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di Michele Paris
L’inizio di questa settimana ha fatto segnare un significativo aumento dell’impegno degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato Islamico (IS) in territorio siriano e iracheno, assieme a un’apparente svolta da parte della Turchia nel rispondere alle sollecitazioni occidentali per intervenire nella crisi in atto oltre il proprio confine meridionale.
Già domenica scorsa, Washington ha recapitato ai curdi siriani che si battono contro l’ISIS nella città di Kobane una serie di carichi con armi, munizioni e materiale medico. La decisione era stata comunicata il giorno prima dallo stesso presidente Obama al suo omologo turco Erdogan, nonostante quest’ultimo si fosse mostrato ripetutamente contrario a un’iniziativa simile.
Secondo l’ex premier, infatti, il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo in Siria e il suo braccio armato - Unità di Protezione Popolare (YPG) - sarebbero organizzazioni terroristiche né più né meno come il Partito dei Lavoratori del Kurdistan turco (PKK), ritenuto tale anche da USA e UE.
L’accettazione da parte del governo di Ankara dei rifornimenti americani ai curdi siriani potrebbe dunque essere il risultato di un accordo con gli Stati Uniti. I contorni di esso, tuttavia, non sono chiari, anche se la Turchia chiede da tempo che l’intervento militare in corso in Siria venga utilizzato da subito per rimuovere il regime di Assad.
La concentrazione delle ostilità in Siria tra l’ISIS e i suoi oppositori nella città di Kobane a maggioranza curda sta portando in ogni caso alla luce tutte le divisioni esistenti tra la Turchia e gli Stati Uniti su un conflitto per il quale i due governi sono in larga misura responsabili.
Erdogan continua a escludere l’ipotesi sia di fornire aiuti materiali al PYD e all’YPG in Siria sia di consentire ai militanti del PKK in territorio turco di oltrepassare il confine per unirsi alla lotta contro l’ISIS condotta dagli appartenenti alla loro etnia in Siria.
Una delle tante contraddizioni in cui rischia di affogare il governo turco riguarda d’altra parte i rapporti con le forze curde. Mentre ha stabilito ottimi rapporti con i curdi della regione autonoma dell’Iraq, Ankara continua a considerare una grave minaccia alla propria stabilità un eventuale successo contro l’ISIS dei curdi siriani. Questi ultimi hanno infatti legami molto stretti con il PKK, protagonista da tre decenni di una lotta spesso sanguinosa con le autorità centrali turche.
Per questa ragione, malgrado le richieste degli USA di agire per arginare l’avanzata dell’ISIS su Kobane nel Kurdistan siriano, il governo Erdogan ha visto finora con una certa soddisfazione le imprese dello Stato Islamico oltre i propri confini. La settimana scorsa, forze aeree turche avevano addirittura bombardato postazioni del PKK nei pressi del confine con l’Iraq, mettendo a serio rischio la tregua siglata dalle due parti nel marzo del 2013.
Settimane di pressioni e varie visite ad Ankara di delegazioni americane hanno però alla fine convinto la Turchia a consentire almeno il transito dei peshmerga curdi dell’Iraq sul territorio turco per raggiungere Kobane e partecipare alla guerra contro l’ISIS.La concessione, tuttavia, appare come un tentativo da parte turca di togliersi di dosso le critiche per non avere fatto nulla di fronte all’assedio dei curdi siriani da parte dei jihadisti pur mantenendo sostanzialmente invariata la propria posizione sulla crisi in atto.
Anche i media ufficiali in Occidente hanno sottolineato come la decisione di Erdogan sia poco più di una mossa propagandistica, visto che il possibile afflusso dei peshmerga in Siria servirebbe anche a controbilanciare l’influenza delle formazioni legate al PKK. Inoltre, non sembra essere stata presa ancora nessuna iniziativa da parte del governo autonomo curdo in Iraq sull’invio dei peshmerga in Siria, tanto più che questi ultimi sono a loro volta duramente impegnati contro l’ISIS sul proprio territorio.
Se il governo turco è costretto quindi a una serie di acrobazie diplomatiche nei confronti delle varie fazioni curde per mantenere una facciata di coerenza nella gestione schizofrenica della propria politica estera, gli Stati Uniti sembrano puntare sempre più apertamente sulle milizie curde per fermare l’ISIS e avanzare i propri interessi in Medio Oriente, senza troppi imbarazzi se alcune di esse sono da loro stessi bollate come organizzazioni “terroristiche”.
