di Mario Lombardo

Con un seguito di oltre 100 uomini d’affari e di 7 ministri del suo governo, il presidente iraniano Hassan Rouhani è stato protagonista questa settimana di un’attesa visita in Turchia, dove un leader della Repubblica Islamica non metteva piede da ben 18 anni. I temi all’ordine del giorno sono stati molteplici tra i due vicini spesso attestati su posizioni divergenti in relazione ad alcune delle questioni mediorientali più importanti, con un’attenzione particolare agli scambi commerciali, alle politiche energetiche e alla persistente crisi siriana.

Il presidente “riformista” dell’Iran è sbarcato ad Ankara nella giornata di lunedì ed ha trascorso due giorni in Turchia, dove ha incontrato sia il presidente, Abdullah Gül, sia il primo ministro, Recep Tayyip Erdogan. La visita ha seguito quella di quest’ultimo lo scorso gennaio a Teheran, durante la quale era stato firmato un accordo di commercio preferenziale per la riduzione delle tariffe doganali negli scambi di merci tra i due paesi.

Durante la visita di Rouhani sono stati siglati una decina di nuovi accordi culturali ed economici, in particolare nel settore delle costruzioni e a favore di aziende turche che opereranno in Iran, con l’obiettivo di raddoppiare il volume degli scambi bilaterali, da poco meno di 15 miliardi di dollari nel 2013 a 30 miliardi nel 2015, sempre che - come ha affermato il ministro per lo Sviluppo di Ankara, Cevdet Yilmaz - vengano eliminate le “ingiuste” sanzioni economiche che pesano sulla Repubblica Islamica.

Le relazioni commerciali tra i due paesi, in realtà, erano già vicine a questo traguardo nel 2012, quando la Turchia aveva deciso di aggirare le sanzioni americane contro Teheran pagando le importazioni di gas naturale in oro. Quando però gli Stati Uniti hanno approvato nuove misure punitive per impedire anche gli scambi di metalli preziosi con l’Iran, il volume dei traffici bilaterali si è quasi dimezzato.

I colloqui di questa settimana sono serviti anche per cercare di risolvere una diatriba legata al prezzo del gas naturale destinato alla Turchia, dopo che Ankara nel 2012 aveva presentato un esposto alla Corte Internazionale di Arbitrato, lamentando l’eccessivo costo delle importazioni dall’Iran rispetto alle forniture provenienti dalla Russia o dall’Azerbaijan. La questione è stata discussa da Rouhani ed Erdogan e, pur non avendo ancora trovato una soluzione, i due leader hanno dato istruzione ai rispettivi ministri competenti di proseguire le trattative per giungere ad un esito condiviso.

La Turchia importa attualmente già 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas naturale dall’Iran ma un eventuale superamento della disputa in corso potrebbe anche in questo caso far raddoppiare le forniture. Uno dei punti centrali del programma di governo di Rouhani è d’altra parte l’aumento delle esportazioni delle risorse energetiche iraniane, tuttora limitate dalle sanzioni internazionali.

Per la Turchia, invece, come ha ricordato lunedì l’ex ambasciatore indiano M K Bhadrakumar sulla testata on line Asia Times, la partnership con Teheran in questo settore contribuisce a soddisfare le ambizioni di trasformare il paese in un “hub” delle esportazioni di gas dall’Iran verso l’Europa una volta che le relazioni con l’Occidente saranno normalizzate.

In previsione proprio del propabile reintegro della Repubblica Islamica nei circuiti del capitalismo internazionale, il business turco e il governo Erdogan intendono costruirsi una posizione privilegiata, così da avvantaggiarsi nei confronti di paesi e compagnie concorrenti nel momento in cui dovesse scattare la competizione per un mercato con enormi potenzialità.

Gli interessi economici di entrambi i paesi sembrano dunque prevalere sulle differenti posizioni assunte dai due governi attorno a svariate questioni. In relazione alla Siria, in particolare, Turchia e Iran si ritrovano a sostenere le due parti in causa nel conflitto. Erdogan, pur avendo abbassato i toni negli ultimi mesi alla luce dell’evidente fallimento della propria politica siriana, rimane uno dei più convinti sostenitori dell’opposizione che si batte contro Bashar al-Assad. L’Iran, al contrario, è il principale alleato del regime alauita (sciita).

Le divergenze riguardano anche l’Iraq, il cui primo ministro sciita, Nouri al-Maliki, è sostenuto da Teheran ed ha accusato più volte la Turchia di essersi intromessa negli affari interni del proprio paese. Soprattutto, Baghdad vede con estremo sospetto l’appoggio di Ankara al governo semi-autonomo curdo in Iraq, con il quale Erdogan ha siglato un accordo di fornitura di petrolio contro il volere delle autorità centrali.

