di Mario Lombardo

L’avanzata dell’esercito fedele al regime siriano di Bashar al-Assad in numerose località del paese mediorientale sta contribuendo ad aggravare le divisioni all’interno di un’opposizione armata alla quale l’Occidente sta cercando disperatamente di dare il proprio sostegno materiale per ribaltare le sorti del conflitto senza rafforzare le frange più estremiste.

Lo scivolamento verso uno scontro aperto tra le varie fazioni che compongono l’opposizione al regime è apparso evidente la scorsa settimana con l’assassinio nella provincia occidentale di Latakia di un comandante del cosiddetto Libero Esercito della Siria. L’uccisione di Kamal Hamami è stata opera di una milizia integralista legata ad Al-Qaeda, denominata Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), in seguito ad una disputa con uno dei leader locali di quest’ultima.

Tra le varie motivazioni per l’accaduto riportare dai media, ci sarebbe una dichiarazione emessa dal Libero Esercito della Siria nella quale veniva affermato il rispetto delle minoranze alauita e cristiana nel paese. Alla base dello scontro tra bande rivali potrebbe però anche esserci il controllo dei posti di frontiera nel nord della Siria, da cui transitano armi e beni di prima necessità per la popolazione e che spesso i “ribelli” sfruttano per imporre pesanti tributi sul loro passaggio.

Solo poche ore dopo l’assassinio del comandante Hamami, scontri a fuoco tra gruppi armati anti-Assad sono esplosi anche ad Aleppo, in particolare nella località di Bustan al-Qasr, nuovamente a causa di dispute legate al controllo dei vari quartieri della città. L’impopolarità delle milizie è stata poi confermata da una sorta di rivolta andata in scena qualche giorno fa e che ha avuto come protagonisti alcuni abitanti della parte orientale di Aleppo. Questi ultimi hanno infatti contestato duramente le formazioni “ribelli” che impedivano il transito di cibo e medicinali destinati ai loro familiari che vivono nelle aree sotto il controllo del governo.

Questi ed altri scontri interni all’opposizione - come il bombardamento di un deposito di armi del Libero Esercito da parte dei jihadisti a Idlib nella giornata di sabato - indicano una più che probabile resa dei conti nel prossimo futuro tra le fazioni secolari più vicine all’Occidente e quelle di orientamento fondamentalista. Il quotidiano britannico Daily Telegraph, ad esempio, ha scritto che in seguito alla morte del comandante Hamami, il Libero Esercito della Siria starebbe preparando una ritorsione contro l’ISIS nella provincia di Latakia.

La crescente aggressività dei gruppi integralisti è stata in ogni caso sfruttata dai vertici dell’opposizione “moderata” per lanciare nuove suppliche all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti per accelerare il promesso invio di armi pesanti, così da emarginare le formazioni fondamentaliste e provare a contrastare l’offensiva in corso in quasi tutto il paese da parte del regime.

Dopo avere ripreso il controllo della città di Qusayr al confine con il Libano nel mese di giugno, le forze di Assad sarebbero infatti ora sul punto di liberare Homs dalla presenza dei “ribelli”, mentre in questi giorni gli scontri si sono intensificati anche in alcuni quartieri di Damasco controllati dall’opposizione, tra cui quello di Qaboun. Sempre a Damasco, poi, un’autobomba fatta esplodere nei pressi di una stazione di polizia ha ucciso almeno 13 persone nella giornata di lunedì, allungando l’elenco delle vittime causate da attentati terroristici ad opera dei gruppi jihadisti.

Le difficoltà che stanno attraversando le fazioni “ribelli” sono apparse in ogni caso evidenti anche dalla persistente incapacità a formare quello che dovrebbe fungere da governo provvisorio a Damasco dopo l’eventuale caduta di Assad. Ciò viene da tempo richiesto dai loro sponsor in Occidente e in Medio Oriente, così da dare una parvenza di efficienza e unità ad un’opposizione che rimane al contrario profondamente divisa tra le varie correnti che la compongono.

Le divisioni sono peraltro la conseguenza non solo della loro sostanziale impopolarità tra la popolazione ma anche del conflitto tra i paesi che le sostengono e che operano per esercitare la maggiore influenza possibile in Siria.

