di Michele Paris

Dopo cinque giorni di intense trattative, i rappresentanti della Repubblica Islamica dell’Iran e dei cosiddetti P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) hanno raggiunto nella mattinata di domenica a Ginevra un accordo transitorio di sei mesi per cercare di risolvere l’annosa questione del programma nucleare di Teheran. Il compromesso tra le due parti prevede una serie di rassicurazioni richieste dalle potenze occidentali in cambio di un modesto allentamento delle sanzioni internazionali che gravano sull’economia iraniana.

Le due settimane trascorse dal precedente summit nella località svizzera sembravano avere complicato i negoziati, fornendo agli oppositori dell’accordo negli Stati Uniti e in Medio Oriente nuovi argomenti per far naufragare del tutto le trattative in corso. Nei giorni scorsi, tuttavia, le dichiarazioni delle varie delegazioni giunte a Ginevra erano risultate sostanzialmente all’insegna dell’ottimismo.

Lo stesso ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, aveva sostenuto che l’accordo era stato raggiunto ormai al 90%, così che l’arrivo a Ginevra dei suoi omologhi dei P5+1 ha finalmente spianato la strada ad una soluzione condivisa.

Il punto più controverso nel corso delle trattative del fine settimana era sembrato essere il riconoscimento del diritto all’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione. Secondo i media e la delegazione della Repubblica Islamica, tale accordo sarebbe stato finalmente riconosciuto, mentre gli Stati Uniti hanno negato una simile concessione.

In realtà, sulla questione sarebbe stato raggiunto un compromesso, visto che il testo dell’accordo indica la possibilità da parte dei P5+1 di riconoscere tutti i diritti previsti dal Trattato di Non Proliferazione se l’Iran dovesse collaborare pienamente con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) e fugare i dubbi circa il proprio programma nucleare. La comunità internazionale, in ogni caso, non sarà obbligata a riconoscere formalmente il diritto iraniano all’arricchimento dell’uranio.

Sostanzialmente rimandata è anche un’altra questione che aveva impedito un accordo già due settimane fa, cioè la sorte dell’impiano per la produzione di plutonio di Arak. L’Iran si è per ora impegnato a sospenderne i lavori e ad accettare ispezioni più severe da parte dell’AIEA.

Il governo iraniano ha poi accettato di limitare il livello di arricchimento di uranio al di sotto del 5%, anche se quello già arricchito al 20% - e, quindi, considerato tecnicamente vicino al livello necessario per essere utilizzato per scopi bellici - non dovrà essere trasferito all’estero. Allo stesso modo, gli impianti di arricchimento di Natanz e Fordo continueranno ad operare.

In cambio, Teheran otterrà un alleggerimento delle sanzioni che, secondo le stime americane, dovrebbe consentire al paese mediorientale di recuperare tra i 6 e i 7 miliardi di dollari di mancate entrate nei prossimi mesi.

In particolare, i P5+1 faciliteranno il rimpatrio di proventi legati alla vendita di petrolio congelati su conti esteri a causa delle sanzioni. Secondo gli analisti, l’Iran dispone attualmente di qualcosa come 50 miliardi di dollari generati dall’esportazione di greggio a cui non può accedere a causa delle misure punitive implementate in questi anni.

Inoltre, la Repubblica Islamica potrà tornare a commerciare in oro e metalli preziosi, così come verranno sospese alcune sanzioni relative al settore automobilistico, aereo e petrolchimico. L’Iran, secondo quanto affermato da diplomatici occidentali sentiti dal Wall Street Journal, nei prossimi sei mesi perderà comunque più di 25 miliardi di dollari a causa delle sanzioni che rimarranno in vigore.

Come ha confermato il capo della delegazione iraniana, il ministro degli Esteri Zarif, l’intesa siglata domenica “è solo il primo passo” che dovrebbe servire nei prossimi sei mesi a raggiungere un accordo di più ampio respiro sia per legittimare definitivamente il programma nucleare di Teheran a fini pacifici sia, possibilmente, per reinserire la Repubblica Islamica a pieno titolo nella comunità internazionale.

L’obiettivo finale rimane comunque non facilmente raggiungibile, viste le forze che si oppongono ad una soluzione di questo genere. Le reazione dell’amministrazione Obama all’annuncio dell’accordo sono sembrate riflettere queste preoccupazioni, con il segretario di Stato, John Kerry, che, per rassicurare i falchi di Washington, ha ad esempio ricordato come il processo di parziale allentamento delle sanzioni sia del tutto reversibile se l’Iran non manterrà gli impegni presi.

