di Michele Paris

L’ennesimo massacro messo in atto mercoledì dai militari egiziani per porre fine alla resistenza dei sostenitori dei Fratelli Musulmani ha smascherato impietosamente i reali scrupoli democratici degli Stati Uniti e dei loro alleati in Occidente, così come la vera natura delle forze secolari e “progressiste” indigene che avevano di fatto appoggiato il golpe del 3 luglio scorso ai danni del presidente islamista Mohamed Mursi.

Le centinaia o forse migliaia di morti nel corso dell’ultimo atto della repressione andata in scena al Cairo e nelle principali città del più popoloso paese arabo sono state seguite dall’imposizione dello stato di emergenza, una misura grazie alla quale Hosni Mubarak aveva governato con il pugno di ferro per tre decenni e che era stata già minacciata qualche settimana fa durante il precedente round di scontri tra i Fratelli Musulmani e le forze di sicurezza.

Lo stato di emergenza rimarrà in vigore per un mese, anche se il possibile radicalizzarsi dello scontro interno potrebbe giustificare un prolungamento indefinito del provvedimento da parte dei militari. Questo strumento, d’altra parte, riattivando le leggi di emergenza del 1958 consentirà al regime, come è accaduto in passato, di reprimere ogni forma di opposizione interna, principalmente autorizzando l’arresto di cittadini senza il mandato di un tribunale.

Le vittime di mercoledì e le misure prese dal governo espressione dei vertici militari, guidati dal generale Abdel Fattah al-Sisi, smontano dunque definitivamente la pretesa di un regime intento a rimettere l’Egitto sulla strada della democrazia dopo la deposizione di Mursi sull’onda di oceaniche dimostrazioni di piazza.

Il percorso intrapreso dal paese nord-africano sembra essere piuttosto quello dell’autoritarismo dell’era Mubarak, come dimostra anche la nomina, avvenuta il giorno prima dello sgombero del sit-in dei sostenitori di Mursi, di 25 nuovi governatori provinciali, tra i quali vi sono 19 generali e due giudici noti per la loro fedeltà al presidente rimosso in seguito alla rivoluzione del 2011.

Soltanto ai primi di agosto, questa evoluzione era stata invece definita in altri termini dal segretario di Stato americano, John Kerry. In una discussa intervista rilasciata nel corso di una visita in Pakistan, quest’ultimo aveva lasciato chiaramente intravedere la predisposizione di Washington verso i generali egiziani, i quali a suo dire, nel deporre Mursi, avevano “in effetti ristabilito la democrazia” nel paese.

Anche se la presunta strada verso la democrazia in Egitto sotto la guida dei militari appare sempre più inondata di sangue, l’amministrazione Obama continua a non mostrare alcuna intenzione di modificare la propria politica nei confronti del regime golpista. Le uniche reazioni provenienti da Washington in seguito al massacro di mercoledì sono state ciniche dichiarazioni di “condanna”, espresse, secondo i media ufficiali, in termini “insolitamente duri”.

Lo stesso Kerry ha così definito “deplorevoli” le violenze al Cairo, nonché “contrarie alle aspirazioni degli egiziani alla pace, all’inclusione e ad una democrazia genuina”. Il presidente Obama, invece, inizialmente non ha ritenuto nemmeno necessario sospendere le vacanze nel lusso di Martha’s Vineyard per parlare della situazione in Egitto, preferendo continuare a giocare a golf con un suo facoltoso finanziatore. Solo giovedì l’inquilino della Casa Bianca ha affrontato l’argomento con la stampa, affermando che “il ciclo della violenza deve terminare”.

Le reazioni ufficiali erano state in precedenza affidate, oltre che al Dipartimento di Stato, ad un portavoce di secondo piano della Casa Bianca, John Earnest, il quale di fronte alle centinaia di morti aveva assurdamente invitato i militari egiziani e le forze di sicurezza “a mostrare moderazione e a rispettare i diritti universali dei propri cittadini”.

In maniera altrettanto patetica, la Casa Bianca ha poi fatto sapere di essere intenzionata a cancellare l’esercitazione militare “Bright Star” con le forze armate egiziane in programma a settembre e che si tiene regolarmente dall’inizio degli anni Ottanta. Secondo la versione ufficiale, simili misure “punitive” dovrebbero servire ad esercitare pressioni sui militari al Cairo per mettere fine ad una repressione con ogni probabilità messa ampiamente in preventivo da Washington in seguito alla decisione di sottrarre il proprio appoggio ai Fratelli Musulmani e di dare il via libera al colpo di stato del 3 luglio scorso per prevenire una possibile seconda rivoluzione popolare.