Allo stesso tempo, il governo islamista dell’AKP, come l’Iran, desidera però che l’Iraq mantenga l’integrità territoriale, anche perché l’eventuale indipendenza del Kurdistan iracheno potrebbe avere conseguenze destabilizzanti sulla stessa Turchia, vista la considerevole e inquieta minoranza curda che vive entro i propri confini.

A spingere verso un riavvicinamento tra Iran e Turchia è, più in generale, anche il sostanziale naufragio delle ambizioni di leadership in Medio Oriente nutrite dal governo Erdogan, di fatto frantumatesi con il mancato rovesciamento di Assad a Damasco e con la fine dei Fratelli Musulmani in Egitto.

Gli iraniani, inoltre, nonostante le differenze apprezzano il riconoscimento da parte della Turchia del diritto allo sviluppo del proprio controverso programma nucleare a fini pacifici, sottolineato, tra l’altro, sia dalle recenti critiche del governo di Ankara verso le sanzioni americane sia dalla bozza di accordo proposta nel 2010 dal governo turco assieme a quello del Brasile per la risoluzione di uno stallo che prosegue tuttora con la comunità internazionale.

Non caso, forse, la visita di Rouhani in Turchia, che segna - secondo le parole dello stesso presidente iraniano - un “punto di svolta” nelle relazioni tra i due paesi e contribuisce al processo di normalizzazione delle relazioni internazionali della Repubblica Islamica, è coincisa con il nuovo round di negoziati sul nucleare andato in scena a Ginevra, definiti dalla delegazione di Teheran “positivi e costruttivi”, nonostante appaia sempre più probabile che per trovare un accordo definitivo saranno necessari altri sei mesi in aggiunta a quelli che scadono il 20 luglio prossimo.

di Fabrizio Casari

Con una iniziativa di assoluto valore etico e politico, 37 parlamentari italiani hanno firmato una lettera rivolta al Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama, per chiedergli di liberare Gerardo Hernandez, Ramon Labanino e Antonio Guerrero, i tre antiterroristi cubani ancora detenuti negli USA per aver esercitato attività investigativa in difesa di Cuba.

Primo firmatario il Senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione Straordinaria per la tutela e la difesa dei diritti umani, i 37 deputati e senatori autori della missiva compongono l’Intergruppo parlamentare, formatosi su iniziativa meritoria della senatrice del PD Daniela Valentini.

La rappresentante dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, avvocato Tecla Faranda, attualmente a Washington per le "giornate di solidarietà" con la causa dei cubani, ha consegnato la lettera durante gli incontri tra la delegazione internazionale di parlamentari, giuristi e intellettuali con i congressisti statunitensi.

Un gesto, quello dei 37 deputati e senatori, che rompe il velo di silenzio che in Italia avvolge la vicenda paradossale di questi uomini incarcerati per aver combattuto il terrorismo ma che, com’era da aspettarsi, non trova l’interesse dei media nostrani, intruppati ideologicamente nelle fila ordinate dell’impero a stelle e strisce. Si sommano così ai parlamentari di Gran Bretagna, Germania, Brasile, Messico, Belgio, Cile, Panama, Scozia, Giappone e tanti altri ancora che hanno chiesto con atti parlamentari la liberazione dei tre cubani ancora prigionieri.

Nel nostro Paese si deve dare merito alla tenacia dell’Associazione Italia-Cuba e di tutti coloro che hanno voluto alzare la voce contro questa ignobile vicenda di abuso giudiziario, se le migliori firme della cultura italiana hanno aderito alla campagna per la loro liberazione. E l’iniziativa dei 37 parlamentari interrompe il silenzio apatico - quando non complice - delle nostre istituzioni.

Un silenzio voluto in alcuni casi, conseguenza del provincialismo tutto italiano che fa dedicare montagne di pagine agli spifferi d'ogni politicante e tace su ciò che è dotato di rilievo più ampio. Eppure la vicenda, sotto ogni punto di vista, poteva e può considerarsi enorme; sia per gli aspetti politici, sia per quanto attiene alla mostruosità giuridica del caso, sia anche per la dimostrazione della mancanza totale d’indipendenza della magistratura statunitense nei confronti della Casa Bianca. Dal punto di vista strettamente giornalistico la storia avrebbe avuto innumerevoli spunti di riflessione e di denuncia e ben avrebbe meritato inchieste invece mai nemmeno iniziate, mentre sono stati scanditi uno ad uno sedici anni di silenzi.

Gerardo Hernandez, Ramon Labanino, René Gonzalez, Fernando Gonzalez e Antonio Guerrero erano agenti dei servizi segreti dell'Avana impegnati in attività antiterroristiche. Fornirono al loro governo documentazioni precise su quanto avveniva a Miami. Cuba, nella convinzione che la guerra al terrorismo fosse diventata davvero una priorità per gli Stati Uniti, consegnò ad alti funzionari del FBI un lungo e dettagliato dossier sulle attività terroristiche anticubane organizzate in Florida.