Lo stesso presidente democratico ha a sua volta prospettato un intensificarsi delle pressioni su Teheran se i termini dell’accordo non verranno rispettati. Nonostante la retorica, tuttavia, le minacce principali all’accordo raggiunto a Ginevra saranno rappresentate proprio dai governi occidentali - intenzionati ad estrarre il masso in termini di concessioni dall’Iran - e dai loro alleati in Medio Oriente, i quali vedono come una gravissima minaccia alle loro posizioni strategiche un riavvicinamento tra Teheran e Washington.

Le prime risposte alla notizia arrivata dalla Svizzera da parte dei tre principali centri di opposizione all’accordo sul nucleare - Israele, Arabia Saudita e Congresso USA - sono state infatti tutt’altro che confortanti.

Da Israele, l’ufficio del primo ministro Netanyahu ha rilasciato un comunicato ufficiale nel quale vengono criticati i P5+1 per avere garantito all’Iran “esattamentre ciò che cercava: un sostanziale allentamento delle sanzioni e il mantenimento del proprio programma nucleare”. Il ministro dell’Industria di Tel Aviv, Naftali Bennett, in un’intervista alla radio israeliana IDF ha invece affermato che il suo paese non si sente vincolato ad alcun accordo con l’Iran, lasciando aperta perciò la strada dell’aggressione militare. Lo stesso premier ultra-conservatore ha poi bollato l’accordo come uno “sbaglio storico” che dà la possibilità “al regime più pericoloso del mondo” di costruire “l’arma più pericolosa del mondo”.

Ugualmente, l’ambasciatore dell’Arabia Saudita in Gran Bretagna ha detto al quotidiano Times che la monarchia assoluta del Golfo Persico non intende stare a guardare le potenze internazionali nel loro fallimento di fermare il programma nucleare iraniano.

Ancora più assurde sono apparse infine le dichiarazioni del senatore repubblicano dell’Illinois Mark Kirk - uno dei più accesi sostenitori delle sanzioni contro l’Iran al Congresso americano - il quale ha sostenuto che l’accordo “offre al principale sponsor del terrorismo nel mondo miliardi di dollari in cambio di concessioni puramente cosmetiche”.

Il Senato degli Stati Uniti nei giorni scorsi aveva minacciato di adottare un nuovo pacchetto di sanzioni per congelare virtualmente tutto l’export petrolifero iraniano nei prossimi anni, così da “convincere” Teheran ad assumere una posizione più malleabile nel corso dei negoziati.

Le reazioni a Teheran alle notizie provenienti da Ginevra sono state al contrario estremamente positive. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale IRNA, la guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, ha ad esempio indirizzato una lettera al presidente, Hassan Rouhani, per elogiare il lavoro svolto dalla delegazione guidata da Zarif.

Lo stesso ministro degli Esteri, invece, pur mettendo in guardia dagli ostacoli che rimangono sulla strada di un accordo più ampio e dal rischio rappresentato da coloro che intendono “sabotare il percorso diplomatico”, ha rilasciato una serie di dichiarazioni entusiaste sia ai media sia sui social network, dove il risultato raggiunto a Ginevra ha ottenuto il gradimento di decine di migliaia di iraniani.

L’establishment della Repubblica Islamica, dunque, nonostante l’opposizione degli ambienti più intransigenti sembra essere compatto attorno alla ricerca di una soluzione diplomatica alla crisi del nucleare.

I benefici per l’Iran - così come per gli Stati Uniti - non sono d’altra parte trascurabili sia in termini strategici che economici, come ha confermato qualche giorno fa un articolo del Wall Street Journal nel quale è stato rivelato come le autorità di Teheran si siano già mosse per contattare alcune delle principali compagnie petrolifere occidentali interessate a tornare ad operare nel paese una volta cancellate interamente le sanzioni internazionali.

di Michele Paris

I governi di Stati Uniti e Afghanistan hanno annunciato questa settimana il raggiungimento del tanto sospirato accordo bilaterale per la sicurezza (BSA) che garantirà una presenza prolungata di un significativo contingente militare americano nel paese centro-asiatico dopo la presunta fine delle operazioni belliche prevista per il 31 dicembre 2014. La definitiva approvazione rimane però in dubbio dopo che il presidente afgano, Hamid Karzai, nella giornata di giovedì ha chiesto pubblicamente di attendere fino al prossimo mese di aprile, quando si terranno le elezioni per scegliere il suo successore.

