segnale concreto. Il Brasile, anzi, ha già respinto la richiesta di asilo, mentre Cuba e Nicaragua non hanno rilasciato commenti.
Un evidente cambio di rotta ha caratterizzato invece l’atteggiamento del governo dell’Ecuador, indicato inizialmente come il paese che, grazie anche alla mediazione di WikiLeaks, avrebbe dovuto ospitare Snowden una volta partito da Hong Kong. Questa settimana, il presidente Rafael Correa ha infatti definito il rilascio di documenti speciali a favore di Snowden per consentirgli di raggiungere Mosca come un “errore”, attribuito ad un’iniziativa del proprio console nella capitale russa.
Correa ha poi criticato Assange per avere rilasciato dichiarazioni in merito al caso Snowden che avrebbero scavalcato il governo ecuadoriano, in particolare riguardo ad una telefonata fatta dal vice-presidente USA, Joe Biden, allo stesso presidente per chiedergli di non concedere l’asilo al 30enne analista informatico. Con toni ben diversi da quelli dei giorni scorsi, poi, Correa ha sostenuto che Snowden “potrebbe avere realmente infranto le leggi Nordamericane” e che “chiunque violi la legge deve assumersi le proprie responsabilità”.
Le residue possibilità di lasciare la Russia per un luogo sicuro al di fuori della portata di Washington sembrano risiedere ora nelle decisioni di Bolivia e Venezuela, i cui presidenti hanno rilasciato dichiarazioni di elogio nei confronti di Snowden pur senza prendere iniziative concrete per trarlo in salvo.
Per quanto riguarda il Venezuela, infine, se il presidente Nicolas Maduro non ha risparmiato qualche stoccata agli americani per il trattamento di Snowden e i programmi segreti di sorveglianza, la decisione del suo governo sulla concessione dell’asilo appare tutt’altro che scontata, visto che dopo il decesso di Chavez la nuova amministrazione ha aperto uno spiraglio di dialogo con gli Stati Uniti che potrebbe chiudersi in fretta se l’ex contractor della NSA dovesse ottenere il permesso di raggiungere Caracas.
In definitiva, l’assurda odissea di Snowden è la diretta conseguenza dei calcoli politici e diplomatici dei governi di tutto il mondo, molto più interessati a mantenere rapporti cordiali con Washington o a evitare di dare ospitalità ad un personaggio scomodo piuttosto che alla difesa dei diritti democratici di chi ha fornito un servizio di inestimabile valore alla popolazione di tutto il pianeta.
Non solo per gli Stati Uniti, perciò, ma anche per questi altri paesi vale la critica che lo stesso Snowden ha pubblicato qualche giorno fa sul sito web di WikiLeaks, affermando che la paura di Washington non è rivolta tanto nei suoi confronti o di altri “whistleblowers” come Bradley Manning, bensì “verso voi tutti, cioè verso un’opinione pubblica informata e sdegnata che chiede un governo rispettoso della Costituzione come le è stato promesso e come dovrebbe realmente essere”.
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di Michele Paris
La mobilitazione di massa della popolazione egiziana a partire da domenica scorsa ha gettato il governo islamista del presidente, Mohamed Mursi, in una crisi forse irreversibile, costringendo le forze che tradizionalmente decidono le sorti del paese nord-africano - le Forze Armate e gli Stati Uniti - a cercare una strada percorribile che metta fine al più presto alle proteste di piazza e possa consentire il ristabilimento dell’ordine.
Gli oltre dieci milioni di manifestanti scesi nelle strade delle principali città dell’Egitto hanno letteralmente sconvolto non solo il regime dei Fratelli Musulmani ma anche gli stessi militari e i loro sponsor a Washington. In concomitanza con il primo anniversario dell’insediamento di Mursi alla guida del paese, la manifestazione organizzata da tempo da gruppi di giovani dell’opposizione per chiedere le dimissioni del presidente si è infatti rapidamente trasformata in una vera e propria sollevazione dalla portata addirittura superiore a quella che due anni e mezzo fa portò alla rimozione di Hosni Mubarak.
