di Michele Paris

Con una decisione in bilico tra ipocrisia e vigliaccheria, i 28 membri dell’Unione Europea hanno deciso questa settimana di aggiungere alla propria lista delle organizzazioni terroristiche l’ala militare del partito/milizia sciita libanese Hezbollah. La mossa, impensabile solo pochi mesi fa, è il frutto di una spregevole offensiva diplomatica di Stati Uniti e Israele, con la collaborazione di Gran Bretagna, Canada e Olanda, e nulla ha a che fare con la natura attuale del “Partito di Dio”, bensì con la promozione degli interessi di Washington e Tel Aviv e con il deteriorarsi della situazione in Siria per i cosiddetti “ribelli” appoggiati dall’Occidente.

Il contenuto del provvedimento adottato a Bruxelles nella serata di lunedì rivela le divisioni e i dubbi sulla decisione di svariati membri dell’Unione - come Austria, Irlanda, Spagna e la stessa Italia - preoccupati per le possibili conseguenze sia sulla stabilità del Libano sia per le sorti della missione ONU nel sud del paese mediorientale alla quale essi contribuiscono con un numero significativo di soldati. Il loro piegarsi senza troppa fatica alle pressioni americane e israeliane rivela anche il desolante abbandono di qualsiasi velleità di politiche anche minimamente indipendenti e non appiattite su Washington in Medio Oriente.

Per superare le perplessità e raggiungere l’unanimità richiesta per designare una qualsiasi entità come terroristica, oltre a risparmiare per ora l’ala politica di Hezbollah, l’UE ha affermato che rimarranno aperti i canali diplomatici con tutti i partiti libanesi e che i trasferimenti di denaro legali verso l’organizzazione guidata da Sayyed Hassan Nasrallah non verranno interrotti.

In sostanza, perciò, i governi europei si sono dati da fare per rassicurare il Libano dopo avere preso una decisione che contribuirà ulteriormente a destabilizzare questo paese, già spinto sull’orlo della guerra civile a causa delle politiche irresponsabili perseguite dall’Occidente in Siria.

Oltretutto, l’aggiunta alla lista nera UE avrà per il momento ben pochi effetti concreti, visto che Hezbollah stesso non opera alcuna distinzione tra la propria ala militare e quella politica, così che le risorse finanziare in territorio europeo che potrebbero essere congelate saranno difficilmente individuabili, così come gli individui da colpire con eventuali divieti di ingresso.

La decisione appare dunque soprattutto politica e rappresenta in ogni caso solo il primo passo verso la totale messa al bando da parte dell’Europa di un’organizzazione che costituisce una spina nel fianco per gli interessi di Israele e degli Stati Uniti in Medio Oriente.

In particolare, come ha spiegato martedì al quotidiano libanese Daily Star Matthew Levitt, ex vice-assistente del segretario al Tesoro USA, il nuovo scenario aperto dopo la decisione di Bruxelles consentirà ai vari governi dell’Unione di avviare indagini sulle attività di Hezbollah in Europa per verificarne la conformità alle sanzioni. In seguito a queste verifiche, con ogni probabilità, l’UE finirà per riscontrare irregolarità che a loro volta serviranno per giustificare ulteriori misure punitive.

La notizia dell’inclusione del “Partito di Dio” tra i gruppi terroristi non appare tanto un motivo di imbarazzo per quest’ultimo, come ha spiegato con la consueta arroganza il New York Times, quanto per la stessa UE, i cui governi membri hanno dimostrato nuovamente tutto il loro servilismo verso gli USA e Israele proprio a pochi giorni da quello che i media di mezzo mondo avevano definito come una dura presa di posizione contro Tel Aviv con l’approvazione da parte di Bruxelles di un limitato boicottaggio economico dei prodotti provenienti dai territori palestinesi occupati illegalmente.

Questi stessi media ufficiali stanno inoltre ricordando in questi giorni come a spingere i paesi UE più riluttanti a bollare Hezbollah come gruppo terrorista sarebbero stati i risultati delle indagini sull’attentato dell’estate scorsa nella località bulgara di Burgas, sul Mar Nero, contro un autobus di turisti israeliani che provocò sei morti, dimenticando opportunamente di aggiungere che l’attribuzione della responsabilità all’ala militare del movimento sciita non è supportata da alcuna prova schiacciante né, tantomeno, dalla sentenza di un tribunale.

Nel febbraio di quest’anno, semplicemente, il governo conservatore di Sofia, in risposta alle pressioni di USA e Israele, aveva indicato Hezbollah come “probabile” responsabile dell’attentato, pur senza esprimerne la certezza. Successivamente, varie indagini giornalistiche avrebbero mostrato la debolezza degli indizi contro il partito sciita libanese, mentre ai primi di giugno il nuovo esecutivo bulgaro a guida socialista ha fatto marcia indietro, avvertendo l’UE a non aggiungere Hezbollah all’elenco delle organizzazioni terroriste sulla base di “prove tutt’altro che chiare”.

I fatti di Burgas sono stati comunque sfruttati ad arte per convincere, se mai fosse stato necessario, paesi come Francia e Germania a dare il loro consenso alle sanzioni contro Hezbollah. Il processo che ha portato al voltafaccia di Parigi e Berlino nel mese di maggio è stato descritto nel dettaglio da un articolo pubblicato martedì dal quotidiano israeliano Haaretz.

