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di Michele Paris
Nella giornata di mercoledì gli operai della Boeing di Everett, nello stato di Washington, saranno chiamati ad approvare o respingere una proposta di contratto negoziata tra il management della compagnia aerospaziale, i vertici sindacali e i leader politici locali che promette di sconvolgere in maniera permanente i rapporti di fabbrica e le condizioni di lavoro di quasi 20 mila persone. Nonostante il contratto in vigore dei meccanici della Boeing sia in scadenza solo fra tre anni, la dirigenza della compagnia ha sfruttato il prossimo inizio della produzione del nuovo aeromobile 777X per ottenere una serie di concessioni dai lavoratori difficilmente conseguibili nell’ambito delle normali trattative con il sindacato (International Association of Machinists, IAM).
In particolare, la Boeing richiede la garanzia che non verranno organizzati scioperi nei prossimi 11 anni, il passaggio dall’attuale sistema pensionistico a quello contributivo e quindi meno vantaggioso, lo stop all’accumulazione di ulteriori benefici in vista della pensione, l’aumento dei premi da pagare per le polizze sanitarie di dipendenti e pensionati e l’allungamento del periodo previsto per il raggiungimento del livello massimo di retribuzione da sei a sedici anni.
Inoltre, tra il 2016 e il 2024 saranno erogati soltanto quattro aumenti salariali pari all’1% ciascuno. Gli stipendi, cioè, verranno di fatto tagliati visti i livelli di inflazione decisamente più elevati. In cambio di questa svendita dei lavoratori e dei loro diritti acquisiti sostanzialmente appoggiata dal sindacato, la Boeing promette un bonus una tantum pari a 10 mila dollari.
Se gli operai non approveranno il nuovo accordo, la Boeing potrebbe concretizzare la minaccia di trasferire la produzione del nuovo 777X dal gigantesco stabilimento a nord di Seattle in un impianto non sindacalizzato della Carolina del Sud, con la conseguente perdita, includendo l’indotto, di decine di migliaia di posti di lavoro per lo stato di Washington.
La richiesta di firmare il prolungamento del contratto con una pistola puntata alla tempia ha prodotto una massiccia opposizione tra i lavoratori nei confronti dei vertici aziendali e dello stesso sindacato che dovrebbe teoricamente tutelare i loro interessi.
Un’accesa riunione tra gli iscritti all’IAM lo scorso giovedì ha fatto emergere tutta la rabbia degli operai, tanto che il presidente della sezione 751 del sindacato, Tom Wroblewski, ha addirittura fatto a pezzi una copia dell’accordo da lui firmato, minacciando di revocare il voto di mercoledì.
Lo stesso Wroblewski, tuttavia, qualche giorno più tardi è tornato a sostenere l’accordo, sia pure in maniera velata, e a ricordare ai lavoratori di decidere “ciò che è giusto per loro, per le loro famiglie e per la comunità”, visto che in ballo c’è “il loro futuro e il loro lavoro”.
Le minacce e le pressioni del sindacato per dividere i lavoratori e giungere ad un voto positivo hanno fatto però ben poco per calmare gli animi, visto che nel pomeriggio di lunedì un’altra riunione tra alcune centinaia di iscritti ha di nuovo mostrato l’ampia opposizione all’accordo. Alcuni di questi ultimi hanno anche denunciato i tentativi dei vertici sindacali di mettere a tacere il dissenso, accusandoli inoltre di avere tradito lo sciopero di quasi due mesi messo in atto nel 2008 imponendo le pesanti concessioni volute dall’azienda.Tra gli operai intervistati dal Seattle Times durante l’incontro, molti hanno espresso il malcontento nei confronti del sindacato e il timore per i tagli a stipendi e benefit che si prospetterebbero con l’estensione del contratto, provocando nel prossimo futuro una sorta di “Wal-martizzazione dell’industria aerospaziale” nello stato, in riferimento alla depressione delle retribuzioni causata dall’arrivo del gigante della distribuzione Wal-Mart nelle varie comunità degli Stati Uniti.
A conferma dell’unità di intenti tra politica, sindacato e azienda per portare attacchi senza precedenti contro i lavoratori, nella giornata di lunedì il leader sindacale Wroblewski è apparso a fianco dell’amministratore delegato di Boeing Commercial Airplanes, Ray Conner, e del governatore democratico dello stato di Washington, Jay Inslee, durante una cerimonia organizzata per la firma da parte di quest’ultimo di un pacchetto legislativo che comprende svariati benefici per la compagnia.