Iniziativa pagata cara, forse con la speranza che le relazioni bilaterali Cuba-USA potessero segnare una discontinuità positiva in materia di lotta al terrorismo. L'FBI, preso atto della documentazione fornitagli, agì immediatamente: lasciò liberi i terroristi e arrestò gli antiterroristi. Era il 12 settembre 1998 e cominciava la storia pubblica dei cinque eroi cubani.

Vennero accusati con 26 capi d'imputazione relativi ad altrettante violazioni delle leggi federali USA. Ventiquattro di queste di ordine tecnico (dalla falsificazione di documenti alla mancata registrazione come agenti di servizi segreti stranieri) e, tutto sommato, lievi. Non c’erano accuse di porto abusivo di armi, né di atti violenti contro persone o cose. Eppure le condanne sono state abnormi.

I cinque agenti cubani si trovavano negli Stati Uniti per infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche cubano-americane stanziate in Florida. Queste, che agiscono con la copertura ed il sostegno delle autorità federali della Florida e l'appoggio politico della Casa Bianca, sono responsabili di innumerevoli attentati ed assassinii di funzionari del governo cubano e cittadini dell'isola. Sono altresì responsabili di sequestri di aerei, navi ed attentati ad installazioni cubane dentro e fuori l'isola. I loro affiliati, coordinati e finanziati sia dalla CIA che dalla FNCA, la Fondazione Nazionale Cubano Americana, sono liberi.

Non hanno subito mai nessun tipo di condanna per le loro azioni criminali e la loro cospirazione ai danni di un paese straniero, e godono della totale impunità da parte del governo statunitense, che gli permette persino di addestrarsi apertamente alla guerriglia nelle everglades della Florida. Sono la mano d’opera sporca per ogni operazione della Cia in America Latina, dunque vengono considerati patrimonio delle covert actions che dal Canada alla Terra del Fuoco gli Stati Uniti programmano e realizzano a difesa dei loro interessi.

La storia della Rivoluzione cubana s'intreccia purtroppo di continuo con quella del terrorismo diretto e organizzato negli USA contro di lei; un terrorismo che dal 1959 ha prodotto una invasione militare (fallita), 3478 morti, 2099 feriti, 294 tentativi di dirottamenti marittimi ed aerei, 697 atti terroristici, 600 tentativi di assassinio del suo leader, 1821 miliardi di dollari di danni diretti e dimostrati procurati all'economia dell'isola. Il lavoro dei cinque cubani detenuti negli Stati Uniti aveva almeno impedito 44 attentati ulteriori attentati, salvando la vita a chissà quante persone. Se fossero stati cittadini statunitensi avrebbero ricevuto una medaglia e centinaia di reportages, ma sono cubani e dunque vanno in galera e sotto silenzio assoluto.

Il processo, svoltosi in Florida, durò sette mesi, un record per i processi penali statunitensi. La difesa presentò più di 70 testimoni a favore, tra i quali due generali dell'esercito, un ammiraglio ora in pensione, ed un ex assistente presidenziale. Lo stesso Pubblico Ministero ammise che non venne trovato ai cinque nemmeno un foglio contenente informazioni riservate destinate alla sicurezza nazionale. Ciò nonostante, l'accusa fu quella di spionaggio.

Vennero accusati del tentativo di carpire segreti militari agli USA e di attività contro la sicurezza nazionale. Ma il loro compito era quello, esclusivo, d'infiltrarsi nelle organizzazioni terroristiche cubano-americane e, quindi, nulla aveva a che vedere con lo spionaggio antistatunitense. Risulta perciò paradossale (o illuminante, dipende dai punti di vista) che proprio questa attività investigativa sia stata considerata dal tribunale una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Perché indagare sui terroristi diventa minacciare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti?

Più che le accuse nei confronti degli antiterroristi cubani, dalla loro vicenda emerge una verità storica e politica che surclassa quella della farsa processuale: i cinque cubani non furono condannati per violazione delle leggi degli Stati Uniti, ma per aver scoperto quelli che, sì, le vìolano. Si sono infiltrati in una rete terroristica che, per il fatto di poter essere infiltrata, evidentemente esiste e non è inviolabile. Se si vuole.

La detenzione dei cinque cubani, come la sentenza di condanna, è stata molto al di sotto degli standard minimi di decenza. In barba alla tanto osannata indipendenza dei media verso il potere, giornali e Tv statunitensi decisero di oscurare completamente la vicenda, che per la loro assurdità e per il suo valore simbolico avrebbe potuto creare danni notevoli alla retorica della leadership statunitense.

Ma la sabbia sotto la quale hanno tentato di nascondere la vergogna dell’operazione non ha impedito a Cuba e a quanti, fuori da Cuba, si sono impegnati nella denuncia delle violazioni dei diritti umani, di sollevare il caso e imporlo all’attenzione internazionale.