A questo proposito, la recente elezione a capo della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione di Ahmed al-Jarba è stata universalmente considerata come una vittoria per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti ai danni del Qatar, rafforzata oltretutto dalle successive dimissioni di colui che avrebbe dovuto fungere da primo ministro, Ghassan Hitto, personaggio al contrario vicino allo stesso emirato e ai Fratelli Musulmani.

Il rovescio patito dal Qatar nella competizione in corso per il dopo-Assad e l’installazione al vertice della Coalizione di un uomo di Riyadh sono legati con ogni probabilità anche al rovesciamento da parte dei militari del presidente islamista Mohamed Mursi in Egitto, anch’egli appoggiato da Doha, e suggeriscono forse un ripensamento generale della strategia dei governi occidentali, sempre più preoccupati per le conseguenze della loro politica irresponsabile che in due anni e mezzo ha fatto confluire in Siria decine di migliaia di guerriglieri integralisti che potrebbero addirittura finire per controllare un intero paese nel cuore del Medio Oriente.

Un qualche ripensamento sulla fornitura di armi ai “ribelli” è stato espresso così dal primo ministro britannico, David Cameron, il quale lunedì si sarebbe finalmente reso conto dei vari effetti collaterali che comporterebbe una scelta simile. In primo luogo, hanno riportato i giornali del Regno Unito, Cameron ha riconosciuto il rischio concreto - per non dire la certezza - che le armi finirebbero nella mani delle formazioni jihadiste attive in Siria. Inoltre, senza probabilmente incidere sulle sorti del conflitto, la decisione coinvolgerebbe Londra in una vera e propria guerra, facendo aumentare sensibilmente il rischio per la sicurezza del paese.

Sulla frenata di Cameron potrebbe avere influito non solo la resistenza della Camera dei Comuni di Londra ad approvare una misura che consenta al governo di inviare armi all’opposizione anti-Assad ma forse anche una notizia diffusa qualche giorno fa dalla Reuters che ha rivelato la presenza in Siria di centinaia di talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban), impegnati a combattere a fianco dei “ribelli” sostenuti dall’Occidente.

Anche negli Stati Uniti sembra regnare l’incertezza, visto che l’annuncio del mese scorso del presidente Obama di inviare armi ai “ribelli” è rimasto per ora senza seguito a causa delle perplessità di molti membri del Congresso a Washington, i quali continuano ad impedire lo sblocco delle forniture destinate all’opposizione siriana.

Un articolo del Wall Street Journal di domenica scorsa ha anche rivelato come un gruppo di consulenti legali dell’amministrazione Obama abbia messo in guardia il presidente dalla possibile violazione del diritto internazionale se si dovesse dare il via libera alla spedizione di armi all’opposizione siriana. Una tale eventualità, commenta il quotidiano newyorchese, potrebbe addirittura legittimare una reazione di Assad nei confronti degli Stati Uniti.

Il via libera alle armi, infatti, dovrebbe avvenire senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU - dove Cina e Russia continueranno a porre il veto ad ogni risoluzione che apra la strada ad un intervento esterno in Siria - e metterebbe gli USA in una posizione legalmente ingiustificabile, vale a dire di sostenitori materiali di una parte coinvolta in una guerra civile in un paese estero.

Un tale scenario finirebbe per produrre una situazione paradossale rispetto ai principi che ufficialmente ispirano le azioni di Washington, mettendo cioè gli Stati Uniti fuori legge e legittimando invece un’eventuale ritorsione armata di Assad contro obiettivi americani.

Che una mossa di questo genere possa risultare contraria al diritto internazionale non comporta comunque l’abbandono di essa da parte americana. A Washington, anzi, sono in corso da tempo manovre pseudo-legali per fare apparire legittima non solo la decisione di fornire armi all’opposizione in Siria ma anche quella di imporre una fly-zone sul paese mediorientale o di sferrare attacchi aerei e bombardamenti mirati contro le difese del regime di Assad.

La volontà degli USA di rispettare le norme del diritto internazionale è d’altra parte risaputa, così come lo è quella di Israele, le cui forze sottomarine lo scorso 5 luglio hanno per l’ennesima volta agito al di fuori di ogni giustificazione legale lanciando un nuovo attacco contro un obiettivo in territorio siriano, ormai il quarto dall’inizio dell’anno.

