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di Antonio Rei
Il paragone con la storia recente di Egitto e Tunisia verrebbe istintivo, ma quello che sta accadendo in Turchia non ha nulla a che vedere con le primavere arabe. Non solo - ed è ovvio - perché il Paese in questione non è arabo, ma anche per un'altra differenza altrettanto macroscopica. Ad Ankara e dintorni non va in scena un conflitto fra movimenti laici e potere religioso: i due poli contrapposti sono entrambi interni allo Stato e d'ispirazione islamica.
In breve, riepiloghiamo i fatti. Dal 17 dicembre il premier Recep Tayyip Erdogan deve fronteggiare una crisi ben più grave di quella registrata l'estate scorsa con l'ondata di proteste popolari. Stavolta c'è di mezzo uno scandalo di proporzioni ancora difficili da definire. Il caso riguarda un’inchiesta per corruzione - legata ad alcuni appalti - che coinvolge una parte rilevante del partito di governo, l'Akp, e dell'imprenditoria turca. Al centro delle indagini, alcuni trasferimenti di denaro in Iran e il sospetto che diversi funzionari pubblici abbiano ricevuto mazzette per approvare la costruzione di opere edilizie.
Sabato scorso sono state arrestate 16 persone, fra cui i figli dei ministri dell’Economia e dell’Interno, oltre al direttore generale di Halkbank, una grande banca pubblica. Il figlio del ministro dell'Ambiente è stato arrestato, interrogato e rilasciato. In precedenza erano state fermate altre 49 persone e pochi giorni fa il procuratore a capo dell’inchiesta ha ordinato una seconda ondata di arresti, che però la polizia si è clamorosamente rifiutata di eseguire. Secondo alcune voci di stampa non confermate, sarebbero inquisiti anche i due figli di Erdogan.
La reazione del Premier non si è fatta attendere e nel mirino è finita la polizia: circa 30 ufficiali sono stati licenziati o rimossi dal proprio incarico, compreso il capo della polizia di Istanbul, un punto di riferimento per gli inquirenti. Lo scandalo, tuttavia, non poteva non avere anche conseguenze politiche: il 25 dicembre si sono dimessi i tre ministri con i figli sotto accusa e subito dopo Erdogan ha sostituito altri sette membri del Governo, ma ha anche annunciato di non avere alcuna intenzione di dimettersi.
Il rimpasto di Governo non è stato sufficiente a evitare la reazione della piazza, quella reale come quella finanziaria. Ieri la lira turca ha toccato un nuovo minimo storico contro il dollaro, a quota 2,1467, mentre la Borsa turca accumula gravi perdite da diversi giorni ed è scesa al livello minimo degli ultimi 17 mesi. Intanto, questa settimana centinaia di persone hanno manifestato per le strade di Istanbul e di altre città del Paese, chiedendo le dimissioni del primo ministro. Inevitabili gli scontri con la polizia, che ha reagito con lacrimogeni e idranti.Da parte sua, Erdogan ha parlato dell'inchiesta in corso come di un "complotto organizzato all’estero" da una "banda criminale" per creare uno "stato nello stato" in vista delle elezioni amministrative della prossima primavera. Secondo molti commentatori, con queste parole il Premier ha fatto riferimento a Fethullah Gulen, musulmano 72enne residente negli Stati Uniti e fondatore di un movimento politico - Hizmet, "servizio" - che gode di molto seguito nella polizia e nella magistratura. Si dice che ne facciano parte perfino diversi membri dell'Akp.
Finché si trattava di contrastare il nemico comune, ovvero l'esercito (cuore del potere laico), Hizmet ha sostenuto il governo di Erdogan. Negli ultimi giorni, però, qualcosa è cambiato: Gulen, pur negando qualsiasi coinvolgimento nelle indagini, ha criticato duramente la rimozione degli ufficiali di polizia. Che Gulen sia o meno al vertice di una piramide contrapposta a quella del primo ministro, in ogni caso, il quadro generale non cambia molto.
Il percorso avviato in Turchia sembra dirigersi verso lo sgretolamento del sistema di potere instaurato nell'ultimo decennio da Erdogan. A prescindere dalla veridicità o meno delle varie accuse di corruzione, a livello politico ciò che più conta è la frattura che si sta allargando all'interno dell'Akp. Tre parlamentari della formazione di governo hanno lasciato il partito, dopo che nei giorni scorsi erano stati rinviati a un organismo disciplinare per aver criticato l’atteggiamento di Erdogan nei confronti della polizia e dell’indagine.
