di Michele Paris

I problemi legali del colosso bancario americano JPMorgan Chase non sembrano avere fine. Come diretta conseguenza delle modalità con cui opera l’intera industria finananziaria d’oltreoceano, la principale banca d’investimenti degli Stati Uniti ha infatti collezionato l’ennesima indagine aperta dalle autorità federali, con le quali avrebbe però raggiunto un accordo di massima nel fine settimana per pagare ancora una volta una sorta di tassa sulle proprie attività illegali ed evitare in gran parte i guai giudiziari che ne dovrebbero conseguire.

Il Dipartimento di Giustizia aveva in questa occasione messo sotto accusa JPMorgan per la truffa dei titoli legati ai mutui “subprime”, venduti agli investitori senza informarli dei rischi connessi. Come è noto, questo genere di prodotti finanziari ad alto rischio fu al centro della crisi esplosa nell’autunno del 2008. Molti dei titoli in questione erano stati ereditati da altri due istituti bancari - Bear Stearns e Washington Mutual - acquistati da JPMorgan nel 2008 a condizioni estremamente favorevoli.

Il procedimento ai danni di JPMorgan era scaturito, tra l’altro, dalla denuncia presentata dai giganti dei mutui controllati dal governo federale - Fannie Mae e Freddie Mac - e da un’indagine proprio su Bear Stearns del procuratore generale dello Stato di New York, Eric Schneiderman.

Per risolvere la questione che, assieme agli altri guai giudiziari, rappresenta un ostacolo alla conduzione degli affari di JPMorgan, la banca di Wall Street è in trattativa da tempo con le autorità del Dipartimento di Giustizia. Secondo i giornali americani, a sbloccare la situazione sarebbe stata una telefonata avvenuta nella serata di venerdì tra il Ministro della Giustizia, Eric Holder, e il presidente e amministratore delegato di JPMorgan, Jamie Dimon.

L’accordo con il governo dovrebbe così risolversi in una sanzione-record da 13 miliardi di dollari che, pur essendo la cifra più alta mai pagata da un’azienda privata, ammonta solo a poco più della metà dei profitti raccolti da JPMorgan nel solo 2012.

Secondo il New York Times, l’accordo potrebbe ancora saltare completamente e la sua finalizzazione dipende soprattutto da quanto i vertici di JPMorgan saranno disposti ad ammettere circa le proprie responsabilità sulla truffa dei mutui “subprime”. Se dovesse infatti riconoscere il comportamento illegale di dirigenti e dipendenti, la banca potrebbe assistere ad una valanga di cause legali ai propri danni da parte degli investitori truffati.

La questione più problematica sarebbe legata ad un procedimento criminale parallelo aperto dalle autorità federali della California che, secondo i termini dell’accordo, non verrebbe fermato dalla chiusura della causa civile con il pagamento della sanzione.

Lo stesso Dimon avrebbe insistito in prima persona con Holder al fine di far chiudere il caso aperto a Sacramento, ma il ministro di Obama, almeno per il momento, continua a ritenere necessaria una simile azione legale di fronte all’estrema impopolarità di JPMorgan.

Le prime pagine dei giornali americani usciti nella giornata di domenica hanno sottolineato l’eccezionalità della multa, così come la presunta ritrovata fermezza del Dipartimento di Giustizia nel punire gli eccessi di Wall Street. In realtà, tutte le sanzioni pagate finora e quelle a cui dovrà far fronte JPMorgan non hanno alterato significativamente la condotta della banca e, soprattutto, hanno fatto in modo che i suoi massimi dirigenti venissero risparmiati da qualsiasi procedimento penale.

Per stessa ammissione delle autorità di governo, d’altra parte, istituti come JPMorgan sono considerati di fatto al di sopra della legge e l’eventuale processo o arresto dei loro top manager produrrebbe pericolose scosse per l’intero sistema finanziario.

Con la connivenza dello stesso Dipartimento di Giustizia, perciò, JPMorgan e altre grandi compagnie private operanti in svariati settori utilizzano le sanzioni economiche emesse nei loro confronti come un contributo necessario da assolvere per continuare a fare affari spesso al di fuori della legalità.