L’intesa è giunta dopo che il presidente, Hamid Karzai, aveva posto una serie di condizioni a Washington per dare il via libera ad un trattato controverso e tutt’altro che gradito alla popolazione afgana. Tuttavia, la versione che è all’attenzione in questi giorni di un’assemblea tradizionale di leader tribali afgani (“loya jirga”), che la dovrà approvare prima del Parlamento di Kabul, non contiene praticamente nessuna concessione di rilievo da parte delle forze occupanti.

I punti più controversi sulla strada dell’accordo riguardavano sostanzialmente due questioni, quella dell’impunità da garantire alle truppe americane di fronte alla legge afgana e la facoltà delle forze speciali degli Stati Uniti di continuare gli odiati raid notturni “anti-terrorismo” che consentono l’irruzione indiscriminata nelle abitazioni private.

Consapevole dell’opposizione tra gli afgani ad entrambe le richieste americane, Karzai aveva cercato di manifestare una certa fermezza nel chiedere l’esclusione di entrambe dal trattato bilaterale. Il presidente ha però dovuto prendere atto dell’irremovibilità di Washington, accontentandosi di “esigere” una lettera firmata dal presidente Obama, nella quale gli USA avrebbero dovuto riconoscere gli “errori” commessi in 12 anni di guerra.

Alla fine, non solo gli Stati Uniti hanno ottenuto la possibilità sia di evitare ai propri militari di essere perseguiti dal sistema giudiziario afgano in caso di qualsiasi reato che di condurre pressoché liberamente le operazioni delle proprie forze speciali, ma anche la formalità della lettera di scuse è sparita dalle trattative e dai comunicati ufficiali di questi giorni.

Sulla questione dei raid nelle abitazioni afgane, il testo dell’accordo cerca di assegnarne la responsabilità formale alle forze di sicurezza locali, affermando che quelle americane durante le operazioni “anti-terrorismo” svolgeranno funzioni di “complemento e supporto” nel “pieno rispetto della sovranità dell’Afghanistan e della sicurezza della popolazione”.

L’immunità dalle leggi afgane, invece, sarà assicurata soltanto alle forze armate americane e ai civili alle dirette dipendenze del governo di Washington, ma non ai “contractor” privati che operano nel paese centro-asiatico. Questa clausola aveva determinato la rottura dei negoziati per un simile trattato bilaterale con l’Iraq nel 2011, portando al ritiro di tutto il contingente USA dal paese mediorientale.

Così, il segretario di Stato John Kerry, dopo almeno un paio di conversazioni telefoniche con Karzai per sbloccare la situazione, ha annunciato mercoledì il raggiungimento di un accordo definitivo, escludendo qualsiasi forma di scusa al governo afgano. La Casa Bianca, però, ha successivamente confermato di volere esprimere tutte le rassicurazioni del caso nei confronti di Kabul.

Il testo finale del trattato, pubblicato nella nottata di mercoledì sul sito web del ministero degli Esteri dell’Afghanistan, definisce eufemisticamente il quadro entro il quale rimarrà una presenza di militari americani in questo paese fino almeno al 2024 con il compito di addestrare le forze di sicurezza locali, di svolgere funzioni di consiglieri e di operare missioni “anti-terrorismo”.

La quantità di truppe che resteranno in Afghanistan dopo il 2014 è ancora da stabilire, anche se fonti locali e americane indicano un numero compreso tra gli 8 e i 12 mila soldati, di cui una minima parte di altri paesi della NATO.

In un allegato della bozza di accordo vengono poi elencate le strutture nelle quali saranno ospitati i militari stranieri. In particolare, nove basi sarebbero già state individuate, tra le quali spiccano alcune per la loro posizione strategica, come quelle di Shindand e Jalalabad, non lontano rispettivamente dai confini con Iran e Pakistan.

L’esito della trattativa per un accordo che, contro il volere della maggioranza della popolazione locale, rende pressoché definitiva la presenza degli Stati Uniti in un paese fondamentale per i loro interessi strategici, rappresenta un motivo di disagio per il presidente Karzai, come confermano le esitazioni, le accuse agli americani e le richieste avanzate e poi abbandonate degli ultimi mesi.

La stessa decisione di sottoporre il testo del trattato all’approvazione della “loya jirga” rivela la necessità da parte del presidente afgano di cercare una qualche copertura politica per una decisione impopolare.

Karzai, infatti, parlando nella mattinata di giovedì di fronte ai circa 2.500 delegati all’assemblea tribale riuniti per alcuni giorni a Kabul, ha cercato di ostentare ancora una volta la sua presunta diffidenza nei confronti degli americani, con i quali tuttavia ha affermato di essere costretto a siglare un trattato bilaterale per la sicurezza del paese.