Il reporter Barak Ravid ha cioè raccontato di come il governo Netanyahu avesse istituito una speciale task force dopo le bombe sul Mar Nero con l’incarico, tra l’altro, di fornire ai governi UE materiale di intelligence ottenuto da Israele non solo su questo attentato ma anche sulle altre presunte attività illegali di Hezbollah, compreso il coinvolgimento dei suoi membri nel conflitto in Siria.

Francia, Germania, Italia e Spagna hanno poi ricevuto anche informazioni da Israele sulla presenza di “cellule dormienti” di Hezbollah entro i loro confini e, soprattutto, subito dopo l’attacco terroristico di Burgas, Tel Aviv ha inviato in Bulgaria una propria squadra di esperti per “aiutare” le autorità locali nelle indagini.

Alle indagini hanno partecipato anche Stati Uniti, Canada, Germania e Australia, a conferma dell’imparzialità dei risultati presentati dal governo di Sofia nel mese di febbraio. L’annuncio dell’allora ministro degli interni, Tsvetan Tsvetanov, era stato infatti il risultato dell’opera di convincimento di questi paesi per spingere Sofia a puntare il dito contro Hezbollah.

Secondo Haaretz, “fin dall’inizio la task force [israeliana] sapeva che l’ostacolo maggiore sarebbe stato trasformare le informazioni su Hezbollah in prove che avrebbero dovuto reggere in un tribunale europeo”. In altre parole, Israele e i suoi più stretti alleati si sono dati da fare con la Bulgaria e il resto dell’Unione Europa per costruire prove e un’accusa apparentemente solida contro il “Partito di Dio”, così da fornire a Germania e Francia una giustificazione sufficiente al cambio di opinione sulla sua aggiunta alla lista nera.

Il lavoro dietro le quinte di Israele, conclude Haaretz, è stato ultimato a maggio e il dossier sui fatti di Burgas consegnato a mano al ministro dell’Interno tedesco. Il giorno 22 dello stesso mese, il governo di Berlino ha così ritenuto di avere la copertura politica necessaria per annunciare pubblicamente la propria approvazione all’aggiunta di Hezbollah all’elenco delle organizzazioni terroriste stilata dall’UE.

Con Germania e Francia a bordo, le residue resistenze degli altri paesi sono state superate agevolmente, non senza però l’intervento personale di Netanyahu e del presidente israeliano Shimon Peres, protagonisti di telefonate ai capi dei governi più difficili da convincere, come ad esempio quello austriaco.

Per l’Europa ha pesato in maniera decisiva sulla decisione di lunedì anche la situazione in Siria, visto che le opinioni su Hezbollah sono cominciate a cambiare dopo che Nasrallah qualche mese fa aveva ammesso pubblicamente l’invio di un certo numero di uomini a combattere a fianco delle forze fedeli a Bashar al-Assad nelle aree vicine al confine con il Libano.

Il tentativo di danneggiare Hezbollah rientra perciò nella strategia messa in atto dall’Occidente per soccorrere forze “ribelli” totalmente inadeguate ad abbattere il regime di Damasco, poiché sostanzialmente osteggiate dalla maggior parte della popolazione siriana.

Senza nemmeno un’ombra di vergogna, i leader europei e americani hanno ammesso che la decisione appena presa a Bruxelles è stata in larga misura determinata dall’evoluzione della crisi in Siria e dal ruolo svolto da Hezbollah nella guerra civile in corso. Il Segretario di Stato USA, John Kerry, ricorrendo a definizioni che meglio si adatterebbero al suo governo, ha ad esempio messo in luce il ruolo “pericoloso e destabilizzante” svolto in Siria dal partito/milizia libanese.

Lo stesso ex senatore democratico ha poi definito la decisione di Bruxelles come “un messaggio a Hezbollah, il quale non può operare nell’impunità”, come è consentito invece a Stati Uniti, Israele e ai loro alleati, veri responsabili del baratro in cui è precipitata la Siria da due anni e mezzo a questa parte.

Il capo della diplomazia UE, Catherine Ashton, nei giorni scorsi aveva a sua volta confessato all’emittente saudita Al-Arabiya di avere presentato la proposta di mettere all’indice Hezbollah ai 28 paesi membri proprio a causa del coinvolgimento di quest’ultima organizzazione nella vicenda siriana. La Ashton, nella giornata di lunedì, ha inoltre sostenuto che il provvedimento adottato dimostra come “l’Unione Europea non intenda tollerare il terrorismo in nessuna forma”, tranne che, si intende, per i gruppi fondamentalisti che Bruxelles e Washington sostengono più o meno indirettamente per avanzare i propri interessi strategici, come in Libia e ora in Siria.

La notizia proveniente dall’Europa, come è ovvio, è stata accolta duramente dai vertici di Hezbollah, i quali l’hanno definita una decisione “aggressiva e ingiusta”, nonché “scritta da mani americane con inchiostro israeliano e semplicemente sottoscritta dall’UE”. Anche il presidente libanese, Michel Suleiman, ha espresso la propria preoccupazione, chiedendo al ministro degli Esteri di Beirut di insistere con i governi europei per convincerli a tornare sui loro passi.