La sola JPMorgan si è trovata implicata in questi anni in numerose indagini non solo negli Stati Uniti ma anche oltreoceano, come in Gran Bretagna, dove è in corso un’indagine relativa ad una perdita da 6 miliardi di dollari della propria filiale di Londra. Per far fronte a questi fastidi, la banca con sede su Park Avenue, a Manhattan, ha appena stanziato qualcosa come 9,2 miliardi di dollari per coprire le proprie spese legali. Ciò ha determinato il primo trimestre in rosso da quando alla sua guida è stato nominato Jamie Dimon alla fine del 2006.

Dei 13 miliardi di dollari che JPMorgan potrebbe pagare, 9 consisterebbero in sanzioni, mentre 4 andrebbero a risarcire sottoscrittori di mutui in difficoltà. Se confermata, la multa sarebbe di gran lunga la più pesante mai concordata con una singola azienda privata negli Stati Uniti, superando quella da 4,5 miliardi ai danni della compagnia petrolifera BP per il disatro nel Golfo del Messico nell’aprile del 2010.

La condotta di JPMorgan, in ogni caso, è tutt’altro che un’eccezione per Wall Street, anche se le vicende ad essa legate hanno puntualmente maggiore risalto viste le dimesioni e l’influenza dell’istituto. Le autorità federali americane sono infatte impegante in una lunga serie di indagini contro i giganti finanziari responsabili della crisi del 2008 e di molti altri crimini.

Meno di tre mesi fa, ad esempio, l’FBI e la procura federale di Manhattan avevano annunciato l’apertura di un procedimento penale ai danni dell’hedge fund SAC Capital, accusato di avere operato un sistematico schema di “insider-trading” tra il 1999 e il 2010. Anche in questo caso, però, i suoi vertici verrano risparmiati, come conferma la trattativa già in corso con il governo per il pagamento di una sanzione da oltre un miliardo di dollari.

di Michele Paris

L’ennesima crisi andata in scena per oltre due settimane nell’organo legislativo virtualmente più impopolare del pianeta si è conclusa come previsto nella nottata di mercoledì con un voto dell’ultimo minuto per scongiurare il temuto default del governo americano e riaprire gli uffici federali chiusi ormai da 16 giorni. Come raccontano le ricostruzioni ufficiali, il fallimento della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti nell’estrarre concessioni sulla “riforma” sanitaria di Obama in cambio del via libera al bilancio federale per l’anno 2013/2014 e dell’innalzamento del tetto del debito pubblico ha fatto in modo che l’iniziativa passasse nella giornata di mercoledì ai leader del Senato.

Qui, i numeri uno dei democratici, Harry Reid, e dei repubblicani, Mitch McConnell, si sono alla fine accordati su un pacchetto provvisorio che, senza emendamenti significativi relativi ad altri ambiti, sblocca i finanziamenti per le attività di governo fino al 15 gennaio e assegna al Dipartimento del Tesoro la facoltà di aumentare il livello di indebitamento fino al 7 febbraio. In prossimità di queste date, quindi, non è da escludere che gli americani saranno costretti ad assistere ad un nuovo scontro tra i due partiti.

Le misure trasformate in legge poco dopo la mezzanotte di giovedì dalla firma del presidente avrebbero perciò rappresentato una chiara sconfitta politica per l’ala destra repubblicana che, dopo giorni di battaglia, non ha ottenuto nulla se non il precipitare del proprio indice di gradimento tra la popolazione americana.

L’avvicinarsi della scadenza che avrebbe decretato il primo clamoroso default della storia degli Stati Uniti ha alla fine convinto lo speaker della Camera, John Boehner, a fare ciò che si era rifiutato per due settimane, vale a dire portare in aula un provvedimento su bilancio e debito pubblico privo di elementi che ostacolassero l’implementazione della “riforma” sanitaria. Così, nella serata di mercoledì a Washington la Camera ha finito per approvare con una maggioranza di 285 a 144 il provvedimento licenziato poche ore prima dal Senato, dove i favorevoli erano stati 81 e 18 i contrari, tutti repubblicani.

Alla Camera, tuttavia, sono serviti i voti dell’intera delegazione democratica (198) per garantire l’approvazione del bilancio e l’aumento del debito federale, mentre 144 repubblicani su 231 hanno espresso voto contrario.

Nei giorni successivi all’inizio del cosiddetto “shutdown” del governo federale, in ogni caso, i repubblicani al Congresso avevano progressivamente fatto passare in secondo piano le loro richieste relative alla “riforma” sanitaria, sottolineando invece la necessità di tagli drastici alla spesa, in particolare quella che finanzia programmi di assistenza popolari come Medicare, Medicaid e Social Security, ritenuti “insostenibili” nel lungo periodo.