Non solo. Anche altri parlamentari dell’Akp hanno attaccato il primo ministro. Alcuni sono giunti perfino all'estrema empietà di chiederne le dimissioni. E in 10 anni non era mai successo.
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di Mario Lombardo
Anche se il giorno di Natale il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha lanciato un appello di pace e unità nel neonato paese centro-africano, i combattimenti sono proseguiti senza sosta soprattutto negli stati settentrionali dove si concentra la maggior parte della produzione di petrolio. La disponibilità di Kiir a trattare senza condizioni con le forze ribelli guidate dall’ex vice-presidente, Riek Machar, è stata manifestata dopo il suo incontro con l’inviato speciale di Washington, Donald Booth, ed in concomitanza con la riconquista da parte delle forze regolari della importante città di Bor, a un centinaio di chilometri a nord della capitale, Juba.
Parlando da una chiesa cattolica al termine di una funzione natalizia, Kiir ha anche condannato le violenze commesse in suo nome. Nei giorni scorsi, infatti, si era diffusa la notizia che le forze armate fedeli al presidente erano state protagoniste di svariate atrocità ai danni di civili appartenenti all’etnia Nuer, facendo addirittura migliaia di morti.
Con l’aggravarsi dello scontro, in ogni caso, le Nazioni Unite hanno approvato questa settimana un consistente aumento del contingente di caschi blu in Sud Sudan, mentre giovedì a Juba è arrivata una delegazione dell’Unione Africana per cercare di favorire il dialogo tra le due parti in lotta e fermare un conflitto che ha già creato quasi centomila profughi. Sempre giovedì, anche il primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn, e il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, sono giunti in Sud Sudan per incontrare Salva Kiir.
Gli Stati Uniti, da parte loro, già settimana scorsa avevano inviato 45 soldati nella capitale per difendere la propria ambasciata ed evacuare i cittadini americani nel paese. Altri 150 Marines sono stati inoltre trasferiti dalla Spagna alla base di Camp Lemonnier, a Gibuti, da dove verranno inviati in Sud Sudan in caso di necessità.
Come è noto, la situazione nel Sudan del Sud era precipitata il 15 dicembre scorso in seguito ad alcuni scontri a fuoco nei pressi di Juba tra le forze governative e quelle fedeli a Machar, rimosso dalla carica di vice-presidente nel mese di luglio dopo aver dichiarato di volere sfidare Kiir nelle elezioni previste per il 2015. Machar aveva chiesto al presidente di farsi da parte dopo averlo accusato di avere violato ripetutamente la Costituzione, mentre Kiir, a sua volta, aveva subito accusato Machar di volere tentare un colpo di stato ai suoi danni.
Le ragioni politiche del conflitto si sono ben presto intrecciate alle tensioni settarie, con l’etnia Dinca - la più numerosa in Sud Sudan e alla quale appartiene il presidente - opposta a quella Nuer dell’ex vice-presidente Machar.
L’appoggio dell’Occidente (e degli Stati Uniti in particolare) continua ad essere garantito al governo di Salva Kiir, il cui Movimento Sudanese di Liberazione Nazionale al potere fin dall’indipendenza dal Sudan nel 2011 ha fatto però ben poco per alleviare la povertà e porre un freno alla corruzione dilagante nel paese.Le divisioni tra Kiir e Machar risalgono a ben prima dell’indipendenza e la minaccia di quest’ultimo alla leadership del presidente aveva spinto il primo non solo a sollevare il suo vice dall’incarico ma anche a constringere al ritiro un centinaio di alti ufficiali per installare forze più fedeli ai vertici dell’esercito.
Le tendenze sempre più autoritarie di Kiir hanno poi contribuito alla formazione di un esercito parallelo vicino a Machar che negli ultimi giorni ha fatto segnare qualche importante successo militare, come la cacciata delle forze regolari in molte località negli stati nord-orientali di Jonglei, Unità e Alto Nilo.
Al di là dei proclami umanitari di questi giorni e degli scrupoli democratici ufficiali, l’interesse dei governi occidentali nel Sudan del Sud ha a che fare con importanti questioni strategiche legate a questo paese e, più in generale, all’intero continente africano.
