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di Mario Lombardo
Con un'altra discutibile manovra politica avvenuta dietro le spalle degli elettori, il Partito Laburista australiano (ALP) ha operato questa settimana un nuovo clamoroso cambio alla propria guida e a quella del governo del paese. Il primo ministro Julia Gillard è stata infatti estromessa dalla leadership del più antico partito dell’Australia per essere sostituita dal suo immediato predecessore, Kevin Rudd, nel tentativo di evitare un quasi certo tracollo nelle elezioni generali previste per il prossimo mese di settembre.
Il ribaltone al vertice del partito di maggioranza relativa a Canberra è andato in scena nella serata di mercoledì, con i parlamentari laburisti che hanno votato con un margine di 57 a 45 a favore di Rudd. L’avvicendamento indica la messa in moto di potenti forze dietro le quinte della politica australiana, dal momento che lo stesso Rudd aveva visto fallire nettamente due tentativi di riconquistare la leadership del suo partito a inizio 2012 e nel marzo di quest’anno.
Il governo Gillard, d’altra parte, risulta enormemente impopolare tra gli elettori e il primo capo di un esecutivo australiano di sesso femminile continua a suscitare una forte avversione proprio per il ruolo avuto nel blitz che tre anni fa la portò al potere al posto di Rudd. Secondo alcuni recenti sondaggi, nelle elezioni previste tra meno di tre mesi il Partito Laburista faticherebbe addirittura ad ottenere 30 seggi sui 150 totali della Camera dei Rappresentanti.
Il reinsediamento di Kevin Rudd è dovuto perciò ad una residua simpatia nei suoi confronti per le modalità con le quali venne estromesso dalla carica di primo ministro, nonché per avere suscitato qualche speranza di cambiamento dopo le elezioni del 2007. In quell’occasione, Rudd e i laburisti avevano beneficiato del profondo malcontento popolare per le politiche messe in atto dal governo liberale di John Howard, alimentando aspettative per una svolta progressista che non sarebbe però mai arrivata.
In ogni caso, dopo la scelta del nuovo leader da parte della delegazione parlamentare del Labor, nella mattinata di giovedì Rudd ha frettolosamente giurato anche come nuovo primo ministro di fronte al Governatore Generale dell’Australia, Quentin Bryce, senza nemmeno ottenere un voto di fiducia in Parlamento. Questa manovra è apparsa quanto meno discutibile, soprattutto alla luce del fatto che i laburisti sono alla guida di un governo di minoranza che si è retto finora grazie all’appoggio esterno di due deputati indipendenti, i quali, oltretutto, avevano inizialmente espresso qualche dubbio sulla loro intenzione di appoggiare un eventuale nuovo governo Rudd.
Il loro sostegno alla fine garantito al nuovo premier, assieme alla garanzia offerta dal leader del Partito Liberale di opposizione, Tony Abbott, di non procedere con una mozione di sfiducia, hanno comunque assicurato la nascita dell’Esecutivo, confermando il desiderio diffuso tra gli ambienti di potere australiano di evitare una crisi costituzionale in un momento di grande inquietudine sul fronte politico.
Il ritorno da protagonista di Kevin Rudd sulla scena politica australiana appare particolarmente singolare alla luce delle ragioni che avevano portato alla sua rimozione con un golpe interno al Partito Laburista nel 2010. Rudd, per cominciare, si era esposto alle accese critiche della comunità degli affari indigena - soprattutto della potente lobby dell’industria estrattiva, vale a dire la spina dorsale dell’economia del paese - a causa di un’odiata “supertassa” sui profitti di colossi come Rio Tinto o BHP Billiton. Dopo una campagna di discredito nei confronti dell’iniziativa promossa da Rudd, la tassa sarebbe stata approvata sotto la gestione Gillard ma in una forma decisamente più attenuata.
La caduta di Rudd nel 2010, inoltre, era stata dovuta anche a questioni di politica internazionale e alle manovre silenziose degli Stati Uniti per favorire la rimozione di un capo di governo alleato che aveva manifestato in più occasioni la volontà di mediare per giungere ad un accomodamento pacifico tra gli interessi di Washington e Pechino nel continente asiatico. Questa inclinazione tutt’altro che anti-americana di Kevin Rudd andava a scontrarsi con la cosiddetta “svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama fin dal 2009 e che prevede il contenimento ad ogni costo dell’espansionismo cinese, da ottenere con mezzi economici e diplomatici ma anche militari.
Dopo l’uscita di scena di Rudd grazie all’opera di quelle che un cablo dell’ambasciata USA a Canberra pubblicato da WikiLeaks avrebbe descritto come “fonti protette” all’interno del Labor, la partnership strategica tra i due paesi è decollata, con il presidente Obama che a fine 2011 ha finalmente visitato il paese alleato, annunciando il dispiegamento di alcune centinaia di soldati americani in territorio australiano.
Queste ed altre preoccupazioni nei confronti di Rudd sembrano però essere state ora messe da parte, almeno momentaneamente, per cercare di dare qualche chance al Partito Laburista in vista delle elezioni e di scelte complicate che verranno richieste al prossimo governo in concomitanza con un evidente rallentamento dell’economia australiana. Questo partito, d’altra parte, ha dimostrato negli ultimi anni di sapere garantire l’implementazione relativamente indolore di politiche impopolari richieste dalle élite economiche e finanziarie australiane e internazionali, grazie soprattutto ai tradizionali legami con le organizzazioni sindacali e al sostegno di lavoratori e classe media.