Come nel 2011, a spingere gli egiziani nelle strade sono ancora le drammatiche condizioni di vita con cui la maggior parte della popolazione deve fare i conti, così come le persistenti disuguaglianze sociali e, dopo l’ascesa al potere di Mursi e del partito islamista Libertà e Giustizia, il carattere sempre più repressivo del nuovo regime.
Di fronte a questa oceanica manifestazione di sfiducia nei confronti del presidente, lunedì le Forze Armate egiziane sono quindi tornate al centro della scena politica, emettendo un comunicato ufficiale che rappresenta un vero e proprio ultimatum a Mursi e al suo governo. Il presidente è stato infatti invitato a “soddisfare le richieste del popolo entro 48 ore”, in caso contrario i militari imporranno la loro “road map” per uscire dalla crisi.
Poco prima delle 2 del mattino di martedì, tuttavia, Mursi ha in sostanza respinto l’ultimatum dei generali, accusandoli di “creare confusione” e affermando di non essere stato preventivamente consultato. Inoltre, Mursi ha manifestato l’intenzione di procedere con il suo precedente piano di “riconciliazione nazionale” - peraltro già respinto dall’opposizione - senza tenere conto di “dichiarazioni che approfondiscono le divisioni tra i cittadini”.
Gli ambienti vicini ai Fratelli Musulmani al Cairo hanno apertamente agitato lo spettro di un possibile colpo di stato militare per deporre il governo islamista, il quale, da parte sua, ha già perso pezzi importanti negli ultimi giorni in seguito alle dimissioni di svariati ministri, tra cui, nella giornata di martedì, quello degli Esteri, Mohamed Kamel Amr, e i portavoce del governo e del presidente, Omar Amer e Ehab Fahmy.
La decisione delle Forze Armate di prendere l’iniziativa e di provocare una frattura con il regime islamista è in ogni caso dettata dal timore che le proteste possano sfuggire di mano anche ai leader dell’opposizione e sfociare in una seconda rivoluzione. In seguito all’elezione di Mursi, i militari avevano accettato di buon grado di fare un passo indietro dopo il discredito patito nei mesi successivi alla caduta di Mubarak, vedendo nel neo-presidente e nei Fratelli Musulmani una garanzia per il mantenimento della collocazione internazionale dell’Egitto a fianco dell’imperialismo americano, nonché per la salvaguardia dei propri enormi interessi economici. Con la crescente impopolarità del presidente, tuttavia, i vertici militari hanno ora deciso di intervenire nuovamente per spingerlo ad un compromesso con tutte le forze politiche del paese o, in caso di impossibilità, a rassegnare le dimissioni.
La mossa delle Forze Armate è giunta con ogni probabilità non a caso lo stesso giorno in cui il capo di stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, ha incontrato al Cairo la sua controparte, generale Abdel Fattah al-Sisi.
La dichiarazione con cui è stato lanciato l’ultimatum a Mursi, inoltre, è apparsa a tratti simile al contenuto del comunicato ufficiale rilasciato da Barack Obama durante la sua visita in Tanzania. L’inquilino della Casa Bianca ha cioè chiesto a Mursi di ascoltare le richieste che provengono dai manifestanti scesi in piazza, esprimendo questo concetto anche nel corso di un colloquio telefonico con il presidente egiziano nella giornata di lunedì.
Se gli Stati Uniti hanno investito parecchio su Mursi e i Fratelli Musulmani nell’ultimo anno, è evidente che l’insostenibilità della posizione del presidente egiziano potrebbe convincere Washington a scaricarlo senza troppi riguardi, come avvenne nel 2011 con l’alleato di ferro Mubarak. In questo caso, lo strumento del cambiamento ai vertici del paese per la salvaguardia degli interessi degli USA e dei loro alleati nella regione sarebbero ancora una volta i militari, già garanti della transizione nel dopo-Mubarak verso un esito gradito a Washington.