A rivelarlo sono state fonti governative americane e britanniche, le quali hanno confermato come Tel Aviv - in assenza di qualsiasi provocazione dalla Siria - abbia colpito un deposito di missili anti-nave di fabbricazione russa in dotazione del regime di Damasco e conservato nella città costiera di Latakia.

di Michele Paris

L’assoluzione del vigilante George Zimmerman in un tribunale statale della Florida per l’assassinio del 17enne di colore Trayvon Martin ha scatenato nei giorni scorsi una serie di manifestazioni di protesta in numerose città degli Stati Uniti per denunciare un procedimento che è apparso, a tutti gli effetti, come una tragica parodia della giustizia.

Organizzate in buona parte da gruppi e attivisti che si battono per i diritti delle minoranze di colore, le proteste sono andate in scena nelle piazze di New York, Los Angeles, San Francisco, Chicago, Miami, Atlanta, Philadelphia e di molte altre città, dove le forze di polizia hanno cercato di disperdere i manifestanti per evitare un’esplosione della rabbia popolare.

Secondo quanto riportato dalla Associated Press, inoltre, nella mattinata di lunedì a Los Angeles sono state arrestate 80 persone dopo che un raduno pacifico ma non autorizzato di dimostratori sul Sunset Boulevard, a Hollywood, si è scontrato con un centinaio di agenti anti-sommossa.

Il verdetto nel caso di Trayvon Martin era stato raggiunto e comunicato nella serata di sabato da una giuria composta da sei donne, nessuna delle quali afro-americana. La giuria ha riconosciuto la legittima difesa di George Zimmerman, il quale la sera del 26 febbraio 2012 aveva sparato con la propria pistola - detenuta legalmente - al giovane adolescente disarmato mentre si stava recando verso l’abitazione del padre e della sua convivente in una “gated community” di Sanford, in Florida.

Secondo l’opinione dei media, dopo tre settimane di udienze in un tribunale della contea di Seminole, i legali di Zimmerman avrebbero svolto un lavoro decisamente più meticoloso ed efficace rispetto all’accusa, nonostante i fatti emersi avessero messo in luce la debolezza della tesi dell’autodifesa del responsabile dell’omicidio.

Ad influire sul verdetto è stato anche l’atteggiamento delle forze di polizia, le quali hanno sostanzialmente simpatizzato per Zimmerman e per il suo incarico di coordinatore delle ronde che vigilavano sul quartiere residenziale dove è stato assassinato Trayvon Martin. La predisposizione delle autorità di polizia e giudiziarie nei confronti di Zimmerman era risultata poi evidente dal fatto che, in seguito all’assassinio, la procura lo aveva tardivamente incriminato per omicidio colposo e omicidio di secondo grado solo dopo una campagna pubblica sostenuta dai genitori del 17enne di colore.

Zimmerman e i suoi legali, da parte loro, hanno sempre sostenuto la legittimità dell’accaduto, appellandosi al contenuto di una legge ultra-reazionaria definita “stand your ground”, la quale consente a chiunque abbia facoltà di portare con sé un’arma, grazie alla legislazione permissiva dello stato della Florida, di utilizzare la forza quando sussiste una minaccia alla propria vita, invece di “fare un passo indietro” e riparare in un luogo sicuro.

Nella notte del 26 febbraio 2012, in ogni caso, George Zimmerman aveva chiamato il 911 dopo avere notato per strada Trayvon Martin, da lui definito “un tipo realmente sospetto”, deducendo ciò soltanto dal colore della pelle e da una felpa che indossava con il cappuccio portato sopra la testa per ripararsi dalla pioggia. Zimmerman avrebbe poi detto al servizio emergenze che il giovane stava dirigendosi nella sua direzione per poi affermare subito dopo che si stava invece allontanando.

Dall’altro capo del telefono venne detto chiaramente a Zimmerman di non inseguire il 17enne afro-americano ma, pochi minuti più tardi, quest’ultimo sarebbe finito vittima di un unico colpo di pistola diretto al cuore. Poco prima di morire, Trayvon Martin aveva parlato al telefono con un’amica che ha successivamente testimoniato come il giovane le avesse detto di sentirsi inseguito da “un bianco in atteggiamento ostile”.

Lo sparo di Zimmerman è avvenuto dopo una colluttazione che non ha avuto nessun testimone oculare. Il 28enne vigilante - la cui ricostruzione degli eventi è apparsa spesso contraddittoria - ha sostenuto di essere stato aggredito e di avere utilizzato la sua pistola per legittima difesa, anche se, ad esempio, le ferite riportate erano state giudicate superficiali, mostrando come la sua vita non fosse stata messa in pericolo in nessun modo.