Alcuni dei protagonisti della sua deposizione nel 2010 - a cominciare dal deputato irriducibilmente filo-americano Bill Shorten - si sono perciò adoperati questa settimana per riportare Rudd al potere, con ogni probabilità dopo il via libera degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato americano, dopo il voto di mercoledì, ha così espresso la propria sostanziale approvazione, manifestando la volontà di mantenere un rapporto di collaborazione privilegiato con qualsiasi futuro governo australiano.
Rudd, da parte sua, dopo il ritorno alla guida dell’esecutivo ha rapidamente abbandonato la retorica dei giorni precedenti, sostituendo la promessa di abbandonare la strada dell’austerity con l’appello al business australiano per gettare le basi di una collaborazione con il governo, in vista di “decisioni difficili per il futuro della nostra economia”.
Il percorso del nuovo governo appare però complicato da molti fattori, a cominciare dalla risicata maggioranza in Parlamento e dalle profonde divisioni nel Partito Laburista. Numerosi ministri del governo Gillard hanno già rassegnato le proprie dimissioni giovedì, tra cui quello del Tesoro, del Commercio, dell’Agricoltura, delle Comunicazioni e del Cambiamento Climatico. Altri autorevoli membri del partito, tra cui il ministro della Difesa Stephen Smith e la stessa Gillard, hanno invece annunciato di non essere intenzionati a candidarsi nelle prossime elezioni.
Il Labor australiano, infine, anche con una nuova e meno screditata leadership difficilmente riuscirà ad evitare un’altra sonora sconfitta nel voto del 14 settembre prossimo dopo le batoste patite nelle recenti elezioni per il rinnovo di alcuni parlamenti statali. Il tracollo nel gradimento del partito tra le classi più disagiate è infatti dovuto proprio alle anti-democratiche manovre interne che hanno caratterizzato i cambi al vertice in questi anni e, ancor più, alla continua rinuncia anche alla parvenza di politiche progressiste, come, appunto, ha già fatto intravedere anche il redivivo neo-premier Kevin Rudd.
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di Michele Paris
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso negli ultimi giorni tre sentenze decisive riguardanti i diritti delle coppie gay e le discriminazioni razziali nell’ambito delle leggi elettorali dei singoli stati. Nella giornata di mercoledì sono arrivati due verdetti salutati con grandissimo entusiasmo da politici e attivisti “liberal” e che hanno, da un lato, sancito l’incostituzionalità della legge federale che consentiva di godere dei benefici fiscali, sanitari e pensionistici alle sole coppie sposate eterosessuali e, dall’altro, dato il via libera alle nozze gay nello stato della California.
Con una maggioranza di 5-4, la Corte Suprema ha dunque cancellato una parte del Defense of Marriage Act (DOMA) del 1996, espandendo i benefici previsti dalla legge federale alle coppie dello stesso sesso unite in matrimonio in uno dei 12 stati americani che hanno legalizzato questa pratica. All’attenzione dei giudici non c’era invece la sezione della legge approvata durante la presidenza Clinton e che consente agli stati di non riconoscere i matrimoni gay celebrati in altri stati.
La seconda sentenza – ugualmente garantita da una maggioranza minima – non ha invece nemmeno affrontato il tema delle unioni tra persone dello stesso sesso ma, giudicando inammissibile il ricorso avanzato dai promotori del bando sulle nozze gay approvato dagli elettori della California nel 2008 (“Proposition 8”), ha confermato la precedente decisione di un tribunale di San Francisco che aveva dichiarato incostituzionale lo stesso divieto.
Nonostante l’enorme attenzione rivolta alle sentenze sui diritti gay dai media americani, è quella di martedì che avrà le implicazioni di gran lunga più importanti e preoccupanti. Questo verdetto vergognoso e difficile da giustificare legalmente ha di fatto abolito il cosiddetto Voting Rights Act (VRA), la legge che da quasi mezzo secolo cerca di impedire le discriminazioni razziali nell’esercizio del diritto di voto in alcuni stati americani.
Quella stessa Corte che, secondo alcuni, mercoledì avrebbe dato un impulso fondamentale ai diritti degli omosessuali, con una maggioranza risicata dei nove giudici (5-4) il giorno precedente aveva aggiunto un altro tassello all’opera di smantellamento dei diritti democratici universali portata avanti sotto la guida dall’attuale presidente (“Chief Justice”), John Roberts.
In discussione nel caso “Contea di Shelby contro Holder” era la costituzionalità delle sezioni 4 e 5 della legge approvata nel 1965 dal Congresso USA nell’ambito delle lotte del movimento per i diritti civili. Questo provvedimento era stato adottato per mettere fine alle discriminazioni nell’acceso al voto negli stati dove la segregazione razziale era la norma. Gli stati più problematici, secondo la legge, avrebbero così dovuto ottenere un permesso preventivo dal governo federale prima di modificare le proprie procedure di voto, usate appunto in molti casi per escludere le minoranze razziali dagli appuntamenti elettorali.
I giudici della Corte Suprema hanno dichiarato incostituzionale soltanto la sezione 4 del VRA, lasciando teoricamente intatta la sezione 5. Dal momento, però, che la sezione 4 identifica quegli stati sottoposti alla sorveglianza del governo di Washington in ambito elettorale, la sezione 5 – che riguarda il permesso preventivo che gli stati stessi devono richiedere per cambiare la loro legislazione – viene automaticamente svuotata.
