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di Michele Paris
La nuova durissima ondata di repressione messa in atto dai militari in Egitto nei giorni scorsi sta provocando forti inquietudini tra i governi europei e quello degli Stati Uniti, preoccupati per una possibile totale destabilizzazione del paese nordafricano e della regione mediorientale in seguito all’aggravarsi degli scontri tra i sostenitori del deposto presidente islamista Mohamed Mursi e il regime golpista.
Dopo le violenze del fine settimana, nella giornata di lunedì il capo della diplomazia UE, Catherine Ashton, è giunta al Cairo ufficialmente per promuovere un piano di riconciliazione e, soprattutto, provare a convincere i vertici dei Fratelli Musulmani ad appoggiare la “transizione” politica in corso entrando a fare parte del governo provvisorio.
Nella capitale egiziana la Ashton ha incontrato il numero uno delle Forze Armate, generale Abdel Fattah al-Sisi, il presidente ad interim, Adly Mansour, il suo vice, Mohamed ElBaradei, e i dirigenti rimasti in libertà del partito Libertà e Giustizia, cioè il braccio politico dei Fratelli Musulmani. Secondo un comunicato ufficiale rilasciato dall’ufficio della responsabile della politica estera di Bruxelles, lo scopo della visita sarebbe quello di fare pressione per mettere in moto “un processo di transizione che includa tutte le forze politiche, compresi i Fratelli Musulmani”.
Chiaramente, l’obiettivo dell’Occidente è quello di mettere fine alle manifestazioni di piazza e al confronto tra sostenitori e oppositori di Mursi, così da dare una qualche stabilità all’Egitto e conferire una parvenza di legittimità al regime installato dopo il colpo di stato del 3 luglio scorso.
Dagli Stati Uniti, inoltre, sono giunti in questi giorni moderati appelli al rispetto delle proteste pacifiche e a porre fine alle violenze contro coloro che chiedono il reinsediamento di Mursi. Gli inviti ai militari da parte dell’amministrazione Obama, tuttavia, continuano ovviamente ad essere molto più cauti rispetto, ad esempio, alle minacce esplicite lanciate in questi ultimi due anni ai regimi di Libia o Siria.
I membri del governo americano, dopo avere dato con ogni probabilità il via libera al golpe contro i Fratelli Musulmani, continuano infatti a rimanere in contatto con i leader militari e del governo provvisorio. Il segretario di Stato, John Kerry, e quello della Difesa, Chuck Hagel, già nella giornata di sabato avevano parlato al telefono rispettivamente con il ministro degli Esteri, Nabil Fahmy, e con lo stesso generale al-Sisi, secondo i media ufficiali per esprimere la loro apprensione in merito alle violenze in corso nel paese.
Hagel, in particolare, avrebbe detto all’attuale uomo forte al Cairo che la repressione ai danni dei Fratelli Musulmani rischia di spingere nuovamente il movimento islamista nella clandestinità, con la minaccia di innescare un sanguinoso e protratto conflitto armato contro il regime.
Dopo avere approvato l’intervento dei militari per rimuovere un governo eletto profondamente impopolare e obiettivo di manifestazioni di protesta oceaniche, gli Stati Uniti avevano senza dubbio messo in preventivo un certo livello di violenza in seguito alla repressione che sarebbe seguita all’estromissione di Mursi dal potere. Washington, tuttavia, si ritrova ora a sostenere un regime militare che ha già fatto centinaia di vittime in poco meno di un mese e che rischia di perdere la legittimità assicuratagli dalla collaborazione delle formazioni politiche secolari e pseudo-democratiche che erano all’opposizione durante il breve governo dell’ex presidente Mursi.
Se la marcia andata in scena venerdì scorso in risposta all’appello del generale al-Sisi - il quale aveva chiesto una sorta di “mandato popolare” per reprimere la violenza e il “terrorismo” - ha visto la partecipazione di milioni di egiziani, molti di questi ultimi potrebbero finire ben presto per perdere ogni fiducia nei militari, una volta manifestatasi pienamente la natura reazionaria del loro progetto.