Anche grazie alla mobilitazione di una rete di solidarietà internazionale, alla quale hanno aderito intellettuali, artisti, giuristi, personaggi della cultura e della politica di tanti paesi, ben dieci Premi Nobel e Amnesty International, il 27 Maggio del 2005, il Gruppo di Lavoro sulle Detenzioni Arbitrarie della Commissione per i Diritti Umani dell’ONU, dichiarò "arbitraria" la loro detenzione e chiese al governo USA di adottare immediate misure per risolvere la situazione.

Oggi, quando Renè e Fernando Gonzalez sono di nuovo a Cuba, dopo aver scontato la loro condanna, Antonio, Ramon e Gerardo sono ancora prigionieri. In numerose occasioni Cuba ha fatto presente che si potrebbe aprire una trattativa bilaterale che porti alla loro liberazione in cambio di quella di Alan Gross, spia statunitense sotto copertura della NED, arrestato a L’Avana per spionaggio nel 2009 e condannato a 15 anni di prigione.

Da Washington non arrivano segnali di disponibilità, per ora rifiutano l’idea di dover trattare con L’Avana; eppure, solo pochi giorni orsono, con i Talebani hanno scambiato un soldato statunitense con quattro jahidisti detenuti a Guantanamo. Ai Talebani evidentemente la Casa Bianca riconosce una possibilità d’interlocuzione che invece nega a Cuba.

Sul piano giuridico formale lo scambio potrebbe essere semplice e rapido. Obama dispone della facoltà di usare il “perdono presidenziale” per i condannati in via definitiva e rilasciare i tre cubani detenuti ingiustamente avrebbe come effetto immediato il ritorno a casa di Alan Gross. Si chiuderebbe in questo modo una vicenda vergognosa per la giustizia statunitense e potrebbe aprirsi uno spiraglio nelle relazioni tra Washington e L’Avana.

Gli avvenimenti recenti, però, nonostante la reiterata disponibilità di Cuba ad avviare una nuova fase nei rapporti con gli USA, non dispongono all’ottimismo. La recente vicenda della multa alla banca francese BNP Paribas, accusata dagli USA di aver effettuato transazioni finanziarie con Cuba e altri paesi presenti nella ridicola lista dei cattivi che Washington stila ogni anno, non sembra indicare un cambio di rotta nella Casa Bianca. Pare semmai che Washington insista nel trasformare le proprie iniziative politiche in giurisprudenza internazionale, estendendo a tutto il mondo le sue leggi interne, a voler ribadire chi governa il mondo.

E nemmeno sul fronte dell’aggressione terroristica sembra potersi proiettare un film diverso da quello degli ultimi 53 anni. Gli arresti del 6 Maggio scorso a L’Avana dei mercenari José Ortega Amador, Obdulio Rodríguez González, Raibel Pacheco Santos y Félix Monzón Álvarez, tutti procedenti da Miami e reo confessi di organizzazione di atti terroristici, indicano che l’attività dei gruppi terroristici della Florida proseguono e che Washington non ha nessuna intenzione di rinunciare all’uso del terrorismo nello scontro politico con l’isola socialista.

Obama o Bush, in questo senso cambia poco: se gli avversari degli Usa diventano automaticamente terroristi e i terroristi amici degli USA vengono definiti "combattenti per la libertà", allora diventa difficile separare lo stretto interesse politico della Casa Bianca dall’ipocrita guerra al terrore planetario.

di Michele Paris

La minaccia americana di infliggere al colosso bancario francese BNP Paribas una maxi-multa da 10 miliardi di dollari ha scatenato un acceso scontro diplomatico tra Washington e Parigi, emerso in particolare durante il recente incontro tra i presidenti Obama e Hollande a margine del G-7. Una delle più grandi banche del pianeta, BNP, è da tempo nel mirino delle autorità d’oltreoceano per avere processato transazioni finanziarie con paesi colpiti da sanzioni decise dal governo degli Stati Uniti.

Tra il 2002 e il 2009, la banca francese avrebbe cioè aggirato le sanzioni imposte dagli USA contro Sudan, Cuba e Iran, principalmente nascondendo l’identità di coloro che erano coinvolti in trasferimenti di denaro in modo da passare attraverso il sistema finanziario americano senza far scattare l’allarme delle autorità.

I vertici di BNP sono stati protagonisti di trattative con svatiati uffici competenti per giungere ad un accordo, tra cui il Dipartimento di Giustizia e quello del Tesoro di Washington, il procuratore distrettuale di Manhattan e il Dipartimento per i Servizi Finanziari dello stato di New York.

Oltre ai 10 miliardi di multa, la banca potrebbe essere costretta ad ammettere di avere commesso un crimine, aprendo così la strada ad ulteriori denunce. Inoltre, anche se le autorità USA sembrano avere ritirato la più grave minaccia di revocare la licenza per operare negli Stati Uniti, BNP potrebbe vedersi sospendere temporaneamente il permesso di processare transazioni finanziare in dollari americani.