Gli Stati Uniti sono stati i principali promotori degli accordi di pace che misero fine al conflitto sudanese, nel quale morirono più di due milioni di persone, portando nel 2011 all’indipendenza delle regioni meridionali da Khartoum. Alla base dell’appoggio di Washington all’indipendenza del Sud Sudan c’era soprattutto il desiderio di creare una nuova entità statale ricca di risorse del sottosuolo meglio disposta verso l’Occidente rispetto al regime del presidente Omar al-Bashir.
Il petrolio sudanese è infatti localizzato in gran parte nel sud e, prima della separazione, più della metà del greggio estratto era destinato alla Cina, il cui governo aveva instaurato legami politici ed economici estremamente solidi con Khartoum.
Fino ad ora, tuttavia, la penetrazione occidentale in Sud Sudan è stata inferiore alle aspettative. La nuova classe dirigente - e, in particolare, proprio le fazioni facenti capo al vice-presidente Machar - è tornata a rivolgersi a Pechino per investimenti e aiuti finanziari destinati a creare infrastrutture estremamente carenti. Inoltre, in assenza di rotte alternative, il petrolio estratto nel Sud Sudan continua a passare attraverso oleodotti situati nel Sudan per essere esportato.
La nuova crisi in Africa, dunque, potrebbe essere sfruttata ancora una volta dai governi occidentali per giustificare l’ennesimo intervento “umanitario” in questo continente, dopo quelli degli ultimi anni che hanno riguardato almeno Libia, Costa d’Avorio, Mali e Repubblica Centrafricana.
Tutti questi interventi hanno seguito la creazione nel 2007 del Comando militare Africano statunitense (AFRICOM), vero e proprio strumento di Washington nella corsa alle risorse del continente e alla lotta contro la crescente influenza cinese nell’ultimo decennio.
Nel caso del Sud Sudan, infine, la crisi a cui il mondo sta assistendo in questi giorni conferma quali siano le conseguenze disastrose delle macchinazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati, ai quali va attribuita gran parte della responsabilità per le sofferenze patite dalla popolazione e per il sostanziale fallimento dell’esperimento di indipendenza di questo poverissimo paese nel cuore dell’Africa.
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di Carlo Musilli
Il periodo di Ferragosto e quello di fine anno sono fratelli per varie ragioni. Le ferie, l'allegria forzata e le schifezze in Parlamento. Un grande classico dell'inciucio made in Italy prevede di aspettare il momento propizio per colpire, quello in cui la massa degli elettori ha il cervello occupato da ombrelloni o panettoni. Così è stato anche per quel capolavoro del decreto Salva-Roma, che il Governo si è convinto a ritirare dopo una richiesta di minima decenza da parte del Capo dello Stato. Risultato: oggi, determinato a non finire l'anno con la più misera delle figuracce, l'Esecutivo vara un bel Milleproroghe per mettere un tappo alle falle più ampie da cui entra acqua nella nave.
Certo, suona strano. Proprio ora che a capo del Pd c'è il rottamatore, il nuovo che avanza; ora che l'aggettivo "nuovo" compare perfino davanti al centrodestra di Angelino Alfano; ora che il premier Enrico Letta celebra la "svolta generazionale dei quarantenni"; proprio ora ci tocca tornare a leggere espressioni come decreto-omnibus e Milleproroghe. Ovvero quei tradizionali calderoni in cui, quando si appressa capodanno, chi governa infila un po' di tutto, vuoi per approfittare della distrazione generale, vuoi per rimediare in extremis alle inadempienze dei mesi precedenti. In altre parole, quanto di più rappresentativo si possa immaginare dello stile politico targato Prima Repubblica. Alla faccia del nuovo e della svolta generazionale.
Nella vetusta categoria degli omnibus rientrava a pieno titolo il Salva-Roma, in cui il Parlamento aveva stipato una quantità inverosimile di emendamenti per distribuire favori e prebende a un oceano di corporazioni, lobby e consorterie. Nonostante tutto, si fa davvero fatica a immaginare che qualcuno abbia avuto il coraggio di presentare una proposta di modifica al testo per legiferare sulle lampadine dei semafori, o per far passare una sanatoria sulle cabine e sui bungalow costruiti abusivamente in spiaggia. Eppure è accaduto, e decine di amenità simili sono state approvate dagli onorevoli.