A sostegno del VRA si è espresso più volte il Congresso americano negli ultimi cinque decenni con consensi bipartisan, tra cui più recentemente nel 2006, quando Camera e Senato prolungarono a larghissima maggioranza la sezione 5 per altri 25 anni. Sulla sezione 4, invece, l’ultimo voto al Congresso risale al 1975, quando vennero fissati i criteri per identificare gli stati, le contee e i comuni coperti dal VRA e quindi costretti ad ottenere un’autorizzazione federale per modificare le proprie leggi riguardanti ogni aspetto del processo elettorale.
Proprio il fatto che la definizione dei criteri di scelta risale a quasi 40 anni fa ha fornito ai cinque giudici di maggioranza della Corte Suprema la giustificazione per dichiarare incostituzionale la sezione 4 del VRA. Come ha spiegato il presidente Roberts, cioè, l’attuale sistema “è basato su fatti vecchi di 40 anni senza alcuna relazione logica con il presente”. In altre parole, secondo l’interpretazione dei cinque giudici ultra-conservatori della Corte (Roberts, Samuel Alito, Anthony Kennedy, Antonin Scalia, Clarence Thomas), le discriminazioni razziali in ambito elettorale che caratterizzavano alcuni stati americani a metà degli anni Settanta sono oggi quasi del tutto superate e le loro leggi in materia potranno d’ora in poi essere modificate senza il permesso del governo federale.
Dal momento che la realtà in molti stati coperti dal VRA appare tutt’altro che rosea, la maggioranza della Corte Suprema non ha completamente delegittimato il ruolo di controllo del governo sulle leggi elettorali locali. Infatti, la sentenza invita il Congresso ad approvare criteri più aggiornati per l’identificazioni degli stati e delle contee tuttora a rischio di discriminazione. Tuttavia, alla luce delle divisioni che caratterizzano Camera e Senato, nonché del vantaggio politico che deriverà soprattutto al Partito Repubblicano dalla sentenza di martedì, è praticamente impossibile che il Congresso USA possa riuscire ad esprimersi su questo argomento nel prossimo futuro.
Nella loro decisione, i cinque giudici di maggioranza non si sono curati di spiegare la contraddizione tra il presunto superamento delle discriminazioni razziali in moti stati americani e le prove schiaccianti del persistere ancora oggi di queste pratiche, come avevano ad esempio indicato ben 15 mila pagine di documenti presentati in occasione del voto al Congresso per il prolungamento del VRA nel 2006.
Il continuo intervento del Dipartimento di Giustizia negli ultimi anni per bloccare una lunga serie di leggi statali, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, volte a restringere l’accesso al voto - con provvedimenti che comprendono, tra l’altro, obblighi più onerosi per dimostrare l’identità di chi si reca alle urne, il riesame delle liste elettorali per escludere dal voto il maggior numero di persone possibile, la drastica limitazione del voto anticipato o per corrispondenza e la ridefinizione dei distretti elettorali per favorire un determinato partito - è poi un’ulteriore conferma del persistere delle discriminazioni in questo ambito.
Un recente studio del Brennan Center for Justice presso la New York University ha infatti elencato 86 modifiche alle leggi elettorali statali annullate dal governo federale negli ultimi 15 anni. Alcuni di questi interventi, consentiti grazie al VRA, hanno riguardato proprio la contea di Shelby, dalla quale è partita la causa all’attenzione della Corte Suprema, tra cui più recentemente nel 2008.
Ad esprimersi a favore del VRA sono stati i quattro giudici moderati della Corte: Stephen Breyer, Elena Kagan, Sonia Sotomayor e Ruth Bader Ginsburg. Quest’ultima ha redatto l’opinione dissenziente della minoranza utilizzando toni insolitamente duri nei confronti dei colleghi conservatori. Il membro più anziano del più importante tribunale americano ha anche smontato alcuni punti su cui il presidente Roberts ha basato la propria decisione di smantellare la legge.
Ad esempio, il giudice Ginsburg ha fatto notare come il VRA preveda già un meccanismo per svincolare i singoli stati dalla supervisione federale nel caso in cui essi non mettano in atto provvedimenti discriminatori per almeno dieci anni. La presunta necessità di trattare equamente ogni membro dell’Unione, senza creare categorie di stati buoni (esclusi dal VRA) e cattivi (coperti dal VRA), non ha infine senso, dal momento che le disparità di trattamento sono pratica comune nelle leggi federali, come ad esempio nelle misure di stanziamento di fondi in maniera differente da stato a stato o nell’approvazione di leggi che si applicano esclusivamente ad un singolo stato.
Le osservazioni del giudice Ginsburg contribuiscono perciò a confermare come la decisione di martedì non sia basata su fondamenta legali e razionali, bensì sia stata una decisione totalmente politica. Il verdetto, in definitiva, appare in aperta contraddizione con quanto contenuto nel Quindicesimo Emendamento della Costituzione americana, approvato nel 1870 all’indomani della Guerra Civile e che afferma che il “diritto di voto dei cittadini non può essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato sulla base di razza, colore o precedenti condizioni di schiavitù”, nonché il potere del Congresso per “implementare questo articolo con apposita legislazione”.