A supporto di questa tesi, tra l’altro, è sembrato essere un articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal nel quale si nota come la debole risposta americana all’ultimatum delle Forze Armate abbia fatto ipotizzare a molti l’imminenza di un colpo di stato militare appoggiato almeno tacitamente dagli Stati Uniti.
Allo stesso modo, l’ex ambasciatore egiziano a Washington, Nabil Fahmy, ha sostenuto in un’intervista ad un giornale locale che gli USA “stanno riconsiderando la loro posizione sugli eventi in corso”, aggiungendo che l’amministrazione Obama, come durante le proteste del gennaio 2011, avrebbe scelto per il momento di tenere un atteggiamento attendista, delegando l’iniziativa alle Forze Armate per poi scegliere su quale cavallo puntare per smorzare la portata rivoluzionaria delle proteste in corso.
Nelle strade egiziane, intanto, una parte dei manifestanti e alcuni leader dell’opposizione hanno salutato con un certo entusiasmo l’intervento delle Forze Armate, promuovendo l’illusione che questa istituzione possa agire da garante dei principi rivoluzionari, costringendo Mursi a dimettersi o a fare concessioni significative.
I militari egiziani, in realtà, rappresentano una forza profondamente reazionaria, allineata al volere di Washington e pronta a reprimere senza scrupoli qualsiasi iniziativa indipendente proveniente dal basso che metta in discussione gli equilibri di potere nel paese.
Anche se la “road map” dei generali non è stata definita nel concreto, l’intenzione sembrerebbe quella di “unire” un paese profondamente diviso. In altre parole, il progetto delle Forze Armate è quello di creare un governo che metta assieme le forze islamiste con quelle laiche dell’opposizione, così da creare, dietro la retorica rivoluzionaria, un fronte politico compatto che consenta di delegittimare le proteste popolari e, se necessario, giustificare una repressione violenta delle manifestazioni stesse.
Mentre i vari gruppi di opposizione hanno designato l’ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Mohamed ElBaradei, come rappresentante del “popolo” nelle trattative con le istituzioni per l’adozione di una “road map” che porti alla creazione di uno “stato democratico moderno”, le proteste sono proseguite nella giornata di martedì, quando sono nuovamente scesi in piazza anche i sostenitori di Mursi e dei Fratelli Musulmani dopo gli scontri dei giorni precedenti.
La minaccia di uno sciopero generale continua poi ad incombere dopo le migliaia di azioni industriali che hanno caratterizzato soltanto la prima metà del 2013. Una tendenza, quest’ultima, che non promette nulla di buono per Mursi e i suoi, dal momento che il dilagare degli scioperi nel 2011 rappresentò il fattore decisivo nel crollo del regime di Mubarak.
Sotto le pressioni di un paese in rivolta, sarà l’esito delle trattative in corso per cercare di risolvere o, quanto meno, contenere la gravissima crisi in atto a mostrare più chiaramente nelle prossime ore quali sono gli spazi di manovra residui del presidente Mursi, così come le reali intenzioni dei militari e la posizione che decideranno di assumere gli Stati Uniti in relazione alle sorti di uno dei loro più importanti alleati nel mondo arabo.
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di Mario Lombardo
Nonostante i festeggiamenti andati puntualmente in scena domenica a Zagabria alla presenza di decine di rappresentanti di governi stranieri, il sentimento della maggior parte della popolazione della Croazia nei confronti dell’ingresso del proprio paese nell’Unione Europea appare oggi in netto contrasto con il sostanziale entusiasmo mostrato all’inizio dei negoziati con Bruxelles otto anni fa.
La Croazia che alla mezzanotte tra domenica e lunedì è diventata il 28esimo paese dell’Unione è un paese in recessione da cinque anni che, a partire dall’esplosione della crisi finanziaria globale nel 2008, ha perso quasi l’11% del proprio PIL e visto svanire l’80% degli investimenti diretti dall’estero. La disoccupazione, inoltre, è ufficialmente al 20%, mentre quella giovanile sfiora ormai il 50%.