Poi, in un gesto di purificazione natalizia, Giorgio Napolitano ha criticato il guazzabuglio parlamentare, convincendo il Governo a ritirare il decreto, che dunque scadrà il 30 dicembre. A livello puramente tecnico, per quanto clamorosa, si tratta di una marcia indietro pienamente legittima. Sul piano politico, tuttavia, la piroetta su ordine del Quirinale infligge un duro colpo alla credibilità dell'Esecutivo, che per accelerare i tempi e ottenere un risultato sicuro aveva posto la questione di fiducia sul provvedimento (mancava solo l'ultima votazione per la conversione in legge).
A questo punto, messi da parte semafori e bungalow, bisogna trovare il modo di approvare all'ultimo secondo le misure più importanti e urgenti fra quelle rimaste fuori dalla pentola della legge di Stabilità (licenziata lunedì dal Senato). Gli obiettivi cruciali sono almeno cinque.
Primo: fare pace con i Comuni sul capitolo Tasi (la componente sui servizi della nuova imposta unica comunale), alzando il tetto delle aliquote e stanziando nuovi fondi per consentire detrazioni sulle prime case. Secondo: regolare il pagamento e l'eventuale possibilità di detrarre la cosiddetta Imu residua, che andrà pagata entro il 24 gennaio ed è pari al 40% della differenza tra l'aliquota fissata dal sindaco e quella di base. Terzo: risolvere la questione sollevata dal M5S sugli affitti d'oro pagati dallo Stato nonostante l'ingente patrimonio immobiliare di cui dispone. Quarto: varare il vero Salva-Roma, spostando 400 milioni di debito del Campidoglio sulla gestione commissariale. Quinto: prorogare la misura antitrust che impedisce a chi possiede reti televisive di acquistare quote di giornali.
Nessuno di questi interventi può essere considerato una vera emergenza: non si tratta di problemi sorti in modo improvviso e inatteso, ma di questioni alle quali non si è voluto o non si è saputo dare risposta nei mesi passati. Ora ci si attende che il Consiglio dei ministri ripiani tutte queste situazioni facendo ricorso all'ennesimo decreto, e dunque all'ennesima forzatura della nostra Costituzione, la quale stabilisce che il Governo possa utilizzare questo strumento "in casi straordinari di necessità ed urgenza".
Purtroppo ormai il decreto - magari rinforzato da una bella fiducia in Aula - sembra l'unica strada legislativa realmente percorribile in Italia. Viene da chiedersi come faranno Esecutivo e Parlamento a varare quella sfilza di riforme - istituzionali e non - promessa solo pochi giorni fa da Letta. In fondo, Natale e Ferragosto arrivano solo due volte l'anno.
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di Mario Lombardo
Dopo più di due mesi di scontro politico e proteste di piazza, la crisi che sta avvolgendo la Thailandia sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente nelle prossime settimane che dovrebbero portare al voto anticipato. Nel fine settimana, infatti, la decisione del principale partito di opposizione di boicottare le elezioni è stata seguita dalla più imponente manifestazione finora tenuta contro il governo per forzare le dimissioni immediate della premier, Yingluck Shinawatra, e spianare di fatto la strada ad un nuovo colpo di stato.
Una folla di centinaia di migliaia di persone si è riversata per le strade di Bangkok nella giornata di domenica, finendo per accerchiare l’abitazione privata della premier che si trovava però nel nord del paese dove ha invece ricevuto un’accoglienza trionfale.
Successivamente, i manifestanti organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC) hanno cercato di impedire ai membri di svariati partiti di registrare le loro candidature per il voto che la stessa Yingluck aveva indetto per il 2 febbraio prossimo. La decisione di sciogliere la camera bassa era giunta in seguito alle dimissioni di massa dei parlamentari del Partito Democratico di opposizione.
Alcuni esponenti del partito Pheu Thai di governo e di altri partiti sono però riusciti a raggiungere gli uffici della commissione elettorale e una stazione di polizia nella capitale, registrandosi con successo per apparire sulle schede elettorali. Secondo il Bangkok Post, al termine del primo giorno utile per la registrazione, solo 9 dei 34 partiti che parteciperanno al voto hanno potuto registrare alcuni dei loro candidati. Lunedì, poi, i vertici del Pheu Thai hanno come previsto ribadito la fiducia nell’attuale primo ministro, confermando la sua candidatura anche per la guida del prossimo governo.