Il presidente afgano, in realtà, nonostante i tentativi di mostrarsi in sintonia con il popolo afgano non è meno interessato degli americani al raggiungimento di un accordo sulla presenza di questi ultimi nel suo paese. D’altra parte, Karzai deve a Washington la sua posizione di potere e le ricchezze accumulate da lui e dalla sua cerchia familiare in questi anni.

Inoltre, Karzai e il resto della classe politica afgana sono ben consapevoli che la sopravvivenza del fragile stato costruito dopo l’invasione del 2001 - e, dunque, il mantenimento delle loro posizioni di privilegio - dipende in larga misura dal flusso di aiuti finanziari internazionali superiori ai 4 miliardi di dollari all’anno e dalla continuata protezione offerta dalle truppe americane, senza le quali con ogni probabilità i Talebani sarebbero in grado di riprendere rapidamente il potere.

L’approvazione del trattato con gli USA da parte della “loya jirga” appare comunque pressoché scontato, vista la composizione dell’assemblea stessa, formata da delegati scelti dalle autorità delle varie provincie dell’Afghanistan e approvati proprio da Karzai.

Ciononostante, durante l’intervento del presidente giovedì a Kabul in occasione dell’apertura della riunione non sono mancate manifestazioni di protesta, in particolare con qualche delegato che ha definito l’accordo appena stipulato con Washington come una svendita del paese agli americani.

Alla luce di questi malumori, secondo gli analisti, è possibile quanto meno che alcune condizioni fissate nel trattato possano essere congelate dall’assemblea tribale e rimandate quindi a Karzai per essere nuovamente negoziate con l’amministrazione Obama.

di Michele Paris

Le relazioni bilaterali tra Indonesia e Australia stanno facendo registrare un rapido deterioramento in questi giorni dopo lo scoppio di un’accesa polemica seguita ad alcune recenti rivelazioni dell’ex contractor della CIA e dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), Edward Snowden. A scatenare le ire di Jakarta è stata la notizia di un programma della sezione dei servizi segreti australiani deputata alle intercettazioni - Australian Signals Directorate (ASD) - per mettere sotto controllo i telefoni del presidente indonesiano, Susilo Bambang Yudhoyono, e di altri leader del paese del sud-est asiatico nel mese di agosto del 2009.

I documenti, datati novembre dello stesso anno, indicano come per almeno due settimane l’ASD australiano abbia intercettato il telefono personale del presidente, di sua moglie e di altre otto importanti personalità indonesiane, tra cui il vice-presidente, Boediono, l’ex vice-presidente e già candidato alla presidenza, Yusuf Kalla, l’ex capo delle forze armate, Widodo Adi Sutjipto, e l’ex ambasciatore a Washington, Dino Patti Djalal. In relazione al presidente Yudhoyono, nei documenti viene descritto anche il tentativo di intercettare una telefonata e ascoltarne il contenuto tra quest’ultimo e un utente tailandese.

Le rivelazioni hanno sollevato un polverone nell’establishment politico di Jakarta, tanto che il governo ha ritirato il proprio ambasciatore a Canberra e lo stesso presidente ha dapprima inondato i suoi account sui principali social media con attacchi all’Australia e richieste di spiegazioni, mentre nella giornata di mercoledì è apparso in diretta alla televisione nazionale per annunciare una serie di iniziative diplomatiche e non solo.

Yudhoyono ha così fatto sapere di avere ordinato la sospensione dei programmi di cooperazione militare e di intelligence con l’Australia, nonché delle esercitazioni militari e dei pattugliamenti congiunti per impedire l’arrivo di profughi via mare sulle coste del vicino meridionale. Secondo quanto riferito alla Reuters da un portavoce dell’esercito indonesiano, queste misure dovrebbero diventare effettive a partire dal prossimo mese di gennaio. Il presidente ha poi chiesto al governo di Canberra guidato dal neo-premier conservatore, Tony Abbott, una “spiegazione chiara” dell’accaduto e “una presa di responsabilità” per le intercettazioni.

Le decisioni di Yudhoyono sono state prese dopo una nottata di consultazioni con alcuni ministri del suo governo e, sempre mercoledì, quello del Commercio, Gita Wirjawan, ha lasciato intendere che potrebbero esserci conseguenze anche per gli scambi commerciali tra i due paesi, superiori agli 11 miliardi di dollari nel solo 2012. L’Indonesia importa svariati prodotti agricoli dall’Australia, mentre quest’ultimo paese è il decimo mercato delle esportazioni di Jakarta.

Significativamente, l’ex generale durante la dittatura di Suharto non ha mancato di esprimere il proprio auspicio per una risoluzione immediata della crisi diplomatica, coerentemente con gli sforzi passati, descritti in questi giorni da svariati membri del suo governo, di stabilire rapporti più solidi con l’Australia.