Dal momento che il reale obiettivo di Washington nel lancio della guerra all’ISIS è rappresentato dalla deposizione del regime di Damasco, le forze curde in Siria potrebbero essere dirottate in un secondo momento verso uno scontro frontale con le forze regolari. Ciò appare tanto più probabile quanto l’opposizione “moderata” al regime di Assad, che avrebbe dovuto teoricamente costituire la forza terrestre da affiancare alle incursioni aeree degli USA, risulta del tutto inefficiente.
Gli USA potrebbero cercare così di spingere i curdi siriani a stabilire una qualche collaborazione con alcune forze “ribelli” selezionate, a cominciare dal Libero Esercito della Siria. Un simile piano comporterebbe però la rottura non solo dei legami con l’Iran ma anche di quella sorta di patto di non aggressione tra il regime siriano e i curdi del PYD che ha permesso a questi ultimi di ritagliarsi uno spazio di fatto autonomo nel nord della Siria.
Gli Stati Uniti e i paesi della “coalizione” anti-ISIS potrebbero comunque prospettare maggiori spazi per la minoranza curda in una Siria privata di Assad, così forse da convincere i leader di questa etnia a schierarsi senza riserve a fianco dell’opposizione al regime e trasformarsi a tutti gli effetti in una forza al servizio dell’Occidente.
Come appare evidente, dunque, l’agenda siriana di Washington e Ankara coincide in maniera sostanziale, poiché entrambi i governi operano per mettere da parte Assad e instaurare un governo-fantoccio che ribalti a loro favore il gioco di alleanze in Medio Oriente. Le differenze che stanno emergendo in queste settimane sono invece di natura puramente tattica, sulle modalità cioè con cui combattere o servirsi dell’ISIS per raggiungere uno scopo condiviso.Che l’evoluzione del conflitto possa avere assunto una dinamica che riflette le aspettative immediate della Turchia sembra essere suggerito, tra l’altro, da una notizia diffusa qualche giorno fa dal cosiddetto Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, di stanza in Gran Bretagna. Quest’ultimo ha sostenuto che l’ISIS sarebbe entrato in possesso di tre aerei da guerra e, con l’aiuto di ex ufficiali dell’esercito iracheno, starebbe addestrando alcuni suoi membri per poterli pilotare.
La notizia, sia pure non confermata dal governo americano, potrebbe fornire la giustificazione per imporre una no-fly zone sulla Siria, come chiede da tempo proprio la Turchia, così da colpire principalmente le forze aeree e contraeree del regime.
La più recente escalation del conflitto in Medio Oriente è stata registrata infine martedì, con il governo britannico che ha reso nota la decisione di operare “a breve” missioni di ricognizione con i droni sui cieli della Siria. L’obiettivo ufficiale sarebbe quello di raccogliere informazioni di intelligence sull’ISIS e, come ha sostenuto il ministro della Difesa di Londra, Michael Fallon, di “proteggere la nostra sicurezza nazionale dalla minaccia del terrorismo proveniente” dal teatro di guerra siriano.
Nel mese di settembre, il parlamento della Gran Bretagna aveva approvato a larga maggioranza le incursioni aeree contro l’ISIS in Iraq ma non in Siria. La decisione di martedì, se anche non autorizza ancora il lancio di bombe sulla Siria, coinvolge sempre più il governo di Londra nel nuovo conflitto orchestrato dagli Stati Uniti per rimuovere con la forza il regime di Bashar al-Assad.
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di Fabrizio Casari
I 193 paesi che compongono l’assemblea generale delle Nazioni Unite hanno votato l’ingresso del Venezuela nel Consiglio di Sicurezza. L’ingresso di Caracas è in qualità di membro a rotazione (mandato valido due anni) in osservanza al regolamento che vede affiancare dieci Paesi ai cinque membri permanenti, cioè Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna.
Pur senza poter disporre del diritto di veto, i dieci membri a rotazione partecipano comunque alle decisioni dell’organismo. Il Venezuela è stato eletto con 181 voti, benché fossero sufficienti 122 per la sua elezione e le astensioni sono state dieci.
