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di Michele Paris
Il sistema penale statunitense responsabile delle esecuzioni capitali, continua a far registrare raccapriccianti episodi di condanne a morte che si risolvono in sofferenze atroci per i condannati, nonostante siano ormai ben noti i rischi che comportano le attuali modalità di somministrazione dell’iniezione letale. L’ultimo detenuto nel braccio della morte a essere giustiziato al termine di un angosciante procedimento di tortura è stato Joseph Rudolph Wood, condannato ventitré anni fa per gli omicidi della fidanzata e del padre di quest’ultima, avvenuti nel 1989 a Tucson, in Arizona.
Presso il penitenziario statale dell’Arizona a Florence, lo stesso Wood è stato ucciso nel primo pomeriggio di mercoledì dopo una serie di inutili appelli legali e al termine di una lunga agonia nella “camera della morte”.
Secondo il racconto dei fatti di un reporter della Associated Press che ha assistito all’esecuzione, il personale del carcere ha iniziato la procedura inserendo come di consueto un ago in entrambe le braccia del condannato. Dopo una decina di minuti dalla somministrazione delle sostanze letali, Wood ha iniziato a respirare affannosamente “con una frequenza di 5 / 12 secondi” e “per centinaia di volte”.
Le condizioni del condannato sono state controllate ripetutamente dal personale incaricato e uno degli addetti ha ad un certo punto aperto il microfono per comunicare agli spettatori nella stanza di fronte che Wood era ancora sedato, consentendo però ai presenti di sentire il suo ansimare.
La procedura è durata alla fine 117 minuti, durante i quali i legali di Wood hanno addirittura avuto il tempo di presentare (inutilmente) un appello di emergenza a un tribunale federale e alla Corte Suprema statale dell’Arizona per cercare di fermare l’esecuzione.
Dai documenti allegati alla richiesta risulta che il detenuto aveva mosso la bocca circa 6 minuti dopo essere stato dichiarato sedato dallo staff del carcere e che a 70 minuti dalla somministrazione dell’iniezione letale continuava a respirare in maniera pesante con ampi movimenti del torace.
Per una portavoce del procuratore generale dell’Arizona, Wood avrebbe soltanto “russato” durante l’esecuzione, a dimostrazione che era in uno stato di sonno profondo. L’avvocato di Wood, Dale Baich, ha tuttavia espresso più di un dubbio sul fatto che il suo assistito fosse incosciente, per poi sottolineare come una procedura durata quasi due ore, contro i pochi minuti solitamente necessari per giustiziare in questo modo i condannati, sia in ogni caso tutt’altro che normale.
Al termine dell’esecuzione, la Corte Suprema statale ha ordinato il sequestro delle quantità residue dei farmaci utilizzati, mentre l’ufficio del governatore ha chiesto al Dipartimento delle Carceri dell’Arizona di condurre un’indagine sull’accaduto. La governatrice, la repubblicana ultra-reazionaria Jan Brewer, ha però già chiarito quale sia la posizione dei vertici dello stato del sud-ovest degli Stati Unit, dichiarando che “di certo, il detenuto Wood è morto in maniera legale e, secondo i testimoni e lo staff medico, non ha sofferto”.
La responsabilità di quanto è accaduto mercoledì nel carcere di Florence è da attribuire anche alla stessa governatrice dell’Arizona, ai tribunali dello Stato e alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Pur essendoci stati vari precedenti negli scorsi mesi di esecuzioni condotte in maniera disastrosa, le autorità legali e politiche con il potere quanto meno di sospendere la condanna hanno infatti deciso di lasciare procedere la macchina della morte.
Nel caso di Wood, sabato scorso la Corte d’Appello federale per il Nono Circuito con competenza sull’Arizona aveva accolto la richiesta dei legali del detenuto, emettendo un’ingiunzione per fermare il boia. Martedì, però, con un parere fatto appena di tre frasi, la Corte Suprema di Washington ha cancellato la sospensione dell’esecuzione, portata così a termine il giorno successivo.
L’appello di Wood era motivato dal rifiuto delle autorità penitenziarie dell’Arizona di rendere nota la provenienza delle sostanze utilizzate nella somministrazione dell’iniezione letale. Questo stato, prevede l’impiego di due farmaci - Midazolam e Idromorfone - simili a quelli utilizzati nell’esecuzione a gennaio in Ohio di Dennis McGuire, il quale prima di morire aveva evidenziato sintomi di soffocamento.
Ribaltando una sentenza di primo grado e prima dell’intervento decisivo della Corte Suprema USA, tre giudici della Corte d’Appello federale con una maggioranza di 2 a 1 avevano sospeso l’esecuzione di Joseph Wood fino a quando lo stato dell’Arizona, nel rispetto del Primo Emendamento della Costituzione americana, non avesse fornito informazioni sul reperimento delle sostanze letali.
Molti degli stati americani che ancora prevedono la pena di morte da qualche tempo hanno visto esaurirsi le scorte dei medicinali tradizionalmente usati nelle iniezioni letali e che avevano garantito una certa affidabilità delle procedure di morte. Ciò è dovuto allo stop delle forniture dai produttori europei proprio a causa dell’utilizzo delle sostanze in questione nelle esecuzioni capitali.
Le autorità statali hanno allora ripiegato su soluzioni alternative, impiegando mix di farmaci mai testati in precedenza, spesso reperiti presso fornitori non certificati, con il rischio concreto di infliggere sofferenze equiparabili a torture ai condannati a morte, in violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione che proibisce punizioni “crudeli e inusuali”.