Le prime proteste contro il nuovo regime da parte di alcune formazioni politiche che avevano mobilitato la popolazione contro Mursi sono così giunte in questi giorni in seguito non solo all’inasprirsi della repressione ma anche alla decisione presa domenica dal governo di consentire alle forze armate di arrestare civili. Secondo alcuni osservatori, in caso di un ulteriore aggravamento dello scontro, questo provvedimento potrebbe essere il preludio all’imposizione dello “stato di emergenza”, strumento con il quale per decenni Mubarak aveva represso il dissenso interno.
Una prospettiva di questo genere, con il ricorso anche formale da parte dei militari ai metodi dittatoriali del regime travolto dalla mobilitazione popolare nel 2011, smaschererebbe definitivamente i reali scrupoli per i principi democratici sia degli Stati Uniti che degli stessi partiti secolari egiziani, entrambi responsabili di avere fornito la copertura politica necessaria per la messa in atto del colpo di stato anti-Mursi e della successiva sanguinosa repressione.
Gli Stati Uniti e i loro alleati, in ogni caso, sembrano essersi messi in moto per riportare i Fratelli Musulmani all’interno del quadro politico emerso dopo il golpe del 3 luglio. Secondo quanto riportato lunedì dal Wall Street Journal, così, il governo di Washington, anche attraverso “emissari” del Qatar - la cui casa regnante era il principale sostenitore del governo Mursi - avrebbe fatto pervenire messaggi distensivi ai vertici dei Fratelli Musulmani, assicurandoli che nonostante la rimozione dell’ormai ex presidente esisterebbe ancora la possibilità per loro di avere un futuro politico in Egitto.
Questa prospettiva - alquanto improbabile visto il livello delle tensioni di queste settimane - potrebbe concretizzarsi se l’organizzazione islamista decidesse di abbandonare lo scontro di piazza e partecipare al processo di “riconciliazione” con i militari e le formazioni secolari. I Fratelli Musulmani, d’altra parte, durante i dodici mesi al potere avevano mostrato una certa disponibilità ad assecondare gli interessi strategici occidentali e quelli degli ambienti finanziari internazionali.
Gli alti ufficiali egiziani continuano comunque a mantenere un atteggiamento tutt’altro che di apertura verso i Fratelli Musulmani. Anche per le violenze e le almeno 80 vittime degli scontri del fine settimana, il regime ha infatti assegnato la responsabilità alle provocazioni dei manifestanti islamisti, nonostante, ad esempio, la presenza riscontrata su molti corpi di segni di vere e proprie esecuzioni commesse dai servizi di sicurezza. Allo stesso modo, esponenti dei Fratelli Musulmani e di altri partiti islamisti moderati vengono arrestati senza sosta con l’accusa di avere incitato le violenze di questi giorni.
Gli Stati Uniti, da parte loro, malgrado gli appelli pubblici alla moderazione proseguono nel propagandare il colpo di stato come un “processo di transizione verso la democrazia”, avallando perciò di fatto la repressione dei militari. A parte gli inviti ad evitare gli eccessi di violenza, l’unico reale provvedimento che l’amministrazione Obama ha preso finora per “punire” le Forze Armate egiziane sarebbe la sospensione annunciata settimana scorsa della fornitura di 4 aerei da guerra F-16.
Come è noto, il governo statunitense ha invece deliberatamente aggirato una propria legge che impone lo stop a qualsiasi aiuto finanziario ad un regime golpista semplicemente evitando di bollare la rimozione di Mursi come un colpo di stato. In questo modo, Washington continuerà ad elargire il miliardo e mezzo di dollari all’anno con cui ricompensa la classe dirigente egiziana - a cominciare dai militari - per i servizi resi agli interessi americani nella regione.
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di Silvia Mari
Papa Francesco continua a sconvolgere e a demolire, pezzo dopo pezzo, l’apparato ecclesiastico che ha contraddistinto nell’ultimo ventennio la storia della Chiesa. Lo ha fatto nei suoi Angelus ricordando i doveri autentici di un credente, specie se sacerdote o suora, lo ha fatto istituendo una Commissione d’inchiesta sulle finanze vaticane e lo fa arrivando in Brasile quasi come un prete qualunque. Le immagini della sicurezza in tilt e dei fedeli che assediano l’automobile del papa sono già un’icona della storia.
