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di Mario Lombardo
Dopo sei mesi di scontri e proteste di piazza, l’opposizione anti-governativa e i tradizionali centri di poteri thailandesi hanno ottenuto uno dei loro obiettivi principali nella giornata di mercoledì grazie ad una sentenza tutta politica del più altro tribunale del paese del sud-est asiatico. Quello che è avvenuto a Bangkok è stato nulla di meno di un golpe giudiziario, portato a termine dalla Corte Costituzionale contro il primo ministro, Yingluck Shinawatra, rimossa dal suo incarico con l’accusa di “abuso di potere”.
Il procedimento contro il capo del governo era stato avviato da alcuni senatori dell’opposizione ed era legato al trasferimento ad altro incarico del numero uno del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Thawil Pliensri, nel settembre del 2011 subito dopo la vittoria elettorale del partito Pheu Thai. Secondo l’accusa, Thawil era stato messo da parte per fare spazio ad un membro di quest’ultimo partito, nonché parente di Yingluck, Priewpan Damapong, con modalità che, appunto, avrebbero indicato un “abuso di potere”.
La decisione rischia ora di aggravare ulteriormente la situazione già tesa in Thailandia, soprattutto in vista delle annunciate iniziative dei sostenitori del governo nelle strade della capitale, Bangkok. Inoltre, la Corte Costituzionale ha declinato la nomina di un nuovo premier, così che un esecutivo già notevolmente indebolito e con un incarico ad interim dallo scorso dicembre si troverà a dover gestire una difficile uscita dalla crisi e a provare ad evitare il completamento di un colpo di stato sempre più probabile.
I nove giudici della Corte Costituzionale thailandese hanno dunque votato all’unanimità per condannare Yingluck e rendere nullo il suo status di primo ministro. Contemporaneamente, anche una decina di ministri in carica ora e durante i fatti incriminati sono stati sollevati dai loro incarichi, tra cui quelli delle Finanze, degli Esteri e del Lavoro.
Secondo la Corte, la rimozione di Thawil dalla guida del Consiglio per la Sicurezza Nazionale rientrava in realtà tra i poteri del premier, ma la decisione sarebbe stata presa in maniera precipitosa e, soprattutto, allo scopo unico di liberare l’incarico per un suo parente. La natura quanto meno bizzarra del procedimento contro Yingluck e le ragioni puramente politiche dietro ad esso sono confermate poi dal fatto che lo stesso Thawil era stato reintegrato lo scorso marzo al suo posto da un tribunale amministrativo thailandese, mentre egli stesso aveva più volte affermato le sue simpatie per il movimento di opposizione anti-governativo.
Anche se la sentenza di mercoledì incoraggerà le forze anti-governative a dare la spallata decisiva a quello che viene definito come il “regime degli Shinawatra”, alla maggioranza del Pheu Thai è stata riconosciuta la possibilità di scegliere un nuovo premier provvisorio per traghettare il paese verso nuove elezioni. Poche ore dopo il verdetto, così, un vertice del partito ha nominato il ministro del Commercio, Niwatthamrong Boonsongpaisarn, alla carica di premier ad interim al posto di Yingluck.
L’opposizione politica dominata dal Partito Democratico e quella attiva nelle piazze, organizzata nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), intendono invece rimandare la data del voto, così da creare un esecutivo di transizione non eletto che operi una serie di “riforme” volte a sradicare l’influenza della famiglia di Yingluck e dell’ex premier in esilio Thaksin.
Proprio settimana scorsa, l’ex primo ministro Democratico, Abhisit Vejjajiva, aveva incontrato i vertici supremi delle forze armate thailandesi - finora ufficialmente neutrali anche se con chiare simpatie per l’opposizione - proponendo una sorta di “road map” per superare lo stallo, con contenuti virtualmente simili a quelli avanzati da mesi dai leader del PDRC.
La data del voto era stata in ogni caso stabilita recentemente per il 20 luglio prossimo tra il governo e la Commissione Elettorale. Ciò si è reso necessario dopo che sempre la Corte Costituzionale aveva invalidato l’elezione dello scorso febbraio vinta dal Pheu Thai, poiché non si era potuta tenere in un unico giorno in tutto il paese a causa proprio delle manifestazioni di protesta messe in atto dai gruppi di opposizione.
Dopo la sentenza di mercoledì, la premier Yingluck ha respinto le accuse di abuso di potere, mentre molto dura è stata la reazione del numero due del partito Pheu Thai, Phokin Palakul, il quale ha definito il parere della Corte Costituzionale come un tentativo di distruggere la sua formazione politica. Phokin ha poi invitato tutti i thailandesi “che amano la democrazia ad esprimere la loro opposizione alla sentenza in modi pacifici”, mentre ha affermato che il voto di luglio servirà a “risolvere la crisi politica in maniera democratica”.
L’appello alla mobilitazione del leader del partito Pheu Thai fa eco alle minacce dei vertici delle cosiddette “Camicie rosse” filo-governative di portare centinaia di migliaia di thailandesi nelle strade di Bangkok. Alcuni giorni fa, in previsione della decisione della Corte su Yingluck, il numero uno delle “Camicie rosse”, Jatuporn Prompan, aveva annunciato una manifestazione nella capitale per sabato prossimo, anche se già giovedì potrebbero esserci i primi cortei a sostegno della deposta premier.