A motivare la reazione particolarmente dura di Jakarta è anche il fatto che le ultime rivelazioni sono giunte poco dopo la diffusione di altre notizie relative alle attività dei servizi segreti australiani in collaborazione con gli Stati Uniti.

Documenti forniti sempre da Snowden avevano infatti rivelato come l’Australia avesse condotto intercettazioni illegali dalle proprie missioni diplomatiche in Asia, compresa quella in Indonesia, e, assieme all’NSA, messo sotto controllo i partecipanti ad una conferenza ONU sul cambiamento climatico tenuta a Bali nel 2007.

Da parte sua, il premier australiano ha contribuito a gettare benzina sul fuoco, dal momento che le dichiarazioni rilasciate finora sono risultate alquanto provocatorie. Abbott ha rifiutato di scusarsi, facendo appello alla necessità del suo governo di “proteggere il paese” e “gli interessi nazionali”. L’unico rincrescimento il primo ministro lo ha espresso per “l’imbarazzo” creato a Yudhoyono, provocando l’immediata risposta del ministro degli Esteri indonesiano, Marty Natalegawa, il quale ha sostenuto che l’imbarazzo dovrebbe essere soltanto per il governo di Canberra.

Dietro la linea dura di Abbott, in ogni caso, circolano profonde inquietudini tra la classe dirigente australiana per i possibili danni che le rivelazioni di Snowden possono provocare alla partnership strategica con l’Indonesia, considerata uno dei pilastri della cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama in funzione anti-cinese.

Per questa ragione, ad esempio, il nuovo leader del Partito Laburista all’opposizione, Bill Shorten, ha espresso estrema preoccupazione per la crisi diplomatica tra i due paesi e, in un articolo firmato mercoledì per il britannico Guardian, ha sollecitato il governo a ristabilire i rapporti con Jakarta, visto che la cooperazione con l’Indonesia risulta essere “fondamentale per i nostri interessi nazionali”. Il nervosismo manifestato da Shorten, peraltro, si scontra con il fatto che proprio il precedente governo laburista aveva presieduto alle intercettazioni ai danni dei vertici dello stato indonesiano nel 2009.

La classe politica australiana, dunque, teme sia che lo scontro in atto si traduca in sostanziali danni economici per il paese sia che venga meno la collaborazione con Jakarta in materia di “anti-terrorismo” e sulla delicata questione dei rifugiati intenzionati a chiedere asilo a Canberra, provenienti in gran parte dal territorio indonesiano.

Soprattutto, però, le tensioni con il governo del presidente Yudhoyono rischiano di complicare i disegni australiani e americani di coinvolgere l’Indonesia nell’escalation militare in atto in Asia sud-orientale con l’obiettivo di contenere l’espansionismo cinese.

Questo paese, oltre ad essere il più popoloso e ad avere la prima economia della regione, occupa una posizione geografica di primaria importanza strategica, essendo al centro di rotte da cui passa una quota significativa dei traffici commerciali del pianeta e buona parte di quelli da e verso la Cina. Gli Stati Uniti, infatti, nei loro piani di guerra contro Pechino considerano come fondamentale il controllo in caso di crisi di vie d’acqua come gli stretti di Malacca e di Lombok, entrambi parte del territorio indonesiano.

Per Washington e Canberra, quindi, la collaborazione con Jakarta risulta fondamentale per il successo di qualsiasi futura operazione militare nella regione e ciò dipende appunto dalla disponibilità e dall’orientamento del governo indonesiano al momento dell’esplosione di un’ipotetica “crisi” con la Cina.

La conoscenza della predisposizione e dei processi decisionali della classe politica del più popoloso paese musulmano del pianeta risulta perciò cruciale sia per gli Stati Uniti che per l’Australia. Da qui, la necessità di creare un programma di intercettazioni che includa i vertici stessi del governo. Tanto più che alcuni dei politici sottoposti al controllo dei servizi segreti australiani nel 2009 sono probabili candidati alla successione di Yudhoyono nelle elezioni presidenziali del 2014, a cominciare dall’ex ambasciatore indonesiano negli USA, Dino Patti Djalal.