Le conseguenze della sentenza di martedì sono subito risultate evidenti, con le autorità dello stato del Texas che hanno già annunciato di volere procedere con l’adozione di misure che erano state sospese in attesa del parere della Corte Suprema. Tra di esse c’è una legge che impone ad ogni elettore che si reca ad un seggio di esibire un documento identificativo valido, anche se molti residenti in località remote di questo stato dovranno percorrere fino a 400 chilometri per ottenerne uno nel caso fossero sprovvisti. Inoltre, il Texas potrà mettere in atto le modifiche ai distretti elettorali decise nel 2011 e bloccate dal governo grazie al VRA perché considerate discriminanti nei confronti dei votanti appartenenti a minoranze razziali.
Se gli attacchi al diritto di voto che verranno portati dopo il verdetto di martedì della Corte Suprema sembrano avere principalmente motivazioni razziali, il vero obiettivo della sentenza nel caso “Contea di Shelby contro Holder” e delle leggi discriminatorie che prolifereranno nei prossimi mesi è però quello di tenere lontano dalle urne il maggior numero possibile di cittadini appartenenti alle classi più povere al di là della loro etnia, come dimostrano i provvedimenti studiati o già messi in atto per rendere più onerosa la registrazione nelle liste elettorali.
Questa parte consistente della popolazione americana, che fa già segnare percentuali di voto molto contenute, è infatti colpita maggiormente dalle politiche anti-sociali della classe dirigente degli Stati Uniti e quindi potenzialmente più ostile nei confronti di quest’ultima rispetto ai ceti più agiati.
Ciò che ha consentito al supremo tribunale americano di demolire uno dei punti cardine delle lotte degli anni Sessanta del secolo scorso è in definitiva un ambiente democratico negli Stati Uniti in continua decomposizione, nel quale, tra l’altro, il governo è giunto ad auto-assegnarsi la facoltà di decidere arbitrariamente l’assassinio di chiunque venga indicato come una minaccia terroristica, di mettere sotto assedio intere città sospendendo le garanzie costituzionali dei loro abitanti o, come è stato rivelato nei giorni scorsi, di raccogliere e conservare segretamente informazioni sulle comunicazioni elettroniche di tutto il pianeta.
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di Michele Paris
Dalla partenza domenica scorsa da Hong Kong dell’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden, il governo degli Stati Uniti ha iniziato una disperata campagna fatta di pressioni e minacce per cercare in tutti i modi di riportare in patria e incriminare la fonte delle recenti clamorose rivelazioni sui programmi segreti di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutto il pianeta messi in atto dall’apparato della sicurezza nazionale americano.
Una delle voci più critiche nei confronti delle autorità di Cina e Russia, presunte responsabili del mancato arresto e rimpatrio di Snowden, è stata quella del segretario di Stato, John Kerry. Quest’ultimo ha infatti minacciato gravi conseguenze nelle relazioni diplomatiche con Mosca e Pechino, chiedendo al Cremlino il rispetto degli “standard legali”, nell’interesse di tutte le parti coinvolte nella vicenda.
Il richiamo alla prassi legale da parte del numero uno della diplomazia americana risulta particolarmente paradossale in questo frangente, dal momento che la persona che l’amministrazione Obama vorrebbe perseguire ha contribuito a far conoscere a tutto il mondo una parte delle attività palesemente illegali commesse proprio dagli Stati Uniti nella difesa dei propri interessi.
Kerry, inoltre, per convincere il Cremlino ha pateticamente ricordato i trasferimenti a Mosca di sette cittadini russi arrestati in territorio USA negli ultimi due anni. Come hanno fatto notare quasi tutti i media in questi giorni, tuttavia, il confronto è quanto meno fuori luogo, dal momento che Snowden non solo non è stato fermato dalle autorità di Mosca ma, secondo la versione ufficiale, tecnicamente non ha nemmeno varcato il confine russo, poiché sarebbe tuttora all’interno del terminal dell’aeroporto Sheremetyevo.
La collaborazione tra USA e Russia, oltretutto, nel recente passato non pare essere stata particolarmente apprezzata a Washington, come dimostra la pressoché totale indifferenza delle autorità americane ai ripetuti avvisi lanciati dai loro colleghi russi in merito ai contatti con ambienti dell’integralismo islamico in Cecenia e in Daghestan di uno dei due responsabili dell’attentato di aprile alla maratona di Boston.
La “frustrazione” e il “disappunto” del governo americano sono stati poi espressi anche nei confronti di Cina e Hong Kong, da dove Snowden ha potuto prendere un aereo per Mosca nonostante la revoca del passaporto e la richiesta di estradizione presentata dal Dipartimento di Giustizia americano. Tra gli altri, il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha parlato di “serie complicazioni” nei rapporti sino-americani, respingendo le motivazioni ufficiali addotte dalle autorità di Hong Kong per non avere fermato Snowden, cioè che la richiesta americana mancava di tutti i requisiti legali previsti dal trattato di estradizione.
Nelle accuse rivolte a Pechino e Hong Kong da parte dei politici americani non è sembrato in ogni caso trasparire alcun imbarazzo, né i media “mainstream” d’oltreoceano hanno fatto notare come le relazioni tra le prime due economie del pianeta fossero già da qualche giorno destinate ad imboccare una strada tutta in salita, proprio a causa delle rivelazioni pubblicate da Guardian e Washington Post.
Prima di lasciare Hong Kong, come è noto, Snowden aveva infatti presentato le prove della massiccia attività spionistica condotta dagli americani ai danni di varie istituzioni cinesi, ribaltando di fatto le accuse rivolte negli ultimi mesi dal governo USA a Pechino per il presunto dilagare di operazioni di hackeraggio contro obiettivi statunitensi.