L’ingresso del Venezuela è significativo sia sotto l’aspetto globale che continentale. Nell’aspetto globale, evidenziato dal numero particolarmente alto dei Paesi che hanno votato a favore, che sembra voler indicare il bisogno da parte di molte nazioni di riequilibrare politicamente un organismo dove spesso l’Occidente maramaldeggia.
Sul piano continentale il valore è innegabile, dal momento che il Venezuela è stato il candidato unico dell’America Latina, così come deciso in una riunione tra tutti i paesi latinoamericani e caraibici proprio all’ONU nel Luglio scorso. Il Venezuela è stato scelto proprio per voler rappresentare l’unità politica latinoamericana e questo assegna a Caracas, oltre ad un riconoscimento continentale di assoluta grandezza, un ruolo molto più importante di qualunque altro Paese eletto nella stessa occasione come membro del Consiglio di Sicurezza.
L’elezione al Palazzo di Vetro si da in un momento nel quale il governo di Maduro è eletto alla Presidenza dei Paesi Non Allineati, il che certifica un generale riconoscimento di valore ad un paese che con la sua intensa attività nella politica internazionale suscita ammirazione e riconoscimenti - per la coerenza come per i risultati - dei Paesi che non si sentono coinvolti nella destabilizzazione politica e militare permanente provocata dall’impero unipolare.Nelle stesse ore in cui l’Assemblea Generale dell’ONU eleggeva il Venezuela al Consiglio di Sicurezza, la FAO, l’organizzazione dell’ONU per l’alimentazione, assegnava un importante riconoscimento al governo di Nicolas Maduro per aver raggiunto anticipatamente gli "Obiettivi del Millennio". Il riconoscimento segue altri già assegnati negli ultimi anni e dimostra la validità del cammino venezuelano sul terreno dell’alimentazione.
A New York non sarà semplice. Il nuovo Consiglio di Sicurezza dell’Onu s’insedia in un quadro internazionale particolarmente problematico. C’è il conflitto in Iraq e Siria, dove la coalizione guidata dagli Stati Uniti risulta come minimo eterogenea, comprendendo paesi (Turchia, Arabia Saudita e Qatar) che sono veri e propri alleati dell’ISIS contro il quale sarebbero in guerra e che invece si muovono a limitare l’azione della coalizione stessa.
C’è il conflitto in Ucraina, dove resta alto il rischio di un confronto militare regionale tra NATO ed Europa da un lato e Russia dall’altra. Ci sono le proteste teleguidate ad Hong Kong promosse con un chiaro intento destabilizzatore per la Cina, e che avranno un ulteriore imput alla vigilia della visita di Stato di Obama a Pechino.
C’è poi la questione della lotta alla diffusione del virus Ebola, significativamente affrontata dagli Stati Uniti con i militari, mentre dai Paesi dell’ALBA (che ieri si sono riuniti a La Habana per determinare uno sforzo comune) arrivano aiuti e medici. Da Cuba in particolare, elogiata per il suo attivismo umanitario anche dal Segretario di Stato USA, John Kerry.
Questi ed altri numerosi conflitti configurano una congiuntura complessa nella quale le Nazioni Unite potranno e dovranno rappresentare un elemento di regolazione e moderazione nei confronti dell’ansia di conquista bellicista da parte di una NATO, che prova ad accendere fuochi in ogni parte del mondo per permettere all’impero in crisi di prestigio internazionale di mantenere e rafforzare la supremazia militare e politica a fil di spada.
Pur nella consapevolezza diffusa di come la prepotenza imperiale, quando non riesce a piegarlo ai suoi interessi tenda a superare il luogo per eccellenza deputato alla risoluzione delle controversie internazionali, le Nazioni Unite dovranno avere la capacità di affrontare gli spazi politici e giuridici nei quali la comunità internazionale si muove. Qui il Venezuela potrebbe giocare un ruolo determinante,i mantenendosi ferma nei suoi princìpi e rappresentando le ragioni e le aspirazioni delle vittime della destabilizzazione mondiale. Nello specifico regionale, il ruolo del Venezuela sarà importantissimo, visto che dovrà rappresentare l’intera America Latina. Dovrà riuscire a promuovere la sua cultura dell’integrazione economica e commerciale, la sua aspirazione all’unità politica continentale e, più in generale, la sua capacità di proporsi a breve e medio termine come nuovo asse strategico negli equilibri internazionali.