I simpatizzanti del governo in carica vengono in larga misura dalle aree rurali della Thailandia tradizionalmente emarginati dalla borghesia della capitale e delle provincie meridionali del paese, da dove il Partito Democratico, la casa regnante, le Forze Armate e la burocrazia statale traggono il proprio sostegno.
Queste ultime forze si sentono da tempo minacciate dall’irruzione sulla scena politica thailandese del clan Shinawatra, a cominciare dal successo elettorale nel 2001 di Thaksin che lo portò per la prima volta alla guida del governo. Il magnate delle telecomunicazioni ha da allora coltivato una solida base elettorale tra i ceti più disagiati del suo paese, soprattutto attraverso limitate politiche di riforma sociale.
Avendo perso ogni elezione da due decenni a questa parte, il Partito Democratico, con l’appoggio dei centri di potere ad esso vicini, ha allora utilizzato i militari e i tribunali per cercare di liquidare dapprima lo stesso Thaksin e in seguito i governi e i partiti che lo hanno succeduto.
Un ruolo di primo piano in questo senso lo ha giocato proprio la Corte Costituzionale, le cui prerogative erano state ampliate dalla nuova Costituzione redatta nel 2007 da una commissione nominata dalla giunta militare dopo il colpo di stato dell’anno precedenti ai danni di Thaksin.
Sempre nel 2007, poi, per via giudiziaria venne sciolto il partito di Thaksin - Thai Rak Thai - con l’accusa di violazione della legge elettorale e più di 100 suoi membri furono banditi dall’attività politica per cinque anni. Nel 2008, la Corte Costituzionale avrebbe messo fuori legge anche il successore del Thai Rak Thai, il Partito del Potere Popolare, e rimosso contestualmente dalla carica di primo ministro Somchai Wongsawat, cognato di Thaksin. Poche settimane prima, la stessa sorte di quest’ultimo era toccata al suo predecessore, il defunto Samak Sundaravej, colpevole di non avere abbandonato la conduzione di un programma culinario in televisione dopo la nomina a primo ministro.
Queste iniziative giudiziarie si sono risolte infine nell’ascesa al potere senza passare attraverso il voto popolare del Partito Democratico sotto la guida di Abhisit, responsabile assieme al suo vice e all’attuale leader del PDRC, Suthep Thaugsuban, della durissima repressione avvenuta a Bangkok nel 2010 delle “Camicie Rosse”, tra i cui sostenitori si contarono un centinaio di morti.
Se, ad esempio, Suthep rimane oggi in libertà nonostante un mandato di arresto per avere ordinato il massacro, i tribunali thailandesi sono tornati a perseguire i vertici del nuovo governo a partire dall’autunno scorso, quando sono riesplose le proteste di piazza in seguito ad un fallito tentativo da parte del partito di maggioranza di modificare la Costituzione e di fare approvare un’amnistia che avrebbe permesso a Thaksin di rientare in patria nonostante una condanna per abuso di potere.
Oltre al procedimento che ha portato mercoledì alla destituzione di Yingluck, la ormai ex premier e vari parlamentari del suo partito erano finiti al centro di altri procedimenti motivati politicamente, usati come strumento per operare un cambio di governo.
Yingluck è accusata anche di avere gestito in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato, mentre decine di parlamentari del Pheu Thai erano stati indagati sostanzialmente per avere fatto il loro dovere, presentando cioè la già citata proposta di modifica costituzionale per rendere interamente elettivo il Senato thailandese.
La situazione nel paese dell’Asia sud-orientale rischia dunque di precipitare nei prossimi giorni, oltretutto con gli indicatori economici continuamente ritoccati verso il basso a causa del persistere delle tensioni interne.
Nelle ultime settimane erano perciò aumentate le voci preoccupate per lo stallo a Bangkok, con gli ambienti politici e finanziari internazionali sempre più orientati a tollerare - almeno tacitamente - un colpo di mano per togliere di mezzo il governo di Yingluck e favorire uno sblocco della situazione che, contestualmente, potrebbe portare alla fine definitiva delle politiche populiste favorite dal Pheu Thai e incanalare anche la Thailandia sulla strada dell’austerity.
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di Michele Paris
Le possibilità di un’attesa testimonianza di Edward Snowden di fronte al Parlamento tedesco sono con ogni probabilità svanite nei giorni scorsi in seguito all’intervento del governo di Berlino per mettere il veto sull’apparizione in qualsiasi forma dell’ex contractor della NSA nell’ambito dell’inchiesta in corso in Germania sulle operazioni illegali di intercettazione telefonica dell’agenzia spionistica americana.
Pressoché in concomitanza con la visita della cancelliera Merkel a Washington, il gabinetto formato da CDU/CSU e SPD ha indirizzato una comunicazione di trenta pagine al Bundestag, nella quale, con toni tipici di un regime dittatoriale, viene affermata l’inopportunità della testimonianza di Snowden per non compromettere “la sicurezza dello Stato”.