Per evitare fastidi e prevenire proteste o boicottaggi contro i nuovi fornitori, gli stessi stati hanno approvato svariate leggi volte a tenere segreta la provenienza dei nuovi farmaci, innescando però una valanga di cause legali.
In un sistema legale brutale e vendicativo come quello degli Stati Uniti, i rischi di infliggere vere e proprie torture ai detenuti nell’esecuzione della più barbara delle punizioni non hanno minimamente toccato la gran parte dei politici e dei giudici. Tanto è vero che nel solo 2014 gli episodi raccapriccianti sono stati numerosi.
Il caso più grave finora registrato è stato forse quello di Clayton Lockett, morto in aprile in un carcere dell’Oklahoma in seguito ad arresto cardiaco dopo 43 minuti trascorsi nel tragico tentativo di somministrargli sostanze di più che dubbia efficacia.
Negli ultimi sette anni vari stati americani hanno abolito la pena di morte (New Jersey e New York nel 2007; New Mexico nel 2009; Illinois nel 2011; Connecticut nel 2012; Maryland nel 2013), mentre la percentuale della popolazione favorevole alle esecuzioni capitali è in continua discesa, se non altro per i costi legali che comporta e la percentuale non trascurabile di errori giudiziari. Inoltre, settimana scorsa un tribunale federale aveva giudicato incostituzionale il sistema della pena di morte nello stato della California a causa delle sue evidenti inefficienze.
Ciononostante, la classe dirigente americana continua in buona parte a promuovere la pena capitale, coerentemente con la realtà di un sistema giudiziario repressivo e violento nella cui rete cadono in grandissima parte gli appartenenti alle classi sociali più svantaggiate.
Gli esempi della spietatezza del sistema penale d’oltreoceano sono evidenti quasi ogni giorno, come confermano le recenti rivelazioni sui maltrattamenti e le violenze somministrate regolarmente dai secondini ai detenuti, spesso malati mentali, nel famigerato carcere di Rikers Island a New York oppure l’esecuzione senza pietà in Missouri di John Middleton. Quest’ultimo è stato giustiziato la settimana scorsa senza tenere conto delle evidenti prove del suo ritardo mentale che, secondo la stessa Corte Suprema degli Stati Uniti, dovrebbe escludere categoricamente l’emissione di una sentenza capitale.
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di Michele Paris
La commissione elettorale dell’Indonesia ha finalmente messo fine a settimane di incertezze e scambi di accuse reciproche tra i due candidati alla guida del paese, assegnando la vittoria nelle elezioni presidenziali del 9 luglio scorso all’ex governatore di Jakarta, Joko “Jokowi” Widodo. Il nuovo leader del più popoloso paese musulmano del pianeta ha superato l’ex generale durante la dittatura di Suharto, Prabowo Subianto, facendo trarre un sospiro di sollievo agli Stati Uniti e alla comunità internazionale degli affari.
Al termine di un laborioso spoglio di oltre 133 milioni di schede provenienti da quasi mezzo milione di seggi elettorali, “Jokowi” ha ottenuto poco più del 53% dei consensi contro quasi il 47% del suo unico rivale. A scegliere il primo sono stati quasi 71 milioni di elettori, mentre al secondo sono andati 62,5 milioni di suffragi. Considerevole è stato il livello di astensionismo, stimato attorno al 30%.
Di fronte agli elettori indonesiani si sono presentati solo due candidati per la carica di presidente a causa dell’anti-democratica legge elettorale che consente solo ai partiti o alle coalizioni che detengono almeno il 20% dei seggi o hanno raccolto il 25% del voto popolare nelle elezioni legislative di presentare un proprio candidato. Nel voto per il rinnovo del parlamento nel mese di aprile, nessun partito aveva superato questa soglia, così che “Jokowi” e Prabowo sono stati candidati solo dopo la formazione di due nuove alleanze ad hoc.
Joko Widodo succederà così nel mese di ottobre al presidente uscente Susilo Bambang Yudhoyono, il quale ha esaurito il limite massimo di due mandati previsto dalla Costituzione indonesiana. “Jokowi” è anche il primo dei cinque presidenti dell’era democratica in Indonesia a non avere ricoperto un qualche incarico ufficiale durante la dittatura di Suharto (1967-1998).
Pressoché sconosciuto alla gran parte degli indonesiani fino a pochi anni fa, il 53enne “Jokowi” aveva iniziato la sua carriera pubblica come sindaco della piccola città di Solo, nella provincia di Java centrale, ed è stato proiettato ai vertici della politica del suo paese grazie ai legami con i pezzi grossi del Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) della ex presidente Megawati Sukarnoputri, i quali hanno accuratamente promosso la sua immagine di politico pragmatico e di “uomo del popolo”.
L’annuncio dei risultati ufficiali non ha comunque chiuso l’accesa disputa in corso tra i due candidati, iniziata all’indomani del voto con la pubblicazione degli exit poll che avevano in gran parte indicato la vittoria di “Jokowi”. Prabowo aveva a sua volta citato un paio di istituti di ricerca che assegnavano invece a egli stesso la maggioranza dei consensi e si era perciò lanciato in pesanti accuse di brogli.