Le prove e la ricostruzione dei fatti indicano dunque come Trayvon Martin, tutt’al più, abbia agito per difendersi da una persona armata che non aveva alcun motivo per inseguirlo, oltretutto dopo che il 911 gli aveva chiesto di astenersi dal farlo.

Di fronte alla reazione popolare per il verdetto di assoluzione e in risposta ad un appello lanciato dall’Associazione Nazionale per la Promozione delle Persone di Colore (NAACP), il Dipartimento di Giustizia di Washington ha fatto sapere di volere studiare la possibilità di avviare un procedimento civile contro George Zimmerman. Un’indagine federale nei suoi confronti era peraltro già stata aperta dopo l’assassinio di Trayvon Martin ma venne successivamente abbandonata per consentire l’avanzamento del processo nel tribunale statale della Florida.

Un’eventuale causa civile potrebbe essere intentata solo se il Dipartimento di Giustizia dovesse constatare l’esistenza di prove che indichino motivazioni di tipo razziale nelle azioni di Zimmerman. Nella giornata di lunedì, tuttavia, i media americani hanno riportato il parere di agenti dell’FBI che hanno indagato sul caso e che hanno escluso che il responsabile della morte del teenager abbia agito in base a motivazioni di ordine razziale.

L’annuncio dell’amministrazione Obama appare quindi come un tentativo di placare la rabbia ampiamente diffusa tra la popolazione di colore e, sia pure senza avere seguito, il fatto di prospettare una possibile causa civile di questo genere contribuisce a mantenere convenientemente l’intera vicenda all’interno dei confini del delitto impunito di stampo razzista.

Le critiche al verdetto di assoluzione di attivisti storici per i diritti dei neri come Jesse Jackson o Al Sharpton - entrambi non a caso impegnati a chiedere che le manifestazioni di protesta non sfocino in episodi di violenza - si basano soltanto su considerazioni di ordine morale, come se il razzismo fosse un fattore indipendente dalla realtà sociale in cui si svolgono i fatti e attorno alla quale un qualsiasi dibattito pubblico continua ad essere boicottato.

Se, in effetti, la componente razzista ha con ogni probabilità influito sia sulle azioni di George Zimmerman sia sul verdetto che gli consentirà di tornare libero nonostante l’assassinio di un ragazzo di 17 anni, i drammatici eventi del febbraio 2012 in una cittadina della Florida e la farsa del procedimento legale conclusosi qualche giorno fa hanno a che fare soprattutto con l’evoluzione stessa della società americana, sottoposta a processi di trasformazione modellati da politiche reazionarie come quelle che legittimano, se non addirittura esaltano, il militarismo e l’uso di armi da fuoco.

Uno scenario, quest’ultimo, che produce inevitabilmente una sottocultura alimentata dalle stesse azioni del governo e dalla retorica dei politici di Washington di cui si è nutrito lo stesso Zimmerman e che, come dimostra la sostanziale complicità delle forze di polizia, gli ha permesso fin dall’inizio di essere certo di potere continuare a vivere da libero cittadino con una pistola alla cintura dopo avere tolto la vita senza ragione ad un adolescente di colore che non aveva commesso alcun crimine.

di Carlo Musilli

Jean Claude Juncker detiene due primati di segno opposto. In carica per oltre 18 anni, è stato il più longevo primo ministro al mondo fra quelli democraticamente eletti. Un record notevole, ma che non potrà più incrementare, visto che dalla settimana scorsa è anche il primo e finora unico governante ad aver pagato le conseguenze del Datagate internazionale.

Le sue dimissioni sono arrivate giovedì scorso nelle mani di Enrico, Granduca di Lussemburgo. Si attende ora la convocazione del voto anticipato, anche se la stampa locale dà quasi per certo che si tornerà alle urne il 20 ottobre. I cristianodemocratici del Csv - che guidano il governo insieme ai socialisti del Lsap - potrebbero indicare come successore del decano dimissionario Viviane Reding, attuale commissaria europea alla Giustizia. Juncker però, a 58 anni, non si sente ancora pronto per la pensione e ha già confermato di volersi ricandidare. Servirà il placet del partito, ma sembra poco più di una formalità.