Il documento del governo tedesco è stato reso noto dal quotidiano Süddeutsche Zeitung e valuta un eventuale invito rivolto a Snowden ad apparire davanti alla speciale commissione d’inchiesta parlamentare sui crimini della NSA come un atto contrario agli “interessi politici della Repubblica Federale di Germania”. Ciò, infatti, rischierebbe di danneggiare in maniera permanente i rapporti con gli Stati Uniti, mettendo a repentaglio anche la collaborazione tra i servizi segreti dei due paesi alleati.
Vista la precaria situazione legale di Snowden a causa della vera e propria campagna persecutoria del governo USA cui è sottoposto, inoltre, la sua presenza in Germania avrebbe dovuto essere garantita dalla concessione dell’asilo politico. Già lo scorso anno, però, il governo di Berlino aveva respinto la domanda dei legali di Snowden, con la scusa che quest’ultimo non aveva fatto richiesta di asilo di persona sul suolo tedesco.
Un invito da parte del Parlamento tedesco avrebbe ora potuto soddisfare questo requisito, così che il gabinetto Merkel ha deciso di evitare qualsiasi complicazione con Washington, sostenendo alla fine che, per la prosecuzione dell’inchiesta sulla NSA, sarà sufficiente una dichiarazione scritta di Snowden.
La presa di posizione del governo, come sostiene il Süddeutsche Zeitung, determinerà poi anche lo stop definitivo di un procedimento criminale ai danni della NSA che la giustizia tedesca - teoricamente indipendente - stava valutando fin dall’inizio dell’anno, in particolare dopo le rivelazioni relative al monitoraggio da parte americana del telefono personale di Angela Merkel.
Gli uffici della procura federale deputati all’indagine avrebbero già accettato la decisione del governo e sarebbero persuasi ad abbandonare ogni sforzo anche a causa della più che certa mancanza di collaborazione legale degli Stati Uniti.
Per dare ancora maggiore sostanza alla propria imposizione, il governo è andato anche oltre, minacciando di fatto i membri del Parlamento. Secondo una rivelazione del settimanale Der Spiegel, la posizione dell’Esecutivo nei confronti di Snowden e della commissione di inchiesta sulla NSA si sarebbe basata su di un parere dello studio legale di Washington “Rubin, Winston, Diercks & Cooke”, il quale afferma che chiunque dovesse entrare in contatto con l’ex analista americano sarebbe a rischio di incriminazione.
Uno degli avvocati che hanno redatto il documento in questione sostiene che gli Stati Uniti avrebbero la giurisdizione per incriminare coloro che dovessero ricevere informazioni classificate da Snowden, al di là della loro nazionalità e del luogo in cui tali incontri dovessero avvenire. I politici tedeschi, in questo caso, non godrebbero degli stessi diritti che hanno in Germania nel caso mettessero piede negli USA.
Oltre a ribadire il chiaro tentativo di intimidire chiunque intenda dare spazio alle rivelazioni di Snowden, come ha spiegato il legale americano di quest’ultimo, una simile interpretazione risulta anche giuridicamente assurda, visto che l’ex contractor della NSA non si è mai offerto di rivelare nuove operazioni di sorveglianza nel caso fosse stato sentito come testimone dal Parlamento tedesco.
La più recente mossa del governo Merkel, in ogni caso, è la logica conseguenza dell’atteggiamento tenuto in seguito alle rivelazioni di Snowden sulle attività di sorveglianza elettronica della NSA ai danni dei cittadini tedeschi. Le reazioni dell’establishment politico avevano iniziato infatti ad assumere toni relativamente duri solo quando erano emersi i particolari riguardanti le intercettazioni da parte americana delle comunicazioni private dei vertici dello stato tedesco.
La Merkel e il suo governo avevano allora espresso cautamente il loro malcontento nei confronti di Washington, dando sfogo a timori legati esclusivamente ai possibili vantaggi in ambito strategico ed economico che gli USA avrebbero potuto avere in questo modo sulla Germania.
Gli scrupoli per i diritti democratici della popolazione tedesca non sono invece mai stati seriamente considerati, se non in relazione al sentimento anti-americano diffusosi nel paese, come conferma appunto il recente veto posto alla testimonianza di Snowden al Bundestag. Tali diritti, cioè, sono stati totalmente subordinati agli “interessi dello stato”, vale a dire alla conservazione dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti, i cui metodi illegali di spionaggio la Germania ha finito per accettare e, in molti casi, appoggiare e condividere.
Anche le stesse trattative volute da Berlino per normalizzare i rapporti tra le due intelligence tramite un accordo bilaterale sulle attività di spionaggio - sul modello di quelli in vigore tra gli USA e i loro più stretti alleati Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda - restano in alto mare, come è apparso chiaro dall’incontro tra Obama e la Markel nei giorni scorsi.
L’atteggiamento del governo rappresenta comunque un motivo di imbarazzo per molti politici del partito della Merkel, così come per i socialdemocratici, poiché entrambe le formazioni ora al governo nella “Grosse Koalition” nel mese di marzo avevano promesso di fare luce sulle pratiche della NSA in Germania, principalmente a seguito dell’indignazione popolare sollevata dalle rivelazioni di Snowden.
Molti parlamentari si sono mostrati perciò irritati, tanto che uno dei membri della commissione di inchiesta per il partito dei Verdi ha addirittura ipotizzato un ricorso sulla questione alla Corte Costituzionale Federale, il più alto tribunale tedesco.