I governi di Mosca e Pechino, così, hanno prevedibilmente reagito in maniera ferma alle prediche di Washington, sia pure in modi differenti. La Russia ha dapprima evitato commenti sulla presenza di Snowden all’interno del proprio territorio, con svariati membri del governo che hanno anche negato di essere a conoscenza dei movimenti dell’ex contractor della NSA.
Martedì, poi, il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, in un’intervista all’agenzia di stampa RIA Novosti ha affermato che “i tentativi di accusare la Russia di avere violato le leggi americane e in pratica di avere preso parte ad una cospirazione - assieme alle minacce subite - sono totalmente infondati e inaccettabili”.
Lo stesso Vladimir Putin sempre martedì ha confermato la presenza di Snowden nell’area di transito dell’aeroporto della capitale russa. Nel corso di una conferenza stampa dalla Finlandia, il presidente ha affermato che Snowden è libero di lasciare Mosca in qualsiasi momento, mentre ha escluso la possibilità di consegnarlo agli americani, bollando le accuse di questi ultimi come “spazzatura”.
In Cina, invece, le reazioni sono state affidate in gran parte agli organi di stampa affiliati al regime. Sempre nella giornata di martedì, il Quotidiano del Popolo ha pubblicato un aggressivo editoriale in prima pagina accusando gli Stati Uniti “non solo di non averci fornito alcuna spiegazione o scusa [in merito al monitoraggio dei sistemi informatici cinesi] ma hanno anche espresso il loro disappunto per il modo in cui Hong Kong ha gestito la vicenda secondo quanto stabilito dalla legge”.
L’autore del commento - Wang Xinjun, ricercatore presso l’Accademia delle Scienze Militari - ha poi affondato il colpo, sostenendo che “in un certo senso, da modello per il rispetto dei diritti umani, gli Stati Uniti sono diventati gli intercettatori della privacy, i manipolatori del potere centralizzato per controllare la rete e i paranoici invasori dei sistemi informatici di altri paesi”. Inoltre, poiché “il suo coraggio ha strappato la maschera ipocrita di Washington”, Edward Snowden “verrà ricordato da tutto il pianeta”.
In un altro articolo, il Global Times ha anch’esso celebrato le azioni di Snowden, definendolo “un giovane idealista che ha smascherato gli scandali del governo americano”, il quale, “invece di porgere le proprie scuse” a Pechino, “sta mostrando i muscoli nel tentativo di tenere sotto controllo l’intera situazione”.
A fare le spese dell’arroganza americana sono anche quei paesi indicati in questi giorni come le possibili destinazioni finali del viaggio di Snowden, tra cui Cuba, Ecuador e Venezuela. Secondo alcuni giornali, infatti, il Dipartimento di Stato USA avrebbe già inviato avvertimenti ufficiali ai paesi latinoamericani, invitandoli a non dare rifugio al 30enne analista informatico.
L’Ecuador, in particolare, dopo la probabile assistenza garantita a Snowden per lasciare Hong Kong e l’annuncio della possibile concessione dell’asilo politico si trova a dover fronteggiare enormi pressioni sia in maniera esplicita che, con ogni probabilità, dietro le quinte della vicenda. Ad esempio, il Washington Post ha pubblicato lunedì un articolo dai toni minacciosi contro il governo di Rafael Correa, il quale, ospitando Snowden, rischierebbe tra l’altro la revoca da parte dell’amministrazione Obama dell’accordo di scambio preferenziale in essere con gli Stati Uniti. Questo accordo scade proprio il primo luglio prossimo e, secondo il reporter del Washington Post autore del pezzo, il mancato rinnovo comporterebbe “il rischio di perdere decine di migliaia di posti di lavoro” nei settori dell’export destinato al mercato americano.
Al di là dell’epilogo della vicenda, i furiosi tentativi degli Stati Uniti di mettere le mani su Snowden e di spingere con metodi e toni intimidatori paesi sovrani ad adeguarsi alle loro richieste sono il chiaro sintomo di una sensazione di panico abbondantemente diffusa tra la classe dirigente d’oltreoceano.
Oltre al desiderio di lanciare un messaggio a coloro all’interno del governo che dovessero valutare un percorso come quello di Snowden, la ragione principale dell’angoscia che caratterizza le minacce lanciate da Washington contro quest’ultimo, così come contro Cina e Russia - le quali, peraltro, stanno chiaramente sfruttando la situazione per i propri interessi strategici - è dovuta all’ulteriore discredito per il governo USA che provocherebbero possibili nuove e ancora più esplosive rivelazioni nel prossimo futuro.
Questo timore sembra del tutto giustificato, visto che il giornalista del Guardian, Glenn Greenwald, ha confermato che i documenti riservati ottenuti da Snowden sono nell’ordine delle migliaia e, oltretutto, includono informazioni di estremo valore per i servizi segreti di paesi stranieri.
Per comprendere la portata del danno arrecato da Snowden all’apparato della sicurezza nazionale americana, analisti del governo in questi giorni stanno studiando attentamente i sistemi informatici violati. Secondo un anonimo ex esponente del governo USA citato dal Washington Post, mentre le rivelazioni già pubblicate sarebbero di utilità limitata per Cina o Russia, l’eventuale sottrazione e pubblicazione di informazioni che descrivono del dettaglio le modalità con cui l’NSA penetra i sistemi informatici di paesi stranieri rappresenterebbe un problema enorme per gli Stati Uniti.