Il Csv ha infatti ribadito di avere fiducia nel proprio leader storico, nonostante sia stato travolto dall'accusa di non aver vigilato sui servizi segreti (lo Srel), rendendosi addirittura complice di vari abusi. Nell'ultima riunione di governo, d'altra parte, l'ormai ex premier si è difeso con cipiglio, negando ogni coinvolgimento e sostenendo che i mancati controlli sarebbero colpa della commissione parlamentare competente. Il tutto senza dimenticare la sua solita ironia: "Se sudo, non è perché ho paura - ha detto - è che qui fa caldo".

In realtà Juncker aveva sfidato i 60 deputati a sfiduciarlo in Parlamento ("se dovete votare, votate"), pensando di poter contare ancora sull'appoggio dei socialisti, che insieme ai cristianodemocratici hanno in tasca 39 seggi. Sarebbe stato il secondo voto di fiducia in un mese, cosa mai accaduta in Lussemburgo dal 1848, anno dell'indipendenza. Gli alleati hanno però invitato il Premier ad assumersi le proprie responsabilità, chiedendo le elezioni anticipate.

A ben vedere, in effetti, le accuse nei confronti di Juncker sono diverse. Non si tratta solo delle consuete intercettazioni illegali (caso scoppiato negli Stati Uniti che ha già prodotto metastasi in Francia). Secondo il rapporto parlamentare che ha inchiodato il primo ministro, i servizi lussemburghesi avrebbero agito come una "struttura di polizia segreta" e corrotta, organizzando missioni fuori dal proprio mandato e facendo affari perfino attraverso la compravendita di automobili pagate con soldi pubblici.

Pur essendo a conoscenza di queste pratiche, Juncker - la cui testimonianza involontaria è stata ottenuta in stile 007, con orologi-registratori - non ha denunciato alcunché. Anzi, alcuni quotidiani hanno ipotizzato che il premier abbia usato le informazioni ottenute illegalmente in modo da ottenere benefici per sé e per il partito. Si è parlato perfino di un falso dossier con accuse di pedofilia contro il procuratore generale, reo di voler indagare su una serie di attentati compiuti a metà degli anni Ottanta.

L'indagine è iniziata con la pubblicazione sulla stampa di una conversazione risalente al 2008 fra Juncker e Marco Mille, all’epoca responsabile dei servizi. Nella registrazione Mille confessava che alcuni dei suoi uomini avevano intercettato il Granduca Enrico, il quale sarebbe stato in contatto con i servizi segreti britannici.

Lo scandalo c'è, non si può negare. Ma è davvero questa la fine politica del super-decano Jean Claude? Probabilmente no. Juncker è ancora popolare, soprattutto fra i giovani. Certo, il corpo elettorale non è dei più vasti e per spostare gli equilibri basta che cambi idea l'equivalente di un quartiere di una città italiana. L'intera popolazione del Lussemburgo supera di poco il mezzo milione di persone (per intenderci, circa un quinto di quelle che vivono a Roma).

E tutto si può dire meno che se la passino male: secondo il Fondo Monetario Internazionale, la minuscola monarchia parlamentare è al primo posto nella classifica del Pil pro capite (82.700 euro l'anno nel 2011, contro una media di 28.300 nell'Eurozona e di 26 mila in Italia). A fare la fortuna del Lussemburgo è il sistema bancario, specializzato nella gestione dei fondi d'investimento e gelosissimo custode d'ogni informazione. La strenua difesa del segreto ha fatto del Paese una delle mete preferite per chi ha enormi capitali da parcheggiare all'estero.

Benessere a parte, anche prima dell'ultimo scandalo a Juncker era capitato di ricevere critiche dai suoi facoltosi connazionali. L'accusa più frequente era di dedicare più energie all'Europa che al Paese. Già, perché quella di Jean Claude è una delle facce più note in ambito internazionale, a Bruxelles e non solo. Dal 2005 al gennaio scorso è stato presidente dell'Eurogruppo (il primo a ricoprire la carica in modo permanente). In precedenza era stato governatore del Fondo Monetario Internazionale e responsabile della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Il suo nome era circolato per la presidenza sia della Commissione europea sia del Consiglio Ue.