Dal febbraio scorso, quando BNP aveva annunciato di avere accantonato 1,5 miliardi di dollari per far fronte a possibili sanzioni negli Stati Uniti, la banca ha perso il 18% del proprio valore di borsa. L’importo della multa di cui si discute, d’altra parte, ammonterebbe a poco meno del totale delle entrate del 2013, vale a dire 11,2 miliardi di dollari e, per gli analisti, potrebbe trascinare l’istituto in “zona pericolo” in concomitanza con i cosiddetti “stress test” bancari dell’Unione Europea.

I 10 miliardi di dollari che potrebbero essere richiesti a BNP hanno suscitato le ire del management della banca e dello stesso governo francese, visto che altre banche nel recente passato hanno concordato con il governo americano multe nettamente inferiori per avere fatto affari con paesi sulla lista nera di Washington.

Le britanniche HSBC e Standard Chartered, ad esempio, avevano pagato rispettivamente 667 milioni e 1,9 miliardi di dollari, mentre l’olandese ING si era accordata per 619 milioni di dollari. Secondo i giornali finanziari, tuttavia, la rilevanza della sanzione ai danni di BNP sarebbe dettata da svariati fattori, tra cui il numero molto più elevato di transazioni “proibite” gestite rispetto alle altre banche, il coinvolgimento diretto dei massimi vertici dell’istituto e la scarsa collaborazione con le autorità americane mostrata da questi ultimi durante l’indagine.

La possibile penalizzazione di BNP Paribas ha spinto molti politici di spicco in Francia a criticare apertamente il governo americano e ad adoperarsi per limitare i danni. Dopo la visita a inizio maggio a New York dell’amministratore delegato, Jean-Laurent Bonnafé, e del governatore della Banca Centrale francese, Christian Noyer, per chiedere clemenza, lo stesso François Hollande ha fatto propria la causa della banca transalpina.

Nell’incontro con Obama settimana scorsa, il presidente socialista ha definito la sanzione da 10 miliardi di dollari “del tutto sproporzionata”, visto che potrebbe avere “conseguenze economiche e finanziarie per tutta l’eurozona”. Della difesa dell’istituto privato si sono fatte carico anche altre importanti personalità francesi, tra cui il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, che in un’intervista radiofonica ha paragonato la sanzione contro BNP ad una “sentenza di morte”, e l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, secondo il quale una maxi-multa potrebbe innescare una reazione a catena colpendo tutto il sistema finanziario europeo.

Ancor più del servilismo mostrato dalla classe politica francese verso uno dei maggiori colossi bancari del pianeta, tuttavia, la vicenda di BNP spicca perché ha fornito una nuova occasione per valutare il modo in cui gli Stati Uniti danno l’impressione di perseguire in maniera imparziale chiunque e qualsiasi compagnia si renda responsabile di attività criminose, al di là della sua posizione o del suo peso economico.

Per cominciare, la risposta di Obama alla supplica di Hollande avrebbe dovuto suscitare lo scherno di qualsiasi giornale o televisione realmente liberi. Il presidente americano ha infatti escluso di potere intervenire nel caso BNP, sostenendo che non è possibile per lui “sollevare il telefono per dire al procuratore generale come gestire la causa”. Per Obama, il sistema americano sarebbe fatto in modo tale da “assicurare che la legge non venga in nessun modo influenza da ragioni di convenienza politica”.

Simili affermazioni sono giunte dal capo di un governo che ha fatto di tutto negli ultimi anni per impedire che un solo dirigente di una sola banca responsabile della colossale crisi finanziaria esplosa nel 2008 venisse messo sotto accusa nonostante la più che ampia evidenza di responsabilità, messe in luce - tra le indagini più autorevoli - da un rapporto del Congresso sul crack di Wall Street nel quale è stato esposto nel dettaglio un sistema quasi interamente basato su attività criminali.

La presunta durezza della giustizia americana, inoltre, continua a riguardare in gran parte banche straniere, tutt’altro che casualmente concorrenti di quelle indigene. Oltre alle già citate HSBC, Standard Chartered e ING, le autorità degli Stati Uniti hanno recentemente negoziato una sanzione da 2,6 miliardi di dollari con l’elvetica Credit Suisse, accusata di avere aiutato ricchi americani ad evadere il fisco nascondendo denaro su conti off-shore. Nessuna di queste banche, oltretutto, è stata perseguita per le attività fraudolente che hanno portato alla rovinosa crisi finanziaria del 2008.

Questo giro di vite del governo USA è stato deciso sull’onda delle polemiche piovute sul ministro della Giustizia, Eric Holder, dopo che aveva lasciato intendere che alcuni istituti bancari risultavano troppo grandi per essere incriminati senza creare problemi all’intero sistema finanziario.

L’ipotesi della multa da 10 miliardi di dollari contro BNP, poi, è arrivata anche per dare seguito ad un intervento pubblico di qualche settimana fa dello stesso Holder, nel quale, per smentire le precedenti dichiarazioni, aveva affermato che il suo dipartimento non intende rispariamre nessuna banca di grandi dimensioni.