La resistenza della Casa Bianca e dei democratici al Congresso su “Obamacare”, così come l’inevitabile cedimento repubblicano su tale questione, è stata in gran parte determinata dal sostanziale appoggio garantito sia dalle compagnie di assicurazione sanitaria sia dal mondo imprenditoriale americano ad una “riforma” che consentirà ingenti risparmi sulla spesa sanitaria e porterà decine di milioni di nuovi clienti, obbligati per legge a stipulare una polizza privata.

Parallelamente, la fermezza repubblicana ha cominciato a venire meno e la risoluzione della crisi si è iniziata ad intravedere quando l’industria finanziaria americana ha mostrato tutta la propria apprensione per le conseguenze potenzialmente catastrofiche di un possibile default. Nei giorni scorsi, infatti, gli indici di borsa erano crollati significativamente in assenza di un accordo e l’agenzia di rating Fitch aveva minacciato il “downgrade” del debito USA in mancanza di un’azione del Congresso.

Come le precedenti crisi degli ultimi tre anni, anche quest’ultima risoltasi in extremis spianerà ora la strada ad un nuovo drastico ridimensionamento della spesa pubblica negli Stati Uniti, con attacchi senza precedenti che colpiranno ancora una volta le classi più disagiate.

L’accordo negoziato da Reid e McConnell prevede infatti la formazione di un gruppo di lavoro presieduto dalla senatrice democratica Patty Murray e dal deputato repubblicano Paul Ryan -presidenti rispettivamente delle commissioni Bilancio di Senato e Camera - che avrà il compito di trovare un’intesa entro il 15 dicembre per ridurre il deficit federale con severi tagli alla spesa pubblica.

Al centro dei negoziati ci saranno appunto i programmi frutto delle politiche progressiste del New Deal e delle riforme degli anni Sessanta del secolo scorso, considerati fino a poco tempo fa intoccabili per entrambi gli schieramenti politici di Washington. Sotto la scure finiranno inoltre molti altri capitoli di spesa - ad esclusione di quelli relativi all’apparato della sicurezza nazionale - con pesanti tagli, tra gli altri, nel campo dell’edilizia pubblica, dell’assistenza e della sicurezza alimentare, del rispetto delle norme ambientali, dell’educazione e delle infrastrutture.

La disponibilità dei democratici a valutare misure per garantire la “sostenibilità” dei programmi di assistenza pubblici era stata d’altra parte manifestata più volte nelle ultime due settimane anche dallo stesso presidente Obama, il quale aveva chiesto ripetutamente quanto ha alla fine ottenuto mercoledì, cioè l’approvazione incondizionata del bilancio federale e dell’innalzamento del tetto del debito come condizione per aprire un negoziato sui tagli a tutto campo con i repubblicani.

Inoltre, come ha spiegato nell’annunciare l’accordo di mercoledì il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, le misure provvisorie approvate dal Congresso faranno proseguire il cosiddetto “sequester”, ovvero i tagli automatici alla spesa scattati nel mese di marzo e che per il solo anno in corso ammontano a 85 miliardi di dollari.

Il punto di partenza delle trattative che si svolgeranno nelle prossime settimane comprenderà poi con ogni probabilità sia gli ulteriori mille miliardi di dollari di tagli alla spesa previsti dal “sequester” per i prossimi otto anni sia una qualche “riforma” del sistema fiscale degli Stati Uniti che, per stessa ammissione di Obama, vedrà una riduzione delle aliquote sulle grandi aziende che già stanno facendo registrare profitti da record.

In definitiva, l’apparente muro contro muro tra democratici e repubblicani propagandato dai media ufficiali in questi giorni è servito a creare un clima da catastrofe imminente, così da giustificare i nuovi assalti che già si annunciano alla spesa pubblica e su cui entrambi i partiti concordano ampiamente.

