- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Mario Lombardo
Di fronte all’offensiva americana volta a contenere l’espansione del proprio paese, il presidente cinese Xi Jinping è stato protagonista nei giorni scorsi di una serie di annunci e discorsi - durante e a margine degli appuntamenti internazionali del G-20 e dell’APEC - che hanno chiarito la strategia di Pechino per cercare di rompere l’accerchiamento in cui rischia di trovarsi la futura prima economia del pianeta.
Anche se in maniera indiretta, il leader del Partito Comunista Cinese ha in particolare risposto al presidente Obama con un’apparizione al Parlamento australiano un paio di giorno dopo l’intervento a Brisbane del collega americano.
Il messaggio di Xi è stato sostanzialmente rassicurante nei confronti dell’Australia, prospettando le occasioni a disposizione della borghesia indigena se il paese dovesse decidere di costruire una partership più solida con Pechino. “Un ambiente domestico armonico e stabile” assieme a “un ambiente internazionale pacifico” è quanto di cui ha bisogno la Cina, ha spiegato Xi, promettendo che il suo paese “non crescerà mai a spese degli altri”. Al contrario, il presidente cinese ha lanciato una dura critica a Stati Uniti e Giappone, sia pure senza nominarli, sostenendo che “i paesi che perseguono politiche bellicose sono destinati a morire” e a “sparire dalla storia”.
Cina e Australia avrebbero inoltre “tutte le ragioni per andare al di là delle loro relazioni economiche”, in modo da diventare “partner strategici che hanno una visione univoca e inseguono obiettivi comuni”. L’Australia, al contrario di USA e Giappone, non ha d’altra parte “problemi storici” con la Cina e anche per questo i due paesi possono essere “vicini che convivono in armonia”.
Xi ha comunque avvertito che la Cina non transigerà sui suoi interessi fondamentali, con un chiaro riferimento alla questione di Taiwan e alle dispute territoriali con vari paesi nel Mar Cinese Orientale e Meridionale. Le controversie con i propri vicini, in ogni caso, “possono essere risolte pacificamente” come Pechino ha già fatto in passato.
La leva principale del discorso di Xi a Canberra è stata rappresentata però dall’economia, visto che la Cina è il primo partner commerciale dell’Australia. Il presidente cinese non è apparso cioè interessato a lanciare velate minacce alla classe dirigente australiana per avere in sostanza assecondato gli Stati Uniti nei preparativi di un possibile conflitto con Pechino.
Anzi, Xi ha prospettato un futuro fatto di relazioni economiche ancora più solide, con la Cina che continuerà ad acquistare materie prime e altri prodotti dall’Australia per centinaia di miliardi di dollari, mentre investirà massicciamente in questo paese.
L’evoluzione delle relazioni bilaterali tra Pechino e Canberra auspicata da Xi comporterebbe tuttavia una drastica e delicatissima modifica degli orientamenti strategici dell’Australia, la quale dovrebbe di fatto rinunciare all’allineamento incondizionato con gli Stati Uniti, assicurato almeno dagli ultimi due governi laburista e conservatore.Come ha spiegato un commento pubblicato martedì dal quotidiano di Melbourne The Age, “la vicinanza strategica proposta [da Xi] metterebbe l’Australia in una posizione di compromesso, potenzialmente insostenibile, tra l’essere un partner militare e geografico cruciale per gli Stati Uniti nel loro riassetto verso la regione Asia-Pacifico… e il condividere interessi strategici con la Cina che vanno contro gli USA”.
In definitiva, Xi ha sfruttato e intende continuare a sfruttare a proprio vantaggio il dilemma che attraversa la classe dirigente e il business australiano, tra l’essere appunto una pedina di importanza vitale nella strategia americana in Asia e lo sviluppare lucrosi rapporti commerciali con il gigante cinese.
Un dilemma che scaturisce precisamente dall’impossibilità nel medio o lungo periodo di mantenere una posizione equidistante tra Washington e Pechino, poiché la strategia asiatica inaugurata dall’amministrazione Obama fin dal 2009 non ammette vie di mezzo, così come non ammette la crescita indipendente della Cina e il perseguimento, da parte di quest’ultima, di politiche da grande potenza che minaccino la supremazia USA in un’area fondamentale del pianeta.