Il Partito Democratico, nonostante le divisioni interne circa la strategia da seguire, ha deciso invece di non prendere parte al voto e di continuare ad appoggiare le proteste contro il governo, rischiando però di infiammare ancora di più la situazione e di finire isolato politicamente dopo che il suo ultimo successo elettorale risale a oltre due decenni fa.
Uno dei principali leader della protesta, l’ex deputato del Partito Democratico e già vice-premier Suthep Thaugsuban, ha inoltre anch’egli gettato benzina sul fuoco nel fine settimana, promettendo di bloccare l’intero paese per impedire il voto e di “dare la caccia a Yingluck” finché non si dimetterà o, se non dovesse farlo, “fino alla sua morte”.
Suthep e il PDRC chiedono da tempo, oltre alle dimissioni immediate del gabinetto Yingluck, la creazione di un “consiglio del popolo” non eletto che nomini un nuovo governo e proceda con una serie di “riforme” per eliminare l’influenza del clan Shinawatra in Thailandia. L’attuale premier, come è noto, è la sorella dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, da anni in esilio volontario dopo una condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, a suo dire motivata politicamente.L’opposizione del Partito Democratico, gli ambienti reali e militari vedono con estremo sospetto la macchina politica costruita attorno a Thaksin, in grado da oltre un decennio di mettere in discussione i tradizionali centri di potere thailandesi grazie alla creazione di una base elettorale nelle aree rurali più povere ed emarginate nel nord del paese attraverso modeste politiche di riforma sociale.
L’impossibilità di combattere all’interno delle regole elettorali la famiglia Shinawatra e i suoi sostenitori organizzati nel Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura ha così spinto l’opposizione politica e di piazza a promuovere una soluzione autoritaria che rimetterebbe le sorti del paese nelle mani dei militari e della monarchia. Ciò è d’altra parte già accaduto svariate volte negli ultimi decenni e, più recentemente, nel 2006 e nel 2008, quando due golpe, rispettivamente condotto dai militari e dal potere guidiziario, rimossero il governo di Thaksin e un altro guidato dai suoi sostenitori.
Dopo i fatti del 2010, quando manifestazioni di protesta a Bangkok animate questa volta dalle “camicie rosse” pro-Thaksin vennero represse nel sangue dal governo del Partito Democratico insediatosi grazie al golpe del 2008, c’è oggi molta apprensione per le conseguenze di un nuovo colpo di stato in Thailandia. Tanto più che gli stessi sostenitori del governo continuano a dirsi pronti ad intervenire per impedire un colpo di mano dei militari e degli ambienti monarchici.
Lo stesso governo sembra temere che la situazione possa sfuggire di mano nel caso l’opposizione dovesse forzare la mano ai militari, tanto che la premier nei giorni scorsi ha risposto al boicottaggio del Partito Democratico con una propria proposta per risolvere la crisi. Yingluck ha cioè ipotizzato la creazione di un “consiglio per la riforma” dopo le elezioni di febbraio. Anche questo organo sarebbe non elettivo e dovrebbe però comprendere esponenti di tutte le parti politiche e della società civile.
Il successo dei manifestanti anti-Thaksin, in ogni caso, dipenderà quasi certamente dalla posizione che decideranno di assumere le forze armate thailandesi. I vertici di queste ultime negano di avere chiesto alla premier Yingluck di fare un passo indietro e, per il momento, continuano ad appoggiare ufficialmente la soluzione elettorale che, tuttavia, difficilmente riuscirà a risolvere le profonde divisioni che attraversano il paese del sud-est asiatico.
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di Michele Paris
Solo poche ore dopo le rassicurazioni pubbliche del presidente Obama circa il rispetto da parte del governo americano delle norme sulla privacy e delle libertà civili, nel fine settimana tre giornali negli Stati Uniti e in Europa hanno pubblicato una serie di nuovi documenti riservati dell’NSA che hanno contribuito ulteriormente a chiarire la pervasività e le ragioni dei programmi di sorveglianza in tutto il pianeta.