A poche ore dalla comunicazione dei risultati da parte della commissione elettorale nella giornata di martedì, Prabowo aveva addirittura minacciato di ritirare la propria candidatura per impedire l’annuncio del successo del suo avversario. Poco più tardi, l’ex generale diventato imprenditore ha fatto rientrare la minaccia ma ha comunque ritirato i suoi osservatori al conteggio e il suo staff ha fatto sapere di volere presentare un appello alla Corte Costituzionale sulla base di irregolarità riguardanti fino a 21 milioni di voti espressi in 52 mila seggi elettorali. La Corte avrà tempo fino alla metà di agosto per pronunciarsi ma la denuncia, secondo gli esperti, ha ben poche possibilità di andare a buon fine.
Dietro alla candidatura di Prabowo ci sono in particolare quelle sezioni delle élite indonesiane che si sono arricchite durante la dittatura e continuano a mantenere posizioni di rilievo nel paese del sud-est asiatico. Lo stesso Prabowo, il quale era il genero di Suharto, e il fratello, Hasim Djojohadikusumo, sono alla guida di gruppi imprenditoriali che operano in svariati settori con giri d’affari miliardari.
La combattività mostrata da Prabowo fin dalle elezioni di inizio luglio è dovuta anche all’assottigliarsi del vantaggio di “Jokowi” nelle settimane che avevano preceduto il voto. Fino al mese di maggio, infatti, i sondaggi indicavano per quest’ultimo un vantaggio superiore ai 12 punti percentuali ma, grazie anche alle maggiori risorse finanziarie di Prabowo e all’appoggio di molte importanti personalità politiche ottenuto dall’ex generale, tra cui quello del presidente uscente Yudhoyono, la corsa aveva finito per diventare una sorta di testa a testa.
A favore della candidatura di “Jokowi” era intervenuto anche il governo americano nonostante la neutralità ufficiale dichiarata dall’amministrazione Obama. Proprio in concomitanza con la pubblicazione di sondaggi preoccupanti per “Jokowi”, l’ambasciatore USA a Jakarta, Robert Blake, in un articolo del Wall Street Journal a fine giugno aveva invitato l’establishment indonesiano a indagare sulle sospette violazioni dei diritti umani commesse in passato da Prabowo.
L’insolito intervento americano era scaturito dall’apparizione, tramite lo staff di “Jokowi”, di documenti relativi ai presunti crimini di Prabowo, da tempo peraltro accusato di essere responsabile di rapimenti e torture di studenti e oppositori di Suharto in qualità di capo delle famigerate forze speciali Kopassus.
La denuncia sui generis degli Stati Uniti era giunta non tanto per ragioni di giustizia o per scrupoli particolari per i diritti umani della popolazione indonesiana ma per motivi esclusivamente di natura strategica. D’altra parte, anche nella squadra di “Jokowi” ci sono molte figure compromesse col vecchio regime, tra cui l’ex generale ed ex candidato alla presidenza Wiranto, incriminato formalmente per crimini contro l’umanità nell’ambito delle atrocità commesse dall’esercito durante il ritiro da Timor Est nel 1999.
Washington, inoltre, ha alle spalle una lunga storia di interventi in Indonesia, a cominciare proprio dall’appoggio al colpo di stato militare di Suharto che portò alla dittatura e a una durissima repressione con centinaia di migliaia di morti.
In particolare, l’amministrazione Obama temeva una presidenza Prabowo per via del marcato nazionalismo dell’ex generale, considerato con ogni probabilità non sufficientemente propenso ad aprire ulteriormente il proprio paese al capitale internazionale, né ad adottare le “riforme” economiche ritenute necessarie e soprattutto, vista l’importanza strategica di questo paese, ad allineare senza riserve l’Indonesia alla “svolta” asiatica statunitense per contrastare l’avanzata della Cina.
Il programma elettorale di Prabowo includeva infatti alcune proposte di stampo populista, come la creazione di un sistema scolastico gratuito fino all’università e un aumento sensibile del salario minimo. Lo stesso Prabowo, poi, in una recente intervista sempre al Wall Street Journal, oltre a condannare l’aggressione di Israele contro Gaza, aveva messo in guardia i suoi connazionali dalla “minaccia imperialista” che graverebbe sull’Indonesia.
Al contrario, Joko Widodo, viene ritenuto un partner più affidabile sia dagli Stati Uniti che dagli ambienti finanziari internazionali e dalle grandi multinazionali del settore estrattivo che fanno profitti in Indonesia. Come ha rivelato in un’intervista realizzata per la Reuters prima della diffusione dei risultati finali del voto ma pubblicata solo dopo l’ufficialità della sua vittoria, il neo-presidente indonesiano si concentrerà da subito su una serie di questioni che difficilmente possono essere collegate all’immagine di “uomo comune” coltivata in campagna elettorale o alla promessa di alleviare gli esorbitanti livelli di povertà del suo paese.
Per cominciare, “Jokowi” si è detto disposto a negoziare con le compagnie estrattive per porre fine allo stallo seguito al divieto, deciso dall’amministrazione Yudhoyono a gennaio, di esportare minerali non processati nel tentativo di stimolare la creazione di impianti di trasformazione in Indonesia.
L’Indonesia è uno dei maggiori esportatori del pianeta di nickel, rame, bauxite e minerali ferrosi che producono profitti enormi per una manciata di multinazionali, soprattuto americane. Una di queste, la Newmont Mining, ha recentemente fatto appello all’arbitrato internazionale contro il governo di Jakarta a causa del divieto di esportazione, licenziando migliaia di dipendenti e mantenendo chiusa una miniera di cui detiene i diritti di sfruttamento.