Nonostante la maggior parte dei suoi impegni fosse oltreconfine, Juncker è riuscito a farsi eleggere ininterrottamente dal 1995 in poi. Quando esordì alla guida del governo, in Francia era ancora al potere François Mitterrand e il cancelliere tedesco era Helmut Kohl. Qui da noi, invece, la discesa in campo del Cavaliere era già vecchia di un anno.



di Mario Lombardo

Un clamoroso scandalo fatto di corruzione e fondi neri rischia di travolgere il governo conservatore spagnolo dopo la pubblicazione avvenuta qualche giorno fa di nuove prove che documentano l’avvenuto pagamento di ingenti somme di denaro a favore di politici di spicco del Partito Popolare (PP) al potere a Madrid, tra cui lo stesso primo ministro Mariano Rajoy.

Alcuni media e i principali partiti dell’opposizione hanno chiesto le dimissioni del premier dopo che il quotidiano El Mundo ha mostrato le copie originali di documenti redatti a mano e firmati dall’ex tesoriere del PP, Luis Barcenas, nei quali sono elencati pagamenti illegali destinati a svariati membri del partito.

Le carte pubblicate martedì indicano due pagamenti di oltre diecimila euro fatti a beneficio di Rajoy nella seconda metà degli anni Novanta, quando era ministro nel governo conservatore di José Maria Aznar.

Lo scandalo era in realtà già esploso nel gennaio scorso, quando fotocopie degli stessi documenti erano state pubblicate da El País. In quell’occasione, i vertici del PP avevano messo in dubbio la veridicità delle copie dei pagamenti in nero perché non originali.

Lo stesso Barcenas aveva negato di aver gestito un fondo segreto destinato ai suoi colleghi di partito, mentre domenica scorsa in un’intervista a El Mundo ha cambiato completamente la sua versione, confermando di avere deliberatamente mentito per proteggere i membri del suo partito coinvolti nello scandalo.

Poco prima di tornare in carcere, l’ex tesoriere del PP ha infatti lanciato accuse pesantissime contro il suo partito, sostenendo che i dirigenti hanno violato le leggi spagnole sul finanziamento ai partiti per oltre due decenni. Barcenas ha poi confermato l’originalità dei documenti pubblicati da El Mundo, aggiungendo che essi sono solo una piccola parte del materiale a sua disposizione che, se reso noto, farebbe crollare il governo Rajoy. Dopo queste dichiarazioni, i suoi legali hanno abbandonato l’incarico a causa di “divergenze” nella strategia difensiva.

I guai giudiziari di Barcenas erano iniziati dopo le accuse sollevate nei suoi confronti per avere accumulato fondi neri per 48 milioni di euro su conti esteri grazie alle donazioni di imprenditori edili e di altri settori, da elargire in contanti ai politici del PP.

Nelle fotocopie dei documenti pubblicati a gennaio da El País, l’attuale premier Rajoy risultava essere il beneficiario di 35 pagamenti per un totale di oltre 322 mila euro tra il 1997 e il 2008. Per cercare di limitare i danni, il primo ministro aveva reso note le sue dichiarazioni dei redditi, senza però soddisfare l’opposizione e i cittadini spagnoli.

Gli esponenti di spicco del Partito Popolare coinvolti sono comunque numerosi. Tra gli altri, ci sono ad esempio l’ex ministro dell’Economia, successivamente passato al Fondo Monetario Internazionale, Rodrigo Rato, e la segretaria generale del PP, María Dolores de Cospedal, la quale avrebbe ricevuto una tangente in cambio di un appalto della regione Castiglia-La Mancia di cui è presidente.

Nonostante le dichiarazioni esplosive dell’ex tesoriere e i documenti originali pubblicati da El Mundo, il Partito Popolare ha continuato a negare ogni responsabilità, con la segretaria Cospedal che nella giornata di martedì ha definito le più recenti accuse di corruzione “completamente false, come tutte quelle precedenti”.

L’opposizione, da parte sua, come aveva già fatto dopo le rivelazioni di El País a gennaio, ha chiesto nuovamente a Rajoy di dimettersi. La vice-segretaria del Partito Socialista (PSOE), Elena Valenciano, ha affermato che “tutto sembra indicare come il PP sia implicato in un sistema di finanziamenti illegali”, mettendo poi in dubbio anche la “correttezza delle elezioni”.

Il PSOE, assieme a Sinistra Unita (IU) e al partito catalano Convergenza e Unione (CiU), ha inoltre chiesto al premier di rispondere in parlamento alle accuse, anche se la maggioranza detenuta dal PP potrebbe consentire a Rajoy di evitare un’imbarazzante apparizione pubblica.