Dietro ai contorni da spy-story della vicenda di Snowden, perciò, potrebbe esserci proprio una trattativa segreta tra quest’ultimo e le autorità dei paesi che potrebbero garantirgli la possibilità di sottrarsi alla vendetta americana, così da mettere le mani su informazioni fondamentali per comprendere e contrastare i metodi impiegati dagli USA per controllare qualsiasi dissenso interno o rivalità internazionale che ostacoli gli interessi dell’Impero.
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di Michele Paris
Il 13 giugno scorso, la Casa Bianca ha dato l’annuncio ufficiale del proprio cambio di marcia in relazione al coinvolgimento nel conflitto in corso in Siria, rendendo nota la decisione di fornire armi direttamente ai “ribelli” in lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Come giustificazione, l’amministrazione Obama ha indicato il possesso di presunte prove dell’uso di armi chimiche da parte delle forze armate di Damasco, prove che però non sembrano più consistenti di quelle sulle armi di distruzioni di massa impiegate un decennio fa dall’amministrazione Bush per invadere illegalmente l’Iraq di Saddam Hussein.
Il sospetto ampiamente diffuso che gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, abbiano ancora una volta gettato con l’inganno le basi per una rovinosa guerra in Medio Oriente è stato confermato nei giorni scorsi anche dai pareri di una serie di esperti indipendenti e delle stesse Nazioni Unite.
Un’indagine di qualche giorno fa del Washington Post, ad esempio, ha ricordato che i campioni di sangue, tessuti biologici e ambientali raccolti in Siria dagli USA, dalla Francia e dalla Gran Bretagna sono stati di “utilità limitata” per gli ispettori ONU incaricati di determinare i responsabili dell’uso di armi chimiche in Siria. La natura degli stessi campioni ottenuti tramite i “ribelli” e la segretezza delle modalità di raccolta hanno poi contribuito a rendere ancora più dubbie le accuse rivolte contro Assad.
Anche se in Siria è stato segnalato finora un numero esiguo di operazioni condotte con armi chimiche e i decessi per questo motivo sarebbero relativamente limitati, la questione della responsabilità è di fondamentale importanza. Infatti, nel tentativo di stabilire un pretesto per giustificare un maggiore coinvolgimento nel paese a fianco dell’opposizione, il presidente Obama la scorsa estate aveva minacciato il regime di Damasco a non oltrepassare la “linea rossa” dell’uso di armi chimiche per non incorrere nella reazione americana.
In concomitanza con lo svanire delle prospettive di vittoria sul campo dei “ribelli”, a partire dai primi mesi del 2013 i governi occidentali hanno così iniziato ad agitare lo spettro delle armi chimiche fino alla definitiva presa di posizione di Washington un paio di settimane fa che potrebbe a breve imprimere una svolta alle sorti del sanguinoso conflitto.
In seguito alle accuse di USA, Francia e Gran Bretagna, le Nazioni Unite avevano incaricato una speciale commissione di indagare sull’impiego di armi chimiche in Siria ma le ricerche non avevano portato a conclusioni definitive. Anzi, un membro della commissione stessa, l’ex giudice del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva lasciato intendere che a utilizzare armi chimiche in maniera limitata erano stati probabilmente i “ribelli” e non le forze del regime.
Il sospetto espresso da Carla Del Ponte che le formazioni, in gran parte integraliste, che si battono contro Assad si siano impossessate di armi chimiche negli arsenali del regime, oppure le abbiano ricevute da altri paesi come la Libia, per poi utilizzarle in maniera limitata, così da scatenare una campagna internazionale contro Assad, è condiviso ormai anche da esperti autorevoli.
In un’intervista al Washington Post, lo scienziato e diplomatico svedese Rolf Ekéus, già a capo degli ispettori ONU in Iraq negli anni Novanta, ha affermato che, “se i gruppi di opposizione sentono affermare dalla Casa Bianca che l’uso di gas nervino è da considerarsi una linea rossa, è evidente che essi hanno tutto l’interesse nel dimostrare che qualche tipo di arma chimica è stata impiegata”.
L’opinione di Ekéus appare di primaria importanza vista la sua esperienza con i metodi manipolativi dei governi americani. Secondo quanto riportato dalla stampa britannica negli anni Novanta, infatti, il diplomatico svedese subì pesanti pressioni da parte del presidente Clinton per impedire la certificazione di paese privo di armi di distruzioni di massa dell’Iraq di Saddam Hussein, nonostante le indagini degli ispettori non avessero riscontrato alcuna presenza di questi ordigni.
Nel caso della Siria, inoltre, l’inesistenza di prove della responsabilità di Assad è confermata dal fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a sostenere di non essere intenzionati a rendere note nemmeno agli ispettori ONU le modalità con cui i campioni biologici sono stati ottenuti sul campo. La ragione ufficiale della segretezza sarebbe la necessità di non compromettere operazioni di intelligence sotto copertura ancora in corso.
Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dopo le dichiarazioni della Casa Bianca del 13 giugno scorso aveva rilasciato un prudente comunicato ufficiale nel quale sosteneva che “la validità delle informazioni diffuse non può essere garantita in assenza di prove convincenti sulla catena di persone o enti che hanno avuto in custodia i campioni”. “Per questa ragione”, proseguiva il segretario generale, continuava ad esserci “la necessità di un’indagine sul campo in Siria”, affinché anche gli ispettori dell’ONU “possano raccogliere i loro campioni”.