Quella di lunedì, tuttavia, non è una mossa affrettata bensì una decisione ben ponderata e senza possibilità di ripensamenti che ha tenuto presente sia i vantaggi che possibili ripercussioni negative, con l’intento preciso di provocare i maggiori danni possibili a Hezbollah, come era accaduto ad esempio con la creazione del cosiddetto Tribunale Speciale per il Libano, creato sotto l’egida delle Nazioni Unite appositamente per attribuire all’organizzazione sciita la responsabilità dell’assassinio nel febbraio 2005 dell’ex primo ministro sunnita, Rafik Hariri.

Per questo, la revisione della politica UE nei confronti di Hezbollah tra sei mesi non servirà in nessun modo, come auspicano alcuni, a valutare l’annullamento delle sanzioni che verranno definite nei prossimi giorni, ma se mai ad applicarne altre ancora più pesanti, così da aggiungere un ulteriore tassello al tentativo di spezzare l’asse della “resistenza” in Medio Oriente, formato appunto da Hezbollah, Siria e Iran, tutti al centro delle manovre militari, diplomatiche ed economiche degli Stati Uniti e dei loro servili alleati.

di Mario Lombardo

Nonostante le previsioni della vigilia siano state confermate nel risultato del voto di domenica per il rinnovo della metà dei seggi della camera alta del parlamento giapponese (“Dieta”), il successo della coalizione del premier conservatore Shinzo Abe non è apparso del tutto convincente, a conferma dello scetticismo di buona parte degli elettori per le politiche militariste e di libero mercato promesse dal redivivo leader del partito Liberal Democratico (LDP).

Abe, in ogni caso, è riuscito nell’obiettivo di conquistare la maggioranza assoluta anche nella Camera dei Consiglieri, mettendo fine al controllo di questo ramo del parlamento da parte dell’opposizione. L’LDP e il suo partner di governo - il partito buddista Nuovo Komeito - hanno così ottenuto 76 seggi sui 121 in palio domenica, i quali vanno ad aggiungersi ai 59 che le due formazioni già controllavano e che non erano interessati dal voto.

Il risultato non permetterà però all’ambizioso premier di contare sui due terzi dei seggi come auspicava, mettendo in dubbio perciò le sue possibilità di fare approvare le annunciate modifiche alla Costituzione del 1947 per indebolirne il carattere marcatamente pacifista.

Il mandato ottenuto da Abe, che fa seguito al trionfo dello scorso dicembre nel voto per la più importante camera bassa, non appare comunque solido come sembrano suggerire i risultati. Quasi la metà degli aventi diritto, infatti, non si è nemmeno presentata alle urne e l’affluenza ha fatto registrare quasi sette punti percentuali in meno rispetto al precedente appuntamento elettorale per questo ramo del parlamento nel 2010, quando sfiorò il 58%.

La sostanziale apatia e la sfiducia verso tutto l’establishment politico giapponese sono apparse evidenti anche dal tracollo del Partito Democratico (DPJ) di centro-sinistra, passato all’opposizione qualche mese fa dopo tre anni di delusioni e promesse mancate. Secondo i dati diffusi nella giornata di lunedì, il DPJ ha ottenuto appena una quindicina di seggi, facendo segnare la peggiore prestazione dalla sua nascita nel 1998. A beneficiare del voto di protesta e della seconda batosta incassata in sette mesi dal DPJ è stato soprattutto il Partito Comunista Giapponese (JCP), in grado di raccogliere seggi nelle prefetture di Tokyo, Osaka e Kyoto dopo oltre un decennio di digiuno.

Il DPJ ha infatti perso terreno in particolare tra la borghesia urbana, considerata la propria tradizionale base elettorale e ora invece sfiduciata a causa del rapido abbandono da parte del partito delle modeste politiche di spesa prospettate nel 2009 e del tentativo abortito di mettere in atto una politica estera più indipendente rispetto al tradizionale appiattimento sulla linea dettata dagli Stati Uniti dei precedenti governi giapponesi.

Abe, da parte sua, già nella serata di domenica ha ribadito la volontà di portare avanti le “riforme” promesse per “rivitalizzare l’economia”, sottolineando il supporto a suo dire mostrato dagli elettori per le politiche già avviate nei mesi scorsi.

Le cosiddette “Abenomics” hanno determinato nel corso del 2013 una certa accelerata dell’economia giapponese e un balzo consistente del mercato azionario, grazie soprattutto all’aggressiva politica monetaria della Banca Centrale che, sul modello del “quantitative easing” della Fed americana, sta inondando di liquidità il sistema finanziario. La conseguente svalutazione dello yen ha così reso più competitive le esportazioni nipponiche, contribuendo al momentaneo rinvigorimento dell’economia che, con ogni probabilità, ha favorito la coalizione di governo nel voto del fine settimana.

Oltre alla politica monetaria della Banca Centrale, le altre due “frecce” nell’arco di Shinzo Abe sono l’aumento della spesa per stimolare l’economia e quella che il quotidiano conservatore giapponese Yomiuri Shimbun ha definito lunedì come “una strategia di crescita per incoraggiare gli investimenti privati”, vale a dire, in primo luogo, lo smantellamento delle garanzie  del lavoro dipendente.

Quest’ultima “freccia” sembra essere quella che incontrerà le maggiori difficoltà ad andare a segno, vista l’impopolarità delle misure che comporta. Per questa ragione, il premier Abe è stato incoraggiato subito dopo la chiusura delle urne a procedere con le “riforme” promesse in questo ambito.