Gli altri due punti all’ordine del giorno del prossimo governo saranno poi la riduzione dei sussidi pubblici ai prezzi dei carburanti e, come indicato nell’elenco delle “sfide immediate” stilato mercoledì dal Financial Times, il “miglioramento del clima per gli investitori”.
La fine dei sussidi che alleggeriscono parzialmente i conti delle famiglie più povere nei paesi “emergenti” sono ormai da tempo nel mirino delle rispettive classi dirigenti e degli organi finanziari internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. In Indonesia, questa voce di spesa ammonta a un quinto del bilancio dello stato e viene considerata uno spreco inutile di denaro dalle élite economiche e finanziarie. Sia Yudhoyono che Megawati, presidente dal 2001 al 2004, avevano in passato provato a tagliare i sussidi, scatenando però proteste popolari tra le classi più disagiate.
La creazione di un ambiente più favorevole all’afflusso di capitale straniero, infine, non rappresenta altro che una liquidazione delle regolamentazioni e dei vincoli che limitano l’ingresso degli investitori in Indonesia.
Queste e altre decisioni “difficili” metteranno subito alla prova il nuovo presidente, almeno secondo i commenti dei media ufficiali, visto che la crescita economica indonesiana continua ad essere aggiustata al ribasso e le compagnie internazionali alla ricerca di manodopera a bassissimo costo da sfruttare liberamente mostrano di preferire altre destinazioni in Asia sud-orientale.
Inevitabilmente, politiche simili provocheranno però un intensificarsi delle tensioni sociali e dovranno inoltre essere implementate in un panorama politico frammentato e senza una chiara maggioranza. Il PDI-P di “Jokowi”, infatti, fa parte di una coalizione con altri tre partiti che in parlamento controlla complessivamente appena il 37% dei seggi.
Joko Widodo, tuttavia, potrebbe presto mettere assieme una maggioranza per il suo governo, visto che all’interno del partito Golkar - già strumento politico della dittatura di Suharto e, singolarmente, partito del neo-vicepresidente Jusuf Kalla - in molti stanno manifestando il desiderio di saltare sul carro del vincitore dopo avere appoggiato in campagna elettorale la candidatura di Prabowo Subianto.
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di Michele Paris
I fatti relativi all’abbattimento dell’aereo della Malaysia Airlines MH17 continuano a essere sottoposti a un vergognoso processo di distorsione da parte dei media e dei governi occidentali, così come dal regime ucraino installatosi illegalmente a Kiev. La tragedia avvenuta giovedì scorso nei cieli del paese dell’Europa orientale viene infatti sfruttata appositamente per superare gli ostacoli e le resistenze ad un pericoloso confronto con Mosca e per legittimare un’escalation della repressione in corso contro i ribelli filo-russi.
Martedì a Bruxelles, un vertice dell’Unione Europea ha allungato la lista di individui ed entità russe sottoposte a sanzioni. Allo stesso tempo, con un mix di irresponsabilità, vigliaccheria e totale stupidità, i ministri degli Esteri hanno minacciato di passare alla “fase 3” delle sanzioni - misure cioè che potrebbero paralizzare ampi settori dell’economia russa e, di riflesso, penalizzare le stesse economie europee - se il Cremlino non si adopererà con i ribelli per ristabilire la pace in Ucraina orientale e non collaborerà con l’indagine internazionale sul disastro aereo.
L’iniziativa europea era stata anticipata lunedì dall’annuncio del primo ministro canadese di estrema destra, Stephen Harper, dell’intenzione del suo paese di preparare un nuovo round di sanzioni economiche contro la Russia. Martedì, poi, il neo-ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, e il suo omolgo svedese, Carl Bildt, hanno chiesto un embargo sulle forniture di armi alla Russia alla luce dei nuovi scenari seguiti al disastro aereo.
Curiosamente, nonostante non siano state presentate prove concrete della responsabilità dei ribelli o di Mosca, l’improvvisa accelerazione delle misure punitive è motivata apertamente dall’abbattimento del Boeing malese.
La totale irrazionalità della situazione - resa possibile grazie al contributo dei media ufficiali in Occidente che propagandano in larghissima misura le accuse dei governi dei loro paesi - è confermata dal fatto che in più di un’occasione gli stessi leader occidentali hanno ammesso di non potere ancora stabilire con certezza chi siano i responsabili dell’abbattimento del velivolo.
Esemplari della strategia impiegata dagli Stati Uniti e dai loro alleati per confondere le idee all’opinione pubblica internazionale sono le dichiarazioni rilasciate lunedì dal presidente Obama. L’inquilino della Casa Bianca, dopo che l’intelligence del suo paese aveva sostenuto che ad abbattere l’aereo era stato un missile SA-11 fornito dalla Russia ai ribelli ucraini, ha accusato questi ultimi di avere impedito agli investigatori di accedere al luogo del disastro e di avere rimosso prove importanti per stabilire la verità dei fatti.
Obama si era poi chiesto che cosa i ribelli stessi “stavano cercando di nascondere”. Parallelamente, il presidente ucraino Poroshenko aveva definito “barbara” la condotta dei ribelli. Queste dichiarazioni rappresentano però il tentativo da parte di Kiev e Washington di mettere le mani avanti e di denunciare manipolazioni da parte dei ribelli nel caso un’indagine realmente indipendente dovesse portare a conclusioni imbarazzanti.