Poveri, detenuti, prostitute e malati sono coloro cui papa Francesco rivolge le sue preghiere parlando ai giovani nella giornata mondiale loro dedicata. “Non siate come Ponzio Pilato” dice loro invitandoli, questo vuole dire, ad andare controcorrente.
E a Copacabana, patria della danza e del divertimento, un milione di ragazzi e ragazze hanno portato la loro Via Crucis senza rinunciare ai colori, alla vitalità e alle voci di un vero spettacolo sentito di meditazione e riflessione. Il messaggio del capo della Chiesa cattolica non è indirizzato ad elargire il monito di penitenze, ammende peccati o divieti, ma piuttosto al coraggio di cambiare e al tema, dirompente, della giustizia sociale.
Papa Bergoglio parla di giovani delusi dalla politica e dai preti, imputando alla Chiesa senza mezzi termini la sua quota di responsabilità di un vero tradimento ai valori principali del cristianesimo. A questo Papa interessa l’aiuto, il bisogno, l’emarginazione delle favelas che ha incontrato nel suo viaggio, il tema del perdono più che quello dell’esclusione e della colpa. E se questa è prima di tutto una rivoluzione della catechesi cattolica, non c’è dubbio di quanto rappresenti un sussulto di coscienza anche per la vita politica.
E’ anche per dare questo preciso messaggio che Papa Bergoglio invita sul palco i “Cartoneros” argentini (solo 100mila a Buenos Aires), persone che avevano un tenore di vita normale e che dopo la crisi del 2001 si sono trovate impoverite e ai margini nella favelas e cercare cibo nei rifiuti, senza più chances di riscatto sociale ed economico.
Non è mancata attenzione agli strumenti che ormai appartengono a pieno titolo alla vita dei giovani e ai meccanismi, spesso imprigionanti e insidiosi per affetti e relazioni, che vengono generati dal web e dalla rete.
Francesco è un papa attento che per metodo ha dimostrato, in innumerevoli occasioni, di non voler eludere il confronto della Chiesa con il mondo contemporaneo, che non vuol dire appiattirsi alla cronaca e rinunciare alla dottrina, ma saperla rendere ancor più credibile negli eventi e nei drammi dell’uomo del secolo.
Il rito della Via Crucis, che nella liturgia cattolica si celebra il venerdì della morte di Gesù per annunciarne la resurrezione pasquale, nelle mani dei giovani e nella colorata e allegra terra del Brasile, che gronda le sue ingiustizie, le sue rivoluzioni in corso, le sue ribellioni alle forme radicali di povertà, diventa particolarmente simbolica grazie alle parole di questo Papa. Che prima di chiedere al mondo di cambiare, lo chiede alla Chiesa di Roma.
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di Mario Lombardo
Un emendamento alla legge sullo stanziamento di fondi per il Pentagono che avrebbe parzialmente ristretto le facoltà di intercettare le comunicazioni elettroniche da parte dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA) è stato prevedibilmente respinto questa settimana dalla Camera dei Rappresentanti americana. L’esito del voto è stato in parte determinato da pressioni senza precedenti esercitate dall’amministrazione Obama sui membri del Congresso di entrambi gli schieramenti, anche se un’eventuale approvazione dell’emendamento “anti-NSA” avrebbe lasciato intatta la maggior parte dei programmi illegali condotti clandestinamente in tutto il pianeta.
La modifica al pacchetto che contiene i nuovi finanziamenti per il Dipartimento della Difesa era stata presentata dal deputato repubblicano del Michigan di tendenze libertarie e vicino ai Tea Party, Justin Amash. L’emendamento era co-sponsorizzato dal democratico “progressista” John Conyers, anch’egli del Michigan, in una sorta di alleanza tra l’estrema destra e la sinistra teorica della Camera dei Rappresentanti, unite nell’esprimere una qualche critica ai metodi dell’NSA.
