di Emy Muzzi

LONDRA. Al di là della sostanziale carenza strutturale di idee dei tre big della politica britannica, la discriminante immediatamente percepibile a livello internazionale tra le linee e programmi dei tre leader è il ‘Brexit’. La crasi dal suono ostile tra Britain ed exit coniata dai media per titolare le tetre notizie sul possibile referendum anti UE apre da qualche settimana le pagine politiche della stampa anglofona.

Il premier Cameron, in mancanza di un programma forte, punta sul Brexit ed ulteriori tagli al welfare per spingere la campagna elettorale fino a maggio 2015; Clegg, leader Lib Dem, un partito schiacciato tra Cons e Labour con scarse probabilità di sopravvivenza, si dichiara, al contrario, europeista; mentre Ed Miliband tiene il Brexit di riserva, in caso di ulteriore devoluzione dei poteri da Londra a Bruxelles (ovvero come risorsa dell’ultima ora in caso di necessaria alleanza politica del dopo elezioni).

Che il vincitore, chiunque esso sia, prevarrà con uno scarso margine di voti sono gli esperti della London School of Economics a dirlo. Dati alla mano i professori Patrick Dunleavy, a capo del dipartimento di Scienze Politiche, e Tony Travers responsabile del Dipartimento Politiche governative, hanno chiamato a raccolta la stampa estera per una full immersion negli ultimi, tristissimi, dati; il risultato del sondaggio sul tasso di soddisfazione rispetto ai tre leader ha il segno meno per tutti: rispetto al 2010 Cameron è a -15%, Miliband -29% e Clegg in caduta libera al -45%. Per la cronaca nella classifica dei leader deludenti il capo del partito nazionalista-xenofobo Nigel Farage è a -5%. Gli ultimi dati sulle intenzioni di voto aggiornati al 6 ottobre dall’agenzia You Gov: Conservatori 32%, Labour 34%, Lib Dems 8% e UKIP 15%.

L’andamento generale della politica britannica è claudicante: gli esperti parlano di un altro parlamento zoppo, ovvero nessuno raggiungerà la maggioranza assoluta. Pertanto si profila la strategia delle alleanze: who with whom? Non si sa. Il partito dell’alleanza per eccellenza è il Liberal Democratico guidato da Clegg. Dal palco del congresso di partito tenutosi a Glasgow, il vicepremier cerca di acchiappare voti a destra e a sinistra cavalcando l’onda scozzese anti-Westminster post referendum secessionista e poi attacca il governo: “Il cancelliere Osborne fa pagare ai più poveri la riduzione del debito pubblico”, ha detto in un’intervista con l’icona della BBC Andrew Marr, parlando come se i Lib Dem non facessero più parte della coalizione di governo.

Che bella la politica; è la dimensione umana in cui tutto è possibile al di là del tempo, dello spazio, della coerenza e della decenza: il vice premier attacca il ‘suo’ governo di coalizione e dalla Scozia spaccata in due dal referendum scismatico lancia l’allarme: “Il Brexit sarebbe un suicidio”; un monito che colloca Clegg più a sinistra di Ed Miliband.

Ed the Red, del resto, non ha alcun appeal sull’elettorato, neanche su quello Labour: in un sondaggio Ipsos Mori dello scorso settembre Miliband emerge che piace solo a tre elettori su dieci, 31%; mentre Nick Clegg ha il 33%, e Cameron il 48%. Il dato è in controtendenza rispetto alle preferenze di partito che danno al Labour party l’assoluta prevalenza con il 50% (Conservatori 42% e Lib Dem  41%).

Sì, è vero che Miliband ha annunciato durante la conferenza di partito a Manchester, più tasse sulla casa ai ricconi ed una politica non compiacente con le banche: ma con quale margine di voti i buoni propositi potranno diventare legge? I professori della London School of Economics spiegano che le previsioni (ed i calcoli) danno scarse possibilità ad una maggioranza assoluta ai Labour, pertanto non si esclude il Lib Lab ma neanche il un Lib Cons ‘bis’.

Finite le tre conferenze annuali di partito, la campagna elettorale ha preso il via. Da qui a maggio 2015 ci sarà tempo per cavalcare qualsiasi onda: dal terrorismo alla sanità pubblica, dall’austerity al Brexit. Lo slogan che Cameron sta vendendo al popolino si riassume nella tetra proporzione GB: Ue = immigrazione, disoccupazione. Un chiaro esempio di come la matematica possa essere un’opinione molto parziale.

La retorica anti Ue sarebbe patetica se non fosse in malafede: il leader dei Tories sa benissimo che un’uscita dall’Unione Europea non aumenterà il tasso di occupazione. Su questo si è pronunciata già la CBI, la confindustria britannica, con dati alla mano mostrando il pieno disaccordo degli industriali rispetto ad un eventuale referendum. In sostanza Cameron, agitando il lanternino del Brexit nel 2017, cerca di accaparrarsi i voti delle grass roots e dei cittadini britannici che dopo l’aumento vertiginoso del costo delle università e il taglio dei cosiddetti ‘student loans’ (prestiti per lo studio), sono tagliati fuori dal lavoro qualificato.

Questo non solo ha stravolto l’assetto della società inglese, ma ha messo i cittadini britannici in condizioni di non poter competere sul mercato del lavoro con i laureati UE in un contesto internazionale come quello britannico e londinese in particolare. In sostanza prima il governo di Cameron e Clegg ha distrutto le equalities che facevano della società britannica una società giusta a differenza di tutte le altre nel contesto europeo, poi ha dato la colpa ai cittadini immigrati europei in modo da ottenere voti e consenso elettorale.

Meno male che c’è il ministro per l’Europa David Lidington a mettere in chiaro le cose; l’8 ottobre, giorno della pubblicazione del Pacchetto annuale della Commissione Europea sull’allargamento 2014-2015, Lidington commenta “Restiamo forti sostenitori dell’allargamento dell’Unione purché i paesi candidati entrino solo quando abbiano raggiunto le condizioni e gli standard richiesti. Al contempo riconosciamo il fatto che molti in Europa sono preoccupati delle migrazioni su vasta scala seguite all’accesso di nuovi paesi nell’Unione e questo problema deve essere affrontato prima dell’accesso di nuovi membri”.

A questo propostito nessuno, nè qui a Londra, ma neanche a Bruxelles, fa mai riferimento al fatto che nel regno di Sua maestà gli immigrati dai paesi Commonwealth hanno la precedenza su quelli dai paesi Ue in quanto ex colonie dell’Impero per una questione di moralità e correttezza storica.

Nell’ultimo censimento relativo al 2011, l’Office of National Statistics registra in Inghilterra e Galles un’aumento del gruppo dei ‘white other’ (bianchi non britannici) da 1.4m a 1.9m (500mila in più) chiarendo che l’aumento non è soltanto dovuto ai cittadini Ue ma anche a quelli provenienti da Australia e Nuova Zelanda. Meno di 500mila persone quindi che, evidentemente, creano problemi (non si è ancora capito quali).

Ci sono trucchi che solo i politici sanno fare: per riuscire a far percepire meno di 500 mila persone come il problema numero uno un Gran Bretagna ci vuole abilità, esercizio e molta malafede. L’esercizio manipolatorio dura per la precisione dal 2010 A.C. (Anno Cameron) quando è cominciata la campagna ‘Brazist’ anti-europea.

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