Dovrà per questo valorizzare il peso politico, economico e commerciale della nuova America Latina, proponendo un disegno della governance internazionale su schema multipolare. Si tratta di un compito difficile che metterà a prova la maturità politica del governo venezuelano, che però non resterà solo in questa sfida.
Non sarà comunque semplice questa nuova trincea per la rivoluzione bolivariana. Mentre dovrà cercare un respiro internazionale, dovrà anche porre mano decisa nell’ottimizzazione del suo processo politico, cercando gli aggiustamenti necessari alla sua politica economica.
Nel contempo dovrà continuare a difendersi dall’aggressione di una destra golpista ad alto tasso criminogeno che intende solo il linguaggio della violenza, unica vera risorsa di cui dispone.
Su questo terreno Caracas dovrà anche dimostrare capacità negoziale, ponendo sul tavolo nuove e maggiori capacità di mediazione che permettano di elevare ulteriormente il suo prestigio, arma importantissima per resistere con successo alle provocazioni che la destra internazionale, capeggiata da Uribe e diretta da Miami, continua a proporre. La sua vittoria sarà quella di tutta l’America Latina.
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di Michele Paris
Il voto di questa settimana alla Camera dei Comuni di Londra per riconoscere lo Stato palestinese ha rappresentato un’ulteriore conferma del crescente isolamento internazionale di Israele dopo la recente aggressione criminale contro la striscia di Gaza. Nonostante l’importante significato simbolico della mozione del Parlamento britannico, quest’ultima non avrà particolari effetti concreti, per lo meno a breve, sui rapporti tra il Regno Unito e Israele o sui negoziati di pace, fermi ormai da parecchi mesi.
La mozione sul riconoscimento della Palestina come Stato indipendente è stata presentata dal deputato laburista Grahame Morris e ha ottenuto 274 voti a favore e 12 contrari. La maggior parte dei consensi sono giunti proprio dai membri del Partito Laburista, mentre molti conservatori non erano presenti in aula.
Lo stesso primo ministro, David Cameron, è stato uno degli astenuti, confermando la nuova situazione di imbarazzo in cui si trova il suo governo dopo il voto sulla Palestina. Il gabinetto conservatore di Londra è infatti uno dei più fermi sostenitori di Israele ma si trova nella difficile posizione di difendere un governo criminale di fronte a un’opinione pubblica schierata in larga misura a sostegno del popolo palestinese.
L’equilibrismo del governo Cameron si è intravisto nelle reazioni dell’esecutivo al voto di lunedì sera, con il ministro per il Medio Oriente, Tobias Ellwood, che, pur definendosi un “fedele sostenitore” del diritto all’autodifesa di Israele, ha sottolineato la difficoltà per “gli amici di Israele” di affermare che questo paese desidera la pace.
Ellwood ha fatto riferimento alla recente decisione del governo Netanyahu di impossessarsi di altre terre palestinesi, in particolare di circa 384 ettari in Cisgiordania. Quest’ultima notizia, assieme alla guerra di Gaza della scorsa estate che ha provocato la morte di oltre duemila palestinesi - quasi tutti civili - e la distruzione indiscriminata di abitazioni, edifici pubblici e infrastrutture, ha fatto aumentare sensibilmente l’avversione dell’opinione pubblica europea nei confronti del governo di Tel Aviv, costringendo i governi come quello di Londra ad assumere posizioni timidamente critiche dell’alleato israeliano.
La Gran Bretagna, in ogni caso, ha ribadito che il pieno riconoscimento della Palestina come Stato indipendente avverrà quando ciò sarà una realtà di fatto, vale a dire al termine dei negoziati con Israele.In sostanza, malgrado il voto alla Camera dei Comuni la posizione ufficiale di Londra continua a essere in linea con quella di Tel Aviv, da dove il governo Netanyahu, nel condannare l’iniziativa, ha affermato che “il prematuro riconoscimento internazionale manda un segnale preoccupante ai leader palestinesi, cioè che essi possono evitare le scelte difficili che entrambe le parti devono fare, riducendo di fatto le possibilità di raggiungere un accordo di pace”.