Il governo, però, non sembra intenzionato a fare alcuna marcia indietro, visto che, oltre a impedire a Snowden di volare in Germania, ha già annunciato che la commissione avrà un accesso solo parziale ai documenti classificati relativi alle attività della NSA in proprio possesso.
D’altra parte, una reale indagine a tutto campo non farebbe altro che mettere in luce le responsabilità stesse delle strutture dello stato tedesco nelle operazioni di sorveglianza illegali della NSA e del GCHQ britannico (Government Communications Headquarters).
Il timore di mettere a rischio questa collaborazione è ugualmente uno dei motivi principali delle decisioni del gabinetto Merkel in merito a Snowden, dal momento che l’agenzia di intelligence “esterna” (BND, Bundesnachrichtendienst), quella domestica (BfV, Bundesamt für Verfassungsschutz) e quella militare (MAD, Amt für den militärischen Abschirmdienst) scambiano quotidianamente montagne di dati con le loro controparti americane, aggirando le limitazioni previste in entrambi i paesi sulla raccolta di informazioni relative ai propri connazionali.
L’altra ragione della docilità tedesca verso gli USA riguarda infine l’Ucraina. Berlino, in sostanza, non intende creare frizioni con Washington in una delicata fase segnata dalle manovre congiunte anti-russe dei due alleati nel paese dell’Europa orientale.
La Germania di Angela Merkel, assieme agli Stati Uniti, è stata infatti in prima linea nel promuovere il regime golpista di Kiev infestato da forze neo-fasciste violente, minacciando conseguenze contro il Cremlino per fantomatiche violazioni del diritto internazionale proprio mentre ha finito per condonare quelle ben più gravi ed evidenti contro i propri cittadini di cui continua a macchiarsi l’alleato americano.
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di Michele Paris
A quasi sei anni dall’esplosione della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione, il panorama economico e sociale negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente si presenta ben diverso da quello che caratterizzava il periodo antecedente il tracollo avvenuto su scala planetaria. In particolare, i proclami relativi ad una presunta ripresa economica in corso e al ristabilimento dei livelli di occupazione precedenti la crisi sono contraddetti da una realtà segnata da una profonda ristrutturazione dei rapporti di classe con il conseguente irreversibile deterioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori.
A mettere l’accento sulla vera natura della ripresa economica è stato qualche giorno fa uno studio pubblicato dall’organizzazione americana National Employment Law Project (NELP). I dati si riferiscono agli Stati Uniti del “dopo crisi”, ma il dilagare di precarietà e posti di lavoro drammaticamente sottopagati che viene descritto può essere facilmente riconosciuto dai lavoratori di qualsiasi paese europeo e non solo.
Il cuore della ricerca indica come, durante questi anni teoricamente segnati da un ritorno a livelli accettabili dell’economica a stelle e strisce, abbia avuto luogo una perdita estremamente consistente di impieghi caratterizzati da stipendi considerati “medio-alti”, sostituiti da un numero sproporzionatamente elevato di posti di lavoro sottopagati.
Nel sottolineare come continui a persistere uno squlibrio tra “le industrie che hanno fatto segnare una perdita di posti di lavoro e quelle che hanno registrato la maggiore crescita dall’inizio della ripresa economica”, i ricercatori del NELP rivelano che i settori dell’economia USA che offrono impieghi pagati non più di 13 dollari l’ora hanno perso il 22% dei posti di lavoro complessivi durante la recessione ma ne hanno creati ben il 44% di quelli totali negli ultimi quattro anni.
Poco meno della metà dei posti di lavoro prodotti dalla fine teorica della crisi, cioè, pagano stipendi da fame, mentre i posti di questo genere persi durante la recessione erano stati appena un quinto, o poco più, del totale.
I posti di lavoro svaniti nei settori che rientrano nella fascia a medio (da 13 a 20 dollari l’ora) e ad “alto” reddito (da 20 a 32 dollari l’ora) sono stati invece molti di più: rispettivamente il 37% e il 41% del totale. In queste due fasce, tuttavia, sono stati creati finora appena il 26% e il 30% degli impieghi complessivi dopo l’uscita ufficiale dalla crisi.
A tutt’oggi, così, negli Stati Uniti ci sono 1,85 milioni di posti di lavoro in più nei settori sottopagati rispetto al periodo pre-crisi, mentre quelli che garantiscono stipendi medio-alti sono quasi 2 milioni in meno.
Le paghe più misere sono genericamente elargite agli impiegati di settori come quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, i quali garantiscono stipendi medi di nemmeno 10 dollari l’ora, e sono responsabili per il 39% dell’aumento dei posti di lavoro in ambito privato negli ultimi quattro anni.
Particolarmente colpiti sono invece i settori di solito associati con lavori ben pagati, come quelli dell’edilizia o dell’industria manifatturiera, dove il numero di posti creati non ha nemmeno lontanamente eguagliato quelli persi dall’inizio della crisi nel 2008. Nel primo caso, i posti in meno sono il 20% e nel secondo almeno l’11%.