Di fronte ad un simile scenario, l’accesso all’Unione Europea è stato propagandato praticamente da tutte le forze politiche croate come un’occasione per invertire il declino del paese. In una recente intervista a Bloomberg News, il premier socialdemocratico della Croazia, Zoran Milanovic, aveva così prospettato “un’abbondanza di possibilità, un nuovo mercato, nuove occasioni… da prendere se si lavorerà duramente e se ci si preparerà adeguatamente”, ricordando poi però il rischio concreto di “finire tra i perdenti”.
E tra i perdenti finiranno con ogni probabilità ancora una volta quelle sezioni della società croata già penalizzate dalle pesanti misure di austerity messe in atto dal governo negli ultimi anni e che non cesseranno dopo l’ottenimento dello status di membro UE.
A confermare quale sarà la terapia d’urto che Bruxelles continuerà a riservare anche a Zagabria nel prossimo futuro è stato ancora il primo ministro Milanovic, il quale nella stessa intervista della scorsa settimana ha rivelato come il suo esecutivo sia già “sotto pressione… per intraprendere alcune misure coraggiose in modo da ridurre la spesa e spiegare alla popolazione che non esistono più diritti acquisiti per tutta la vita”.
Il deficit di bilancio croato risulta d’altra parte al di fuori dei limiti previsti dall’UE e, salvo interventi, secondo le previsioni di Bruxelles dovrebbe salire al 4,7% del PIL alla fine di quest’anno per poi impennarsi ulteriormente nel 2014, fino al 5,6%. Tutto ciò ha spinto recentemente le principali agenzie di rating a decidere il “downgrade” del debito croato, facendo del paese - secondo la definizione di un commissario del Fondo Monetario Internazionale - “un ostaggio dei mercati internazionali”.
Con l’evolversi della cosiddetta crisi del debito in Europa e alla luce della devastazione sociale imposta da Bruxelles e Berlino a Grecia, Irlanda, Portogallo e non solo, il relativo fascino esercitato dall’ingresso nell’Unione ha da tempo lasciato spazio tra le popolazioni dei paesi candidati ai timori più che giustificati di andare incontro ad un’autentica minaccia anche agli attuali standard di vita già non eccelsi.
Il cambiamento di opinione dei croati circa l’accesso all’UE appare perciò scontato ed è confermato dal dimezzarsi dei consensi registrati in circa un decennio. I più recenti sondaggi indicano infatti come appena il 45% della popolazione appoggi l’ingresso nell’Unione Europea, nonostante l’incessante campagna a favore orchestrata in questi anni da politici e media locali. Nello stesso referendum tenuto nel gennaio 2012, dopo la chiusura ufficiale dei negoziati tra Zagabria e Bruxelles nel giugno precedente, la vittoria dei “sì” con il 66% dei consensi fu offuscata da un’affluenza alle urne che non raggiunse nemmeno il 44%.
Se l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea sembra dunque avere poco senso dal punto di vista economico, è piuttosto nell’ambito politico e strategico che una qualche giustificazione può essere ricercata.
Di fronte a più di una resistenza nell’UE ad imbarcare altri paesi caratterizzati da economie in affanno o corruzione diffusa, la decisione di favorire il loro ingresso nell’Unione risponde cioè ad una più ampia necessità di cercare di stabilizzare la periferia del continente, facendo intravedere ai loro cittadini l’illusione di un processo di transizione verso un sistema di mercato integrato relativamente prospero.
In questo senso, l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea è la logica conseguenza di quello garantito nel 2004 alla Slovenia e, ancora, nel 2007 a Bulgaria e Romania, non a caso considerate da molti tutt’altro che pronte all’abbraccio con Bruxelles. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’area balcanica, sia pure tra difficoltà maggiori, dopo i presunti progressi sulla questione del Kosovo, la stessa Serbia inizierà i negoziati con l’UE a partire dal prossimo gennaio, così come in un futuro più lontano verranno valutate le possibilità di aderire di Bosnia, Macedonia e Montenegro.