Un finto e tardivo rammarico per la situazione egiziana è stato prevedibilmente espresso anche dai governi europei. La responsabile della politica estera dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ad esempio “condannato fermamente” le violenze in Egitto e chiesto la fine al più preso dello stato di emergenza. Il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha anch’egli espresso la propria preoccupazione per la crisi nel paese nordafricano e il suo disappunto per il mancato raggiungimento di un compromesso tra le parti in lotta per evitare una resa dei conti.

Quest’ultimo aspetto è stato messo in risalto anche da una serie di resoconti giornalistici, in particolare della Reuters nella giornata di giovedì, nei quali si racconta come diplomatici europei e statunitensi avrebbero cercato fino all’ultimo di evitare una soluzione di forza contro le proteste degli islamisti, proponendo una via d’uscita condivisa.

In realtà, tramite una serie di visite al Cairo di inviati dei governi occidentali - a cominciare dalla Ashton - gli sforzi di Bruxelles e Washington per giungere ad un accordo prevedevano condizioni chiaramente inaccettabili per i Fratelli Musulmani, come l’accettazione sia del golpe ai danni del proprio presidente sia della “road map” dei militari per il ristabilimento dell’autorità civile.

Come si comprende chiaramente da una serie di dichiarazioni quasi sempre anonime di membri delle delegazioni diplomatiche inviate al Cairo, i governi occidentali erano ben consapevoli dell’impossibilità da parte dei Fratelli Musulmani ad acconsentire a quello che sarebbe stato un vero e proprio suicidio politico con i propri sostenitori già nelle piazze a chiedere il reinsediamento di Mursi.

Per questa ragione, gli appelli alla riconciliazione sono apparsi da subito vuoti e hanno a malapena nascosto la sostanziale volontà dell’Occidente di appoggiare il progetto contro-rivoluzionario dei vertici militari, considerati gli unici sicuri garanti in Egitto dei propri interessi e di quelli di Israele nel mondo arabo.

Una simile strategia è stata possibile solo grazie al ruolo giocato dalle forze di opposizione al governo di Mursi e dei Fratelli Musulmani. La galassia di partiti teoricamente di sinistra, liberali, nasseriti e le varie organizzazioni della società civile hanno infatti fornito la necessaria copertura “democratica” al colpo di stato militare, sfruttando il crescente malcontento popolare per le politiche reazionarie del gabinetto guidato dal primo presidente eletto nel dopo-Mubarak.

I leader di tutte queste formazioni erano significativamente apparsi a fianco del generale al-Sisi subito dopo la rimozione di Mursi e avevano appoggiato la repressione scatenata da subito contro gli islamisti. Il sangue dei morti di questa settimana è perciò anche sulle mani di coloro che in Egitto si sono presentati come difensori della rivoluzione del 2011 entrando a far parte di un governo-fantoccio manovrato dalle Forze Armate, a cominciare dal premio Nobel per la Pace, Mohamed ElBaradei.

Alcuni leader liberali come l’ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica stanno cercando in questi giorni di prendere le distanze dai generali nel tentativo di occultare le loro responsabilità nelle violenze in corso. ElBaradei, in particolare, ha rassegnato le proprie dimissioni da vice-presidente per gli Affari Internazionali, indirizzando una lettera al presidente ad interim, Adly Mansour.

La decisione di ElBaradei è stata concordata quasi certamente con Washington, come confermerebbe un colloquio telefonico dell’ormai ex vice-presidente egiziano con John Kerry subito dopo l’inizio della repressione delle forze armate di mercoledì. Per gli Stati Uniti, infatti, ElBaradei rappresenta una risorsa importante per i propri interessi in Egitto e la sua permanenza all’interno di un governo responsabile di ripetuti massacri lo avrebbe irrimediabilmente compromesso.

L’annientamento della resistenza dei Fratelli Musulmani, se anche avrà successo, non determinerà in ogni caso l’apertura di un nuovo capitolo sulla strada della democrazia per l’Egitto, bensì rappresenterà il primo passo dell’offensiva dei militari contro il reale obiettivo del loro progetto contro-rivoluzionario, cioè la grandissima maggioranza della popolazione che chiede un autentico cambiamento e la possibilità di svolgere finalmente un ruolo da protagonista nel futuro del proprio paese.

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