L’identica incertezza sul futuro da dare agli orientamenti del proprio paese interessa non solo la classe dirigente australiana ma anche quelle di molti paesi dell’Estremo Oriente - come ad esempio le Filippine, l’Indonesia, la Thailandia o lo stesso Giappone - che vedono crescere esponenzialmente le proprie relazioni commerciali con la Cina pur conservando alleanze politiche o militari con gli Stati Uniti.
Pechino, d’altra parte, non potendo competere militarmente con Washington, offre incentivi economici spesso molto difficili da respingere. D’altro canto, gli USA cercano di intensificare soprattutto la cooperazione militare anti-cinese con molti paesi, dal momento che non hanno alcuna possibilità di tenere il passo di Pechino sul fronte economico, essendo anche l’inarrestabile declino della potenza economica americana ciò che sta alla base dell’aggressività evidenziata in Asia orientale.
Per la Cina, dunque, la speranza è che l’intensificazione dei rapporti commerciali con i propri vicini possa nel prossimo futuro minare le partnership stabilite dagli Stati Uniti con paesi come l’Australia, i quali vedrebbero così a rischio i propri interessi, sempre più legati a quelli di Pechino, appoggiando Washington in un eventuale conflitto tra le prime due potenze economiche del pianeta.
Che la strategia cinese possa raggiungere il proprio scopo pacificamente è tutto da vedere. Infatti, gli USA intendono contenere con ogni mezzo possibile proprio la crescente influenza di Pechino, soprattutto sul fronte economico, e hanno già mostrato di essere pronti a scatenare una guerra rovinosa per difendere i loro interessi strategici.Ad ogni modo, per il momento la scommessa australiana sembra essere quella di provare a bilanciare l’asservimento agli Stati Uniti - mostrato in più occasioni negli ultimi mesi dal primo ministro, Tony Abbott - con la possibilità di trarre i maggiori profitti possibili dalle relazioni con la Cina.
Anche in questo senso è da considerare il Trattato di Libero Scambio firmato tra i due paesi nei giorni scorsi dopo anni di negoziati. Secondo quanto sottoscritto da Pechino e Canberra, le tariffe doganali sui prodotti minerari e agricoli australiani esportati verso la Cina verranno abolite nei prossimi anni. Le aziende australiane dei servizi vedranno poi aprirsi le porte del mercato cinese, mentre quelle cinesi - ma solo del settore privato - potranno investire in Australia fino a circa un miliardo di dollari senza dover ottenere l’autorizzazione del governo di Canberra.
A dare la misura della futura integrazione delle due economie - a fronte dei fortissimi legami politici e militari che Canberra continua a intrattenere con gli Stati Uniti - basti infine citare un dato pubblicato dalla stampa in Australia nei giorni scorsi. Quando il trattato entrerà a pieno regime, cioè, la Cina dovrebbe giungere ad assorbire addirittura il 95% delle esportazioni complessive dell’industria australiana.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Nel relativo disinteresse dei media americani, una ex diplomatica molto vicina alla famiglia Clinton è finita qualche giorno fa sotto indagine nell’ambito di un’operazione di contro-spionaggio condotta dall’FBI. La donna, Robin Raphel, è considerata una delle voci più autorevoli a Washington tra quelle che appoggiano una partnership più solida degli Stati Uniti con il Pakistan e, pur non essendo stata finora incriminata formalmente, nei suoi confronti graverebbe l’accusa di avere fornito informazioni riservate proprio al governo di Islamabad.
Quando l’FBI ha fatto visita all’abitazione di Robin Raphel una decina di giorni fa, i giornali hanno subito ipotizzato che la ex funzionaria del Dipartimento di Stato avesse sottratto documenti classificati, per condividerli appunto con le autorità pakistane.
Se nei suoi confronti verrà aperto un formale procedimento non è ancora chiaro, ma il suo nulla osta di sicurezza è già stato sospeso, mentre il Dipartimento di Stato l’ha di fatto sollevata dal suo incarico nel del team assegnato alle questioni relative a Pakistan e Afghanistan.
Visto il silenzio che prevale sulla vicenda all’interno del governo USA, risulta al momento difficile comprendere quali siano i reali motivi o le ramificazioni dell’indagine ai danni di Robin Raphel. Tuttavia, le possibili implicazioni del caso si possono facilmente dedurre dal suo curriculum e dai suoi legami politici a Washington.
I giornali d’oltreceano hanno definito la donna come una presenza fissa nei circoli diplomatici degli Stati Uniti negli ultimi decenni. Nata Robin Johnson nel 1947 nello stato di Washington, la ex diplomatica aveva iniziato a lavorare per il governo come analista della CIA per poi giungere per la prima volta in Pakistan negli anni Settanta come funzionaria della famigerata Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale (USAID), con la quale gli USA distribuiscono aiuti economici e umanitari (e spesso spionaggio) a seconda dei propri interessi strategici.