Questo fenomeno appena descritto è del tutto nuovo per i periodi successivi alle crisi cicliche del sistema capitalistico, tanto che, ad esempio, durante la ripresa dopo la recessione del 2001 i settori ad “alto” reddito furono in grado di creare il 40% dei nuovi posti di lavoro complessivi.
Se l’analisi dell’istituto di ricerca con sede a New York si concentra sul settore privato, essa evidenzia anche come la situazione attuale sia aggravata dal fatto che l’amministrazione pubblica negli USA durante l’era Obama abbia distrutto in questi anni 627 mila posti di lavoro che garantivano un reddito dignitoso, di cui addirittura il 44% nel solo ambito scolastico.
Il quadro complessivo che esce dallo studio del NELP conferma dunque la vera natura della ripresa economica di questi anni - taciuta da politici, imprenditori e media “mainstream” - tradottasi in un ridimensionamento forzato dei livelli di vita per decine di milioni di lavoratori sufficientemente fortunati da trovare un qualche impiego dopo essere stati licenziati.
Al contrario, la ripresa effettiva ha riguardato quasi esclusivamente i profitti delle grandi aziende e le grandi ricchezze finanziarie, direttamente dipendenti dal processo deliberato di impoverimento di massa e dallo stravolgimento dei rapporti di classe appena descritto.
In concreto, tutto ciò si è tradotto in una riduzione di oltre l’8% del reddito medio degli americani tra il 2007 e il 2012, proprio mentre le ricchezze dei miliardari negli Stati Uniti sono più che raddoppiate, salendo ad un totale di 1.200 miliardi di dollari.
Che l’assalto alle condizioni di vita dei lavoratori per la difesa e la promozione degli interessi di una ristretta oligarchia economico-finanziaria non sia il risultato di forze impersonali bensì di politiche deliberate è confermato in primo luogo dal ruolo avuto dall’amministrazione Obama nella compressione delle retribuzioni.
Subito dopo l’esplosione della crisi, infatti, il neo-presidente democratico aveva forzato la bancarotta e la ristrutturazione di General Motors e Chrysler, imponendo tra l’altro il sostanziale dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti in aziende, come quelle automobilistiche, che tradizionalmente fissano i parametri retributivi dell’industria manifatturiera americana.
Anche in questo settore, così, gli stipendi si sono allineati a quelli peggio pagati, perfettamente in linea con gli sforzi di Obama di rivitalizzare e rendere più competitiva l’industria degli Stati Uniti, attraverso la riduzione del gap tra le retribuzioni dei lavoratori indigeni e quelli dei paesi asiatici, latino-americani o dell’Europa orientale.
Le conseguenze di tali sviluppi sono state, da un lato, disoccupazione cronica, stagnazione o taglio degli stipendi, esplosione di lavori temporanei e part-time, smantellamento di diritti e benefit vari conquistati nei decenni scorsi dai lavoratori, con conseguente incremento dei livelli di povertà, mentre dall’altro sono decollati i profitti delle corporation, saliti ad una quota dell’economia pari oggi all’11% contro appena il 3% di nemmeno trent’anni fa.
Lo studio pubblicato dal NELP, in ogni caso, si è inserito nel dibattito in corso negli Stati Uniti attorno all’opportunità di innalzare il livello dello stipendio minimo, vale a dire uno dei punti centrali della campagna elettorale di Obama e del Partito Democratico in vista del voto di novembre per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington.
La “battaglia” del presidente e dei suoi colleghi di partito al Campidoglio - impegnati in questi anni a perseguire esattamente l’obiettivo contrario - ha patito però un’umiliante sconfitta proprio settimana scorsa, quando una proposta di legge per alzare la paga minima oraria a livello federale è stata bloccata sul nascere al Senato dall’ostruzionismo repubblicano.
Osteggiata da ampie sezioni dell’imprenditoria americana, questa iniziativa non aveva comunque nessuna possibilità di andare in porto, dal momento che, se anche avesse superato l’ostacolo del Senato, la Camera a maggioranza repubblicana non l’avrebbe con ogni probabilità nemmeno discussa in aula.
La proposta partorita dai democratici, oltretutto, avrebbe portato lo stipendio minimo federale da 7,25 a 10,10 dollari l’ora, ad un livello cioè inferiore - in termini reali - a quello di mezzo secolo fa. Secondo un recente studio, piuttosto, tenendo conto dell’inflazione e dell’aumento della produttività, la retribuzione minima negli Stati Uniti dovrebbe oggi essere fissata ad un livello non lontanto dai 22 dollari l’ora.
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di Fabrizio Casari
Ci hanno preso gusto i golpisti di Kiev. Difensori dell’autodeterminazione dal governo, hanno cominciato una guerra contro chi vuole l’autodeterminazione da loro. Che poi quello rovesciato a Kiev fosse stato legittimamente eletto e quello ora al potere sia abusivo, conta poco. L’offensiva militare contro i separatisti russofoni, che hanno il terribile difetto di rappresentare la storia passata e presente dell’Ucraina, è iniziata ormai da giorni e, davanti alla resistenza di chi non vuole strappare radici e inginocchiarsi all’ultradestra nazistoide governante a Kiev, hanno scelto di usare la mano pesante.