A spiegare l’importanza di questo processo è stato il ministro degli Esteri di Zagabria, Vesna Pusic, in un’intervista rilasciata al Financial Times poco prima che il suo paese diventasse il 28esimo membro dell’UE. La numero uno della diplomazia croata ha spiegato che un’eventuale decisione di voltare le spalle a Zagabria da parte dell’Unione Europea non sarebbe stata solo ingiusta ma anche “rischiosa”, dal momento che “l’Europa sudorientale è la zona di transizione con il Medio Oriente e il fermento politico in Turchia e la guerra in Siria si trovano proprio al di là di essa”.
Per questo motivo, ha affermato il ministro Pusic, “se l’UE dovesse perdere il proprio ‘soft power’, perderebbe anche il potere di stabilizzare l’Europa sudorientale”. In tal caso, “il pericolo che l’instabilità si diffonda dall’Europa sudorientale, dal Mediterraneo meridionale e dal Medio Oriente al cuore dell’Europa diventerebbe molto più grande”.
Se, al di là dei criteri e dei rigidi parametri economici stabiliti per l’accesso all’Unione, quella di consentire l’ingresso di un nuovo paese rimane una decisione fondamentalmente politica, il tentativo dei burocrati di Bruxelles di stabilizzare il continente attorno ad un progetto basato sui principi dell’economia di mercato sembra essere però sul punto di naufragare a causa delle sue stesse contraddizioni.
Come hanno forse già compreso i cittadini della Croazia, infatti, gli eventi degli ultimi anni hanno smascherato la reale natura dell’Unione Europea, rivelatasi non tanto un mezzo per la promozione dei diritti democratici e del benessere generale quanto un vero e proprio strumento in mano alle élite economiche e finanziarie del continente per salvare un sistema in crisi irreversibile tramite l’impoverimento di massa dei propri cittadini.
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di Michele Paris
Tra le varie operazioni di sorveglianza messe in atto su scala globale dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) ci sarebbe anche l’intercettazione di telefoni e reti internet dei rappresentati delle istituzioni dell’Unione Europea. La più recente rivelazione delle attività criminali dell’apparato dell’intelligence statunitense è stata pubblicata nella tarda serata di sabato sul sito web del settimanale tedesco Der Spiegel e si basa su nuovi documenti forniti dall’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden.
Secondo quanto riportato in un documento “top secret” del 2010, il governo americano ha installato sistemi di intercettazione negli uffici dell’Unione Europea a Washington, nonché ad essere sistematicamente violate sono state anche le reti informatiche, così da ottenere accesso a comunicazioni e-mail e a documenti interni.
Inoltre, gli stessi metodi di controllo sono utilizzati dall’intelligence USA anche negli uffici UE presso le Nazioni Unite, a New York, mentre i diplomatici europei vengono apertamente definiti come “obiettivi” dell’attività di spionaggio.
Simili operazioni non sono limitate al territorio statunitense, visto che la lunga ombra dell’NSA si estende all’Europa stessa. Secondo Der Spiegel, infatti, sotto sorveglianza degli americani sono anche le sedi UE di Bruxelles. Poco meno di cinque anni fa, spiega il magazine tedesco, esperti di sicurezza dell’UE erano stati in grado di localizzare la provenienza di svariate telefonate sospette dirette al palazzo Justus Lipsius di Bruxelles (sede del Consiglio dell’Unione Europea), confermando come un’attività di sorveglianza era in corso dal quartier generale NATO della vicina località di Evere, da dove opera l’NSA.
Le reazioni ufficiali dei vertici UE alle rivelazioni esplosive di Der Spiegel sono state comprensibilmente dure. Il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, ha chiesto chiarimenti a Washington, aggiungendo che la notizia potrebbe avere “gravi conseguenze” sui rapporti con gli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, ha a sua volta definito le attività segrete dell’NSA “disgustose”.