Nel mondo reale, invece, tra lunedì e martedì i ribelli in Ucraina orientale hanno consegnato le scatole nere del Boeing alle autorità malesi e facilitato il trasporto delle salme nella città di Kharkiv sotto il controllo governativo. Le due iniziative sono giunte dopo l’approvazione di una risoluzione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un’indagine internazionale sull’abbattimento e in seguito al raggiungimento di un accordo tra i leader della cosiddetta Repubblica Popolare di Donetsk e il governo malese del primo ministro Najib Razak.
Le critiche occidentali lasciavano al contrario intendere che i ribelli - ma anche Mosca - volessero ostacolare lo svolgimento delle indagini, ma i fatti delle ultime ore hanno delineato un quadro differente. Per cominciare, i membri dell’OSCE inviati sul posto hanno affermato di avere avuto libero accesso ai resti del velivolo, mentre uno degli esperti olandesi giunti in Ucraina ha affermato di essere rimasto sorpreso dall’efficienza dei ribelli nel recuperare i corpi delle vittime.
Martedì, piuttosto, ostacoli alle indagini sono stati posti dalle forze del regime di Kiev, così come è sembrata emergere forse la volontà di quest’ultimo di volere nascondere qualcosa. Infatti, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa Ria Novosti, un aereo da guerra ucraino ha bombardato la città di Shakhtarsk, a circa 30 chilometri dal luogo dello schianto, violando un cessate il fuoco che il governo e i ribelli avevano sottoscritto lunedì. Questa intesa riguardava un’area fino a 40 chilometri dal luogo stesso del disastro, così da garantire la sicurezza degli investigatori internazionali.
Alcuni esperti malesi, inoltre, sempre martedì sono stati testimoni diretti di un’incursione aerea delle forze del regime ucraino in una località vicina a Donetsk proprio mentre stavano raggiungendo il luogo dove si è schiantato il Boeing.
Com’è ovvio, sulla stampa occidentale hanno però trovato maggiore spazio le speculazioni ucraine e occidentali sulle responsabilità del Cremlino. La CNN, ad esempio, ha titolato e aperto un pezzo sul proprio sito web con le “rivelazioni” di un esponente del governo di Kiev, il quale si è detto certo che “un ufficiale russo ha premuto personalmente il pulsante che ha causato l’abbattimento del volo MH17”. In maniera singolare, tutto il resto dell’articolo è stato dedicato alla cronaca degli eventi del giorno in Ucraina, mentre non è stata indicata una sola prova a supporto delle affermazioni “esplosive” anticipate dal titolo.
Ugualmente ignorati o irrisi in modo più o meno aperto sono stati anche gli interrogativi sollevati lunedì dal generale russo Andrei Kartopolov nel corso di una conferenza stampa tenuta a Mosca. L’alto ufficiale russo ha presentato alcune conclusioni dell’indagine preliminare condotta nei giorni scorsi dalle forze armate del suo paese, mostrando i dati satellitari e dei radar risalenti alle ore precedenti e successive all’abbattimento.
Le domande a cui il governo di Kiev è stato invitato a rispondere per mostrare un reale interesse a fare luce sulla vicenda riguardano in primo luogo la presenza di un aereo da guerra ucraino Sukhoi-25 a non più di 5 chilometri di distanza dal velivolo MH17 e in un corridoio riservato ai voli civili poco prima dello schianto.
Inoltre, i russi sono in possesso di immagini satellitari del 17 luglio scorso nelle quali è visibile una batteria missilistica Buk dell’esercito ucraino - simile a quella da cui, anche secondo gli USA, sarebbe partito il missile che ha abbattuto il Boeing - in un luogo all’interno di un’area dalla quale sarebbe stato possibile colpire il volo diretto a Kuala Lumpur. Solo tre giorni prima, lo stesso sistema di lancio si trovava in un altro punto, dove è tornato regolarmente il 18 luglio.
Il generale Kartopolov ha anche rilevato un’insolita attività nelle stazioni radar ucraine il giorno dell’attentato, poi ridotta sensibilmente a partire dal 18 luglio. Lo stesso ufficiale ha infine chiesto agli Stati Uniti di rendere note tutte le informazioni ottenute da un loro satellite individuato dai militari russi al di sopra dell’Ucraina orientale al momento dell’espolosione dell’aereo malese. Gli americani, poco dopo il disastro, avevano citato i dati ricavati da questo stesso satellite per affermare che il velivolo era stato abbattuto da un missile ma non hanno finora mostrato pubblicamente quanto in loro possesso.
In definitiva, il mistero del Boeing della Malaysia Airlines è ancora lontano dall’essere risolto, ma quello che conta per Kiev, Washington o Londra è che la tragedia di settimana scorsa rappresenta un’occasione unica per fare avanzare i propri piani in Ucraina.
L’amministrazione Obama e il regime fantoccio di Kiev, cioè, confidano che la morte di 298 persone possa contribuire a convincere i paesi europei più riluttanti ad appoggiare l’escalation dello scontro con Mosca, indifferentemente dalle prove della responsabilità russa o dei ribelli nell’abbattimento del velivolo.
In ultima analisi, comunque, al di là di chi si sia realmente macchiato della strage di giovedì scorso, come aveva suggerito il presidente russo Putin poco dopo il disastro, la responsabilità ultima per avere creato le condizioni nell’ex repubblica sovietica che hanno consentito l’abbattimento di un aereo civile sono da assegnare interamente agli Stati Uniti e ai loro partner occidentali.