I leader del business giapponese, ad esempio, hanno fatto a gara nel complimentarsi con il primo ministro per il successo, definito senza riserve come la prova del consenso espresso dai giapponesi per le misure di “crescita” che dovranno essere implementate.

Oltre a rendere ancora più flessibile il mercato del lavoro, le “riforme” che le élite economico-finanziarie del Giappone si aspettano da Abe comprendono, tra l’altro, l’abbattimento dell’aliquota fiscale riservata alle grandi aziende, l’aumento della tassa sui consumi e massicci tagli alla spesa pubblica per ridurre un debito che supera il 200% del PIL del paese. Tutti questi temi, come è ovvio, sono stati toccati solo marginalmente nel corso della campagna elettorale.

Parallelamente a questo percorso in ambito economico, Abe intende perseguire anche un’agenda nazionalista e militarista che deve fare i conti allo stesso modo con una serie di incognite e ostacoli. Le provocazioni nei confronti della Cina sono state utilizzate in questi mesi per ingigantire la minaccia che la seconda economia del pianeta rappresenterebbe per Tokyo, così da giustificare l’impulso alla militarizzazione del paese, ma anche per sviare l’attenzione dei giapponesi dalle difficili decisioni economiche che si prospettano.

Visto lo scarso entusiasmo generato tra la popolazione per una revisione in senso militarista della Costituzione, con iniziative che dovrebbero tra l’altro consentire alle forze armate di colpire preventivamente presunte minacce alla sicurezza del paese, secondo molti analisti una strada simile potrebbe essere seguita dal governo Abe solo se l’economia dovesse essere in grado di generare benefici diffusi per la maggioranza dei giapponesi. Un tale scenario, peraltro, appare improbabile visti gli effetti negativi che avranno prevedibilmente le “riforme” di libero mercato volute dalla maggioranza conservatrice sulla gran parte dei giapponesi.

L’impronta aggressiva data da Abe alla politica estera del Giappone, infine, potrebbe incontrare più di un ostacolo anche per il fatto che essa viene vista con qualche sospetto a Washington. Gli Stati Uniti, infatti, pur favorendo un maggiore impegno militare di Tokyo a sostegno dei propri obiettivi imperialistici, considerano le rinnovate ambizioni da grande potenza dell’alleato asiatico anche come una minaccia alla strategia americana di contenimento della Cina basata sulla collaborazione dei governi amici in Estremo Oriente, poiché rischiano di complicare i rapporti con alcuni di questi paesi - a cominciare dalla Corea del Sud - tuttora segnati dalla brutale occupazione dei loro territori da parte del Giappone nella prima metà del secolo scorso.

di Michele Paris

Un tribunale federale americano ha emesso qualche giorno fa un’importantissima sentenza nell’ambito di una fuga di notizie dalla CIA, gettando una nuova lunga ombra sulla garanzia della libertà di stampa negli Stati Uniti. La vicenda che ha portato venerdì all’inquietante verdetto ha infatti imposto ad un noto giornalista del New York Times di testimoniare nel processo contro la fonte interna al governo di una rivelazione che lo stesso reporter aveva raccontato in suo libro dedicato alle questioni della sicurezza nazionale.

Tre giudici della corte d’Appello per il “Quarto Circuito” di Richmond, in Virginia, hanno in sostanza stabilito che il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione non è stata autorizzata dall’autorità di governo. I giornalisti, perciò, possono essere costretti a testimoniare contro le persone sospettate di avere rivelato loro le informazioni in questione.

Nella sentenza, i due giudici di maggioranza hanno scritto che “chiaramente, un resoconto diretto e di prima mano da parte di [James] Risen sulla condotta criminale oggetto di indagini di un Grand Jury non può essere ottenuto con mezzi alternativi, dal momento che Risen è indubitabilmente l’unico testimone in grado di offrire questa fondamentale testimonianza”.

James Risen è un giornalista premio Pulitzer del New York Times ma la vicenda in cui è coinvolto riguarda esclusivamente il suo volume “State of War” del 2006, in un capitolo del quale raccontava come la CIA durante l’amministrazione Clinton avesse cercato di ingannare gli scienziati iraniani, spingendoli ad accettare da un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco nucleare appositamente alterato.

L’autore della rivelazione era stato individuato nel dicembre del 2010 nell’ex agente della CIA Jeffrey Sterling, prontamente incriminato dall’amministrazione Obama secondo il dettato dell’Espionage Act, la legge reazionaria del 1917 che il governo USA avrebbe successivamente utilizzato per accusare Bradley Manning e Edward Snowden. Contro Sterling, lo stesso Risen sarà ora costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury, anche se il giornalista ha affermato di essere disposto ad andare in carcere piuttosto che rivelare la propria fonte o, quanto meno, di portare il proprio caso fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Sul caso Risen si era espressa nel 2011 una corte federale di primo grado, la quale aveva opportunamente limitato il potere dell’esecutivo nel richiedere ad un giornalista l’identità delle proprie fonti riservate. Secondo l’amministrazione Obama, tuttavia, non esisterebbe alcun diritto alla riservatezza garantito dal Primo Emendamento in casi simili ed ha quindi fatto appello, ottenendo la sentenza favorevole di venerdì scorso.