Nel corso della giornata di domenica, il quotidiano britannico Guardian ha fornito un quadro più preciso delle notizie pubblicate inizialmente da Der Spiegel. Le rappresentanze europee prese di mira in territorio americano tramite un programma di intercettazioni denominato “Dropmire” comprenderebbero cioè quelle di Francia, Italia e Grecia, ma complessivamente missioni e ambasciate di paesi UE e di altri continenti coinvolte sarebbero addirittura 38.
Un’ulteriore esclusiva che aggiunge benzina sul fuoco dello scandalo era apparsa poi nel fine settimana sul sito internet dello stesso Guardian, anche se è stata successivamente soppressa in attesa di ulteriori verifiche. Il quotidiano britannico aveva cioè pubblicato un articolo basato sulle rivelazioni dell’ex ufficiale della Marina USA, Wayne Madsen, il quale aveva lavorato alle dipendenze dell’NSA tra gli anni Ottanta e Novanta.
Secondo quest’ultimo, oltre alla Gran Bretagna, almeno sei paesi europei avevano collaborato con Washington nel raccogliere segretamente e illegalmente dati sulle comunicazioni telefoniche ed elettroniche dei cittadini europei. I paesi che avevano stipulato un accordo segreto con gli USA erano Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna.
Secondo quanto riportato da molti giornali nella giornata di domenica, però, Wayne Madsen non sarebbe una fonte attendibile, poiché più volte nel recente passato è stato protagonista di rivelazioni su eventi legati al terrorismo che offrivano interpretazioni diametralmente opposte alle versioni ufficiali propagandate dai principali media.
Grazie al contributo di Edward Snowden, le rivelazioni di Der Spiegel aggiungono in ogni caso un altro tassello al quadro del colossale programma di sorveglianza del governo americano, dopo quelli che hanno descritto, tra l’altro, le intercettazioni delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutti gli abitanti del pianeta, di organismi pubblici e privati in Cina e, in collaborazione con i servizi segreti britannici, dei partecipanti a due riunioni del G-8 nel 2009 a Londra.
La scelta come bersaglio delle intercettazioni di paesi e istituzioni ufficialmente alleati, in particolare, indica il grado di paranoia raggiunto delle autorità di Washington nel raccogliere informazioni sensibili da utilizzare in un frangente storico caratterizzato da rivalità e tensioni crescenti in concomitanza con la crisi del capitalismo internazionale.
Il programma destinato alla sorveglianza degli uffici UE dimostra inoltre ancora una volta come le necessità della lotta al terrorismo siano poco più di un semplice pretesto per mettere in atto un sistema capillare di controllo di persone e organi di governo degno di uno stato di polizia.
Lo stesso Der Spiegel, infatti, domenica ha descritto anche lo sforzo degli Stati Uniti nel controllare le comunicazioni dei cittadini tedeschi. In Germania, cioè, l’NSA monitora ogni giorno qualcosa come 20 milioni di connessioni telefoniche e 10 milioni di account internet, fino a raggiungere la quota di 60 milioni in giorni di particolare traffico. Nei documenti rivelati da Snowden, la Germania viene descritta dagli americani come un partner di “terza classe”, dove i livelli di sorveglianza sono simili a quelli che gli USA utilizzano in Cina, Arabia Saudita o Iraq.
Con il progressivo emergere dei contorni delle clamorose violazioni della privacy e dei più basilari diritti democratici della popolazione di tutto il pianeta, la legittimità del governo degli Stati Uniti continua così a crollare inesorabilmente, nonostante i disperati tentativi di limitare i danni e di criminalizzare le azioni di Edward Snowden da parte di politici e media ufficiali.
Le reazioni indignate dei rappresentanti dell’UE e dei governi europei alle rivelazioni pubblicate in questi giorni sono però quanto meno ingannevoli, dal momento che molti paesi da questa parte dell’Atlantico - a cominciare proprio dalla Germania - oltre a conoscere da tempo le attività clandestine degli Stati Uniti, utilizzano da anni programmi di intelligence segreti per sorvegliare i propri cittadini.