La proposta di Amash avrebbe di fatto impedito all’NSA di intercettare indiscriminatamente i cittadini americani, privando l’agenzia con sede a Fort Meade, nel Maryland, dei fondi necessari per condurre questo genere di operazioni. L’NSA avrebbe dunque potuto raccogliere i cosiddetti “metadati” solo in presenza di indagini criminali ai danni di singoli individui.
In risposta alla profonda avversione diffusa nel paese verso le clamorose e sistematiche violazioni della privacy e dei diritti costituzionali svelate dall’ex contractor dell’NSA, Edward Snowden, molti deputati hanno sostenuto l’emendamento, comunque sconfitto per 217 voti a 205. Il voto ha di fatto spaccato i due partiti, con 94 repubblicani e 111 democratici che hanno votato a favore, contravvenendo alle indicazioni dei rispettivi leader.
Nei giorni precedenti l’appuntamento alla Camera, l’amministrazione Obama si era mobilitata per assicurare la sconfitta dell’emendamento. Un’eventuale approvazione, in ogni caso, non avrebbe significato l’introduzione automatica dei limiti previsti per l’NSA, visto che su di essi avrebbe dovuto esprimersi anche il Senato e, alla fine, lo stesso presidente avrebbe avuto facoltà di porre il veto. Una bocciatura ufficiale di uno dei programmi illegali dell’NSA da parte di un ramo del Congresso avrebbe però costituito un grave motivo di imbarazzo per la Casa Bianca, soprattutto dopo l’incessante campagna orchestrata per difendere quello che viene definito come uno strumento fondamentale per garantire la “sicurezza nazionale”.
Alla vigilia del voto, così, il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, aveva letto un comunicato ufficiale per esprimere la contrarietà dell’amministrazione democratica “allo sforzo in corso alla Camera per smantellare frettolosamente uno degli strumenti dell’anti-terrorismo a disposizione della nostra comunità di intelligence”.
Nella giornata di martedì, addirittura, il direttore dell’NSA, generale Keith Alexander, aveva presieduto un incontro a porte chiuse a dir poco straordinario con i membri della Camera, ai quali sono stati presentati documenti riservati sulla presunta efficacia del programma in questione, così da convincerli della necessità di mantenerlo in vita.
Mercoledì, infine, nel giorno stesso del voto alla Camera, una manciata di ex membri dell’apparato della sicurezza nazionale americana ha indirizzato una lettera aperta ai deputati in difesa dei programmi illegali dell’NSA. La mobilitazione dei vertici attuali e passati del governo, delle forze armate e dell’intelligence è stata dunque senza precedenti, in modo da impedire anche solo una lievissima minaccia a quelli che vengono considerati dalla classe dirigente d’oltreoceano come strumenti fondamentali non tanto per la lotta al terrorismo, quanto per il monitoraggio e controllo di qualsiasi forma di dissenso interno.
Particolarmente imbarazzante è apparsa poi la difesa dei programmi dell’NSA da parte dei loro sostenitori a Washington, impegnati a proclamare la necessità di preservarli perché necessari alla “guerra al terrore”, proprio mentre gli Stati Uniti stanno per procedere con la fornitura di armi ai “ribelli” in Siria, tra i quali prevalgono formazioni fondamentaliste legate ad Al-Qaeda.
Le rivelazioni di Snowden, oltretutto, hanno ulteriormente smentito la pretesa di un’NSA intenta a violare la legge per difendere il paese dalla minaccia terroristica, visto che le intercettazioni autorizzate dal governo non solo riguardano in maniera indiscriminata centinaia di milioni di persone sulle quali non esistono sospetti, ma sono messe in atto anche nei territori di paesi alleati degli Stati Uniti, come Francia o Germania.
Se il voto in aula di mercoledì a Washington è il frutto di reali inquietudini diffuse tra un certo numero di membri del Congresso circa la deliberata violazione dei diritti costituzionali di cui è responsabile l’NSA, l’emendamento Amash che ha unito repubblicani libertari tradizionalmente diffidenti verso qualsiasi ampliamento dei poteri del governo federale e democratici “progressisti” è sembrato essere soprattutto l’esito di un calcolo politico studiato a tavolino.