Con i carri armati cercano di riprendere con la forza il controllo di Odessa. Non hanno problemi a scatenare le bande naziste di "Settore destro" che, come da tradizione, fanno il lavoro sporco. Nello specifico quello di dar fuoco alla sede del sindacato dove si erano rifugiate persone in fuga dall’offensiva. Quaranta persone bruciate vive nel compiaciuto silenzio delle cancellerie occidentali che, per molto meno, avevano scatenato una campagna di finta indignazione e contro il governo eletto di Kiev, poi spodestato.
Umoristica la richiesta di Bruxelles di una “commissione indipendente” sui fatti: non solo non c’è nessuna istituzione indipendente in Ucraina, ma per vedere cosa pensano i golpisti d’ispirazione nazista di presunte indipendenze, basta andare proprio ad Odessa. Quella dell’Europa, dunque, più che una presa di posizione sembra l’esibizione di un certificato di esistenza in vita.
Né i quaranta morti provocati da tanto coraggio smuovono i media occidentali, italiani e statunitensi in testa, che inneggiano alla guerra; vuoi per la loro indefessa militanza occidentale, vuoi perché la guerra fa vendere copie oltre che armi, vuoi perché veder sparare offre il vantaggio di poter scriverne senza l’incombenza di dover conoscere la storia. Eppure, la ricostruzione di Kiev di quanto avvenuto è talmente ridicola che, da sola, ha obbligato l’UE a far finta di chiedere un’indagine indipendente. E se non lo fanno? Gli tolgono una "A" dal rating di golpisti?
Hanno fretta i golpisti ucraini. Anche perché il loro vero comandante in capo, John Brennan, il direttore della CIA che da Kiev dirige le operazioni, ha imposto l’obbligo di avere ragione della rivolta entro l’11 Maggio, data nella quale i rivoltosi hanno indetto un referendum sul modello di quello che ha vinto in Crimea. Peraltro, il 25 Maggio sono state indette le elezioni in Ucraina e, per quella data, la piazza dev’essere sgombra dalle macerie della storia e dai fastidiosi ingombri della democrazia rappresentativa; votare nel pieno di una guerra toglierebbe charme alle ipocrisie di Obama in mondovisione, e poi i missili Nato hanno bisogno di spazio, non di discussioni sulla legittimità e opportunità della loro presenza.
Gli accordi di Ginevra sono ormai morti e sepolti sotto la montagna di bugie che l’Occidente aveva rifilato a Mosca, sulla falsariga di quelle già raccontategli dopo la caduta del muro di Berlino. Il riferimento è alle generiche quanto false rassicurazioni fornite da Washington e Bruxelles circa l’utilizzo dei territori dell’ex Patto di Varsavia per allargare ad Est l’Alleanza Atlantica e minacciare la Russia. “Nessuno vuole puntarli sulla Russia”, dicevano le diverse amministrazioni statunitensi; eppure l’Est Europa è diventato quasi una sola postazione missilistica Nato con testate puntate su tutta la Federazione Russa e sull’Iran.
La questione non è non è se i golpisti ucraini avranno o no ragione sul piano militare dei rivoltosi: la disparità delle forze in campo, sotto tutti i punti di vista, è enorme. Quindi il dubbio non è su quanto sta avvenendo sul terreno, ma su quanto potrà avvenire. Si tratta infatti di capire come reagirà il Cremlino. Fino a quando Mosca deciderà di vedersi rosicchiare interi blocchi storicamente appartenenti alla sua sfera d’influenza, per consentire agli USA di portare una minaccia militare direttamente ai propri confini? Fino a quando permetterà di trasformare i suoi confini in basi Nato, alterando così non poco l’equilibrio militare e i tempi e i luoghi della reazione rapida ad un eventuale attacco americano alla Russia?
Sarebbe stupido pensare che una eventualità del genere sia fantascienza: quanto avvenuto dall’epoca di Reagan fino a quella di Bush indica come il progetto di estensione ad Est della Nato sia il principale obiettivo per garantire il dominio militare unipolare assoluto da parte di Washington sull’intero pianeta. E se non si vuole sostenere la parte ideologica dell’Occidente democratico contro l’orso russo, si deve riconoscere che una parte sostanziale del riarmo russo ha a che vedere proprio con questa situazione.
Mosca si trova infatti davanti ad un bivio pericolosissimo. Diversamente da quanto era in gioco fino al 1989 - una guerra totale tra due sistemi politici nemici - oggi la questione non è quanto e come garantire la reciproca difesa dei due sistemi, magari con una politica militare centrata sulla deterrenza. Oggi lo scontro tra i due sistemi non esiste più, entrambi appartengono allo stesso ceppo.
Non c’è più, quindi, antagonismo tra i sistemi, semmai concorrenzialità. Ed è questa che deve allarmare maggiormente Mosca. L’interdipendenza con l’Occidente rende Mosca più attaccabile di quando viveva nel suo isolamento. Ma può permettersi di subire le scorribande Nato ai suoi confini, di veder trasformare la Federazione Russa in una gabbia circondata da armi e governi ostili?