L’inquilino della Casa Bianca si è impegnato nell’ennesimo tentativo di nascondere la realtà mostrata dalle rivelazioni di Edward Snowden, cercando di dare rassicurazioni sulla legittimità delle operazioni dell’NSA e di motivarle ancora una volta con la necessità di proteggere gli americani da un nuovo 11 settembre.
Quest’ultima pretesa era stata clamorosamente smentita nei giorni scorsi dalla sentenza di un giudice federale del District of Columbia che, dopo avere bollato come incostituzionali i programmi di sorveglianza telefonica dell’NSA, aveva spiegato che il governo non ha mai presentato alcuna prova della loro efficacia nel prevenire un solo attentato terroristico.
Non solo, la stessa commissione speciale nominata dal presidente per raccomandare una serie di proposte di “riforma” dell’NSA, nel presentare le proprie conclusioni qualche giorno fa ha sostenuto eufemisticamente che le informazioni raccolte su centinaia di milioni di persone negli USA e all’estero non sono risultate “essenziali per prevenire attacchi”. Nel corso della conferenza stampa di venerdì, infine, anche Obama non è stato in grado di citare un solo attentato sventato grazie alle intercettazioni di massa.
A confermare che l’apparato spionistico, costruito dal governo degli Stati Uniti e dai suoi principali alleati per controllare le popolazioni di tutto il mondo, non ha dunque praticamente nulla a che vedere con la lotta al terrorismo ha contribuito la pubblicazione nella serata di venerdì di nuovi documenti forniti da Snowden sul New York Times, il britannico Guardian e il tedesco Der Spiegel.
In essi viene descritto come l’NSA e la sua corrispondente britannica GCHQ (General Communications Headquarters) abbiano tenuto sotto controllo tra il 2008 e il 2011 non solo una serie di personalità politiche di paesi spesso alleati - come era emerso in precedenza per Angela Merkel e la presidente brasiliana Dijlma Rousseff - e organizzazioni umanitarie ma anche e soprattutto i vertici di grandi aziende straniere.
Oltre all’ufficio dell’ex premier israeliano, Ehud Olmert, e dell’ex ministro della Difesa di Tel Aviv, Ehud Barak, tra gli obiettivi dell’intelligence statunitense c’è stato l’ex ministro socialista spagnolo Joaquín Almunia, il quale nel ruolo di commissario europero per la concorrenza è stato protagonista di procedimenti anti-trust ai danni di importanti corporations americane, come Microsoft, Intel e Google.
Nel settore privato, alle precedenti rivelazioni relative alle intercettazioni ai danni del colosso petrolifero pubblico brasiliano Petrobras se ne sono aggiunte ora altre che riguardano le francesi Total e Thales. Quest’ultima è una compagnia parzialmente pubblica che fornisce sistemi elettronici, aerospaziali e militari a molti governi in tutto il mondo.A fronte di queste rivelazioni, l’NSA ha nuovamente smentito l’evidenza, negando che l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, sia impegnata in operazioni di spionaggio industriale “a favore di compagnie americane per migliorare la loro competitività internazionale”.
Allo stesso tempo, però, una portavoce della stessa agenzia ha indirettamente ammesso proprio quanto aveva negato poco prima, affermando che “lo sforzo dell’intelligence per comprendere le politiche e i sistemi economici, così come per monitorare attività economiche anomale, risulta cruciale per garantire alla politica le informazioni necessarie per prendere decisioni nell’interesse della nostra sicurezza nazionale”.
In altre parole, l’NSA non è altro che lo strumento della partnership tra la politica di Washington e le grandi corporation americane per promuovere gli interessi e i profitti di queste ultime su scala planetaria. Nei mesi scorsi, d’altra parte, alcune rivelazioni di Snowden avevano confermato come le principali compagnie di telecomunicazioni e di servizi internet negli USA avessero collaborato senza troppi scrupoli, se non per la propria immagine pubblica, con la stessa NSA.
Questi ultimi documenti sembrano dunque chiudere il cerchio, contribuendo a delineare un sistema sempre più autoritario e anti-democratico, basato sugli interessi dell’oligarchia economica e finanziaria d’oltreoceano che, per tenere sotto controllo qualsiasi forma di opposizione interna ed esterna, ha bisogno di sorvegliare virtualmente tutta la popolazione del pianeta.