L’attuale amministrazione al potere, d’altra parte, non appare ancora del tutto allineata agli interessi strategici americani e australiani. Infatti, pur avendo stabilito solidi rapporti militari con Stati Uniti e Australia, il governo Yudhoyono continua a mantenere una certa indipendenza per quanto riguarda la propria politica estera. A differenza di alcuni paesi vicini, infatti, l’Indonesia  ha coltivato rapporti cordiali con Pechino, mentre i traffici economici tra i due paesi hanno fatto registrare una netta impennata negli ultimi anni, con la Cina che è diventata ormai il secondo mercato per le esportazioni indonesiane e la prima fonte delle importazioni di Jakarta.

di Mario Lombardo

Le elezioni presidenziali andate in scena domenica in Cile hanno sancito, come previsto, la netta vittoria della candidata di centro-sinistra Michelle Bachelet. Già presidente tra il 2006 e il 2010, quest’ultima non è però riuscita a superare la soglia del 50% per evitare il ballottaggio di metà dicembre con la candidata del partito di destra al governo, Evelyn Matthei. Sempre nel fine settimana si sono tenute anche le consultazioni per il rinnovo dei due rami del Parlamento, con la coalizione che sosteneva la Bachelet (“Nueva Mayoria”) che ha conquistato una netta maggioranza, probabilmente non sufficiente però a mettere in atto alcune delle riforme in senso progressista promesse in campagna elettorale.

Con gli spogli pressoché ultimati, la Bachelet viene accreditata di quasi il 47% delle preferenze, contro il 25% della sua più immediata rivale ed ex amica di infanzia, nonché figlia di un generale membro della giunta militare di Pinochet. Complessivamente, sulle schede erano presenti nove nomi di candidati alla successione dell’attuale presidente, Sebastian Piñera, impossibilitato dalla costituzione a cercare un secondo mandato consecutivo alla guida del paese sudamericano.

Il voto in Cile è stato il primo dopo le proteste popolari senza precedenti nell’era democratica che erano esplose nel 2011. Imponenti manifestazioni di piazza erano state animate principalmente dagli studenti che continuano a chiedere l’accesso gratuito all’educazione superiore in un paese dove i costi dell’istruzione sono i più alti di tutto il continente, dopo gli Stati Uniti.

Le proteste si sono poi allargate fino a mobilitare le popolazioni indigene in lotta per i loro diritti e i lavoratori del settore estrattivo - il Cile è il primo produttore mondiale di rame al mondo - uniti nell’opposizione alle politiche ultra-liberaliste dell’amministrazione Piñera, celebrata invece dalla stampa ufficiale per avere garantito consistenti tassi di crescita economica negli ultimi anni.

Il ritorno in termini parlamentari di quelle proteste nel voto di domenica è stato rappresentato dalla presenza tra i candidati al Parlamento di alcuni leader del movimento studentesco protagonisti delle manifestazioni iniziate oltre due anni fa. Quattro di essi hanno finito per conquistare un seggio, tra cui la 25enne dirigente comunista Camila Vallejo, che ha diretto con straordinaria efficacia politica e mediatica l’iniziativa politica del movimento studentesco, ottenendo una notorietà a livello internazionale e diventando in qualche modo il volto stesso delle proteste.

Il malcontento diffuso nei confronti delle forze di destra, per la prima volta al governo dalla fine del regime di Pinochet nel 1990, è stato alimentato anche dalle crescenti disuguaglianze di reddito - le più marcate tra i 34 paesi facenti parte dell’OCSE - e ha finito per travolgere Piñera e la sua maggioranza.

Michelle Bachelet, tornata in patria lo scorso mese di marzo dopo avere lasciato la guida di un’agenzia delle Nazioni Unite che promuove i diritti delle donne nel pianeta, ha così cavalcato il disagio nel paese, impegnandosi ad intraprendere una serie di riforme sociali, da pagare in gran parte con un innalzamento delle tasse sulle grandi aziende e i redditi più elevati.

La probabile prossima “presidenta”, dopo la diffusione dei risultati nella serata di domenica, ha parlato alla folla nella capitale, Santiago, sottolineando come “il popolo abbia votato per un’educazione gratuita e di qualità, per una maggiore integrazione e maggiori opportunità per i nostri figli. I cileni hanno votato per una riforma fiscale che consenta di attuare riforme nell’ambito dell’assistenza sanitaria pubblica, del sistema pensionistico e delle politiche sociali, e perché coloro che posseggono di più contribuiscano secondo le loro possibilità”.

Molte delle iniziative promesse dalla Bachelet - la quale viene accreditata dai sondaggi di un netto vantaggio su Evelyn Matthei in vista del secondo turno del 15 dicembre - avranno però poche probabilità di essere implementate nel prossimo futuro, quanto meno integralmente. Per cominciare, molti osservatori hanno fatto notare come le risorse da reperire con l’aumento delle tasse proposto non siano sufficienti a coprire la spesa per finanziare tutti i cambiamenti elencati nel programma elettorale del centro-sinistra.