Lo stato di Washington ha infatti da poco approvato un provvedimento ad hoc per la Boeing in seguito alle richieste della compagnia per garantire la produzione del 777X a Everett. Tra le agevolazioni previste ci sono 8,7 miliardi di dollari in tagli alle tasse nei prossimi tre decenni, 8 milioni di dollari destinati alla formazione di lavoratori del settore aero-spaziale e norme più semplici per la realizzazione di progetti industriali in questo ambito.
La Boeing ha anche chiesto, oltre al nuovo contratto che gli operai dovranno votare mercoledì, un pacchetto fiscale per finanziare l’ammodernamento delle infrastrutture dello stato, tra cui le strade che la compagnia utilizza per trasportare i propri aeromobili. Su quest’ultima misura, tuttavia, il parlamento statale di Washington non ha ancora trovato un accordo definitivo.
L’amministratore delegato Conner, intanto, sempre nella giornata di lunedì ha ribadito che la minaccia di portare la produzione del 777X in Carolina del Sud “non è un bluff”, dal momento che la sua compagnia è ormai “sotto assedio dai concorrenti stranieri”, a cominciare dall’europea Airbus.
La Boeing, d’altra parte, come altre grandi aziende americane, ha già mostrato ben pochi scrupoli nel trasferire i propri impianti da stati a forte presenza sindacale e con retribuzioni relativamente elevate ad altri, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, dove la manodopera risulta molto più flessibile ed economica.
Nel 2009, ad esempio, la produzione del 787 Dreamliner è stata spostata proprio nell’impianto di North Charleston, in Carolina del Sud, così come altre commesse hanno ugualmente lasciato l’area a nord di Seattle e altri impianti nello stato di Washington.
Anche con la firma del nuovo contratto, peraltro, nonostante le concessioni è tutt’altro che certo che la produzione del nuovo prodotto Boeing rimarrà interamente a Everett. Tra le parti dell’accordo che più preoccupano i lavoratori, oltre a quelle riguardanti le loro condizioni, ce n’è infatti una che sembra lasciare aperta la possibilità per la compagnia di appaltare la realizzazione delle sofisticate ali del nuovo aeromobile ad un fornitore esterno.
Tutti i sacrifici richiesti con la collaborazione del sindacato ai propri operai dietro il ricatto di vedere sparire migliaia di posti di lavoro, va ricordato, si inseriscono in un frangente nel quale la Boeing sta raccogliendo profitti da record e letteralmente ricoprendo di dollari i propri top manager.Nel terzo trimestre di quest’anno, la compagnia aerospaziale ha fatto registrare un aumento degli utili pari al 12% (2,2 miliardi di dollari), mentre il CEO di Boeing Company, Jim McNerney, ha ricevuto nel 2012 qualcosa come 27,5 milioni di dollari tra stipendio e benefit vari dopo che la compagnia americana ha superato per la prima volta in un decennio la rivale Airbus.
Al di là dell’esito del voto di mercoledì, che nonostante le manifestazioni di protesta contro l’accordo non appare per nulla scontato viste le pressioni a cui i meccanici della Boeing sono sottoposti, la vicenda della fabbrica di Everett è l’ennesima conferma di come i lavoratori negli Stati Uniti e altrove non trovino ormai più nessuna significativa rappresentazione nelle organizzazioni sindacali tradizionali.
Queste ultime, infatti, operano sempre più come un’estensione della dirigenza aziendale per far accettare ai propri iscritti ogni richiesta di concessione o smantellamento dei propri diritti, dividendo e isolando i lavoratori che intendono manifestare un qualsiasi proposito di resistenza.
Di fronte a questo scenario, la sconfitta dei lavoratori nelle singole unità produttive diventa pressoché inevitabile, tanto più che le compagnie trovano regolarmente preziosi alleati tra i politici di entrambi gli schieramenti e la stampa ufficiale, diligentemente impegnata a predicare l’impossibilità di combattere e percorrere strade alternative che non prevedano il deterioramento delle condizioni di lavoro per evitare lo spettro continuamente agitato di licenziamenti e della chiusura degli impianti industriali.
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di Michele Paris
Le divisioni emerse domenica tra i governi impegnati nei colloqui con l’Iran per la risoluzione della crisi del nucleare di Teheran e il conseguente rinvio di un accordo che solo poche ore prima sembrava a portata di mano, hanno consentito ai falchi di Washington e Tel Aviv di tornare ad agitarsi per impedire un esito positivo della complicata questione.