Sia i governi occidentali che il regime di Assad chiedono da mesi un’indagine in Siria da parte delle Nazioni Unite ma Damasco ha finora impedito l’accesso agli ispettori a causa del mancato accordo sul loro mandato, visto che per gli USA e i loro alleati essi dovrebbero avere accesso illimitato nel paese e non soltanto ai luoghi dove è stato segnalato l’uso di armi chimiche.
Senza un punto di incontro su questo aspetto, le presunte prove raccolte finora si sono basate su interviste con medici e vittime di agenti chimici in paesi come Turchia, Libano o Giordania, mentre i campioni ottenuti da Washington, Parigi e Londra, come già ricordato, sono stati raccolti dai gruppi “ribelli” che hanno tutto l’interesse a vedere Assad sul banco degli imputati.
Un altro contributo all’insegna dell’estremo scetticismo sulle responsabilità dell’uso di armi chimiche in Siria è stato infine quello di Jean Pascal Zanders, esperto nel settore e fino al mese scorso membro dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza dell’Unione Europea (EUISS). Il ricercatore belga, come ha riportato ancora il Washington Post, negli ultimi mesi ha infatti esaminato attentamente una serie di immagini, filmati e notizie reperite su internet in relazione agli attacchi con armi chimiche segnalati in Siria.
Secondo Zanders, il quale condusse un’indagine sui massacri condotti dal governo iracheno contro la minoranza curda a fine anni Ottanta, il materiale esaminato non mostra sulle vittime i tradizionali sintomi dell’uso di armi chimiche. Questo ricercatore conclude affermando che allo stato attuale delle informazioni presentate “è dunque impossibile raggiungere una conclusione definitiva” e che l’intero processo in corso appare di natura esclusivamente “politica”.
Dopo l’ennesimo tentativo di manipolare la realtà dei fatti per scatenare un’altra guerra imperialista in Medio Oriente, così, gli Stati Uniti e gli altri cosiddetti “Amici della Siria” si sono riuniti sabato in Qatar per dare il via libera a nuove massicce forniture di armi letali ai gruppi “ribelli” anti-Assad.
I destinatari degli equipaggiamenti militari saranno in primo luogo formazioni estremiste profondamente impopolari tra la popolazione siriana e già protagoniste di numerose operazioni di chiaro stampo terroristico in oltre due anni di conflitto. La pretesa occidentale di rafforzare i gruppi moderati e secolari continua d’altra parte ad essere smentita non solo dai fatti sul campo ma anche da una lunga serie di indagini giornalistiche, condotte anche da testate non esattamente allineate al regime di Damasco.
Tra le più recenti va segnalata almeno quella della scorsa settimana di due inviati della Reuters in Siria, dove hanno documentato il progressivo e inesorabile prevalere delle milizie jihadiste nella lotta per rovesciare Assad. I due gruppi più influenti che finiranno in qualche modo per beneficiare delle spedizioni di armi decise questo mese dal governo americano sono attualmente Ahrar al-Sham e l’ormai famigerato Fronte al-Nusra, apertamente affiliato ad Al-Qaeda e responsabile, tra l’alto, di una lunga serie di attentati suicidi che hanno causato centinaia di vittime civili.
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di Michele Paris
Nel corso di una delle audizioni promosse in questi giorni dal Congresso americano per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle reali implicazioni dei programmi di intercettazione messi in atto dall’NSA, il direttore dell’FBI, Robert Mueller, ha per la prima volta ammesso l’utilizzo di droni sul territorio degli Stati Uniti con funzioni di sorveglianza.
Durante la sua testimonianza di fronte alla commissione Giustizia del Senato, il capo della polizia federale americana ha risposto affermativamente ad una domanda postagli dal senatore repubblicano dell’Iowa, Chuck Grassley, sul ricorso ai droni da parte dell’FBI. Quando, subito dopo, la senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha chiesto a Mueller di chiarire la sua affermazione, quest’ultimo ha aggiunto che i droni negli USA “vengono usati molto raramente e in genere in caso di particolari incidenti nei quali si rendono necessarie le capacità” di questi strumenti.
Senza fornire esempi di questi “incidenti”, Mueller ha poi spiegato ai membri del Congresso che l’FBI sta elaborando delle linee guida per l’uso dei droni in territorio americano, anche se “alcune leggi sulla sorveglianza aerea e sulla privacy relativamente a elicotteri e piccoli velivoli potrebbero essere adattate ai droni”. Dalle parole di Mueller appare perciò chiaro come l’impiego di droni nei cieli USA venga attualmente deciso al di fuori di ogni regolamentazione legale. Un’eventuale legislazione che il numero uno dell’FBI ha detto di auspicare nel prossimo futuro, peraltro, servirebbe soltanto a dare una parvenza di legittimità ad una pratica gravemente lesiva della privacy e ancora una volta contraria ai principi costituzionali.
Per prevenire ovvie polemiche, lo stesso “Bureau” dopo la testimonianza di Mueller ha diffuso una dichiarazione ufficiale, spiegando che “i droni sono consentiti per ottenere informazioni cruciali che, diversamente, potrebbero essere reperite solo mettendo a rischio il personale di polizia”. Come esempio dell’uso fatto finora, l’FBI ha poi fatto riferimento ad un episodio accaduto quest’anno in Alabama, nel quale le forze di polizia, grazie ad un drone, sono venute a conoscenza di un nascondiglio dove veniva tenuto nascosto un ostaggio di 5 anni.