L’interpretazione proposta dalla corte d’appello mette così in grave pericolo il principio della riservatezza delle fonti giornalistiche e rappresenta un altro passo verso la totale criminalizzazione dei cosiddetti “whistleblowers”, coloro cioè che forniscono un servizio di inestimabile valore all’opinione pubblica, rivelando alla stampa le malefatte e i crimini del governo a cui essi hanno assistito. Queste fonti, oltretutto, dovrebbero essere teoricamente protette dalla legge, come stabilisce il “Whistleblower Protection Act” del 1989.

Per l’amministrazione Obama, al contrario, la protezione della legge deve essere garantita solo a coloro che all’interno del governo si sono macchiati dei crimini esposti, mentre per quanti mettono a rischio la propria carriera se non addirittura la libertà o la vita per rendere noti questi stessi crimini, vengono riservati procedimenti giudiziari, ma anche torture - come è accaduto a Manning - e misure estreme per metterli a tacere, come nel caso di Snowden.

La sentenza di venerdì fissa dunque un precedente preoccupante per la libertà di informazione negli Stati Uniti che, assieme allo sforzo senza precedenti per mettere le mani su Edward Snowden e alla corte marziale in atto contro Bradley Manning, intende scoraggiare future fughe di notizie sulle attività illegali del governo.

Teoricamente, la decisione della corte d’Appello di Richmond avrebbe effetto soltanto all’interno del “circuito” sul quale essa esercita la propria giurisdizione. Se anche così fosse, però, l’autorità di questa corte copre stati come Maryland e Virginia, dove si trovano istituzioni come il Pentagono, la CIA e la National Security Agency (NSA), all’interno delle quali viene elaborata e messa in atto la grande maggioranza delle azioni illegali di cui si macchia il governo, con effetti su tutti gli Stati Uniti e non solo.

La sentenza che ha accolto l’appello del Dipartimento di Giustizia contribuisce infine a smascherare il vero significato della decisione presa recentemente dal ministro Eric Holder in risposta agli scandali che hanno coinvolto in questi mesi l’amministrazione Obama, tra cui la notizia dell’intercettazione segreta delle comunicazione telefoniche di decine di giornalisti dell’Associated Press nell’ambito di un’indagine sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato terroristico sventato.

Secondo i principali media d’oltreoceano, le nuove “linee guida” adottate dal governo una decina di giorni fa servirebbero a ridurre significativamente le circostanze nelle quali le informazioni ottenute dai giornalisti possono essere requisite. In realtà, come dimostrano i procedimenti giudiziari ai danni di un numero record di “whistleblowers” avviati dal 2009 ad oggi e l’appello contro la sentenza di primo grado nel caso del giornalista James Risen, l’amministrazione Obama non ha alcun interesse nella difesa della libertà di stampa.

Infatti, le direttive del Dipartimento di Giustizia non fanno altro che stabilire limiti ingannevoli alle facoltà del governo, confermando il potere di controllare e limitare la libertà di stampa ogniqualvolta vengano rivelate informazioni riservate, la cui provenienza debba essere individuata ai fini di un’indagine su questioni considerate “essenziali” per la sicurezza nazionale.

di Michele Paris

Le indagini condotte dalle autorità di polizia americane dopo l’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile scorso continuano a sollevare numerosi interrogativi e risultano caratterizzate da un costante tentativo di occultare l’inquietante realtà che sembra nascondersi dietro le esplosioni che provocarono 3 morti e centinaia di feriti. I sospetti per una probabile colossale operazione di insabbiamento in corso sono tornati ad emergere in questi giorni dopo l’intervento dell’FBI per bloccare la pubblicazione dei risultati dell’autopsia condotta sul corpo di un giovane ceceno amico di Tamerlan Tsarnaev, il maggiore dei due fratelli accusati dei fatti di Boston.

Nel pressoché totale disinteresse dei principali media d’oltreoceano per una vicenda dai molti lati oscuri, i medici legali di un laboratorio di Orlando, in Florida, martedì hanno fatto sapere di essere stati invitati dall’FBI a non divulgare l’esito dell’autopsia relativa a Ibragim Todashev, poiché la sua morte, avvenuta il 22 maggio nel suo appartamento, è tuttora al centro di un’indagine interna della polizia federale statunitense.

Il 27enne Todashev era stato infatti ucciso proprio da agenti dell’FBI nella sua abitazione durante un interrogatorio in relazione alle bombe di Boston. I resoconti dei giornali americani sull’accaduto nell’appartamento di Orlando in cui risiedeva sono stati estremamente confusi negli ultimi tre mesi. Inizialmente, la sua morte sembrava essere dovuta all’iniziativa di uno o più agenti, i quali avevano sparato al giovane come autodifesa dopo che quest’ultimo aveva cercato di assalirli. Quale arma Todashev avesse impugnato non appare del tutto chiaro, visto che i giornali hanno parlato alternativamente di un coltello, di una “spada da samurai”, di un bastone di metallo e, addirittura, di un manico di scopa, mentre altri avevano sostenuto invece che la vittima fosse disarmata.

Il Washington Post, a sua volta, pochi giorni dopo i fatti, aveva scritto che, prima dell’esecuzione e dopo circa otto ore di interrogatorio, tutti gli agenti dell’FBI presenti avevano abbandonato l’appartamento tranne uno che avrebbe poi sparato a Todashev. Per quanto è noto finora, nessuno degli agenti coinvolti nella vicenda è stato arrestato o incriminato per questo omicidio.