Le uniche differenze, in realtà, risultano essere di natura tattica, con il partito Repubblicano apertamente schierato contro lavoratori e classe media, mentre quello Democratico, sebbene ugualmente espressione delle élite economiche e finanziarie d’oltreoceano, costretto a cercare di presentarsi come difensore dei programmi pubblici di assistenza per salvaguardare ciò che resta della propria tradizionale base elettorale.

di Michele Paris

Una nuova serie di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) pubblicati martedì dal Washington Post hanno rivelato un’ulteriore attività dell’ente governativo con sede a Fort Meade, nel Maryland, che conferma l’avanzato stato di degrado dei diritti democratici negli Stati Uniti. La più recente rivelazione apparsa grazie all’ex contractor della stessa NSA, Edward Snowden, riguarda questa volta la raccolta massiccia e indiscriminata delle liste dei contatti e-mail contenuti negli account personali di posta elettronica e in quelli di messaggistica istantanea di utenti in tutto il mondo, Stati Uniti compresi.

Questa operazione non è mai stata resa nota in precedenza e i documenti forniti da Snowden indicano come l’NSA sia in grado di appropriarsi illegalmente di dati riservati intercettandoli nel momento in cui essi “si muovono attraverso collegamenti globali”, ad esempio quando un utente effettua un log-in, compone un messaggio oppure “sincronizza un computer o un telefono cellulare con le informazioni archiviate su server remoti”.

Come accade regolarmente con gli altri programmi di intercettazione di dati telefonici e traffico internet, anche in questo caso l’NSA non procede con la raccolta mirata di informazioni in caso di utenti sospetti, ma entra in possesso delle liste di contatti in maniera indiscriminata.

La quantità dei dati così ottenuti è perciò impressionante. La sezione dell’NSA denominata Special Source Operations in un singolo giorno ha messo le mani su 444.743 indirizzi e-mail provenenti da account Yahoo, 105.068 da Hotmail, 82.857 da Facebook, 33.697 da Gmail e quasi 23 mila da altri provider. Numeri simili indicano come l’NSA entri in possesso mediamente in un anno di oltre 250 milioni di indirizzi di posta elettronica contenuti nelle liste degli utenti di tutto il mondo.

Secondo quanto riportato dal Washington Post, il metodo con cui l’NSA raccoglie questi dati rende superflua qualsiasi notifica alle compagnie informatiche che li ospitano. Portavoce di Google, Microsoft e Facebook si sono infatti affrettati a dichiarare la loro estraneità al più recente programma di intercettazione di dati riservati rivelato da Snowden.

Tuttavia, come spiega ugualmente il quotidiano della capitale americana, la capacità dell’NSA di avere accesso alle liste di contatti “dipende da accordi segreti con compagnie di telecomunicazioni straniere o servizi di intelligence di paesi alleati” degli Stati Uniti.

Teoricamente, l’NSA avrebbe facoltà di raccogliere informazioni solo su cittadini stranieri, ma nella rete dell’agenzia cadono anche in questo caso numerosi contatti conservati nelle liste di utenti americani. Questo genere di dati, d’altra parte, offre preziose informazioni per l’intelligence d’oltreoceano, visto che gli elenchi dei contatti contengono spesso non solo nomi e indirizzi e-mail ma anche numeri di telefono, indirizzi postali e altro ancora.

Assieme ai dati telefonici e a quelli sul comportamento degli utenti su internet, questi ultimi permettono così agli agenti dell’NSA di delineare una mappa esaustiva della vita delle persone intercettate, comprese le loro frequentazioni e le opinioni politiche.

Questo sistema di controllo pervasivo smentisce dunque in maniera clamorosa le ripetute rassicurazioni da parte del governo americano circa le intenzioni dell’NSA, la quale opererebbe in questo modo solo per trovare informazioni legate ad attività terroristiche, mentre non ci sarebbe alcun interesse per le informazioni personali dei cittadini.

Le stesse debolissime regole create appositamente per dare una parvenza di legalità a sistemi da stato di polizia vengono inoltre puntualmente aggirate dall’NSA, dal momento che per ammissione dei vertici dell’intelligence questa agenzia non ha alcuna autorizzazione formale per raccogliere in massa liste di e-mail, così come altri dati informatici o telefonici, di cittadini americani.

L’NSA, tuttavia, ottiene le informazioni in questione da “punti di accesso in tutto il mondo”, da cui transitano appunto anche i dati degli americani, visto che compagnie come Google o Facebook utilizzano impianti situati fisicamente in svariati paesi esteri.

Queste ultime rivelazioni contribuiscono dunque a mostrare la totale assenza di scrupoli democratici del governo americano nelle proprie attività di controllo del dissenso interno e delle minacce agli interessi della propria classe dirigente in ogni angolo del pianeta.