La fermezza apparente con cui le richieste di spiegazioni vengono rivolte agli Stati Uniti da parte delle autorità europee sono perciò rivolte principalmente ad evitare l’espandersi di un dibattito pubblico sulle operazioni illegali di sorveglianza usate dagli stessi governi dell’Unione, a loro volta sintomo evidente del degrado morale e politico di una classe dirigente che vede ormai le popolazioni a cui dovrebbe rendere conto come principale nemico e minaccia ad un sistema di potere sempre più screditato.
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di Fabrizio Casari
Snowden va in Ecuador, anzi a Cuba, forse in Venezuela; macchè, è ancora a Mosca. L’agitazione intorno alla sorte dell’uomo più ricercato del momento si sposa con le illazioni e le ipotesi sui destini finali della sua fuga, dopo che ha bellamente beffato il suo governo riuscendo ad uscire dagli Stati Uniti, arrivare ad Hong Kong e poi giungere in Russia. E così, mentre il padre di Snowden tenta di negoziare con il governo USA un suo eventuale rientro, il possibile prossimo tour dell’ex analista della NSA in fuga sembra una gallery dei paesi ostili agli Stati Uniti.
Una sorta di cartina geografica di quella porzione di mondo che ha una propria politica estera, interna e di sicurezza nazionale, piuttosto che la connotata tendenza ad adempiere ai desiderata statunitensi. Si elencano infatti paesi che non riconsegnerebbero a Washington un uomo che nessun atto ostile ha commesso verso chi lo ospita ma che rischierebbe una condanna pesantissima nel suo paese.
Le notizie si rincorrono e, tra minacce e smentite, le dichiarazioni americane perseguono l’obiettivo dichiarato: esercitare pressioni fortissime verso chiunque pensi di offrire asilo politico al fuggitivo. Pechino invita Washington a tacere, visto che non si trova nelle condizioni d'impartire lezioni; Mosca dal canto suo ha già ricordato come Snowden sia in transito e che non ha nessun motivo per fermarlo, con ciò dicendo che qualora si presentasse con un lasciapassare diplomatico di qualunque paese, in termini di legge non avrebbe obiezioni a farlo imbarcare sul volo per la sua prossima tappa. Obama, che teme una frizione importante nelle relazioni con Cina e Russia e che sa distinguere le dimensioni di una crisi possibile, ha affermato che nessun aereo statunitense attaccherà in volo l’aereo che dovesse ospitare Snowden. Le residue minacce statunitensi sono quindi solo all’indirizzo dei paesi latinoamericani.
L’Ecuador, che la scorsa settimana era stato direttamente minacciato dal senatore USA Bob Menendez (un sottopancia della mafia cubano-americana della Florida) di revisione in negativo dell’accordo bilaterale di scambio preferenziale per alcuni prodotti alimentari, ha reagito con la sovranità e determinazione necessaria. Ieri mattina, infatti, Quito ha comunicato “la rinuncia unilaterale immediata ed irrevocabile” all’accordo commerciale con Washington. “L’Ecuador non accetta pressioni nè minacce da nessuno e non commercia con i suoi principi nè li sottomette a interessi mercantili per importanti che questi siano” ha indicato in una conferenza stampa il ministro della Comunicazione Fernando Alvarado.
Peraltro, va detto che l’accordo tra i due paesi (Aptea la sua sigla in inglese ndr) che ha come oggetto la collaborazione commerciale andina e la lotta contro la produzione di droga (in scadenza il 31 Luglio prossimo), seppur nato come ipotetico indennizzo alle nazioni andine, si é rivelato utile soprattutto agli Stati Uniti che l’hanno adoperato come strumento di ricatto. Ottima occasione quindi per Correa per ricordare agli Stati Uniti come non siano proprietari della sovranità equadoregna e come già in passato (in primo luogo nel mancato rinnovo della concessione per la base militare di Manta, poi nel 2011 con il caso dell’espulsione dell’ambasciatrice USA Heather Hodgesv, che nei cable diffusi da Wikileaks definiva la polizia dell’Ecuador “corrotta”, fino all’asilo politico di Assange nell’ambasciata di Quito a Londra) il suo governo non si sia fatto pregare nel rispedire al mittente ingerenze e minacce.