Lo scandalo che sta scuotendo il governo Rajoy, in ogni caso, ha suscitato una nuova ondata di indignazione verso l’intera classe politica indigena tra la popolazione spagnola, già costretta a fare i conti da anni con le politiche di devastazione sociale messe in atto sia dal Partito Popolare che, in precedenza, da quello Socialista.

Secondo alcuni recenti sondaggi, perciò, il gradimento del PP appare oggi virtualmente dimezzato rispetto al 44,6% incassato nelle elezioni del 2011, vinte soprattutto grazie all’avversione diffusa per le misure “anti-crisi” adottate dal governo Zapatero e puntualmente proseguite dopo il voto.

Già gravato da una crescente impopolarità a causa delle politiche economiche messe in atto con la collaborazione delle autorità di Bruxelles, il primo ministro spagnolo rischia così di trovarsi in una posizione insostenibile dopo il coinvolgimento nella vicenda rivelata dai giornali spagnoli.

Alla luce soprattutto dei contraccolpi che i problemi del governo di Madrid potrebbero avere sull’immagine del paese iberico e su una situazione economica già estremamente precaria, è tutt’altro che improbabile che le pressioni su Rajoy aumenteranno in maniera sensibile nel prossimo futuro, fino forse a convincerlo a farsi da parte per evitare un’esplosione del malcontento popolare che metterebbe a rischio la relativa “stabilità” richiesta dagli ambienti finanziari domestici e internazionali.

di Michele Paris

La recente accusa lanciata dagli Stati Uniti e dai loro principali alleati europei al regime di Bashar al-Assad per avere impiegato armi chimiche contro i “ribelli” siriani è stata messa ulteriormente in dubbio questa settimana in seguito alla pubblicazione dei risultati di un’indagine sul campo condotta dal governo russo. L’ambasciatore di Mosca all’ONU, Vitaly Churkin, ha infatti affermato che, in occasione di un attacco avvenuto quasi quattro mesi fa, a fare uso di una testata equipaggiata con sostanze chimiche non sono state le forze armate di Damasco ma un gruppo dell’opposizione sostenuta dall’Occidente.

L’episodio in questione risale al 19 marzo scorso, quando un missile definito “Bashair-3” con una carica chimica ha colpito la località di Khan al-Assal, nel nord della Siria. In quell’occasione, dagli ambienti dell’opposizione siriana si era gridato all’uso di armi chimiche da parte del regime, anche se più di una perplessità era subito emersa, soprattutto perché la città colpita era sotto il controllo del governo.

Secondo l’ambasciatore Churkin, “i risultati delle analisi indicano chiaramente che l’ordigno utilizzato a Khan al-Assal conteneva sarin e che esso non è stato realizzato in una fabbrica di armi”, bensì artigianalmente. Il missile, inoltre, “non conteneva stabilizzatori chimici della sostanza tossica” e non corrisponde perciò a nessun armamento facente parte dell’arsenale a disposizione del regime.

Il lavoro per la realizzazione della testata, secondo la versione russa, era iniziato a febbraio e sarebbe opera del gruppo armato dell’opposizione Bashair al-Nasr, una brigata che ha stretti legami con il cosiddetto Libero Esercito della Siria, indicato da Washington e dall’Occidente come il destinatario delle forniture di equipaggiamenti militari approvate nelle scorse settimane.

A dare credibilità a queste conclusioni ci sarebbero le modalità con cui le indagini sono state svolte, visto che gli esperti russi hanno potuto indagare e raccogliere campioni direttamente nella località di Khan al-Assal dopo avere ricevuto l’autorizzazione dal governo siriano. Al contrario, le precedenti “indagini” annunciate da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia erano basate su resoconti degli stessi “ribelli” e su interviste condotte con testimoni in paesi come Turchia o Libano, mentre i campioni reperiti erano passati attraverso numerosi intermediari.

Inoltre, le conclusioni del Cremlino - presentate martedì alle Nazioni Unite - coincidono con il giudizio espresso all’inizio del mese di maggio dall’ex giudice del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, la quale, in qualità di membro della speciale commissione ONU d’inchiesta sulla Siria, aveva sostenuto che a utilizzare armi chimiche in maniera limitata erano stati probabilmente i “ribelli” e non le forze del regime

Nonostante le possibili perplessità da parte di alcuni circa l’imparzialità delle conclusioni della Russia, visto il suo continuo legame con il regime di Assad, non c’è ragione per considerare più credibili le indagini eseguite con metodi scientificamente discutibili dall’Occidente rispetto a quest’ultima effettuata sul campo dagli esperti di Mosca.