L’imbarazzo per Netanyahu e l’intera classe politica israeliana è comunque più che evidente, anche perché il voto di Londra è giunto pochi giorni dopo l’annuncio del nuovo governo socialdemocratico in Svezia di riconoscere lo Stato palestinese. Secondo i resoconti dei media, Israele aveva cercato in tutti i modi di bloccare la mozione laburista in Gran Bretagna o, quanto meno, di ottenere un voto favorevole e impedire un possibile effetto a catena in altri paesi europei.
Lo stesso Partito Laburista israeliano all’opposizione aveva fatto pressioni sulla propria controparte britannica per cancellare il voto, ma senza successo. I vertici del “Labour” a Londra devono avere valutato il riconoscimento della Palestina come una manovra elettorale di un certo effetto, alla luce sia del favore popolare per una simile iniziativa - non solo tra gli elettori di fede musulmana - sia degli affanni del partito in vista delle elezioni del prossimo anno, nonostante il vantaggio sui conservatori evidenziato dai sondaggi.
A rivelare l’importanza assegnata dai laburisti a un voto in larga misura simbolico come quello di lunedì c’è la decisione dei leader del partito di imporre la cosiddetta “three-line whip”, una direttiva cioè che obbliga di fatto i propri membri in Parlamento a partecipare al voto e a esprimersi secondo le indicazioni, pena sanzioni che possono includere anche l’espulsione dal gruppo parlamentare se non dal partito stesso.
Le iniziative anti-israeliane in Europa stanno in ogni caso aumentando negli ultimi mesi, anche se prese di posizioni in maniera diretta da parte di governi o parlamenti continuano a essere rare. In Gran Bretagna, ad esempio, oltre alle manifestazioni di protesta della scorsa estate contro l’aggressione di Gaza è stata lanciata una campagna di boicottaggio e disinvestimento nei confronti di Israele da parte di alcune organizzazioni sindacali.Sempre questa settimana, poi, il governo francese per bocca del ministro degli Esteri, Laurent Fabius, non ha escluso il riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese. Il diplomatico transalpino ha avvertito che una simile mossa arriverebbe da Parigi solo se dovesse contribuire al raggiungimento della pace e non come puro gesto simbolico. Tuttavia, ha aggiunto Fabius, “se i negoziati dovessero fallire, la Francia non sfuggirà alle sue responsabilità” e potrebbe offrire il proprio riconoscimento incondizionato alla Palestina.
Queste iniziative, anche se accentuano l’isolamento di Israele, per il momento non avranno conseguenze significative sulla situazione in Medio Oriente o sulla sorte dei palestinesi, dal momento che Tel Aviv continua a godere dell’appoggio pressoché incondizionato degli Stati Uniti.
Inoltre, i riconoscimenti dei giorni scorsi finiscono per beneficiare un’Autorità Palestinese che ha ben poco da offrire al suo popolo, il quale vede correttamente i propri leader in maniera non troppo differente dagli oppressori israeliani e dai loro alleati americani.
Infatti, dietro al voto di Londra e Stoccolma, così come ai segnali che provengono da Parigi, oltre alla risposta alla crescente ostilità verso Israele c’è anche il desiderio dei governi occidentali di soccorrere in qualche modo proprio l’Autorità Palestinese e il suo presidente, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ulteriormente screditati dopo l’aggressione contro Gaza che ha determinato un evidente aumento della popolarità dei rivali di Hamas.
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di Fabrizio Casari
Il messaggio delle urne boliviane è chiarissimo: il primo presidente indio della Bolivia sarà anche il prossimo. Con oltre il 60% dei voti, infatti, affermandosi in otto dei nove dipartimenti in cui è suddiviso il Paese, Evo Morales ha stravinto le elezioni di domenica scorsa in Bolivia e sarà ancora Presidente per altri 4 anni. L’ex leader del MAS (Movimiento al Socialismo), figura nobilissima della sinistra latinoamericana, ha conquistato per la terza volta la presidenza del suo paese, surclassando l’opposizione di destra sponsorizzata da Washington.
Il risultato era atteso. Non tanto per la debolezza della destra, quanto per i risultati di otto anni di presidenza della sinistra. Evo ha raccolto i frutti di quanto seminato in un paese che, nonostante la contrazione economica dell’area, risulta in pieno ciclo espansivo da diversi anni.
Ciò grazie agli otto anni della sua presidenza, caratterizzatasi per le politiche socialiste nella riorganizzazione dell’economia, fatte anche di nazionalizzazione degli impianti e di restituzione agli interessi nazionali degli accordi con le compagnie straniere. Con una economia in crescita del 6%, la Bolivia non poteva che assegnare con il voto il riconoscimento alla qualità dell’impianto socio-economico del modello.