Una parte della classe politica americana, cioè, ha avuto in questo modo la possibilità di mostrare in maniera innocua la propria relativa opposizione a programmi di sorveglianza che la maggioranza degli americani ritiene illegittimi nonostante la campagna in loro difesa orchestrata dal governo e da molti media ufficiali.
Un sondaggio pubblicato proprio mercoledì da CBS News ha infatti mostrato come il 67% degli americani consideri la raccolta delle informazioni telefoniche da parte del governo come una chiara violazione della privacy. Un’altra indagine condotta dal Marist College di New York per l’agenzia di stampa McClatchy ha rilevato invece come il 56% degli americani ritenga che il governo sia andato troppo in là nel monitoraggio di dati personali, mentre il 76% vorrebbe regole più rigorose per la protezione della privacy.
L’emendamento introdotto da Justin Amash e John Conyers, in sostanza, ha avuto il via libera dalla leadership repubblicana solo una volta appurata la certezza di una sconfitta in aula. La ricostruzione del processo che ha portato al voto di mercoledì è stata fatta dal sito web Politico, il quale lo ha definito un modo per consentire ad alcuni deputati repubblicani e democratici di “manifestare la propria rabbia” o, meglio, per presentarsi all’opinione pubblica come difensori dei diritti costituzionali.
L’articolo pubblicato giovedì ha così raccontato di come i vertici repubblicani alla Camera - lo speaker John Boehner, il leader di maggioranza Eric Cantor e il suo vice Kevin McCarthy - dopo avere determinato “privatamente” che la minaccia del collega Amash al programma di intercettazione dell’NSA era “vuota”, hanno incaricato i loro staff di aiutare quest’ultimo nella stesura dell’emendamento, pur essendo fermamente contrari al suo contenuto.
Questa decisione è stata presa dopo che i tre leader hanno ascoltato le lamentele dei deputati repubblicani circa i programmi dell’NSA e in risposta alle richieste di trovare una modalità per manifestare la loro disapprovazione, senza tuttavia minacciare seriamente la prosecuzione delle attività illegali dell’agenzia governativa.
In definitiva, nonostante qualche voce critica proveniente dal Congresso, la deriva autoritaria negli Stati Uniti - compreso l’ampliamento dei poteri assegnati all’NSA - è avvenuta in questi anni con la piena consapevolezza, se non la collaborazione, dei membri di Camera e Senato. Alcuni di quelli che hanno votato a favore dell’emendamento Amash mercoledì, d’altra parte, avevano dato in precedenza la propria approvazione a leggi in odore di fascismo come il Patriot Act.
Nell’esprimere i propri dubbi circa gli eccessi dell’NSA e dell’amministrazione Obama, essi sottolineano immancabilmente la necessità di garantire all’apparato della sicurezza nazionale gli strumenti necessari per combattere la “guerra al terrore”, limitando così quasi sempre le loro critiche all’eccessiva segretezza con cui agisce e lanciando appelli soltanto a rendere più trasparenti programmi di sorveglianza e di controllo del dissenso palesemente illegali.
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di Michele Paris
In una lettera indirizzata al presidente della commissione per le Forze Armate del Senato, il capo di stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, ha elencato questa settimana le opzioni militari preparate dal Pentagono per un possibile catastrofico intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Se l’ufficiale più altro in grado degli USA ha allo stesso tempo manifestato molte perplessità nei confronti di una nuova guerra in Medio Oriente, l’amministrazione Obama sta indubbiamente valutando questa ipotesi per rimuovere con la forza il regime di Assad, come chiedono da tempo alcune potenti sezioni dell’apparato politico-militare d’oltreoceano.
Il ventaglio di opzioni proposto dal Dipartimento della Difesa va dall’addestramento di “ribelli” sul territorio di paesi confinanti con la Siria all’implementazione di una no-fly zone con massicci bombardamenti sugli obiettivi situati nelle aree del paese controllate da Damasco. Tutte le possibili scelte sono corredate dei relativi esorbitanti costi per il governo americano, nonché dalla portata dello sforzo logistico che ognuna di esse comporterebbe.