I numeri di una coalizione che va dai cristiano-democratici ai comunisti e che dovrebbe sostenere il prossimo presidente, inoltre, non basteranno a mettere assieme la maggioranza richiesta dalla costituzione per intervenire in alcuni ambiti, come quello dell’educazione né, tantomeno, per modificare la stessa carta costituzionale che risale all’era Pinochet e sulla quale si erano concentrate buona parte delle proteste popolari.

I risultati del voto per il Parlamento, infatti, risentono di insolite regole elettorali adottate durante la dittatura e che assegnano alla formazione che si classifica al secondo posto una rappresentanza superiore rispetto al livello di consenso raccolto alle urne. Se eletta presidente, la Bachelet dovrà perciò cercare un compromesso con l’opposizione di destra per mettere in atto le riforme più ambiziose del suo programma.

Soprattutto, come ha riassunto opportunamente un’elettrice cilena all’inviata del New York Times a Santiago, la coalizione di centro-sinistra “non ha mantenuto le promesse di cambiamento per 20 anni e perciò non c’è ragione per cui debba mantenerle ora”. Questa sensazione sembra essere piuttosto diffusa nel paese, così come una sostanziale sfiducia degli elettori nei confronti di tutta la classe politica cilena, tanto che il livello di astensione nel voto di domenica, secondo la Associated Press, avrebbe toccato il 44%.

Inoltre, va ricordato che la sconfitta del centro-sinistra nelle precedenti elezioni a beneficio della destra era stata causata proprio dal malcontento generato dalle politiche del governo appoggiato dalla cosiddetta “Concertación”, incapace di porre rimedio ai problemi sociali del paese o di alterare in maniera significativa le strutture politiche e gli orientamenti economici imposti durante la dittatura di Pinochet.

Nonostante faccia parte del Partito Socialista, Michelle Bachelet, secondo le parole del Wall Street Journal, ha sempre mantenuto “ottime relazioni con la comunità degli affari” e, come hanno dimostrato i quattro anni del suo primo mandato, l’obiettivo principale della sua eventuale futura amministrazione sarà quello di continuare a creare le condizioni migliori per attrarre il capitale straniero nel paese, pur se cercherà in ogni modo di garantire nuove e diverse politiche sociali.

Infine, il rallentamento già iniziato della crescita dell’economia cilena, determinato in particolare dalla frenata delle quotazioni del rame, farà aumentare le pressioni sul nuovo governo per muoversi in direzione opposta a quella prospettata dalla Bachelet in campagna elettorale. Sarà importante vedere come la Bachelet potrà impegnare il Cile nel blocco democratico latinoamericano, rappresentato da Brasile, Argentina e Uruguay e alleato dell’ALBA (Ecuador, Bolivia, Venezuela, Nicaragua e Cuba) dove l’integrazione regionale nel sistema di scambi potrebbe favorire una migliore condizione per il Paese andino.



di Michele Paris

A pochi giorni dal nuovo vertice sul nucleare iraniano tra i rappresentanti di Teheran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), più di una nuvola minacciosa si sta addensando su negoziati che in molti vorrebbero vedere naufragare completamente. L’incontro di Ginevra tra il 21 e il 22 novembre prossimi metterà così alla prova soprattutto le intenzioni dell’amministrazione Obama, chiamata in sostanza a prendere un’importantissima decisione che, per mandare in porto un accordo efficare, dovrà finalmente riconoscere il diritto della Repubblica Islamica ad operare un programma nucleare a scopi pacifici del tutto legittimo, finendo inevitabilmente per creare più di un malumore tra i tradizionali alleati in Medio Oriente.

Come è noto, l’opposizione più irriducibile ad un accordo con Teheran continua ad essere manifestata dalla grande maggioranza dei membri del Congresso di Washington e dal governo Netanyahu in Israele, preoccupato per la possibile perdita della propria superiorità nella regione. Per allentare le resistenze dei leader di Camera e Senato, l’amministrazione Obama ha così messo in campo sia il Segretario di Stato, John Kerry, che lo stesso presidente.

Il Senato, infatti, minaccia di approvare un nuovo pacchetto di sanzioni contro l’Iran già licenziato dalla Camera qualche mese fa e che congelerebbe per intero i traffici commerciali del paese mediorientale entro i prossimi anni. In un’audizione al Senato, perciò, Kerry ha avvertito che l’applicazione di ulteriori sanzioni determinerebbe il quasi certo collasso dei colloqui. L’ex senatore democratico, inoltre, venerdì prossimo si recherà in Israele, dove è giunto domenica anche il presidente francese, François Hollande, per rassicurare il premier Netanyahu.