Come è stato ampiamente riportato dalla stampa di tutto il mondo, a determinare il relativo fallimento del vertice di Ginevra sarebbe stato l’irrigidimento della posizione francese nel corso dei negoziati, manifestato da una dichiarazione pubblica del ministro degli Esteri di Parigi, Laurent Fabius, responsabile di avere rotto il tacito accordo che prevedeva il massimo riserbo sul contenuto delle condizioni in discussione
La Francia, in sostanza, ha espresso riserve su una eventuale intesa che non avrebbe incluso alcune condizioni più dure nei confronti della Repubblica Islamica, come l’invio all’estero di tutto l’uranio finora arricchito al 20% e lo smantellamento dell’impianto di Arak per la produzione di plutonio che dovrebbe essere attivato nel 2014. Simili richieste, come sa perfettamente il governo socialista transalpino, appaiono difficilmente accettabili dagli iraniani.
Lo stop provocato dai francesi ha rappresentato un brusco risveglio per quanti avevano visto aumentare le aspettative attorno al summit di Ginevra nel fine settimana, soprattutto dopo che venerdì i ministri degli Esteri dei P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), tra cui il segretario di Stato americano, John Kerry, erano volati nella località svizzera in vista dell’annuncio di un accordo, sia pure provvisorio per consentire ulteriori trattative nei prossimi mesi su un’intesa più ampia.
Le ricostruzioni prevalenti in merito alla frenata improvvisa sono state però in parte smentite da quanto riportato lunedì dal New York Times, secondo il quale a determinare un rinvio di una decina di giorni dei colloqui sarebbe stata invece la posizione assunta dai negoziatori iraniani di fronte alle loro controparti.
Secondo questa versione, basata su quanto rivelato da anonimi diplomatici presenti a Ginevra e supportata in gran parte dalle dichiarazioni rilasciate sempre lunedì da John Kerry, sarebbe stata la delegazione di Teheran, guidata dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, a esprimere resistenze dopo avere preso atto dell’assenza tra i P5+1 della volontà di riconoscere esplicitamente il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione.Come ha scritto domenica il quotidiano israeliano Jerusalem Post, cioè, all’interno dei P5+1 non ci sarebbe stata alcuna divisione ed essi, anzi, avrebbero approvato in maniera unanime un documento da sottoporre agli iraniani che a loro volta lo hanno giudicato “troppo duro”, sostenendo che si rendevano necessarie consultazione con il governo a Teheran.
Quest’ultima versione, se corrispondente al vero, dimostra come nella realtà dei fatti i progressi delle ultime settimane siano stati meno significativi di quanto propagandato, visto che, in tal caso, l’atteggiamento tenuto pochi giorni fa a Ginevra dai P5+1 e, in particolare, dai governi occidentali ricorderebbe quello mostrato durante tutti i precedenti vertici, puntualmente falliti quando le aperture iraniane sono state accolte con richieste o concessioni inaccettabili. Tanto più che lunedì un diplomatico iraniano ha rivelato come il suo governo avrebbe raggiunto un’intesa con le Nazioni Unite su una “road map” per adottare un regime di ispezioni più severo nelle proprie strutture nucleari.
Se a determinare l’esito del summit è stata invece la presa di posizione della Francia, è estremamente probabile che essa sia da collegare, come ha affermato un anonimo diplomatico occidentale in un’intervista al britannico Guardian, “agli interessi di Parigi nel Golfo [Persico]” nonché al lavoro dietro le quinte svolto dal governo di Tel Aviv e, in particolare, “al fatto che [il presidente François] Hollande questo mese si recherà in Israele e non vuole che il suo viaggio si trasformi in un incubo”.
Più in generale, a sottolineare le implicazioni strategiche ed economiche della crisi del nucleare iraniano e di una sua eventuale risoluzione è stato il vice-ministro degli Esteri russo, Sergey Ryabkov, per il quale ci sarebbero “molte questioni che influiscono sugli interessi di svariati paesi”, a cominciare dai P5+1, e che si concretizzano in divisioni sempre più accentuate.
Inoltre, la relativa distensione tra Washington e Teheran ha già fatto intravedere come le relazioni e gli equilibri in Medio Oriente potrebbero essere stravolti da un accordo di ampio respiro, con i tradizionali alleati degli Stati Uniti - come Israele e Arabia Saudita - che stanno mostrando segni di insofferenza ed altre potenze (come appunto la Francia) che cercano di conquistare posizioni di favore per stabilire nuove o più solide alleanze in un’area cruciale del globo.