I risultati della sua politica economica si sono visti: il ricavato dei suoi giacimenti di gas, delle sue piantagioni di soia e della raccolta della pasta di coca destinata al mercato legale, hanno prodotto un pareggio di bilancio mai registrato nella storia del paese andino. Un tempo destinate a prendere il volo verso gli USA, le risorse ottenute dall’industria dello sfruttamento degli idrocarburi sono state la fonte di finanziamento delle opere sociali che hanno enormemente ridotto la distanza tra i diversi settori sociali della società boliviana.
Aiuti diretti e indiretti agli anziani, alle donne in gravidanza e a tutti i bambini, ampliamento dei servizi e riconoscimento del dovere d'intervento dello Stato nelle problematiche più acute sono state il modus operandi del governare di Evo Morales.
Il successo economico del socialismo boliviano è stato possibile anche grazie ad un generale smantellamento del sistema costituzionale precedente, cucito su misura per gli interessi del latifondo locale e delle multinazionali estrattive statunitensi che aveva regalato alla Bolivia 190 anni di storia coloniale.
In questo senso tra i successi maggiori e migliori ottenuti da Evo nei precedenti mandati c’è certamente quello della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta ed approvata nel Gennaio del 2009, che - come dichiarò alla sua approvazione -“rappresenta la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”.
E non è certo indifferente, per la riorganizzazione del tessuto produttivo del Paese, ciò che la Carta impone con l’articolo 398: il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce altresì che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.
La nuova Costituzione disegna la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.
E proprio sotto il profilo dell’articolazione dello Stato (elemento non certo secondario nella riforma di un Paese) l’innovazione è stata straordinaria e di assoluto valore storico: la nuova Carta, infatti, prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indigene e municipali che già esistono.
Insomma, la Carta elaborata dall’Assemblea Costituente è stata un’opera di alta ingegneria politica e una vera e propria rivoluzione culturale, che ha aumentato notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica. In questi ed altri passaggi si evidenzia il senso politico che ha caratterizzato i suoi mandati presidenziali di Evo Morales: la costruzione del retroterra politico ed istituzionale di un paese plurale sancito costituzionalmente.Parlando dal balcone del Palacio Quemado, la sede del governo a La Paz, Evo ha dedicato la sua vittoria a “tutti i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo” e, in particolare, a Fidel Castro e Hugo Chavez, suoi punti di riferimento umani, oltre che politici.
Fidel Castro, che 54 anni orsono ruppe la catena di comando statunitense sul continente, trasformando Cuba nel primo territorio libero delle Americhe ed edificando un sistema che per equità e sovranità nazionale, é esempio vivente per tutta la sinistra del continente e non solo, di Evo è stato in qualche modo “padre putativo”, consigliere e riferimento costante nel suo agire politico.
Hugo Chavez, che seguendo il cammino tracciato da Simon Bolivar restituì il Venezuela ai venezuelani e che diede vita al “Socialismo del terzo millennio”, è stato l’alleato più immediato e leale per il giovane presidente boliviano, che pure nel suo incedere vittorioso ha dovuto affrontare (come Chavez) un tentativo di colpo di stato e serrate da parte dei suoi avversari che cercavano d’isolare la Bolivia e riportarla nelle solite mani a stelle e strisce.
D’altra parte la lunghissima marcia dall’opposizione al governo non faceva presagire un mandato tenue, incerto sul da farsi o a tinte fosche. L’integrità morale e la fede politica di Evo non erano adatte a un governo qualunque. E così non è stato.
Evo non ha adeguato i suoi ideali al mercato ma ha ricondotto il mercato alle esigenze del suo paese; non ha mai smesso i panni di leader della sinistra latinoamericana né ha avuto esitazioni nello scontrarsi con gli interessi e l’arroganza degli Stati Uniti. Dalla Cuba di Castro al Venezuela di Maduro, dal Nicaragua di Ortega all’Ecuador di Correa, dall’Argentina di Cristina Kirchner al Brasile di Djilma, Morales ha continuato a tessere la tela ormai robusta dell’unità latinoamericana.