La diffusione della notizia dei preparativi per una vera e propria guerra in Siria è giunta in seguito ad una serie di dichiarazioni di vari esponenti dei vertici militari e del governo che nei giorni scorsi avevano espresso il timore per la prospettiva concreta che, in assenza di interventi esterni, Assad riesca a rimanere alla guida del paese mediorientale ancora a lungo. Lo stesso generale Dempsey, nel corso di un’audizione al Senato sul prolungamento del suo incarico, settimana scorsa aveva affermato che Assad sarà con ogni probabilità ancora al suo posto anche tra un anno.
Nella lettera recapitata al senatore democratico Carl Levin, in risposta alle perplessità del falco repubblicano John McCain sulla presunta passività dell’amministrazione Obama riguardo la Siria, Dempsey ha spiegato che le forze armate USA, nel caso venisse ordinato dalla Casa Bianca, sono pronte ad addestrare e “consigliare” l’opposizione anti-Assad, ma anche a lanciare attacchi missilistici, imporre una no-fly zone, creare zone-cuscinetto oltre i confini di Giordania e Turchia e prendere il controllo dell’arsenale di armi chimiche a disposizione del regime.
Per mettere bene in chiaro ciò che ognuna di queste opzioni comporta, Dempsey ha ricordato che, “una volta presa un’iniziativa, dovremo preparaci a qualsiasi evenienza”, così che “un coinvolgimento più profondo sarà difficile da evitare”, visto che “la decisione di utilizzare la forza rappresenta né più né meno un atto di guerra”. Allo stesso tempo, un’azione di questo genere da parte degli Stati Uniti “potrebbe inavvertitamente rafforzare i gruppi estremisti e provocare l’uso di quelle stesse armi chimiche sulle quali cerchiamo di prendere il controllo”.
Sul fronte dei costi per le casse federali in un periodo di pesantissimi tagli alla spesa pubblica, il solo programma di addestramento di alcune migliaia di truppe “ribelli” richiederebbe circa 500 milioni di dollari all’anno. Un’offensiva con missili a lungo raggio diretti contro obiettivi militari in Siria comporterebbe invece il dispiegamento di centinaia di aerei e navi da guerra, facendo salire il costo a non meno di un miliardo di dollari per ogni mese di operazioni.
Quest’ultimo importo, infine, è stato indicato dallo stesso Dempsey anche nel caso venisse decisa una campagna di terra, condotta da “migliaia di uomini appartenenti alle Forze Speciali”, per “mettere al sicuro” le armi chimiche di Assad.
Ciò che il capo di stato maggiore americano ha mancato di elencare, così come i politici di Washington che chiedono un intervento diretto degli Stati Uniti in Siria, è il costo di simili operazioni in termini di vite umane. L’utilizzo della forza per rovesciare il regime di Damasco, infatti, è una soluzione che, per mettere teoricamente fine al conflitto in corso, finirebbe per provocare un bagno di sangue ancora maggiore di quello in corso.
Una prospettiva di questo genere è facilmente prevedibile, soprattutto alla luce della lezione della crisi in Libia, dove nel 2011 i bombardamenti delle forze NATO fecero molti più danni e vittime civili dello scontro tra le forze di sicurezza di Gheddafi e i “ribelli”. In Siria, oltretutto, la posta in gioco dal punto di vista geo-politico è decisamente superiore rispetto al paese nordafricano, così che il rischio di una conflagrazione su vasta scala risulta essere molto alto, come dimostra l’evoluzione già in corso della crisi in un conflitto regionale con il coinvolgimento diretto o indiretto non solo delle principali potenze mediorientali ma anche di quelle planetarie.
La strategia degli Stati Uniti, per il momento, prevede il via libera alla fornitura di armi ai “ribelli”, come promesso dal presidente Obama lo scorso mese di giugno dopo l’annuncio, basato su prove a dir poco incerte, che il regime avrebbe fatto uso di armi chimiche. Oltre a far fronte alle divisioni all’interno della propria amministrazione, il presidente democratico ha dovuto attendere anche il parziale scioglimento delle riserve al Congresso, dove molti parlamentari di entrambi gli schieramenti nutrono seri dubbi sulle conseguenze che comporterà anche solo il trasferimento di armi ad un’opposizione dominata da formazioni integraliste.