Alcune banche americane sono state in realtà perseguite ed hanno negoziato sanzioni importanti, anche se sempre tutt’altro che adeguate al livello di criminalità e comunque poco più che irrisorie rispetto ai profitti accumulati. JP Morgan Chase, ad esempio, l’anno scorso ha pagato 13 miliardi di dollari per chiudere una serie di cause civili legate alle truffe dei mutui sub-prime, mentre Bank of America starebbe trattando un accordo con le autorità che potrebbe includere una multa da oltre 10 miliardi. In tutti i casi, comunque, i patteggiamenti hanno escluso l’ammissione di colpa o l’incriminazione dei vertici delle banche.

Le sanzioni così pagate, quindi, sono considerate poco più di una voce di costo necessaria per continuare a fare affari con modalità in larga misura identiche a quelle che hanno causato il tracollo del sistema.

L’incriminazione di banche europee per la violazione di sanzioni imposte da Washington, infine, rappresenta un messaggio inequivocabile agli istituti e ai governi del vecchio continente, proprio mentre il governo USA sta cercando di raccogliere consensi per adottare misure punitive più pesanti contro la Russia.

Qualsiasi banca che dovesse evadere eventuali sanzioni statunitensi, cioè, potrebbe trovarsi esposta al rischio di multe miliardarie come quella minacciata ai danni di BNP Paribas.

di Carlo Musilli

La Bulgaria chiude i rubinetti al "flusso meridionale". Il premier Plamen Oresharski ha annunciato ieri lo stop alla costruzione di South Stream, il gasdotto che in futuro dovrebbe portare il metano russo in Europa senza passare per l'Ucraina. "Ho ordinato di fermare i lavori - ha detto il primo ministro -. Decideremo gli sviluppi della situazione dopo le consultazioni con l'Unione europea".

La decisione di Sofia - presa verosimilmente con l'appoggio di Mosca - arriva in risposta a un gesto di ostilità da parte di Bruxelles. Martedì scorso Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, aveva annunciato l'apertura di una procedura d'infrazione contro la Bulgaria per irregolarità negli appalti legati a South Stream. "Le regole di cui Bruxelles pretende il rispetto riguardano il fatto che in Bulgaria tutti i lavori per il gasdotto sono stati affidati a imprese bulgare o russe - spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia - e questo in Bulgaria, che è parte dell’Unone europea, non si può fare: le gare devono essere aperte a tutte le aziende europee su una base di parità. Ma il problema specifico degli appalti s'inserisce anche in un contenzioso più vasto e di più lunga data sull’uso futuro del South Stream".

Ed è proprio qui che entrano in gioco gli interessi di Mosca. Alla luce delle regole comunitarie, l'Ue vorrebbe che l'utilizzo del gasdotto fosse aperto a tutti, mentre il colosso russo del metano, Gazprom, pretende di avere l'esclusiva, e su questo punto gode del sostegno bulgaro.

La quota di maggioranza nel progetto è proprio di Gazprom (al 50%), ma sono della partita anche l’italiana Eni (20%), la francese Edf (15%) e la tedesca Wintershall del gruppo Basf (15%). Attraverso il Mar Nero, South Stream deve collegare la Russia alla Bulgaria, per poi proseguire verso Grecia, Italia, Serbia, Ungheria, Slovenia e Austria. Stando al programma, i lavori per la realizzazione dovrebbero essere conclusi entro la fine del 2015 e le consegne di gas dovrebbero iniziare immediatamente dopo.

Pur escludendo dal proprio percorso ogni altro Paese extracomunitario, South Stream di fatto conferma la dipendenza energetica dell'Europa dalla Russia. Per questa ragione molti nell'Unione non vedono di buon occhio la nuova infrastruttura, preferendogli il progetto per il gasdotto Nabucco, che dovrebbe collegare la Turchia all'Austria, portando in Europa il gas (non russo) dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente.

Dal giugno 2013, tuttavia, l'idea del Nabucco risulta accantonata in favore del Tap (Trans Adriatic Pipeline), progetto concorrente che - prelevando il metano nelle medesime zone - punta a connettere l'Italia e la Grecia attraverso l'Albania. L'iter è però ancora lungo: "Siamo pronti iniziare i lavori di costruzione del gasdotto trans-adriatico nei primi mesi del 2016", ha detto a inizio giugno Kjetil Tungland, managing director della società Tap.

Intanto, la Russia inizia a guardare verso est. Il mese scorso Gazprom ha raggiunto un accordo con la Cina per la fornitura di 38 miliardi di metri cubi di gas per trent'anni a partire dal 2018 (il controvalore dell'operazione è di 456 miliardi di dollari). Questo non significa che il gigante russo potrà mai fare a meno dei clienti al di qua degli Urali, considerando che il mercato europeo del gas è il secondo a livello mondiale e il primo per Gazprom. A Mosca però si sono accorti che lo scenario energetico mondiale sta cambiando: secondo le stime dell’Asian Development Bank, nel 2035 il consumo di energia dei Paesi asiatici sarà aumentato del 51%.