Questi ultimi governi da mesi operano in maniera sconsiderata in Ucraina, nel tentativo di sottrarre il paese all’influenza russa. Per raggiungere questo obiettivo strategico, l’Occidente ha coltivato e promosso forze ultra-reazionarie e neo-fasciste che ora occupano posizioni di rilievo all’interno del nuovo regime golpista.
La creazione di un governo di questa natura - pronto a obbedire ai diktat del Fondo Monetario Internazionale e a implementare devastanti misure di ristrutturazione economica - ha provocato dapprima l’inevitabile reazione della Russia, concretizzatasi con l’annessione della Crimea, e successivamente la nascita di un movimento di resistenza di massa nelle regioni orientali, la cui repressione continua ad essere avallata dall’Occidente nonostante il crescente numero di civili vittime dell’offensiva delle forze di Kiev.
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di Michele Paris
In un’intervista rilasciata nel fine settimana al network arabo Al Jazeera, il medico norvegese Mads Gilbert operante presso l’ospedale di Shifa, a Gaza City, si è chiesto “come sia possibile che il mondo permetta che gli israeliani possano prendere di mira la popolazione civile in un’area completamente isolata” dal resto del pianeta. Nella striscia di Gaza, prosegue il medico, “non esistono rifugi o sirene” e “la popolazione è fondamentalmente indifesa di fronte all’enorme potenza della macchina militare israeliana”.
Queste parole descrivono in maniera sommaria ma efficace lo svolgersi dell’ennesimo colossale crimine di guerra in maniera pressoché indisturbata da parte di un governo, come quello di Israele, composto in gran parte da fanatici sionisti con chiare tendenze fascistoidi e razziste e grazie al sostanziale appoggio dei governi occidentali e la connivenza o l’inerzia dei regimi arabi “moderati”.
I bombardamenti indiscriminati contro obiettivi civili avvenuti quotidianamente negli ultimi quattordici giorni e la distruzione seguita all’invasione di terra iniziata giovedì scorso nella striscia di Gaza sono infatti difficilmente descrivibili in maniera differente. Alle operazioni di guerra contro una popolazione inerme si deve aggiungere ora l’impossibilità per circa metà degli oltre 1,7 milioni di abitanti di Gaza di avere accesso ad acqua non contaminata, le lunghissime interruzioni di energia elettrica e la scarsità di carburante e medicinali in una situazione di gravissima emergenza umanitaria.
Proprio mentre il bilancio delle vittime palestinesi superava quota 500, il principale responsabile del massacro in corso, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, era impegnato su varie reti televisive occidentali a gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Ribaltando la realtà dei fatti e chiedendo in definitiva di non credere a ciò che le immagini dal Medio Oriente stanno mostrando al mondo intero, Netanyahu ha ribadito che la responsabilità per la morte dei civili a Gaza è esclusivamente di Hamas e degli altri gruppi islamisti che da qualche settimana lanciano razzi rudimentali contro Israele, senza avere peraltro causato danni significativi.
La condotta criminale israeliana e le menzogne di Netanyahu continuano a incontrare il consenso degli Stati Uniti e dei loro alleati. In una telefonata avvenuta nella serata di domenica, ad esempio, al termine della giornata finora più cruenta dall’inizio delle ostilità, il presidente Obama non avrebbe trovato nulla di più opportuno da comunciare al premier israeliano se non l’appoggio alla sua condotta e la condanna del lancio di razzi da parte di Hamas.
Lo stesso segretario di Stato, John Kerry, prima di volare in Egitto per lavorare a una tregua, sui network americani non si è discostato dalla posizione ufficiale dell’amministrazione Obama, descrivendo poi la strage nei territori palestinesi come una delle “cose che accadono durante una guerra”. Poco prima di un’intervista su FoxNews, però, la duplicità di Kerry e del governo USA è stata smascherata in un fuori onda nel quale l’ex senatore democratico, mentre parlava delle incursioni israeliane al telefono con un membro del suo staff, ha affermato: “Altro che operazione di precisione”, suggerendo che quella in corso non è altro che una strage deliberata di civili.
Ricorrendo alla consueta retorica orwelliana, anche il governo britannico ha dipinto Israele come vittima degli eventi. Il primo ministro David Cameron ha parlato cioè del “diritto di Israele a intraprendere azioni proporzionate per difendersi” dai missili provenienti da Gaza. Vista la realtà degli eventi in Medio Oriente, le affermazioni del premier conservatore e di molti altri leader occidentali potrebbero apparire comiche se non si innestassero su una situazione più che tragica come quella in corso.
Nessuno in buona fede, infatti, potrebbe nemmeno lontanamente equiparare una massiccia campagna di morte e distruzione messa in atto da una macchina militare appoggiata e finanziata dalla prima potenza del pianeta in un territorio isolato e impoverito al lancio di qualche centinaia di missili tutt’altro che sofisticati.
Tanto più, oltretutto, che l’azione di Hamas risulta di natura difensiva di fronte ad un assedio che rappresenta il culmine di decenni di violenze, abusi e prevaricazioni da parte di Israele. Nel caso specifico, inoltre, l’operazione “Margine Protettivo” in atto intenderebbe contrastare un lancio di missili da Gaza ripreso qualche settimana fa proprio come risposta disperata alla repressione israeliana nei confronti dei membri di Hamas dopo il rapimento e l’uccisione lo scorso mese di giugno di tre giovani israeliani, la cui responsabilità non è stata però ancora accertata.