Così, nella giornata di lunedì la commissione sui servizi segreti della Camera dei Rappresentanti ha dato il via libera al dirottamento di fondi già stanziati per la CIA da destinare alla fornitura di armi alle forze anti-Assad in Siria. Vista la palese illegalità di un’operazione unilaterale che implica la partecipazione ad una guerra civile a fianco di una delle due parti in conflitto, l’amministrazione Obama ha infatti deciso di non incaricare il Dipartimento della Difesa del trasferimento di armi ma di assegnare la responsabilità di un’operazione ufficialmente clandestina alla CIA.
Al di là della propaganda di Washington, la fornitura di armi ai “ribelli” in Siria, oltre ad essere una mossa in contravvenzione del diritto internazionale, non farà altro che aggravare la situazione sul campo. A sottolinearlo, tra gli altri, è stato anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, il quale ha affermato che “le armi non portano la pace” e che preferirebbe “veder cessare le spedizioni di armi da tutte le parti coinvolte”.
Il coinvolgimento degli USA nel finanziamento e nel trasferimento di armi alle milizie anti-Assad, comprese quelle legate ad Al-Qaeda, non inizierà comunque dopo il voto del Congresso, poiché la CIA svolge da tempo un ruolo di facilitazione e coordinamento delle spedizioni di materiale bellico proveniente da paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia.
La pretesa sostenuta dal governo americano di avere tenuto finora un approccio cauto alla crisi siriana è soltanto di facciata e serve ad evitare di alimentare l’ostilità ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica domestica e internazionale nei confronti di una nuova e rovinosa avventura bellica in Medio Oriente.
I rovesci patiti dalle forze dell’opposizione in questi ultimi mesi hanno però spinto i loro sponsor occidentali a moltiplicare gli sforzi con nuove iniziative, come appunto la decisione presa da Obama nel mese di giugno. L’importanza del via libera agli armamenti diretti in Siria, come primo passo verso un intervento militare degli USA, è apparso chiaro anche dall’impegno di personalità come, ad esempio, il segretario di Stato John Kerry, il vice-presidente Joe Biden e il direttore della CIA John Brennan, i quali nei giorni scorsi hanno cercato di convincere i membri più riluttanti della commissione della Camera per i servizi segreti a votare a favore dello sblocco dei fondi dell’agenzia di Langley.
Senza alcuno scrupolo per le possibili conseguenze in tutto il Medio Oriente causate da una sempre più probabile escalation del conflitto in Siria, alla luce dei loro “investimenti” in questo paese da oltre due anni, gli Stati Uniti e i loro alleati ritengono che la situazione abbia ormai raggiunto il punto di non ritorno.
Per questa ragione, il rischio di provocare altre decine di migliaia di vittime con un intervento militare, l’intensificarsi dello scontro settario già in corso o l’ulteriore rafforzamento di organizzazioni fondamentaliste legate al terrorismo internazionale sono il prezzo da pagare per evitare lo scenario peggiore per i loro interessi strategici, vale a dire una vittoria di Assad con il conseguente ristabilimento del controllo da parte del regime su tutta la Siria, ma anche il consolidamento della posizione di Hezbollah in Libano e l’espansione dell’influenza dell’Iran nel Golfo Persico e nell’intera regione mediorientale.
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di Rosa Ana De Santis
I computer dell’ONU dicono che nel 2100 4 persone su 10 saranno africane. Pelle scura e capelli crespi i tratti tipici della popolazione terrestre. Gli europei quasi scomparsi, ridotti a 1 su 10. Questi numeri demografici uniti al surriscaldamento del clima dicono quindi che i flussi migratori aumenteranno vertiginosamente e il mare umano che si muoverà dal più antico dei continenti troverà praterie da abitare.