L'intesa con Pechino segnala quindi che i russi hanno compreso un principio fondamentale del business, la diversificazione. Una lezione che invece l'Europa tarda ad apprendere. L'errore più grave che i responsabili della strategia energetica Ue abbiano mai compiuto è la mancata interconnessione: oggi i flussi di gas viaggiano soltanto da est a ovest, mentre nessuno è in grado di pompare gas da ovest a est. Per questa ragione alcuni Paesi (non l'Italia) dipendono all’80 se non al 100% dalle forniture russe.

La musica non cambierà con South Stream, che però rappresenta comunque un'infrastruttura decisiva, se non altro perché consentirà all'Europa di svincolare la propria sopravvivenza energetica dalla guerra che si sta combattendo in Ucraina. Proprio per cercare di trovare un accordo al contenzioso sulle forniture di gas tra Kiev e Mosca, oggi a Bruxelles s'incontrano i rappresentanti di Ue, Russia e Ucraina. C'è da scommettere che si parlerà anche di Bulgaria.

di Michele Paris

Le elezioni presidenziali tenutesi questa settimana in Siria sono state accompagnate da una prevedibile campagna diffamatoria, orchestrata da media e governi occidentali, volta a screditare una consultazione per molti versi temuta dall’opposizione che combatte contro il regime di Bashar al-Assad e dai suoi sponsor a Washington, Londra e Parigi.

Se pure vi sono pochi dubbi che il voto di martedì nel paese mediorientale in guerra abbia mostrato l’assenza di vari standard democratici, esso si è svolto in condizioni non troppo diverse da quelle registrate nel recente passato in altri paesi, dove ha nondimeno ricevuto la convinta approvazione dell’Occidente. Soprattutto, il voto è servito a smentire ulteriormente la tesi ufficiale sul conflitto siriano, che lo vorrebbe combattuto da un regime brutale, in grado di rimanere al potere solo con la forza, contro il resto della popolazione.

A dare i risultati definitivi è stato lo “speaker” del Parlamento di Damasco, Mohammad Jihad al-Laham, in un’apparizione in diretta televisiva. Nonostante lo stato di guerra e alcune aree del paese in mano ai “ribelli” armati, alle urne si sarebbero recati circa 11,6 milioni di siriani, vale a dire il 73,4% degli aventi diritto.

Come ampiamente previsto, Assad ha ottenuto una maggioranza schiacciante (88,7%), mentre gli unici altri due candidati in corsa sui 24 che avevano inizialmente manifestato il desiderio di partecipare alla competizione, vale a dire i poco conosciuti Hassan Abdullah al-Nouri e Maher Abdul-Hafiz Hajjar, rispettivamente uomo d’affari e membro del Parlamento, hanno raccolto il 4,3% e il 3,2% dei voti validi.

Il livello molto elevato dell’affluenza è stato subito messo in dubbio in Occidente, visto che parte della Siria rimane sotto il controllo dei gruppi di opposizione, che non hanno ovviamente consentito il voto, e che alcuni milioni di siriani sono attualmente rifugiati in altri paesi a causa del conflitto.

Le zone fuori dal controllo governativo nelle aree settentrionali e orientali del paese risultano essere tuttavia poco popolate, mentre il regime aveva istituito seggi speciali presso le proprie ambasciate all’estero e lungo i confini con i paesi vicini per permettere ai profughi di votare regolarmente.

Anzi, alcuni media non esattamente favorevoli ad Assad la scorsa settimana avevano raccontato di lunghe file di votanti fuori dalle ambasciate siriane in vari paesi, come Libano e Giordania, e di un sostanziale favore espresso pubblicamente per il presidente in carica.

La stessa atmosfera è stata frequentemente descritta dai corrispondenti occidentali in territorio siriano, anche se è del tutto possibile che i dati ufficiali relativi all’affluenza possano essere stati almeno in parte gonfiati. Le autorità elettorali siriane, inoltre, hanno fatto sapere di non avere ricevuto nessuna segnalazione di irregolarità. I reporter che hanno avuto la possibilità di accedere ai seggi hanno però riscontrato vari episodi di brogli a favore di Assad.

Per il segretario di Stato americano, John Kerry, l’intero processo elettorale era stato bollato in ogni caso già alla vigilia come una “farsa”, mentre lo stesso ex senatore democratico nel corso di una visita in Libano nella giornata di mercoledì ha nuovamente definito il voto come “un grande zero” che non cambierà nulla della situazione in Siria.