La conoscenza da parte dell’opinione pubblica di simili operazioni non dipende, come è ovvio, dalla trasparenza del governo di Washington, bensì dal coraggio di persone come Snowden, le quali, per le loro azioni che forniscono un servizio di grandissimo valore vengono spesso perseguiti in maniera feroce.

A mettere in luce i metodi punitivi adottati dall’amministrazione Obama contro i propri critici e i cosiddetti “whistleblowers”, cioè coloro che dall’interno del governo rivelano abusi e crimini a cui hanno assistito in prima persona, è stata una recente indagine del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un’organizzazione che promuove la libertà di stampa con sede a New York.

Secondo l’autore del rapporto, il docente di giornalismo presso l’università statale dell’Arizona Leonard Downie, “la guerra lanciata dall’amministrazione Obama contro le fughe di notizie e i suoi sforzi per controllare l’informazione non hanno precedenti per aggressività”.

Dalle testimonianze raccolte dal CPJ sulla questione, appaiono evidenti, tra l’altro, i tentativi di impedire l’accesso da parte dei giornalisti alle fonti interne al governo, le intimidazioni contro le testate e i singoli reporter e il controllo del flusso di informazioni alla stampa a seconda dei propri interessi.

Il quadro che emerge appare più consono ad una dittatura che ad un paese democratico e questo scenario risulta ancora più allarmante alla luce della promessa di assoluta trasparenza fatta nel 2008 in campagna elettorale da Barack Obama dopo l’eccessiva segretezza dell’amministrazione Bush.

Appena installato alla Casa Bianca, infatti, lo stesso Obama si è rapidamente adeguato ai sistemi ormai consolidati dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, adottando addirittura misure ben più severe del suo predecessore, in linea con le crescenti necessità di controllo delle informazioni di un regime sempre più screditato e impopolare.

di Michele Paris

I governi di Stati Uniti e Afghanistan sembrano avere fatto nei giorni scorsi un significativo passo avanti verso la stipula di un sofferto accordo militare bilaterale per mantenere un numero significativo di truppe americane sul territorio del paese centro-asiatico dopo il ritiro della maggior parte delle forze di occupazione NATO alla fine del 2014.

L’annuncio di una bozza preliminare di accordo è stato fatto nello scorso fine settimana, in seguito a due giorni di serrate discussioni tra il presidente afgano, Hamid Karzai, e il segretario di Stato americano, John Kerry. La stesura di un testo definitivo approvato da entrambe le parti appare però ancora relativamente lontana e dipenderà, in sostanza, dal grado in cui Washington e Kabul riusciranno a superare o a resistere la diffusa ostilità tra la popolazione locale per una presenza statunitense continuata in Afghanistan.

Secondo quanto riferito alla stampa dai diplomatici americani, il documento su cui Kerry e Karzai avrebbero raggiunto un’intesa di massima dovrà essere sottoposto ad un processo di revisione legale negli Stati Uniti, anche se l’amministrazione Obama vorrebbe mandare in porto l’accordo definitivo già entro la fine di ottobre.

Le maggiori preoccupazioni riguardano tuttavia l’approvazione dell’accordo da parte di un’assemblea tradizionale di leader tribali afgani (“Loya Jirga”) a cui Karzai intende rivolgersi per dare una qualche legittimità ad una misura tutt’altro che gradita alla popolazione e che perpetuerebbe per molti anni la presenza militare americana nel paese.

In particolare, uno dei punti più controversi risulta essere l’immunità legale da assicurare ai militari statunitensi dispiegati sul territorio afgano e su cui le autorità di Washington appaiono irremovibili. Lo stesso Kerry è stato infatti estremamente chiaro, affermando che, “se la questione della giurisdizione [immunità] non dovesse essere risolta, purtroppo non ci sarà alcun accordo bilaterale”.

Dal momento che un’occupazione come quella in corso da oltre un decennio in Afghanistan contro il volere della maggioranza della popolazione richiede il ricorso a metodi brutali - evidenziati dagli innumerevoli crimini commessi dai militari stranieri in questi anni - la richiesta di giudicare negli Stati Uniti coloro che violano le leggi locali è una condizione imprescindibile per qualsiasi accordo con Kabul.