Ciò che risulta evidente, in ogni caso, non sono soltanto le difficoltà nel risolvere una questione annosa sulla quale agiscono pressioni enormi ma anche la posta in palio che va ben al di là del programma nucleare della Repubblica Islamica, per il quale peraltro non esiste una sola prova che abbia come obiettivo la produzione di armi atomiche.
Già domenica, così, è iniziata a circolare la notizia che il Senato degli Stati Uniti potrebbe discutere a breve un nuovo pacchetto di sanzioni economiche contro l’Iran, come ha confermato in un intervento al programma “This Week” della ABC il presidente della commissione Esteri, il democratico Robert Menendez. Il senatore del New Jersey ha minacciato di far procedere la legislazione già approvata lo scorso luglio dalla Camera e che, se implementata, mirerebbe a congelare pressoché interamente le esportazioni petrolifere iraniane entro il 2015.
Al Congresso USA, d’altra parte, esiste un’ampia maggioranza trasversale molto più disposta rispetto alla Casa Bianca ad assecondare le richieste di Israele, il cui governo continua a tuonare contro qualsiasi accordo sul nucleare che non rappresenti una resa totale per Teheran.
Con i colloqui rimandati, inoltre, la macchina della propaganda soprattutto israeliana opererà a pieno regime nei prossimi giorni per cercare di far naufragare completamente i negoziati. Milioni di dollari sono infatti già stati spesi da gruppi di lobbies negli Stati Uniti favorevoli a Israele per “convincere” il governo e il Congresso di Washington a non siglare nessun accordo con Teheran.La linea dura che intendono perseguire senatori e deputati di entrambi gli schieramenti appare particolarmente preoccupante per la Casa Bianca, poiché un’ipotetica soppressione anche solo di alcune sanzioni contro l’Iran in seguito ad un futuro accordo dovrà essere approvata proprio da un voto del Congresso.
Per cercare di placare l’opposizione ai negoziati, l’amministrazione Obama nella giornata di domenica ha così inviato in Israele la sottosegretaria di Stato Wendy Sherman, responsabile della delegazione USA a Ginevra, mentre Kerry dopo un breve stop ad Abu Dhabi è tornato a Washington nella serata di lunedì e martedì sarà protagonista di un’audizione al Senato per convincere i suoi ex colleghi a rinviare la discussione sulle nuove sanzioni.
Le minacce di istituire una sorta di embargo totale sul commercio iraniano, nonostante le intenzioni dichiarate di mantenere alta la pressione su Teheran per favorire un accordo e ottenere le maggiori concessioni possibili sul nucleare, servono sostanzialmente a far saltare il tavolo delle trattative e giungere, in ultima analisi, ad un intervento militare in Iran e ad un cambio di regime, uniche soluzioni gradite a quanti si oppongono in maniera strenua ad ogni genere di accomodamento con questo paese.
I toni bellicosi del governo israeliano e dei “congressmen” americani, d’altra parte, hanno sempre prodotto un comprensibile irrigidimento del regime iraniano e questa dinamica non sembra essere stata alterata con l’arrivo al potere di una leadership moderata e ben disposta verso l’Occidente.
Ciò è stato dimostrato, ancora una volta, dalle dichiarazioni del presidente, Hassan Rouhani, di fronte al parlamento iraniano nella giornata di domenica. Nella necessità anche di concedere qualcosa agli esponenti della linea dura contrari al dialogo con gli Stati Uniti, Rouhani ha cioè ribadito il diritto della Repubblica Islamica ad arricchire l’uranio per scopi pacifici, aggiungendo che il suo governo non si piegherà né si lascerà intimidire da nessuna minaccia esterna.
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di Silvia Mari
“Prossimità, immediatezza e linguaggio diretto” sono i termini attraverso cui Mons. Viganò, direttore del Centro Televisivo Vaticano, in occasione dei festeggiamenti per i 25 anni dell’Agenzia di stampa Dire al Centro Frentani il 7 novembre, ha descritto il linguaggio e il modo di comunicare di Papa Francesco. “Approccio inclusivo e corporalità” - tipici di una cultura e gestualità sudamericana - hanno reso il Papa vicinissimo alla sensibilità delle persone.
E’ questione di stile, senza dubbio, come Mons. Viganò ben ha evidenziato, ma è soprattutto rivoluzione di concetti e priorità del coraggio. Anche Giovanni Paolo II è stato papa vincente in tv e nelle piazze, ma è stato anche il capo politico-machiavellico e conservatore di una Chiesa che doveva essere blindata dalla storia e dai suoi violenti cambiamenti di ordine politico e anche etico-morale.