Il rapporto ufficiale dell’FBI, pubblicato lo stesso 22 maggio, attribuiva semplicemente la morte di Todashev al risultato di uno scontro violento con gli agenti scatenato dalla stessa vittima. Qualche giorno più tardi, dalla Russia il padre di Todashev aveva organizzato una conferenza stampa mostrando delle fotografie del figlio dopo l’autopsia. In esse appariva evidente il segno di un colpo di pistola alla testa da distanza ravvicinata “in stile mafioso”, sparato quando il giovane giaceva sul pavimento per assicurarsi della sua morte.

Prima dell’interrogatorio con l’FBI, Todashev aveva inoltre confidato alla sua co-inquilina, Tatiana Gruzdeva, di temere per la propria vita. Todashev, in ogni caso, aveva collaborato con i federali nelle settimane precedenti, rimandando anche un viaggio in Cecenia per parlare con l’FBI in relazione ai fratelli Tsarnaev e all’attentato di Boston. Alla stessa Gruzdeva, nel frattempo, è stato di fatto impedito di discutere con i media dell’accaduto, visto che recentemente è stata arrestata e nei suoi confronti è iniziata la procedura di espulsione dagli Stati Uniti.

I particolari emersi legittimano dunque il sospetto che Ibragim Todashev sia stato messo a tacere perché in possesso di informazioni che avrebbero potuto rivelare i legami tra l’apparato della sicurezza nazionale americano e Tamerlan Tsarnaev, i cui rapporti con il fondamentalismo ceceno che combatte il governo russo si intrecciavano forse con le operazioni segrete condotte dagli USA. Oppure, lo stesso Todashev, così come Tsarnaev, poteva essere anch’egli legato all’intelligence statunitense, la quale utilizzava i due ceceni per i propri obiettivi.

Secondo quanto riportato a maggio dalla NBC, infatti, funzionari anonimi del governo americano avrebbero affermato che Todashev aveva un qualche legame con i ribelli ceceni, mentre il Boston Globe qualche giorno fa ha raccolto il parere di alcuni esperti che avevano definito “senza ragione” apparente la concessione nel 2008 dell’asilo politico negli USA allo stesso 27enne ucciso dall’FBI in Florida.

Le attività di destabilizzazione del governo americano tramite il sostegno clandestino alla guerriglia cecena sono d’altra parte risapute, così come è provata la presenza di militanti ceceni in Siria a fianco dei “ribelli” anti-Assad che ricevono l’appoggio finanziario e militare dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Ulteriori dubbi sulla vicenda sono poi emersi la settimana scorsa in seguito alla pubblicazione sul New York Times di un devastante atto d’accusa contro le autorità di polizia americane. Queste ultime, infatti, avevano sistematicamente boicottato le indagini su un triplice omicidio avvenuto nel settembre del 2011 a Waltham, in Massachusetts, tra le cui vittime figurava un amico intimo di Tamerlan Tsarnaev.

L’indagine del NYT ha messo in luce come il maggiore dei fratelli Tsarnaev non fosse nemmeno stato interrogato all’indomani degli omicidi nonostante le altre perone sentite dalla polizia in merito ai fatti avessero inequivocabilmente testimoniato dei rapporti di amicizia tra Tamerlan e una delle tre vittime, Brendan Mess.

Tamerlan Tsarnaev, inoltre, era un assiduo frequentatore dell’appartamento di Mess, dove furono ritrovati i corpi e la cui porta di ingresso non presentava alcun segno di scasso. I loro amici hanno anche descritto sia all’FBI che ai media in questi quasi due anni che Tamerlan Tsarnaev non si era nemmeno presentato ai funerali di Mess e, durante le successive discussioni sul suo assassinio, non aveva mostrato alcuna emozione, giungendo in alcune occasioni anche a scherzare sull’accaduto.

Come se non bastasse, svariati mesi prima degli omicidi di Waltham, Tamerlan Tsarnaev era stato segnalato all’FBI e alla CIA dai servizi di sicurezza russi e sauditi, i quali avevano fornito informazioni “molto precise” sui suoi rapporti con l’estremismo jihadista, aggiungendo oltretutto che possibili attentati erano in preparazione in una delle più importanti città degli Stati Uniti.

Ciononostante, oltre a non essere stato disturbato dalla polizia dopo i tre omicidi in Massachusetts, Tsarnaev ha potuto recarsi liberamente in Daghestan e in Cecenia nel gennaio del 2012 e rientrare sei mesi più tardi negli Stati Uniti pur essendo stato messo su una lista di possibili sospettati di legami con il terrorismo internazionale.

L’FBI, da parte sua, ha sempre sostenuto di avere condotto indagini scrupolose sulla famiglia Tsarnaev dopo le segnalazioni di Russia e Arabia Saudita ma che non erano emersi elementi per un’incriminazione. L’unico errore ammesso dall’FBI sarebbe stato perciò quello di non avere informato dei precedenti di Tsarnaev le forze di polizia locali e dello stato del Massachusetts, vale a dire un’innocente omissione - accettata sia dai media che dai politici di Washington - che nasconde con ogni probabilità le manovre segrete del governo e i rapporti a dir poco ambigui intrattenuti con gli autori dell’attentato di Boston.