Soprattutto, nonostante i risultati delle analisi di Washington, Londra e Parigi fossero stati contestati da autorevoli esperti di armi chimiche e, per stessa ammissione di questi governi, non risultassero definitivi nemmeno dal loro punto di vista nell’assegnare la responsabilità dell’accaduto al regime, essi sono stati nondimeno utilizzati per giustificare un aumento del loro coinvolgimento nel conflitto per rimuovere Assad.

Il mese scorso, infatti, il presidente Obama aveva annunciato pubblicamente la propria decisione di dare il via libera alla fornitura di armi americane ai “ribelli” in Siria proprio in seguito al presunto superamento da parte di Assad della “linea rossa” fissata dalla Casa Bianca nell’estate del 2012 con il ricorso ad armi chimiche.

Le indagini indipendenti su quanto accaduto a marzo a Khan al-Assal, invece, risultano ancora in alto mare a causa dei disaccordi internazionali attorno al mandato da assegnare agli ispettori delle Nazioni Unite. Il governo di Damasco aveva anch’esso chiesto un’indagine ONU su un attacco che causò più di 30 morti nella città situata nella provincia settentrionale di Aleppo, ma ha finora puntato i piedi di fronte all’insistenza occidentale di consentire agli ispettori di indagare su altri incidenti nei quali avrebbero potuto essere usate armi chimiche, tra cui un episodio del dicembre 2012 nella città di Homs.

I sospetti sulle responsabilità dell’opposizione nell’uso di armi chimiche sono poi aumentati nei giorni scorsi in seguito ad un annuncio fatto dall’ambasciatore siriano all’ONU, Bashar Ja’afari, in concomitanza con la visita a Damasco del capo degli ispettori per le armi chimiche delle Nazioni Unite, Ake Sellstrom. Ja’afari ha infatti dato notizia del sequestro da parte delle autorità di governo di 281 fusti contenenti agenti chimici in mano a formazioni “ribelli”, anche se alcuni esperti occidentali hanno sostenuto che le sostanze rinvenute non sarebbero adatte ad un uso militare.

Una notizia simile, e ugualmente ignorata dalla maggior parte della stampa internazionale, era stata in ogni caso diffusa anche nel mese di giugno, quando le forze di sicurezza turche avevano arrestato sul proprio territorio alcuni membri del Fronte al-Nusra, uno dei principali gruppi terroristi attivi in Siria e affiliato ad al-Qaeda, nelle cui abitazioni erano state trovate sostanze chimiche utilizzabili a fini militari.

Oltre ad avere probabilmente assemblato e utilizzato ordigni chimici più o meno rudimentali per provocare la condanna internazionale del regime di Assad e fornire l’occasione ai propri sponsor occidentali per giustificare un maggiore coinvolgimento nel conflitto al loro fianco, i “ribelli” siriani e, in particolare, le formazioni fondamentaliste nel prossimo futuro potrebbero anche utilizzare queste armi letali contro altri obiettivi, compresi quelli americani, europei o israeliani.

A sollevare questa inquietante ipotesi sono da tempo proprio le agenzie di intelligence di questi paesi, tra cui più recentemente quelle britanniche. Nel corso della presentazione dell’annuale rapporto della commissione per i Servizi Segreti e la Sicurezza del parlamento di Londra, nella giornata di martedì l’attività di elementi estremisti in Siria è stata indicata come “la principale minaccia terroristica per la Gran Bretagna e i suoi alleati”.

La commissione ha espresso preoccupazione per la sicurezza del vasto arsenale di armi chimiche in mano al regime di Damasco e che potrebbe finire nelle mani di formazioni integraliste con conseguenze potenzialmente “catastrofiche”.

L’allarme sollevato dall’intelligence e dai parlamentari britannici appare del tutto giustificato, vista la natura della maggior parte dei “ribelli” armati che combattono in Siria. Ciò che viene puntualmente taciuto sono però le responsabilità della creazione di una simile situazione esplosiva nel paese mediorientale, da assegnare pressoché interamente proprio ai governi occidentali e ai loro alleati arabi, i quali hanno favorito la nascita e l’espansione dell’influenza di queste stesse formazioni, utilizzate come strumenti per la rimozione del regime di Bashar al-Assad.


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