Divertente e preoccupante insieme unire questi numeri, frutto di studi e precise analisi demografiche, alla politica arroccata dell’Occidente che prova a blindare i propri confini sicuro del proprio sviluppo e della propria ricchezza. La natura, come è evidente, farà il suo corso e i migranti, finora trattati come elementi di disturbo o come risorsa da utilizzare, diventeranno invece protagonisti di un autentico ribaltamento di civiltà. Un capitolo storico che pochi oggi hanno il coraggio di mettere al centro dell’agenda politica. L’avamposto Lampedusa, della nostra piccola penisola, descrive bene questa miopia delle azioni di governo.
Robert M. Pirzig, nel suo Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta, descrive in modo mirabile, con un’immagine efficacissima, il rapporto dei Greci con il passato, opposto a quello oggi diffuso nella nostra cultura. Per i Greci il passato era davanti agli occhi, sterminato e chiarissimo all’analisi, mentre era il futuro ad essere alle spalle. Quest’immagine sembra aderire perfettamente al nostro destino culturale.
L’Africa che siamo abituati a pensare soltanto come origine remota della storia dell’uomo, l’abbiamo confinata nei volumi zero della storia, fingendo di non vederla e trattandola come un capitolo chiuso di civiltà capace solo di partorire qualche flusso di clandestini che non vogliono soccombere alle guerre e alla fame. E non abbiamo compreso in tempo, non vedendola più davanti a noi quanto essa fosse nel futuro. Alle nostre spalle, come pensano i Greci, proprio dietro al mare.
Salvo eventuali pandemie o catastrofi naturali, la crescita demografica, legata soprattutto alla fertilità della donna e a determinate condizioni che ne caratterizzano la vita sociale - dalla scolarizzazione ai diritti - sarà l’Africa a crescere, più della Cina dove la politica del “figlio unico” porterà i suoi frutti di arresto della crescita della popolazione. Di contro l’Europa, come gli USA del resto, sarà un paese di vecchi e anche solo per ragioni legate all’età è destinata a soccombere ai flussi migratori che verranno dal Sud del Mondo e chiamarli flussi sarà un eufemismo.
Tenuto conto infatti che quasi sette milioni di “giovani e giovanissimi” si ritroveranno a vivere in paesi desertificati lo scenario è facilmente intuibile. La sopravvivenza e il bisogno daranno luogo a un vero e proprio capovolgimento di mondi più che alla migrazione come siamo abituati a vederla e percepirla oggi.
Prima ancora di pensare alle difficoltà di un sovvertimento culturale tutt’altro che indolore ci saranno altri problemi da gestire quale il fabbisogno alimentare di persone che si abitueranno presto ad assumere un’altra dieta, a non morire di riso e acqua sporca, a mangiare proteine. Gli equilibri risorse-bisogni, finora fondati sull’ingiustizia di un mondo piccolo e ricco che divora per tutti, salteranno come coriandoli.
La soluzione, per ora inesistente, diventa impossibile se affidata a quella sottofilosofia della politica che questo rischio ha provato strenuamente solo a negarlo in virtù di una superiorità economica che, dopo la crisi degli ultimi anni, è rimasta a rappresentare le spoglie di un dogma più che una verità storica. Forse, come avviene per finzione cinematografica e altamente simbolica, nel cuore di Metropoliz - fabbrica occupata da immigrati e poveri nella periferia di Roma - la soluzione è quella di sparare i protagonisti di questa nuova Terra sulla luna.
Questo il film originale e di talento di Fabrizio Boni e Giorgio De Finis. Verso la stessa luna dove è depositato in un’ampolla il senno dell’Orlando Furioso, e il canto dei nostri poeti, l’umanità dei ricchi occidentali sotto assedio dovrebbe spedire i migranti, i clandestini, i rom e in primis tutta l’Africa.
A questa opera di espulsione senza orizzonte sembra votato l’Occidente da troppo tempo. Proprio come fosse pronta, da un momento all’altro, una spedizione verso la Luna. Chissà se gli Europei e l’Occidente in generale capiranno in tempo che questa è una guerra già persa, perché si combatterà senza armi e senza soldi, ma con i numeri dei nuovi abitanti del pianeta. Che non avranno quasi più gli occhi azzurri e non saranno mai più bianchi.