Una consapevolezza continentale che ha nella sua unità la leva principale delle sue politiche commerciali e che ha seppellito da un decennio ormai, il Washington consensus, cioè quel sistema di dipendenza dagli Stati Uniti che, con rare e circoscritte eccezioni, caratterizzava le scelte e i destini dell’America Latina fino alla fine degli anni ’90.La vittoria di Evo Morales è la vittoria di chi non svende per una poltrona i suoi ideali. Di chi non s’inginocchia, abbagliato dalla fama e dalle ricchezze e obnubilato dall’ambizione personale, di fronte al volere delle multinazionali ed al pensiero unico che ne costituisce l’humus ideologico.
Dimostra che si può pensare e realizzare una diversa politica economica e trarre i frutti per una diversa politica sociale. Che il mercato è un animale onnivoro che va controllato e regolamentato e che la ricchezza è solo arrogante privilegio se non viene distribuita equamente.
E dimostra anche che la sovranità nazionale, motore indiscutibile delle politiche economiche e sociali, si nutre dell’identità nazionale e del senso dell’indipendenza. La ricetta della vittoria della sinistra latinoamericana è soprattutto questa. Indipendenza, sovranità, integrazione, solidarietà: una manna indigesta per lo stomaco dello Zio Sam.
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di Emy Muzzi
LONDRA. Al di là della sostanziale carenza strutturale di idee dei tre big della politica britannica, la discriminante immediatamente percepibile a livello internazionale tra le linee e programmi dei tre leader è il ‘Brexit’. La crasi dal suono ostile tra Britain ed exit coniata dai media per titolare le tetre notizie sul possibile referendum anti UE apre da qualche settimana le pagine politiche della stampa anglofona.
Il premier Cameron, in mancanza di un programma forte, punta sul Brexit ed ulteriori tagli al welfare per spingere la campagna elettorale fino a maggio 2015; Clegg, leader Lib Dem, un partito schiacciato tra Cons e Labour con scarse probabilità di sopravvivenza, si dichiara, al contrario, europeista; mentre Ed Miliband tiene il Brexit di riserva, in caso di ulteriore devoluzione dei poteri da Londra a Bruxelles (ovvero come risorsa dell’ultima ora in caso di necessaria alleanza politica del dopo elezioni).
Che il vincitore, chiunque esso sia, prevarrà con uno scarso margine di voti sono gli esperti della London School of Economics a dirlo. Dati alla mano i professori Patrick Dunleavy, a capo del dipartimento di Scienze Politiche, e Tony Travers responsabile del Dipartimento Politiche governative, hanno chiamato a raccolta la stampa estera per una full immersion negli ultimi, tristissimi, dati; il risultato del sondaggio sul tasso di soddisfazione rispetto ai tre leader ha il segno meno per tutti: rispetto al 2010 Cameron è a -15%, Miliband -29% e Clegg in caduta libera al -45%. Per la cronaca nella classifica dei leader deludenti il capo del partito nazionalista-xenofobo Nigel Farage è a -5%. Gli ultimi dati sulle intenzioni di voto aggiornati al 6 ottobre dall’agenzia You Gov: Conservatori 32%, Labour 34%, Lib Dems 8% e UKIP 15%.
L’andamento generale della politica britannica è claudicante: gli esperti parlano di un altro parlamento zoppo, ovvero nessuno raggiungerà la maggioranza assoluta. Pertanto si profila la strategia delle alleanze: who with whom? Non si sa. Il partito dell’alleanza per eccellenza è il Liberal Democratico guidato da Clegg. Dal palco del congresso di partito tenutosi a Glasgow, il vicepremier cerca di acchiappare voti a destra e a sinistra cavalcando l’onda scozzese anti-Westminster post referendum secessionista e poi attacca il governo: “Il cancelliere Osborne fa pagare ai più poveri la riduzione del debito pubblico”, ha detto in un’intervista con l’icona della BBC Andrew Marr, parlando come se i Lib Dem non facessero più parte della coalizione di governo.
Che bella la politica; è la dimensione umana in cui tutto è possibile al di là del tempo, dello spazio, della coerenza e della decenza: il vice premier attacca il ‘suo’ governo di coalizione e dalla Scozia spaccata in due dal referendum scismatico lancia l’allarme: “Il Brexit sarebbe un suicidio”; un monito che colloca Clegg più a sinistra di Ed Miliband.