Se quindi da un lato, ovviamente, Mosca non può desiderare ( e nemmeno permettersi) una guerra ed ha perfettamente chiaro che non può ripetersi in Ucraina quanto avvenuto in Georgia, dall’altro non può nemmeno rimanere a guardare lo sfondamento del cuscinetto territoriale che doveva essere rappresentato proprio dall’Ucraina, che negli accordi serviva proprio a dividere la Federazione Russa dalla periferia dell’impero a guida Nato.
E, per quanto enorme, non è l’unica preoccupazione che agita Mosca. Il rischio oggettivo rappresentato dall’avere la Nato ai suoi confini si unirebbe a quello del possibile nuovo innesco dell’islamismo caucasico, che potrebbe riesplodere proprio in presenza di una limitata capacità di risposta militare russa, determinata dal doversi muovere vicino a polveriere di diversa natura. E’ per questo che il complesso militar industriale che guida il presidente Obama come un puparo con il burattino, ha deciso di sfidare fino in fondo Mosca, ritenendo, nella peggiore delle ipotesi, di dover sostenere un confronto militare tattico e limitato ai Balcani.
I militari americani confidano che Mosca indietreggerà davanti alla prospettiva di una guerra ai suoi confini, anche per non rischiare di veder rinfocolarsi le tensioni nei territori asiatici e caucasici, che finirebbero per porre la Russia al centro di focolai di guerra che diverrebbero incontrollabili.
Negli USA sono diversi i columnist americani che soffiano sul fuoco, ma arrivano anche forti critiche da personaggi che hanno fatto la storia della politica estera statunitense, come Kissinger e Brzezinski, i quali ritengono un gravissimo errore sfidare apertamente Mosca mettendola con le spalle al muro. Tutto da dimostrare, infatti, che Mosca chini il capo. Proprio per il sottofondo culturale del nazionalismo russo, quello della debolezza militare è un lusso insopportabile. Davvero installare missili in Ucraina può valere un conflitto? Davvero qualche migliaio di tonnellate di grano e mais e l’umiliazione del concorrente Putin valgono il rischio di una guerra nel cuore dell’Europa?
Europa che, sulla scorta di quanto avviene per le sue politiche economiche, delega alla Germania il da farsi. E non solo non ritiene di dover prendere in considerazione l’idea di battersi per la pace, di porsi come forza d’intermediazione per evitare una guerra nel suo continente, ma nemmeno di assumere una posizione frutto di una discussione sui suoi interessi geostrategici, che risultano evidentemente diversi e divaricanti da quelli di Washington. Tanto per fare un esempio, ci sarebbe il gas russo che Mosca potrebbe decidere di non fornirci più: dovrebbe essere sostituito da quello statunitense.
Ma questa, oltre ad essere una soluzione solo futuribile, comporterebbe un aggravio pesante di costi per gli europei. Washington certamente guadagnerebbe, l’Europa certamente ci rimetterebbe. Ma del resto, perché l’impero dovrebbe favorire le colonie d’oltremare? Guerre nostre, affari loro.
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di Michele Paris
Una nuova esecuzione capitale risoltasi nel più completo disastro in un penitenziario dell’Oklahoma ha mostrato ancora una volta la sempre più evidente incapacità da parte delle autorità degli Stati Uniti di garantire il rispetto della legge e un minimo di umanità nell’applicazione della più barbara delle punizioni imposte ad un condannato per i suoi crimini.
Nel penitenziario di McAlester, contea di Pittsburg, martedì erano previste ben due condanne a morte, programmate a distanza di due ore l’una dall’altra. Alle 18 sarebbe dovuta scoccare l’ora del detenuto Clayton Lockett, 38enne condannato per l’omicidio di una giovane donna nel corso di una rapina nel 1999. Alle 20, poi, in programma c’era l’esecuzione di Charles Warner, finito nel braccio della morte per avere violentato e ucciso nel 1997 la figlia di 11 mesi dell’allora fidanzata.
La procedura ai danni di Lockett era iniziata regolarmente con una prima iniezione di un sedativo denominato midazolam allo scopo di rendere incosciente il condannato. Successivamente, avrebbero dovuto essere somministrate altre due sostanze, un bloccante muscolare (vecuronio) e del cloruro di potassio per indurre l’arresto cardiaco.
Dopo una decina di minuti dall’avvio delle procedure, Lockett è stato dichiarato in stato di incoscienza dal personale addetto all’esecuzione, ma ben presto ha iniziato ad agitarsi violentemente per provare a liberarsi dal lettino a cui era assicurato, respirando rumorosamente e cercando di alzare la testa per parlare.
La stanza è stata allora oscurata in modo da nascondere quanto stava accadendo ai testimoni presenti, mentre il direttore del sistema penitenziario dell’Oklahoma, Robert Patton, è stato raggiunto da una telefonata, in seguito alla quale ha abbandonato le operazioni assieme ad altri tre addetti del carcere.
Più tardi, lo stesso Patton ha affermato in una conferenza stampa che la prima sostanza non ha avuto l’effetto desiderato, poiché le vene di Lockett sarebbero “esplose”. L’esecuzione è stata interrotta ma, 43 minuti dopo la prima iniezione, il condannato è deceduto a causa di un forte attacco cardiaco. Nonostante le ricostruzioni dei testimoni, le autorità dello stato hanno sostenuto che Lockett è rimasto costantemente in stato di incoscienza fino alla morte.