Tutto il contrario per Papa Bergoglio. Non ha paura di parlare ai fedeli cattolici e di restituire quelli che potremmo definire gli “scandali” del nostro tempo senza fare eccezione per la pagine nere della Chiesa di Roma. Nell’omelia dell’8 novembre alla Domus Santa Marta, Papa Francesco ha parlato di “dea tangente” mutuando lo stesso linguaggio con cui aveva già in tante altre occasioni appellato il denaro richiamiandolo all’incarnazione mondana del demonio. La tangente è come una sostanza stupefacente, si trasforma in una dipendenza che corrompe sempre di più l’anima di chi si lascia tentare e toglie dignità. Invoca pietà per questo malcostume e non è la prima volta che ammonisce così la politica e i suoi attori.
Pochi giorni prima di quest’omelia così attuale, novità assoluta nella storia del cattolicesimo, Papa Francesco aveva lanciato un sondaggio sul sesso. E’ la prima volta che i fedeli invece di ricevere un’insindacabile nomenclatura morale, vengono interpellati su questioni di ordine etico. Dai separati, ai contraccettivi, all’omosessualità: 38 domande per porsi degli interrogativi pastorali rispetto al nuovo volto della società e dei suoi costumi.
Una rivoluzione la sola decisione di non espugnare bandendo, come sempre accaduto, i cambiamenti sociali da un’analisi sistematica anche di ordine spirituale e teologico. Una rivoluzione scegliere “democraticamente” di ascoltare l’opinione e la sensibilità dei fedeli credenti. Il questionario si scarica dal sito della santa Sede e la raccomandazione è di assicurarne una diffusione capillare nelle Chiese locali.E’ stato ampiamente chiarito che l’esito delle risposte non apporterà modifiche di dottrina, ma è già in atto - attraverso questa scelta di metodo - un atteggiamento pastorale diverso. La Chiesa vuole essere attenta al mondo in cui opera, rendersi conto, non escludere pregiudizialmente e con attitudine dogmatica, le diverse situazioni in cui i cattolici del 2013 pregano, credono, educano i propri figli, entrano in Chiesa, vivono la propria vita di relazioni.
Forse è anche questa la strada, l’unica possibile, per cogliere i motivi della disaffezione che ha allontanato tante persone dalla Chiesa e impoverito le vocazioni religiose. Incredibile che la struttura più gerarchica e antidemocratica della storia abbia scelto, prima delle Istituzioni secolari e con maggiore fluidità, di restituire la parola ai singoli.
La politica, vedi il caso italiano, ha combattuto per ostacolare l’informazione libera, le convocazioni elettorali referendarie, il controllo dei rappresentanti parlamentari, l’applicazione di una piena democrazia.
Il sondaggio dal basso sui temi più scottanti della bioetica cattolica è già, di per sé, una novità di dottrina e una scelta di assoluto coraggio che non sarà piaciuta a buona parte dell’apparato ecclesiastico ma che ha già conquistato tantissimi credenti e forse anche i dubbiosi, i più lontani, i possibili dispersi.
I tempi in cui dal trono papale di Ruini si disincentivavano gli italiani ad andare al voto per la legge 40 sembrano lontanissimi e un nuovo corso teologico è già iniziato. Quella di Francesco non è una Chiesa moderna, di moda come qualcuno con disprezzo etichetta, ma una Chiesa di coraggio.
Quello che serve per rifiutare corruzione, per imparare ad usare misericordia, per non bandire l’umanità, ma accoglierla. Null’altro che lo scandalo e il rigore del Vangelo. Quello di essere, come ai tempi dei primi martiri e dei fasti decaduti di un Impero, “ospedale da campo” in mezzo a tutte le guerre.
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di Michele Paris
Il primo mese dall’entrata in vigore di una delle componenti fondamentali della cosiddetta “riforma” del sistema sanitario americano del presidente Obama è stato segnato da infinite polemiche e imbarazzi per un’amministrazione democratica che ha visto crollare rapidamente ogni pretesa di promuovere la nuova legge come un passo avanti nell’offrire una copertura assicurativa accessibile e di qualità per decine di milioni di americani.
Il primo ottobre scorso ha aperto i battenti il sito web HealthCare.gov grazie al quale coloro che risultano sprovvisti di una polizza sanitaria e sono obbligati per legge ad acquistarne una dalle compagnie private, potrebbero in teoria scegliere la più adatta alle proprie esigenze mediche ed economiche tra un ventaglio di piani messi a disposizione (“Exchanges”).