Ed the Red, del resto, non ha alcun appeal sull’elettorato, neanche su quello Labour: in un sondaggio Ipsos Mori dello scorso settembre Miliband emerge che piace solo a tre elettori su dieci, 31%; mentre Nick Clegg ha il 33%, e Cameron il 48%. Il dato è in controtendenza rispetto alle preferenze di partito che danno al Labour party l’assoluta prevalenza con il 50% (Conservatori 42% e Lib Dem 41%).
Sì, è vero che Miliband ha annunciato durante la conferenza di partito a Manchester, più tasse sulla casa ai ricconi ed una politica non compiacente con le banche: ma con quale margine di voti i buoni propositi potranno diventare legge? I professori della London School of Economics spiegano che le previsioni (ed i calcoli) danno scarse possibilità ad una maggioranza assoluta ai Labour, pertanto non si esclude il Lib Lab ma neanche il un Lib Cons ‘bis’.
Finite le tre conferenze annuali di partito, la campagna elettorale ha preso il via. Da qui a maggio 2015 ci sarà tempo per cavalcare qualsiasi onda: dal terrorismo alla sanità pubblica, dall’austerity al Brexit. Lo slogan che Cameron sta vendendo al popolino si riassume nella tetra proporzione GB: Ue = immigrazione, disoccupazione. Un chiaro esempio di come la matematica possa essere un’opinione molto parziale.
La retorica anti Ue sarebbe patetica se non fosse in malafede: il leader dei Tories sa benissimo che un’uscita dall’Unione Europea non aumenterà il tasso di occupazione. Su questo si è pronunciata già la CBI, la confindustria britannica, con dati alla mano mostrando il pieno disaccordo degli industriali rispetto ad un eventuale referendum. In sostanza Cameron, agitando il lanternino del Brexit nel 2017, cerca di accaparrarsi i voti delle grass roots e dei cittadini britannici che dopo l’aumento vertiginoso del costo delle università e il taglio dei cosiddetti ‘student loans’ (prestiti per lo studio), sono tagliati fuori dal lavoro qualificato.
Questo non solo ha stravolto l’assetto della società inglese, ma ha messo i cittadini britannici in condizioni di non poter competere sul mercato del lavoro con i laureati UE in un contesto internazionale come quello britannico e londinese in particolare. In sostanza prima il governo di Cameron e Clegg ha distrutto le equalities che facevano della società britannica una società giusta a differenza di tutte le altre nel contesto europeo, poi ha dato la colpa ai cittadini immigrati europei in modo da ottenere voti e consenso elettorale.Meno male che c’è il ministro per l’Europa David Lidington a mettere in chiaro le cose; l’8 ottobre, giorno della pubblicazione del Pacchetto annuale della Commissione Europea sull’allargamento 2014-2015, Lidington commenta “Restiamo forti sostenitori dell’allargamento dell’Unione purché i paesi candidati entrino solo quando abbiano raggiunto le condizioni e gli standard richiesti. Al contempo riconosciamo il fatto che molti in Europa sono preoccupati delle migrazioni su vasta scala seguite all’accesso di nuovi paesi nell’Unione e questo problema deve essere affrontato prima dell’accesso di nuovi membri”.
A questo propostito nessuno, nè qui a Londra, ma neanche a Bruxelles, fa mai riferimento al fatto che nel regno di Sua maestà gli immigrati dai paesi Commonwealth hanno la precedenza su quelli dai paesi Ue in quanto ex colonie dell’Impero per una questione di moralità e correttezza storica.
Nell’ultimo censimento relativo al 2011, l’Office of National Statistics registra in Inghilterra e Galles un’aumento del gruppo dei ‘white other’ (bianchi non britannici) da 1.4m a 1.9m (500mila in più) chiarendo che l’aumento non è soltanto dovuto ai cittadini Ue ma anche a quelli provenienti da Australia e Nuova Zelanda. Meno di 500mila persone quindi che, evidentemente, creano problemi (non si è ancora capito quali).
Ci sono trucchi che solo i politici sanno fare: per riuscire a far percepire meno di 500 mila persone come il problema numero uno un Gran Bretagna ci vuole abilità, esercizio e molta malafede. L’esercizio manipolatorio dura per la precisione dal 2010 A.C. (Anno Cameron) quando è cominciata la campagna ‘Brazist’ anti-europea.