Obama, da parte sua, qualche giorno fa ha spiegato invece che l’unica alternativa al tentativo di “esplorare l’opzione diplomatica” sarebbe con ogni probabilità una guerra rovinosa. Entrambi i leader statunitensi, hanno comunque confortato i falchi del Congresso e gli israeliani, assicurando che la Casa Bianca appoggerà qualsiasi nuova misura punitiva nei confronti dell’Iran se i colloqui non dovessero portare a risultati concreti.

Secondo le indiscrezioni filtrate da Ginevra due settimane fa, l’accordo preliminare su cui si sta discutendo prevederebbe un quasi totale blocco del programma nucleare iraniano per sei mesi, durante i quali verrebbero allentate alcune sanzioni, così da consentire trattative per un’intesa definitiva di più ampio respiro. Su un testo simile, i negoziati erano saltati all’ultimo minuto e la delegazione della Repubblica Islamica e quelle delle potenze occidentali hanno poi riportato versioni contrastati sulle responsabilità del mancato accordo.

Il Segretario di Stato americano ha sostenuto che gli iraniani non sono stati in grado di accettare la bozza di accordo presentata dal fronte compatto dei P5+1, mentre il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, ha respinto le accuse, puntando il dito contro le proprie controparti e, in particolare, la Francia.

I resoconti della stampa all’indomani del vertice di Ginevra - secondo i quali il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, aveva di fatto bloccato la firma di un accordo condiviso ponendo alcune condizioni inaccettabili per l’Iran - sono stati confermati qualche giorno fa anche da un’analisi del giornalista americano Gareth Porter pubblicata dall’agenzia di stampa Ipsnews e basata sulle dichiarazioni rilasciate nel corso di una conferenza stampa dal Cairo del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov.

Quest’ultimo ha rivelato come, al termine delle discussioni nella città svizzera, “i P5+1 non siano stati in grado di accordarsi su un documento condiviso”. Inizialmente, in realtà, “era emersa una bozza proposta dagli americani e che era stata approvata dalla delegazione iraniana”. Questa versione dell’accordo avrebbe poi trovato l’OK anche dei russi e degli altri paesi coinvolti.

Secondo Lavrov, se questo documento fosse stato appoggiato da tutti fino all’ultimo “ora staremmo probabilmente già implementando le prime condizioni dell’accordo”. Invece, gli americani hanno improvvisamente apportato delle modifiche al testo negoziato con l’Iran su insistenza della Francia e senza consultare la Russia. La nuova versione è così circolata “letteralmente quando le delegazioni stavano per lasciare Ginevra” e le modifiche sono risultate tali da essere inaccettabili per gli iraniani.

La ricostruzione di Lavrov conferma dunque come le incertezze non siano da attribuire alla Repubblica Islamica - il cui nuovo governo moderato deve peraltro fronteggiare le ansie di una parte dell’establishment conservatore che vede con estremo sospetto qualsiasi trattativa con l’Occidente - bensì agli Stati Uniti e ai loro alleati che, pur vedendo indubbi vantaggi strategici in un accordo con Teheran, continuano quanto meno a rimandare una decisione sostanzialmente politica che avrebbe conseguenze tutt’altro che trascurabili per gli equilibri mediorientali e non solo.

Nella necessità di porre fine al più presto a sanzioni che hanno messo in ginocchio la propria economia, l’Iran continua infatti a mostrare tutta la propria disponibilità a trattare per risolvere la questione del nucleare. Ciò è stato confermato da una serie di annunci dei giorni scorsi, a cominciare dall’accordo trovato tra l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e Teheran per un regime di ispezioni più severo presso i siti nucleari iraniani.

Più recentemente, inoltre, la stessa agenzia delle Nazioni Unite ha confermato come l’Iran abbia congelato negli ultimi mesi l’espansione del proprio programma nucleare, senza aggiungere praticamente nessuna nuova centrifuga per l’arricchimento dell’uranio nelle strutture di Natanz e Fordo. Infine, Teheran ha deciso anche di interrompere i lavori per l’avvio dell’impianto di Arak che dovrebbe servire a produrre plutonio dal prossimo anno e sul quale si erano concentrate le critiche francesi due settimane fa a Ginevra.

Tra pressioni contrastanti e in aumento, dunque, i prossimi giorni dovrebbero rivelare finalmente quanto gli Stati Uniti saranno disposti ad andare contro le resistenze interne ed esterne per giungere ad uno storico accordo che, dopo decenni, potrebbe aprire l’Iran all’Occidente con conseguenze economiche e strategiche che appare sempre più difficile sopravvalutare.


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