I rapporti tra le agenzie del governo USA e i membri della famiglia Tsarnaev non sono comunque limitati ai fatti appena esposti. Alcune rivelazioni apparse sui media americani nelle settimane successive all’attentato di Boston avevano mostrato come Ruslan Tsarni, zio di Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, avesse fondato nel 1995 il cosiddetto Congresso delle Organizzazioni Internazionali Cecene (CCIO), verosimilmente uno strumento della CIA per fornire armi ai ribelli della repubblica autonoma russa nel Caucaso.

La sede del CCIO risultava essere presso un indirizzo di Rockville, nel Maryland, corrispondente all’abitazione di Graham Fuller, vice-direttore del Consiglio per l’Intelligence Nazionale della CIA durante la presidenza Reagan e agente segreto operativo in molti paesi, tra cui Afghanistan, Yemen e Arabia Saudita, prima di lasciare ufficialmente l’agenzia nel 1988 a causa del suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contras. A conferma dei legami tra Tsarni e Fuller, entrambi hanno poi confermato che la figlia di quest’ultimo era stata sposata con lo zio dei fratelli Tsarnaev negli anni Novanta.

Contrariamente alla versione ufficiale - che definisce i fratelli Tsarnaev come due individui isolati e disturbati, passati attraverso un processo di radicalizzazione autonomo e impossibile da individuare - gli accusati dell’attentato alla maratona di Boston erano ben noti da tempo alle autorità di polizia americane, come quasi sempre è accaduto da un decennio a questa parte in occasione di episodi simili sventati o portati a termine.

Dietro all’apparenza di errori inevitabili o della mancanza di comunicazione tra i vari organi della sicurezza nazionale, sembra nascondersi dunque anche dietro ai fatti di Boston una realtà ben diversa. Una realtà, cioè, che potrebbe rivelare la doppiezza del governo americano nei confronti dei gruppi estremisti indicati da oltre un decennio come nemici giurati degli Stati Uniti e che, secondo le necessità, vengono invece utilizzati per i propri fini strategici, finendo talvolta per sfuggire di mano alle agenzie incaricate di gestirne i rapporti, con conseguenze tragiche come la strage alla maratona di Boston.

di Michele Paris

Nelle elezioni di domenica prossima per il rinnovo della metà dei seggi della camera alta del parlamento (Dieta) giapponese, il partito Liberal Democratico (LDP) di governo dovrebbe riuscire a conquistare la maggioranza assoluta senza troppe difficoltà, bissando il nettissimo successo nel voto per la camera bassa dello scorso dicembre che aveva riportato alla guida dell’esecutivo l’ex premier Shinzo Abe. L’imminente appuntamento con le urne metterà così fine al parlamento diviso, consentendo al primo ministro di provare a perseguire con più agio le politiche all’insegna del militarismo e della liberalizzazione dell’economia annunciate da mesi.

Secondo un recentissimo sondaggio di opinione condotto a inizio settimana da alcuni media nipponici, l’LDP e il suo partner di governo - il partito Nuovo Komeito - dovrebbero assicurarsi almeno 70 dei 121 seggi in palio alla Camera dei Consiglieri. Al contrario, il Partito Democratico del Giappone (DPJ) di centro-sinistra sembra essere avviato ad incassare una nuova pesantissima batosta, essendo accreditato di meno della metà dei 44 seggi attualmente detenuti e messi in palio domenica.

La metà dei seggi totali (242) della camera alta del Parlamento di Tokyo viene rinnovata ogni tre anni. Nel voto del 2010, il DPJ allora al governo aveva perso terreno rispetto a tre anni prima, impedendo però ai liberal democratici di conquistare la maggioranza e mantenendo, dopo il passaggio di consegne al governo a fine 2012, la facoltà di ostacolare l’avanzamento della legislazione approvata dalla camera bassa.

A determinare il praticamente certo successo di Abe e del suo partito nelle elezioni del 21 luglio sarà soprattutto la persistente ostilità nutrita dalla maggioranza dei giapponesi per il DPJ. Quest’ultimo partito, infatti, dopo il trionfo nel voto del 2009, aveva mancato tutte le principali promesse di cambiamento, abbandonando ben presto le politiche di spesa prospettate in campagna elettorale, così come i tentativi di prendere relativamente le distanze dagli Stati Uniti e operare un certo ravvicinamento alla Cina.

Inoltre, il governo Abe potrà beneficiare di alcuni segnali di ripresa economica nel paese dopo due decenni di stagnazione e l’ulteriore battuta d’arresto seguita allo tsunami e al conseguente disastro nucleare del 2011.

Questo artificioso e, con ogni probabilità, momentaneo successo sarebbe dovuto ad una serie di misure propagandate dalla stampa locale e internazionale col nome di “Abenomics” che consistono sostanzialmente nell’immissione di denaro nel sistema finanziario grazie all’intervento della Banca centrale del Giappone e all’adozione di provvedimenti di libero mercato.

La politica monetaria simile al cosiddetto “quantitative easing” promosso da qualche anno dalla Fed statunitense ha determinato una svalutazione dello yen, favorendo sensibilmente le esportazioni giapponesi a discapito dei più immediati concorrenti (Cina, Corea del Sud, Taiwan). L’obiettivo della banca centrale è quello di giungere ad un livello di inflazione pari al 2%, così da interrompere la persistente tendenza deflattiva degli ultimi vent’anni.