L’impunità garantita ai criminali nelle forze armate e nel governo di Tel Aviv, nonché il contributo di giornali e televisioni ufficiali che fanno di tutto per nascondere le responsabilità di Israele, non possono comunque arrestare il progressivo e inevitabile isolamento internazionale dell’unica presunta democrazia mediorientale, quanto meno agli occhi dell’opinione pubblica se non di una classe politica occidetale in gran parte complice del massacro.
L’operazione militare in corso, poi, oltre a spiegarsi con motivi di natura politica - come il desiderio di scardinare il recente accordo tra Hamas e l’Autorità Palestinese per la creazione di un governo di unità nazionale - e strategica - l’appropriazione delle ingenti riserve di gas naturale al largo delle coste di Gaza - rivela soprattutto la crisi terminale del progetto sionista.
L’ennesima strage indiscriminata di civili palestinesi sull’onda dell’agitazione di politici e movimenti di estrema destra in Israele segna infatti il nuovo punto più basso toccato da un’élite senza più nemmeno un barlume di senso morale né di scrupoli democratici dopo decenni trascorsi a costruire uno stato fondato su violenza, occupazioni illegali, apartheid e punizioni di massa al limite del genocidio.
A Gaza, intanto, la cronaca ha registrato le prime vittime tra i militari israeliani nella giornata di domenica, quando 13 soldati sono caduti durante gli scontri con le forze di Hamas. La nuova giustificazione per l’offensiva in corso sarebbe ora quella di distruggere i tunnel che Hamas ha costruito al confine tra Gaza e Israele per effettuare incursioni nel territorio di quest’ultimo paese. Solo lunedì, i vertici delle forze armate israeliane hanno ucciso una decina di militanti della resistenza che stavano operando un blitz attraverso uno di questi tunnel.
L’inizio della settimana si è aperto poi con nuovi bagni di sangue tra i palestinesi innocenti. Nella città meridionale di Khan Younis si è verificato il singolo episodio più grave dall’inizio della guerra, con la morte di 26 palestinesi dopo il bombardamento di un solo edificio. A Rafah, località di confine con l’Egitto, sono stati invece 11 membri della stessa famiglia, inclusi 3 bambini, a perdere la vita sotto il fuoco israeliano.
Altro materiale per un’incriminazione per crimini di guerra dei vertici politici e militari a Tel Aviv si è accumulato sempre lunedì, dopo che l’artiglieria israeliana ha colpito l’ospedale Martiri di Al-Aqsa facendo almeno 4 vittime e una settantita di feriti, tra cui alcuni membri del personale medico.
Nel frattempo, domenica alle Nazioni Unite il Consiglio di Sicurezza aveva espresso “seria preoccupazione” per il rapido aumentare del numero di morti tra i civili a Gaza, chiedendo inoltre un cessate il fuoco immediato ma senza mettere assieme una vera e propria risoluzione. Una riunione di emergenza del Consiglio è prevista per mercoledì dietro richiesta di Egitto, Palestina e altri paesi arabi.
Da parte sua, il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, aveva avuto parole insolitamente dure per il governo israeliano, definendo “atroce” l’operazione di domenica nella località di Shejaiya, a Gaza City, dove le vittime sono state più di 60 sulle 120 totali della giornata, tra cui decine di donne e bambini.
Lo stesso Ban si trova in Medio Oriente per cercare di negoziare assieme a Kerry una tregua dopo che quella proposta settimana scorsa dall’Egitto era stata inevitabilmente respinta da Hamas. In quell’occasione, il regime del presidente Sisi - responsabile anch’egli del massacro di oltre mille sostenitori dei Fratelli Musulmani, di cui Hamas è la versione palestinese - aveva preparato una proposta di tregua con Israele e il cosiddetto “inviato speciale” del Quartetto per il Medio Oriente, il criminale di guerra ed ex premier britannico Tony Blair, senza consultare né prendere in considerazione nessuna delle legittime richieste di Hamas.
Come aveva rivelato l’immediata accettazione della tregua da parte di Netanyahu, l’iniziativa non era nient’altro che un inganno, dal momento che serviva unicamente a provocare il rifiuto di Hamas e a legittimare la successiva escalation militare israeliana.
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di Michele Paris
Con una sentenza senza precedenti e che potrebbe avere ripercussioni in altri stati americani, un tribunale federale ha giudicato incostituzionale l’intero processo che sovrintende alle esecuzioni capitali nello stato della California. Il giudice della contea di Orange, nella California meridionale, ha preso la storica decisione in risposta ad una causa intentata da un condannato a morte, puntando il dito contro le gravissime disfunzioni che caratterizzano il sistema giudiziario dello stato affacciato sull’Oceano Pacifico.
Secondo il giudice Cormac Carney, una condanna a morte si traduce in realtà in California in una sentenza che “nessuna giuria o legislatura potrebbe razionalmente imporre”, vale a dire “nell’ergastolo con una remota possibilità di essere giustiziati”. Ciò produce ritardi e un senso di incertezza tra i detenuti nel braccio della morte, “in violazione dell’Ottavo Emendamento [della Costituzione americana]”, il quale proibisce punizioni “crudeli e inusuali”.
A supporto del suo giudizio, il giudice Carney ha citato le “sole” 13 esecuzioni portate a termine in California dal 1978 a oggi a fronte di oltre 900 imputati condannati alla pena capitale. Inoltre, circa il 40% dei 748 attualmente detenuti nei bracci della morte delle prigioni californiane sono stati condannati almeno due decenni fa.