Il sito è risultato in realtà un fiasco clamoroso che ha costretto il governo di Washington a correre ai ripari per limitare i danni di fronte alle critiche alimentate dai repubblicani e dagli altri oppositori della legge. Lo stesso Obama ha più volte affrontato la questione in pubblico per assicurare che le difficoltà iniziali sono da attribuire a questioni tecniche più o meno facilmente risolvibili.
Il Ministero della Salute (Department of Health and Human Services, HHS) ha finora cercato di occultare la gravità degli impedimenti del sito che stanno rendendo più che difficoltosi i tentativi di quegli americani che dovrebbero dimostrare di avere acquistato una polizza entro poche settimane. Perciò, non è dato sapere quanti utenti siano riusciti finora ad ottenere una copertura sanitaria in questo modo, anche se alcuni documenti ufficiali da poco resi noti hanno rivelato come nelle prime 24 ore dal lancio di HealthCare.gov solo 6 americani avevano visto andare a buona fine la procedura di acquisto.
Altre rivelazioni giornalistiche hanno poi messo in luce come la Casa Bianca fosse perfettamente al corrente dei problemi successivamente emersi, come conferma una comunicazione inviata a fine agosto da CGI Federal - la compagnia informatica che si è assicurata l’appalto del progetto per il valore di quasi 100 milioni di dollari - al Centro per i Servizi di Medicare e Medicaid, responsabile dell’implementazione di questa sezione della legge, per avvertire che il sito era pronto soltanto al 55%.
Ciononostante, l’amministrazione democratica ha deciso di far partire il progetto alla data prevista, soprattutto per evitare possibili nuove polemiche da parte dei repubblicani già impegnati ad attaccare la legge con iniziative al Congresso nell’ambito dello “shutdown” e dell’innalzamento del tetto del debito federale.
Successivamente, il presidente Obama è finito ancor più nella bufera dopo che le compagnie assicurative hanno iniziato a inviare lettere di rescissione delle polizze sanitarie già esistenti a milioni di clienti. L’inquilino della Casa Bianca è stato così accusato di avere mentito spudoratamente agli americani, quando in più occasioni aveva promesso che “chi era soddisfatto del proprio piano sanitario avrebbe potuto conservarlo”. Gli studi interni al governo nei mesi successivi al passaggio della “riforma” avevano infatti mostrato come tra il 40% e il 67% dei detentori di polizze di compagnie private avrebbero perso la loro copertura con l’entrata in vigore della nuova legge.
Le azioni in corso da parte delle grandi compagnie sono la diretta conseguenza di una disposizione contenuta nella “riforma sanitaria” (“Obamacare”) che impone ad ogni piano assicurativo di includere almeno dieci “servizi essenziali”, tra cui le cure per la maternità, il trasporto ad una struttura di pronto soccorso, gli esami di laboratorio e i farmaci prescritti dal proprio medico.Dal momento che milioni di polizze già stipulate da coloro che acquistano individualmente la propria copertura sanitaria non contengono tutti questi servizi, le compagnie sono state costrette a rescinderle. Questa spiacevole sorpresa, secondo alcune stime, potrebbe riguardare fino all’80% dei 14 milioni di americani che non sono coperti da una polizza fornita dai loro datori di lavoro o da programmi pubblici.
Soprattutto, questi ultimi saranno obbligati ad acquistare una nuova polizza che rispetti gli standard di “Obamacare” pagando premi e costi vivi spesso molto più alti rispetto a quelli sostenuti finora. Molti altri, inoltre, non potranno nemmeno beneficiare dei sussidi federali previsti per l’acquisto di una nuova assicurazione sanitaria perché hanno un reddito considerato “troppo alto”, anche se si ritroveranno a dover pagare fino a centinaia di dollari in più al mese, talvolta per piani meno generosi.
Anche quanti rientrano invece nelle fasce di reddito che hanno diritto ai sussidi, potendo ottenere a volte un’assicurazione senza sborsare un solo dollaro, otterranno comunque piani di copertura ridotti all’osso e con spese consistenti in caso di necessità di cure o servizi non inclusi nelle polizze.
Come ha spiegato recentemente un articolo del Washington Post, i dieci “servizi essenziali” imposti da “Obamacare” determinano un aumento medio dei costi per le compagnie assicurative tra il 30% e il 50%. A ciò va aggiunto il fatto che esse non possono più escludere dalla copertura sanitaria coloro che hanno “condizioni pre-esistenti” di malattia, facendo lievitare ulteriormente i rischi e, dunque, anche i costi che verranno ovviamente scaricati sui loro clienti.