Nonostante l’entusiasmo di commentatori e giornali economici, la ricetta Abe ha però finora portato qualche beneficio solo alle grandi compagnie esportatrici e ai detentori di titoli finanziari grazie all’ingente quantità di denaro immesso sui mercati. L’annunciato aumento generalizzato degli stipendi e dei consumi, al di là di quelli relativi ai beni di lusso, non sembra invece essersi ancora materializzato. Oltretutto, le politiche promosse dal governo liberal democratico includono una serie di “riforme” per flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro che avranno un impatto pesantissimo sulle fasce più basse della popolazione, prevedibilmente escluse dai presunti benefici generati dalle liberalizzazioni.

La scommessa di Abe, secondo alcuni, rischia anche di peggiorare ulteriormente i problemi del Giappone. Innanzitutto, il debito pubblico, superiore al 200% del PIL, potrebbe raggiungere livelli insostenibili se non venisse innescata una solida ripresa economica. Come ha spiegato mercoledì l’ex “trader” Satyajit Das sul sito di informazione economica MarketWatch, l’aggressiva politica monetaria della Banca centrale giapponese e la svalutazione dello yen potrebbero poi causare la fuga di capitali privati dal paese, alla ricerca di “interessi più alti e del mantenimento del potere d’acquisto”.

Le “Abenomics”, il cui eventuale fallimento avrebbe conseguenze ben oltre i confini del Giappone, rischiano anche di innescare una guerra di valute in Estremo Oriente e non solo. I paesi vicini, infatti, potrebbero mettere in atto misure monetarie simili dopo che la loro competitività è già stata colpita con una riduzione dell’export e dei tassi di crescita delle rispettive economie.

Dall’ambito economico, questi conflitti potrebbero facilmente sfociare in scontri militari, come è già apparso chiaro dal riesplodere di una serie di contese territoriali nella regione, in particolare tra Tokyo e Pechino attorno alle isole Senkaku (Diaoyu per i cinesi), alimentate anche dalla “svolta” asiatica degli Stati Uniti in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.

Non a caso, proprio l’impulso al militarismo è l’altra faccia del progetto del premier Abe per il suo paese, sottolineato in primo luogo dalla volontà di modificare la costituzione nipponica per abolire gli “articoli pacifisti”, quelli cioè che assegnano alle forze armate una funzione esclusivamente difensiva. Per raggiungere questo obiettivo, Abe intende cambiare le regole previste per apportare modifiche alla costituzione. Mentre ora qualsiasi emendamento deve essere approvato dai due terzi di entrambe le camere del parlamento e da un referendum popolare, secondo la proposta del governo basterebbe invece un voto della maggioranza semplice dei due rami della Dieta.

Per giustificare una simile svolta militarista tutt’altro che popolare tra i giapponesi, l’esecutivo liberal democratico sta mettendo in atto una strategia volta ad ingigantire le minacce esterne che graverebbero sul paese. L’annuale rapporto del ministero della Difesa giapponese, diffuso settimana scorsa, ha ad esempio elencato le crescenti minacce alla sicurezza nazionale del paese, a cominciare proprio dalle dispute territoriali con la Cina e dall’atteggiamento sempre più bellicoso della Corea del Nord.

L’insistenza su questi presunti pericoli che graverebbero sul Giappone si accompagna ad una retorica nazionalista sempre più marcata da parte del governo Abe ed ha portato al primo aumento del bilancio destinato alla difesa da 11 anni a questa parte, salito quest’anno a 46 miliardi di dollari.

Oltre a dipingere l’ascesa militare della Cina in termini particolarmente critici, il rapporto della Difesa mette in luce due punti fondamentali: la necessità di assegnare alle forze armate giapponesi la facoltà di intraprendere azioni militari “preventive” contro nemici stranieri e la maggiore cooperazione con l’alleato americano come punto fermo della strategia legata alla sicurezza nazionale.

I suggerimenti contenuti del rapporto annuale sono stati ribaditi dal ministro della Difesa, Itsunori Onodera, in un’intervista rilasciata martedì al Wall Street Journal, nella quale sono state ricordate le questioni più delicate che i paesi dell’Estremo Oriente devono fronteggiare, senza peraltro notare come esse siano in gran parte aggravate proprio dall’atteggiamento sempre più aggressivo mostrato da Tokyo - così come di Washington - in questi ultimi mesi.

In ogni caso, le modifiche allo status delle forze armate giapponesi sono in gran parte rimaste fuori dal dibattito elettorale di questi giorni pur essendo allo studio di una speciale task force nominata dal premier Abe poco dopo il suo ritorno al potere nel dicembre scorso. Il nuovo approccio del governo liberal democratico ai temi della sicurezza nazionale verrà reso noto in maniera ufficiale entro la fine dell’anno, per poi concretizzarsi in un disegno di legge che, secondo la stampa locale, verrà discusso in parlamento nel 2014.

Le politiche messe in atto finora dal governo Abe sia in ambito economico che militare, insomma, subiranno un’accelerata dopo il voto di domenica, con il rischio tuttavia di vedere svanire in fretta il consenso attualmente goduto dal partito di maggioranza, così come di andare incontro ad un’esplosione del conflitto sociale sul fronte interno e di provocare la dura reazione dei paesi percepiti come rivali da un Giappone con rinnovate e pericolose ambizioni da grande potenza.


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