La sentenza emessa mercoledì dal tribunale distrettuale con sede a Santa Ana non si basa quindi sul rifiuto della pena di morte da un punto di vista morale, ma scaturisce dalla presa d’atto dell’impossibilità di eseguire le condanne in maniera efficiente e dalla constatazione del danno psicologico provocato sui condannati da questa situazione.
Come ha spiegato lo stesso giudice, “quando un individuo viene condannato a morte in California, la sentenza contiene una promessa implicita dello stato che la pena sarà effettivamente eseguita”. Tale promessa viene fatta ai cittadini dello stato, i quali pagano per il sistema giudiziario, ai giurati, che valutano “prove di crimini innegabilmente orribili” e prendono parte a “dolorose deliberazioni”, alle vittime e ai loro familiari.
Inoltre, la promessa di morte viene fatta anche “alle centinaia di condannati nel braccio della morte, per affermare che i loro crimini sono così terribili da meritare la privazione della vita”. Ciononostante, continua la sentenza, “per troppo tempo la promessa è stata vuota” e il risultato è “un sistema nel quale fattori arbitrari, piuttosto che legittimi cone la natura del crimine o la data della condanna a morte, determinano se un individuo verrà giustiziato”.
Per queste ragioni, il sistema della pena di morte in California non ha praticamente alcun legame con la pena reale imposta ai condannati ed è dunque “incostituzionale”.
La decisione è giunta in risposta alla causa avviata dai legali del detenuto Ernest Dewayne Jones, condannato a morte nel 1995 per lo stupro e l’assassinio nella madre della sua fidanzata nel 1992 mentre era in libertà vigilata. La sentenza capitale ai danni di Jones è stata così annullata anche se la sua sorte e gli effetti del caso su altri stati americani dipendono ora dall’esito dell’appello che verrà probabilmente presentato dal procuratore generale della California.
Nel caso venisse confermato, secondo molti esperti americani il verdetto potrebbe incoraggiare cause legali con buone probabilità di successo quanto meno in quegli stati - come ad esempio la Pennsylvania - che hanno una folta popolazione nei bracci della morte e nessuna o poche condanne eseguite negli ultimi anni.
Lo stesso principio fissato dal giudice Carney si applicherebbe teoricamente anche al sistema penale federale, nel quale non si è assistito a condanne a morte negli ultimi undici anni, mentre solo tre condannati sono stati giustiziati dal 1963.
Secondo l’esperto di casi capitali Douglas Berman, docente di diritto alla Ohio State University, la logica dietro alla sentenza, che garantisce l’annullamento della pena di morte a causa dell’inerzia dei sistemi legali statali, potrebbe però mostrare molte debolezze in appello.
Lo stato della California, ad esempio, potrebbe sostenere che il problema evidenziato dal giudice Carney è superabile con una riorganizzazione del sistema che governa le esecuzioni capitali e, di conseguenza, giustiziando i condannati con maggiore frequenza. Per Berman, tuttavia, una simile soluzione rimane difficile da applicare viste le disfuzioni esistenti.
Alcuni sostenitori della pena di morte hanno fatto notare invece come la Corte Suprema degli Stati Uniti abbia sempre respinto la tesi dell’incostituzionalità della pena di morte a causa dei ritardi nell’implementazione delle sentenze di condanna. Il giudice Carney, tuttavia, ha evidenziato come i precedenti pareri della Corte Suprema riguardassero casi di singoli detenuti, mentre quello in questione ha fatto scaturire un giudizio sull’intero sistema californiano.
La stessa Corte Suprema potrebbe alla fine prendere in considerazione il caso, soprattutto se la corte d’Appello competente - quella del Nono Circuito con sede a San Francisco - dovesse ratificare la sentenza di primo grado.
In California, in ogni caso, la pena di morte era stata confermata da un referendum popolare nel novembre del 2012, quando la “Proposta 34” per abolire le esecuzioni capitali nello stato era stata sconfitta con un margine di appena 4 punti percentuali (52% a 48%). Questo Stato è uno dei 32 nei quali è tuttora in vigore la pena di morte, anche se solo una decina la applicano con una certa regolarità.
In California, poi, dal 2006 vige una moratoria di fatto, dopo che un giudice federale ha bloccato l’esecuzione del condannato Michael Morales in seguito ad una causa presentata in merito alla corretta somministrazione dei farmaci utilizzati nelle iniezioni letali.
Una disputa sull’efficacia e la provenienza di questi farmaci è peraltro in atto da tempo in molti altri stati americani a causa della difficoltà nel reperire i prodotti solitamente usati nelle iniezioni letali dopo lo stop delle forniture deciso dai paesi europei.
Di fronte al moltiplicarsi delle cause legali, le autorità dei vari stati sono spesso ricorse a metodi mai testati in precedenza per mettere a morte i condannati oppurre hanno adottato leggi per tenere segrete le identità dei fornitori dei farmaci letali. Ciò ha portato a più di un’esecuzione finita in maniera disastrosa, con sofferenze atroci per i condannati a morte.
Malgrado ciò, la macchina della morte negli Stati Uniti non si è fermata. Lo stesso giorno della sentenza che ha decretato incostituzionale la pena di morte in California, infatti, lo stato del Missouri ha somministrato l’iniezione letale al condannato John Middleton, la cui esecuzione era stata temporaneamente fermata martedì da un giudice federale alla luce dei forti sospetti sul suo stato di salute mentale.