Come già ricordato, ad esclusione degli americani con redditi da fame, tutti sono obbligati ad acquistare una polizza assicurativa per non incorrere nel pagamento di una penale, così che le compagnie private si ritroveranno con decine di milioni di nuovi clienti e, oltretutto, senza significativi meccanismi di controllo sui premi da esigere.
Le difficoltà che sta incontrando l’amministrazione Obama in queste fasi di avvio della “riforma” approvata dal Congresso nel 2010 stanno inevitabilmente alimentando gli attacchi da destra dei repubblicani, i quali sfruttano politicamente una più che legittima avversione per la nuova legge sanitaria diffusa tra gli americani.
Soprattutto, però, le vicende di queste settimane confermano come “Obamacare” non abbia pressoché nulla a che vedere con il diritto ad una copertura sanitaria accessibile e di qualità per tutti gli americani.
La “riforma” voluta da Obama, infatti, non è altro che il risultato degli sforzi della classe politica e delle compagnie assicurative per ridurre i costi dell’assistenza sanitaria pubblica e privata, riducendo i servizi offerti ai cittadini e facendo aumentare i profitti delle stesse corporation che operano in questo settore.
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di Michele Paris
Tra sabato e martedì prossimo andrà in scena a Pechino il terzo e più importante plenum del 18esimo Congresso del Partito Comunista Cinese (PCC), aperto nel novembre del 2012. La nuova leadership della seconda potenza economica del pianeta, secondo ogni previsione, presenterà ai quasi 400 membri del Comitato Centrale del partito i propri piani per liberalizzare ulteriormente il sistema economico e finanziario, da implementare tra profonde divisioni interne alla classe dirigente cinese e gravi tensioni che la nuova accelerazione capitalista provocherà tra la popolazione.
Come previsto dal protocollo del regime, le prime due riunioni plenarie del PCC seguite all’inaugurazione di un nuovo Congresso a durata quinquennale riguardano quasi interamente questioni relative alla nomina dei nuovi vertici del partito, mentre il terzo serve a introdurre la visione economica e politica della leadership entrante dopo che essa ha più o meno consolidato il proprio potere.
Le aspettative per l’evento che sta per aprirsi sono altissime sia in Cina che tra i governi e gli investitori stranieri, tanto che in questi giorni si stanno sprecando i paragoni con un episodio cruciale della storia recente di questo paese, vale a dire il terzo plenum nel 1978 quando Deng Xiaoping lanciò il proprio programma di riforme di libero mercato.
Se i contenuti delle proposte del presidente Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang saranno resi noti solo alla chiusura della seduta plenaria, le linee guida per il prossimo futuro del sistema economico cinese appaiono in gran parte scontate. La crescita, cioè, dovrebbe essere favorita attraverso una maggiore competitività, l’incoraggiamento del settore privato, la deregolamentazione del settore finanziario, lo stimolo ai consumi individuali e l’allentamento dei controlli governativi sul flusso di capitali, sui tassi di interesse e sui prezzi delle risorse energetiche.
Alcuni provvedimenti di questo genere erano stati peraltro già adottati lo scorso mese di luglio, quando, tra l’altro, è stato lanciato un progetto pilota per una Zona Economica Speciale a Shanghai per testare alcune delle “riforme” di libero mercato che dovrebbero essere adottate a livello nazionale, sia pure in maniera più laboriosa.
Più in generale, come ha spiegato al New York Times il presidente della compagnia di investimenti cinese Primavera Capital Group, la sfida della nuova dirigenza riguarderà “fondamentalmente il ruolo dello stato in un’economia moderna”. Le attenzioni dei vertici di Pechino saranno concentrate in particolare sui colossi pubblici su cui si è basata gran parte dell’impetuosa crescita della Cina negli ultimi decenni.
I piani del presidente Xi e del premier Li appaiono ovviamente tutt’altro che semplici, come dimostra la cautela dei loro predecessori - rispettivamente Hu Jintao e Wen Jabao - i quali avevano fatto anch’essi simili promesse un decennio fa, nonché le resistenze che un simile percorso sta già provocando nel partito.
Le grandi aziende statali, infatti, sono estremamente potenti ed hanno legami consolidati ad altissimo livello nel PCC. Esse e i loro referenti politici temono principalmente la concorrenza sia degli attori privati che delle compagnie straniere e la fine dei privilegi a loro riservati, come l’accesso al credito a bassissimo costo o la garanzia di operare spesso in regime di monopolio.La disputa interna al PCC per la direzione da dare al paese, risoltasi almeno formalmente con il successo della fazione favorevole all’apertura dell’economia cinese, è apparsa evidente in particolare con la vicenda di Bo Xilai, l’ex potente segretario della città di Chongqing caduto in disgrazia.