Sulle trattative pesa anche il precedente dell’Iraq del 2011, quando la mancata intesa con il governo Maliki sulla stessa questione dell’immunità contribuì a far naufragare le trattative per la permanenza indefinita nel paese che fu di Saddam Hussein di un contingente militare americano dopo il ritiro previsto per la fine di quell’anno.

Un’altra disputa che sta complicando i negoziati tra Washington e Kabul è poi quella legata alle operazioni “anti-terrorismo” condotte dalle forze speciali americane e che si risolvono puntualmente in un motivo di imbarazzo per il governo afgano. Queste operazioni sono profondamente avversate dalla popolazione, visto che consistono spesso in assalti notturni ad abitazioni private con “danni collaterali” di civili tutt’altro che trascurabili.

Sulle operazioni delle forze speciali a stelle e strisce, le quali mettono in discussione anche la sovranità stessa dello stato afgano, Karzai ha spesso dovuto esprimere pubblicamente la propria condanna nei confronti degli Stati Uniti. La delicatezza della questione è apparsa evidente ancora una volta proprio nel fine settimana, quando gli americani hanno “catturato” in territorio afgano un leader dei Talebani pakistani - Latif Mehsud - mentre era sotto custodia proprio del governo di Kabul.

In definitiva, Karzai si ritrova a dover cercare a tutti i costi di finalizzare un accordo militare con gli Stati Uniti di fronte alle resistenze manifestate contro di esso dalla maggioranza degli afgani poiché dalla presenza a lungo termine delle forze di occupazione dipende la sua permanenza al potere e quella della sua cerchia familiare. Anche se non potrà ricandidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo mese di aprile, Karzai ha comunque bisogno del sostegno e della presenza americana per garantire un passaggio di consegne indolore ad un futuro presidente di sua scelta.

La classe dirigente afgana, più in generale, vede con favore la prosecuzione dell’occupazione americana, non solo perché deve a Washington la propria posizione di privilegio ma soprattutto perché la situazione della sicurezza nel paese asiatico è tornata a deteriorarsi negli ultimi tempi. Le forze di sicurezza locali non sono infatti in grado di operare autonomamente e un eventuale abbandono dell’Afghanistan da parte del contingente NATO riporterebbe con ogni probabilità al potere i Talebani, con i quali oltretutto il complicato processo di pacificazione ha subito una nuova battuta d’arresto dopo l’ennesimo annuncio dell’apertura del dialogo qualche settimana fa.

Allo stesso tempo, Karzai è ben consapevole che la presenza di una forza occupante in Afghanistan contribuisce ad alimentare l’instabilità e le tensioni nel paese. Come ha spiegato in un’intervista al Wall Street Journal nel fine settimana Shahmahmood Miakhel, responsabile per l’Afghanistan del think tank di Washington U.S. Institute for Peace, Karzai perciò “vuole il trattato bilaterale sulla sicurezza ma non ne vuole la responsabilità”.

Anche per questa ragione, Karzai ha deciso di sottoporre la questione ad un’assemblea tribale che, però, non rappresenta tanto il volere della popolazione quanto i leader locali afgani, spesso fedeli allo stesso presidente e comunque esposti alle pressioni e alle promesse del governo centrale, soprattutto in vista delle elezioni della prossima primavera.

In ogni caso, questa sorta di prova di democrazia tribale per decidere il futuro dell’accordo bilaterale con Washington dovrebbe tenersi entro un mese e ad essa parteciperà qualche centinaia di persone, una parte delle quali hanno già approvato negli ultimi anni svariate iniziative del presidente Karzai, compresa la sua elezione alla guida del paese nel 2002.

di Emanuela Muzzi

Londra. Qui la chiamano "royal charter". E’ un decreto legge sulla regolamentazione dei quotidiani inglesi, ma il senso, nonostante il fascino del sound anglosassone, resta sempre quello: legge bavaglio. Il voto sul disegno di legge che propone l’introduzione di un’autorità di controllo sull’autoregolamentazione della carta stampata, è atteso per il prossimo 30 Ottobre. Nel frattempo la polemica impazza e sconfina nei blog: nel piovoso weekend i giornalisti inglesi si sono chiusi in casa a twittare contro la “press regulation”.