Mentre quindi si cerca di trovare la mossa decisiva nella partita a scacchi tra Washinton e mezzo mondo, ci si chiede quale potrebbe essere la prossima tappa della sua fuga. Certo che per gli Stati Uniti non si tratta solo di frustrazione e rabbia nei confronti di chi tanto danno ha recato al loro spionaggio; oltre ad esibire le numerose falle nel suo infallibile sistema che regge la sicurezza nazionale, in ballo c’è soprattutto la possibilità che chiunque offra aiuto a Snowden abbia da chiedere in cambio una collaborazione. Non si tratta di difesa dei diritti umani o di tutela della libera informazione, non scherziamo: si tratta della possibilità concreta di mettere le mani su una fonte straordinaria di analisi importantissime per qualunque intelligence.
Non tanto per quanto si potrà intercettare da ora in avanti, dal momento che le contromisure operative e tecnologiche per chiudere la falla alla NSA sono state già prese, ma capire la metodologia di lavoro, le verticali operative sulle quali si snoda l’organizzazione interna, l’accesso a fonti dirette e indirette esterne e interne e molto altro ancora qui inutile da elencare, offrirebbe ai servizi del paese che ospiterà una enorme possibilità di decriptare modalità e tecniche di lavoro della NSA che sarebbero funzionali alle contromisure necessarie per difendersi dallo spionaggio a stelle e strisce.
Si fanno paragoni con il caso Assange ma sono paragoni approssimativi. Il fondatore di Wikileaks ha avuto sen’altro il merito straordinario di documentare a tutto il mondo l’ipocrisia della politica estera statunitense, e i suoi legami poco consoni con alcuni parlamentari e dirigenti di partiti, membri delle comunità finanziarie e funzionari di governi internazionali, ma in fondo quello che ha denunciato non era ignoto a chi si occupa di politica estera con qualche avvedutezza ed attenzione.
Il caso Snowden, invece, è cosa assai diversa, perché pone all’ordine del giorno tanto le modalità di spionaggio degli Usa quanto il fatto che, a dispetto di ciò che i trattati militari internazionali vorrebbero, dimostrano come sia solo con la Gran Bretagna che gli USA condividono i maggiori segreti e come, insieme, esercitino attività pesantissime di spionaggio anche nei confronti di quegli alleati politici e militari con i quali condividono magari operazioni militari oltre che ipotesi di governante globale.
Perché che Washington decida di spiare Pechino e Mosca, Teheran e Islamabad, Caracas e L’Avana, e via elencando, può sembrare persino ovvio; ma che riservino lo stesso trattamento ai loro alleati, da Berlino a Madrid, da Parigi a Roma, questo proprio non lo si doveva sapere. Lo si poteva sospettare? Certo che sì, ma un conto è ipotizzare, un altro è verificare, un conto è persino saperlo, un altro è che tutto il mondo lo sappia.
Inoltre, spiare le riunioni dei vertici politici e militari, i negoziati finanziari e diplomatici dei paesi più importanti sulla scena mondiale, avvantaggia illegittimamente gli spioni sugli spiati e rende i negoziati stessi in qualche modo privi di senso, dal momento che preventivamente e nel corso degli incontri gli Stati Uniti sanno perfettamente le intenzioni, la disposizione e gli obiettivi di chi negozia con loro, alleati o avversari che siano.
Non sarà sui giornali o nelle conferenze stampa a seguito degli incontri ufficiali, ma è certo che i paesi oggetto dello spionaggio statunitense non mancheranno di far sentire la loro voce seccata. E si può esser certi che, almeno i paesi più degni, come la logica dell’intelligence internazionale vuole, cercheranno di restituire le attenzioni con gli interessi. E non sempre ci saranno attenzione mediatica e terminal aeroportuali ad ammortizzarne gli effetti.