Dal punto di vista occidentale, d’altra parte, l’organizzazione del voto in uno scenario di guerra e l’assoluta certezza della vittoria di Assad comportavano il totale discredito delle elezioni presidenziali in Siria. Come già anticipato, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno però riconosciuto la piena legittimità, ad esempio, delle recenti presidenziali in Ucraina, organizzate da un regime golpista e nel pieno di un sanguionoso conflitto caratterizzato dalla repressione da parte delle forze governative di Kiev contro gli oppositori filo-russi nelle regioni orientali del paese, dove, come nelle aree in mano ai “ribelli” in Siria, i seggi non sono stati nemmeno aperti.

Elezioni legislative e presidenziali si sono poi svolte nell’ultimo decennio in paesi travagliati da gravissimi conflitti, come Iraq e Afghanistan, sulla cui regolarità è superfluo tornare. Nel recentissimo caso dell’Egitto, inoltre, i governi occidentali non hanno espresso un solo comunicato di condanna nei confronti del regime militare che ha portato alla presidenza il generale Abdel Fattah al-Sisi tra diserzioni di massa delle urne e in seguito al colpo di stato ai danni di un governo eletto e ad una repressione che ha fatto migliaia di morti.

Nessun valore ha avuto per l’Occidente infine anche il rapporto sul voto in Siria degli osservatori di alcuni paesi vicini a Damasco, come Russia, Venezuela, Corea del Nord e Zimbabwe, i quali hanno dichiarato la consultazione sostanzialmente “libera e regolare”. Dal momento che i governi di tutti questi paesi sono più o meno sulla lista nera di Washington, i giudizi da loro epressi non sono stati nemmeno presi in considerazione oppure sono stati utilizzati per rafforzare la tesi dell’elezione-farsa.

Tutti i commenti dei governi occidentali e i resoconti dei media sulle presidenziali siriane hanno quindi ignorato in buona parte la realtà sul campo, visto che riconoscere lo scenario in cui esse si sono svolte avrebbe contraddetto la versione ufficiale che racconta di una dittatura osteggiata dalla grandissima maggioranza di una popolazione oppressa.

Per cercare di delegittimare il voto, dunque, molti paesi in Medio Oriente e in Occidente, a cominciare da Stati Uniti, Germania, Francia e Turchia, hanno impedito ai cittadini siriani entro i propri confini di votare, mentre in Libano il ministro dell’Interno - appartenente al Movimento per il Futuro filo-saudita e filo-occidentale - ha addirittura minacciato di privare i rifugiati siriani del permesso di permanenza nel suo paese se fossero tornati in Siria per esprimere il proprio voto.

La distorsione della realtà è proseguita anche dopo la diffusione dei risultati definitivi. Svariati commenti hanno ad esempio sostenuto che il nuovo mandato settennale ottenuto da Assad - sia pure in maniera fraudolenta - prospetta un aggravamento del conflitto in corso, quando al contrario dovrebbe rappresentare un colpo letale per la credibilità dell’opposizione e favorire un’uscita dalla crisi. Se nuove violenze ci saranno, esse saranno dovute più che altro al continuo sostegno fornito dall’Occidente e dai paesi mediorientali ad un’opposizione screditata e impopolare.

Il Wall Street Journal, poi, ha scritto con disapprovazione che il presidente Assad potrebbe utilizzare il capitale politico appena conquistato ai seggi per giustificare un’escalation delle operazioni militari contro i “ribelli”, descrivendo in maniera esatta ciò che è accaduto piuttosto in Ucraina settimana scorsa in seguito al successo nelle presidenziali dell’oligarca Petro Poroshenko.

Un trattamento obiettivo delle elezioni in Siria, in definitiva, avrebbe dovuto riconoscere il persistente sostegno tra la popolazione, compresa la maggioranza sunnita che condivide la stessa fede dei “ribelli”, per il presidente Assad, se non altro come riflesso dell’avversione diffusa nei confronti di un’opposizione armata violenta e composta in larga misura da jihadisti provenienti dall’estero.

Al di là sia del reale consenso su cui il regime può contare sia della natura dello stesso regime di Assad o della regolarità delle elezioni, il voto di martedì è apparso soprattutto come una prova di indipendenza data da un paese che ha sempre rifiutato l’ingerenza delle potenze imperialiste e che per questa precisa ragione è stato scelto come teatro di una “rivoluzione” imposta dall’esterno. Un paese che questa settimana ha di nuovo respinto qualsiasi ipotesi di un intervento armato occidentale che favorirebbe soltanto forze ultra-reazionarie e distruggerebbe ulteriormente una società fino a pochi anni fa tra le più avanzate del Medio Oriente.

Ciononostante, il messaggio lanciato agli sponsor arabi ed occidentali della “rivolta” dalla popolazione siriana difficilmente verrà recepito dai destinatari. Con ogni probabilità, invece, gli Stati Uniti e i loro alleati continueranno a non riconoscere il totale fallimento della loro politica siriana, intensificando gli sforzi a favore dell’opposizione armata e provocando altro caos e distruzione in un paese già devastato da oltre tre anni di guerra.


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