L’FBI, infine, ha fatto sapere che per il momento ogni operazione condotta con i droni sul suolo americano viene preventivamente approvata dalla Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia federale che regola e sovrintende all’aviazione civile negli Stati Uniti.
Come per i programmi di sorveglianza elettronica dell’NSA rivelati in questi giorni dall’ex contractor Edward Snowden, il governo americano giustifica ufficialmente anche l’uso dei droni con la necessità di avere a disposizione strumenti più efficaci per combattere la criminalità o la minaccia terroristica. Questi velivoli, tuttavia, forniscono uno strumento di controllo formidabile della vita e dell’attività di qualsiasi cittadino che venga considerato una “minaccia” per il paese.
Ugualmente, come la presunta legalità dei programmi dell’NSA si basa in gran parte sulle deliberazioni del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale opera in gran segreto assecondando ogni richiesta di intercettazione del governo, il ricorso ai droni avverrebbe solo dopo l’autorizzazione di un ente federale amministrativo come l’FAA. Questo espediente, a detta del direttore dell’FBI, sarebbe sufficiente a garantire la legittimità del programma.
Il tentativo di Mueller di minimizzare l’impiego dei droni con funzioni di sorveglianza negli Stati Uniti è comunque da considerare con estremo sospetto, visto che, quanto meno, a inizio anno l’FAA aveva fatto sapere di avere approvato in meno di sei anni quasi 1500 richieste di vari enti per operare questo genere di velivoli.
Da quanto si evince da alcune indagini giornalistiche e sparute dichiarazioni di politici o amministratori locali, l’uso dei droni in territorio americano viene oggi già consentito per i più svariati motivi, tra cui il monitoraggio del confine con il Messico per combattere l’immigrazione clandestina.
Gli Stati Uniti potrebbero però venire invasi a breve da un numero elevatissimo di droni, in gran parte con compiti di sorveglianza, dopo che il Congresso ha fissato al settembre 2015 l’apertura dei cieli a velivoli comandati a distanza che consentono un risparmio notevole di costi per le agenzie governative e per i singoli Stati. Entro questa data, l’FAA dovrà preparare un sistema di regolamentazione complessivo relativamente ai droni per uso domestico.
Significativamente poi, anche per i droni, come per i programmi di sorveglianza e intercettazione, il banco di prova per l’utilizzo domestico sono state le guerre condotte dagli Stati Uniti all’estero, in particolare in Pakistan e in Yemen dove questi strumenti di morte hanno causato migliaia di vittime civili.
Metodi di controllo e di repressione violenta di ogni forma di resistenza contro l’occupazione americana di un paese straniero oppure di rivolte contro regimi autoritari collusi con l’imperialismo di Washington, verranno perciò messi in atto con maggiore frequenza anche in patria per contrastare un dissenso interno destinato a crescere nel prossimo futuro con l’aumentare delle tensioni sociali.
Le dichiarazioni rilasciate mercoledì da Mueller, in ogni caso, potrebbero essere state orchestrate appositamente per prevenire lo shock di possibili nuove pubblicazioni di documenti passati da Snowden al quotidiano britannico Guardian proprio sull’uso dei droni negli USA con funzioni di sorveglianza.
Più in generale, l’intervento al Congresso del direttore dell’FBI, così come nei giorni precedenti di altre personalità dell’apparato della sicurezza degli Stati Uniti, a cominciare dal capo dell’NSA, generale Keith Alexander, fa parte della campagna in atto per difendere strenuamente il ricorso a programmi di sorveglianza palesemente illegali.
Lo zelo con cui i politici di entrambi gli schieramenti e gran parte dei media “mainstream” stanno cercando di giustificare la violazione sistematica dei principi costituzionali degli Stati Uniti e della privacy dei cittadini di tutto il mondo dimostrano il panico diffuso tra la classe dirigente americana dopo le rivelazioni di Snowden.
La tesi sostenuta a oltranza della necessità di accettare una trascurabile invasione della sfera privata per vivere in un paese sicuro serve infatti a nascondere la realtà di un governo sempre più autoritario e invasivo che può continuare a mettere in atto politiche profondamente impopolari sia sul fronte domestico che internazionale solo grazie all’inganno, alla segretezza e, appunto, all’adozione di colossali programmi di sorveglianza per reprimere il dissenso.
Lo stesso presidente Obama, perciò, è da giorni in prima linea nel propagandare la presunta legalità dell’operato di agenzie come l’NSA. Sia alla vigilia della sua partenza per il G-8 in Irlanda del Nord, sia durante la recentissima visita a Berlino, l’inquilino della Casa Bianca si è sentito in dovere di difendere pubblicamente le intercettazioni e i programmi di sorveglianza.
Obama li ha così definiti strumenti fondamentali nella “guerra al terrore”, come dimostrerebbero i circa 50 attentati che essi, secondo la versione offerta al pubblico, hanno permesso di sventare negli ultimi anni. Ironicamente, le parole del presidente sono giunte solo pochi giorni dopo l’annuncio di un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Questa decisione si concretizzerà nella fornitura di armi letali proprio a formazioni dominate da gruppi terroristici, i quali, d’altra parte, da tempo vengono considerati alternativamente nemici o partner più o meno ufficiali a seconda delle necessità degli interessi strategici di Washington.