Patton ha notificato l’accaduto al procuratore generale dello stato e alla governatrice dell’Oklahoma, Mary Fallin, la quale ha disposto una sospensione di 14 giorni per la seconda esecuzione in programma martedì, in attesa di un’indagine sulla procedura prevista dall’Oklahoma per la messa a morte dei condannati.
Ciò che è accaduto nel carcere di McAlester non è in ogni caso un evento senza precedenti negli Stati Uniti ed è inoltre il risultato di una battaglia legale dai contorni talvolta surreali attorno al protocollo finora mai testato e che ha coinvolto i legali dei due condannati, i politici e i massimi tribunali dell’Oklahoma.
Il ricorso ad un nuovo protocollo - in Oklahoma come in altri stati - si era reso necessario in seguito all’impossibilità di reperire le tre sostanze tradizionalmente usate per le iniezioni letali. I fornitori quasi tutti europei di queste ultime, infatti, hanno da qualche tempo bloccato le esportazioni dei medicinali in questione verso gli Stati Uniti proprio a causa del loro utilizzo nelle esecuzioni capitali.
Con l’assottogliamento delle scorte, molti stati hanno iniziato così a studiare soluzioni alternative per non interrompere la macchina della morte, ricorrendo ad esempio a nuovi cocktail o a singole sostanze, spesso di molto dubbia efficacia e quasi sempre reperiti presso fornitori segreti o non certificati, facendo aumentare seriamente il rischio di infliggere sofferenze equiparabili a torture ai condannati a morte.
Il protocollo appena fallito in Oklahoma era già stato impiegato recentemente in Florida, dove però la quantità del sedativo midazolam era stata cinque volte superiore. Secondo gli esperti, se questa sostanza non viene somministrata nella giusta dose, le due successive possono provocare dolori atroci e sensazione di soffocamento con il condannato ancora cosciente, come è accaduto appunto martedì a Clayton Lockett.
Nello stato dell’Oklahoma, peraltro, lo scorso mese di gennaio un’altra esecuzione era finita tra le polemiche, quella del condannato Michael Lee Wilson, il quale dopo la somministrazione del primo sedativo - in questo caso pentobarbital, solitamente utilizzato nell’eutanasia animale - aveva escalamato di sentire il proprio corpo “bruciare”.
Dopo i problemi con il pentobarbital, l’Oklahoma aveva valutato la possibilità di un mix di midazolam e idromorfone, un potente analgesico, criticato da molti medici perché avrebbe potuto risultare sostanzialmente nel soffocamento dei condannati. Infatti, ciò è quanto era accaduto a Dennis McGuire, giustiziato con questo metodo il 16 gennaio in Ohio dopo quasi mezz’ora di orrore e sofferenze.
Dopo vari tentativi, la decisione di adottare il protocollo impiegato nell’esecuzione di Clayton Lockett si è risolta in una nuova violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che proibisce punzioni “crudeli e inusuali”.
Per evitare ciò, i legali dello stesso Lockett e di Charles Warner nel mese di febbraio avevano avviato un’azione legale contro lo stato dell’Oklahoma dopo che le autorità avevano annunciato ufficialmente il nuovo cocktail letale.
La lunga diatriba legale aveva spinto il 21 aprile scorso la Corte Suprema dello stato a bloccare le due esecuzioni, così da poter valutare un altro aspetto cruciale, vale a dire la costituzionalità di una legge approvata dal parlamento locale dell’Oklahoma nel 2011 per tenere segreta l’identità dei produttori delle sostanze usate nella procedura con iniezione letale.
La governatrice repubblicana dello stato, però, aveva subito dichiarato che i giudici della Corte Suprema statale erano andati al di là delle proprie competenze nel fermare le esecuzioni. Un deputato dell’assemblea legislativa dell’Oklahoma aveva addirittura presentato richiesta di impeachment contro i cinque giudici che avevano votato a favore della sospensione. Il 23 aprile, infine, la stessa Corte Suprema aveva finito per cedere con un clamoroso voltafaccia, deliberando che i due condannati non avevano il diritto di essere informati circa i fornitori delle sostanze che sarebbero state impiegate per la loro esecuzione.
Svariati altri stati americani stanno facendo i conti con cause legali per le stesse ragioni, con i difensori dei condannati che cercano di evitare la ripetizione di quanto è già accaduto quest’anno in Ohio e in Oklahoma, dove pericolosi cocktail di sostanze di dubbia provenienza sono stati testati su detenuti usati come cavie.
In Texas, ad esempio, un procedimento è attualmente in corso davanti alla Corte Suprema dello stato per forzare le autorità a rivelare i fornitori dei medicinali selezionati per l’iniezione letale. Una legge sulla segretezza è stata approvata nel 2013 anche dalla Georgia, dove ugualmente il massimo tribuale dello stato sarà chiamato a breve ad espimersi sull’argomento.
Il ricorso ai tribunali, in ogni caso, non garantisce in nessun modo il rispetto di diritti costituzionali basilari, come conferma non solo il caso dell’Oklahoma ma anche i recentissimi rifiuti da parte delle Corti Supreme di Missouri e Louisiana anche solo di considerare le cause presentate alla loro attenzione per togliere il segreto sugli approvvigionamenti delle sostanze letali.