Il vento freddo che spiffera dalle porte dell’inverno ha portato con sé la brutta notizia della bozza in arrivo. Una proposta “tripartisan” sottoscritta di buon grado dai tre leader di partito; il Premier David Cameron (Conservatori), il vice premier Nick Clegg (Liberal Democratici, partito di coalizione), ed il leader dell’opposizione Ed Miliband (Labour). Mai visti i tre così sorridenti, d’amore e d’accordo: del resto, quando si tratta di dare a stampa e giornalisti il “giusto ed etico codice di condotta” non si tirano indietro. Nel caso venisse approvata, la legge potrebbe anche subire degli emendamenti approvati con i tre quarti dei voti sia ai Lords che ai Comuni.

Background: l’esigenza di imporre una forma di "press regulation" risale allo scandalo “phone hackings”, quelle che chiameremmo volgarmente intercettazioni: i “giornalisti” di News of the World e testate affini (come il The Sun tra gli altri) di proprietà di Rupert Murdoch, hanno fatto per anni un uso sicuramente non etico e poco limitato di piccoli dispositivi sensibili al suono, dimenticandosi di avvertire centinaia di vittime - come ad esempio i genitori della bimba scomparsa Madeleine McCann, fino a Prince William - che i loro telefoni, segreterie telefoniche, cellulari e così via erano costantemente monitorati da giornalisti, e in nei casi più gravi, anche da Scotland Yard.

Con l’ammissione da parte dei giornalisti dell’allora The News of the World di aver intercettato il telefono dell’adolescente inglese Milly Dowler nel lasso di tempo tra il rapimento e l’assassinio, nel 2002, si è infine toccato il fondo: è un punto di non ritorno, una pagina nera della storia del giornalismo.

Il phone hacking scandal era finito su tutti i giornali, anche su quelli di Murdoch: la faccia rugosa del patron di Sky e la chioma rossa al vento della ex executive di News International, Rebekah Brooks, hanno tenuto banco dalla prima pagina del Financial Times. Sulla fonte privilegiata della finanza anglosassone ed internazionale si approfondiva l’ipotesi del tentativo da parte del governo inglese di evitare tramite la Leveson Inquiry l’offerta di acquisto da parte di Murdoch su BskyB per impedirgli di acquisire una posizione di monopolio sui media britannici.

La notizia campeggiava però fino sulle pagine patinate di Vogue, dove chi voleva sapere se Hugh Grant mentre protestava a squarciagola contro il phone hacking di fronte al Parlamento avesse perso qualche chilo, poteva trovare soddisfazione.

Il Gran Finale: i protagonisti sono, quasi tutti, finiti sul banco degli imputati di fronte al giudice Leveson. Sì, gli arresti ci sono stati, i Murdoch hanno subito un parziale ridimensionamento dell’impero con un danno d’immagine fino alla seconda generazione: in seguito all’inchiesta James Murdoch aveva lasciato al poltrona di Ceo del gruppo NGN News Group Newspapers, la holding che controlla il Sun e il Times.

Ma tutto questo a Westminster oggi non basta; bisogna estirpare la mala erba dalla radice: ci vuole legge che regoli il Quarto potere, ma che sia applicabile a tutta la stampa e non solo ai responsabili che hanno ridotto ruolo, prassi e contenuti del giornalismo, nonché la figura del giornalista, al livello dei dilettanti di X Factor e degli “zori” del Grande Fratello.

Un giornalismo d’intrattenimento e di consumo mutuato dal modello televisivo di Sky e sconfinato sui quotidiani che pagina dopo pagina rincorrono a fatica il nonsense delle news minuto per minuto. Questi sono i danni che ancora paghiamo nell’era post-Murdoch.

Lo scenario: Fare una regolamentazione ad hoc non è possibile del resto, né nel Regno Unito né altrove e certamente ogni forma di regolamentazione non deve certo venire dal Parlamento e dall’establishment. Va detto che un codice etico del giornalismo già esiste ed una chiara legge sulle intercettazioni è già in vigore in Inghilterra. La parola resta ai gruppi editoriali dei quotidiani che sono comunque chiamati a sottoscrivere la "royal charter". Sembra che non siano intenzionati a farlo.

Bob Satchwell, a capo della Società degli editori (che include anche televisioni e radio britanniche) ha rivendicato l’indipendenza della stampa; tuona dagli schermi della BBC con una voce degli anni Cinquanta che è un tuffo nel passato delle democrazie post Seconda Guerra. Quando tutto, anche i diritti fondamentali, era da ricostruire.


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