La purga ai danni di quest’ultimo ha rappresentato un passaggio cruciale nel superamento almeno temporaneo delle resistenze alla liberalizzazione dell’economia che Bo impersonava. Come è noto, l’ex membro del Politburo è stato condannato all’ergastolo in appello per corruzione proprio un paio di settimane fa dopo che le sue speranze di entrare nel Comitato Permanente del Politburo del partito erano crollate già nel marzo del 2012.
In quell’occasione, Bo e la moglie, Gu Kailai, condannata a morte lo scorso anno con pena sospesa per l’assassinio di un uomo d’affari britannico, erano stati arrestati nell’ambito di un’indagine scaturita in gran parte da motivazioni politiche.
Probabilmente non a caso, poco prima dell’inizio dei guai giudiziari di Bo, la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto denominato “Cina 2030” in collaborazione con il Centro di Ricerca e Sviluppo del Consiglio di Stato (governo) cinese, nel quale venivano delineate con chiarezza le iniziative da perseguire per “ristrutturare” l’economia del paese e aprirla ai capitali stranieri.
Tra le proposte avanzate dallo studio vi era, appunto, lo smantellamento dei monopoli statali nei settori strategici dell’economia, a cui Bo Xilai era legato e che manifestavano una netta opposizione alla strada prospettata dalla Banca Mondiale, a sua volta portavoce degli ambienti economici e finanziari internazionali.
Bo, inoltre, era considerato anche il leader della “Nuova Sinistra” neo-maoista, presa di mira dalle fazioni rivali perché responsabile di avere alimentato tra le fasce più disagiate della popolazione pericolose aspettative legate ad una società più equa attraverso la difesa del ruolo assegnato alle grandi aziende statali.
Queste ultime, in realtà, ben lontane dall’essere gestite nell’interesse pubblico, risultano essere pressoché esclusivamente strumenti per l’arricchimento di una cerchia relativamente ristretta legata ai vertici del Partito Comunista che si oppone perciò ai cambiamenti non per ragioni ideologiche ma esclusivamente per la difesa dei propri interessi. L’eliminazione di Bo ha dunque spianato la strada all’avanzamento delle “riforme” in senso capitalista che attendono la Cina nei prossimi anni.
I cambiamenti che verranno proposti nel corso del plenum del PCC che aprirà i battenti sabato, in ogni caso, sono state salutate in maniera euforica dalla stampa ufficiale di mezzo mondo, impegnata a spiegare come il rallentamento in corso dell’economia cinese abbia inevitabilmente spinto la nuova leadership di Pechino ad imprimere una svolta più decisa verso l’apertura del sistema.
Inoltre, senza timore di cadere in contraddizione, analisti e commentatori continuano a sottolineare come “riforme” che dovrebbero includere, tra l’altro, il ridimensionamento delle aziende pubbliche e una maggiore flessibilità della manodopera, abbiano l’obiettivo di ridurre il gap tra ricchi e poveri e creare maggiore occupazione.
In realtà, le liberalizzazioni si accompagneranno come di consueto ad inevitabili e massicce perdite di posti di lavoro, nonché ad un’ulteriore precarizzazione degli impieghi e ad un aggravamento delle disuguaglianze sociali. Come ha ricordato un’analisi di questa settimana della Associated Press, infatti, la precedente e più significativa fase di “riforme” economiche lanciata sul finire degli anni Novanta durante la premiership di Zhu Rongji, caratterizzata da un’ondata di privatizzazioni e progetti di “modernizzazione” delle compagnie statali, fu seguita dalla rovinosa perdita di milioni di posti di lavoro.
Per questa ragione, oltre a superare l’opposizione interna, la dirigenza cinese si troverà costretta a fronteggiare le resistenze e le tensioni sociali che si diffonderanno ben presto tra una sterminata popolazione che pagherà le conseguenze delle “riforme” stesse.
Assieme alla campagna lanciata dagli organi di propaganda del regime per presentare i piani che saranno in discussione al plenum come un passo avanti verso la creazione di un paese più prospero, i vertici del partito negli ultimi mesi hanno così proceduto a rafforzare il controllo sulla società cinese, intensificando la censura dei media e restringendo gli spazi a disposizione per qualsiasi opinione che possa alimentare pericolose illusioni di liberalizzazioni politiche o di un possibile percorso verso una sistema più equo.