Robin Rapel era già stata coinvolta in una vicenda dai contorni oscuri un quarto di secolo fa, sia pure in maniera indiretta. Nel 1988, infatti, il suo ex marito, l’ambasciatore USA a Islamabad Arnold Raphel, era morto assieme all’allora presidente pakistano, generale Zia ul-Haq, in un incidente aereo avvenuto in circostanze mai interamente chiarite.
I suoi rapporti con il Pakistan sono sempre rimasti molto solidi, come confermano i toni celebrativi dei giornali indiani nei giorni scorsi, i quali hanno ricordato tra l’altro come Robin Raphel fosse giunta in passato a mettere in discussione le fondamenta su cui Nuova Delhi basa la propria sovranità sul Kashmir.
Proprio al Pakistan è così legata quasi tutta la carriera della ex diplomatica americana. Nel 1992 fu il presidente Clinton a nominarla a sorpresa alla carica di assistente segretario di Stato per l’Asia centrale e meridionale. In questa veste, Robin Raphel aveva anche incontrato i vertici del regime talebano in Afghanistan per promuovere la costruzione di un mai realizzato gasdotto e di un oleodotto che avrebbero dovuto collegale il Turkmenistan al Pakistan.
Dopo altri incarichi, tra cui quello di ambasciatrice USA in Tunisia a partire dal 1997, Robin Raphel decise di lasciare il Dipartimento di Stato nel 2005, anche se il Pakistan sarebbe rimasto al centro dei suoi interessi professionali. Infatti, due anni dopo fu assunta dalla compagnia di consulenza Cassidy & Associates, lavorando come lobbista a favore di vari governi stranieri, tra cui ovviamente quello di Islamabad.Il suo ritorno al governo fu deciso poi sempre da un membro della famiglia Clinton, poiché fu Hillary nel 2009 a chiamarla nuovamente al Dipartimento di Stato guidato dalla ex first lady, assegnandola allo staff di Richard Holbrooke, a sua volta appena scelto come inviato speciale dell’amministrazione Obama per l’Afghanistan e il Pakistan.
Secondo quanto riportato dalla testata conservatrice Washington Free Beacon, quest’ultima nomina era avvenuta solo pochi giorni dopo la cancellazione della sua registrazione da lobbista per un governo straniero, contravvenendo perciò alla legge che prevede, per personalità che svolgono impieghi simili, un’attesa di almeno due anni prima di essere assunte dal governo.
Inoltre, la compagnia Cassidy & Associates si sarebbe messa in contatto con la stessa Raphel nemmeno un mese dopo il suo ritorno al Dipartimento di Stato, in modo da sfruttare precocemente i legami precedenti per promuovere politiche favorevoli al Pakistan. In particolare, la società di lobbying era interessata alla discussione “delle priorità e dei meccanismi” relativi alla gestione dei fondi e degli aiuti da destinare al paese centro-asiatico.
Secondo i media americani, d’altra parte, Robin Raphel nel suo ultimo incarico di governo avrebbe controllato la gestione di aiuti “non militari” a favore del Pakistan per oltre 7 miliardi di dollari.
I suoi guai con l’FBI non sembrano in ogni caso essere legati né a quest’ultimo aspetto del suo incarico né al conflitto di interessi emerso al momento del ritorno al Dipartimento di Stato. Una fonte governativa anonima ha invece spiegato alla CNN che un’indagine di contro-spionaggio come quella in corso “ha a che fare solitamente con accuse di avere passato informazioni a governi stranieri”.
Per altri ancora, come ha scritto l’agenzia di stampa indiana Aninews, se un comportamento illegale da parte di Robin Raphel c’è effettivamente stato, si tratterebbe esclusivamente di “negligenza” nel trattare documenti classificati oppure l’FBI intenderebbe fare pressioni sulla donna per ottenere informazioni su altre persone al centro delle indagini.
Quel che è certo è che Robin Raphel deve avere avuto nemici e detrattori molto potenti nell’apparato militare e dell’intelligence degli Stati Uniti vista la sua posizione tutt’altro che comune riguardo al Pakistan. Negli ultimi anni i rapporti tra Washington e Islamabad si sono infatti deteriorati in seguito alle continue violazioni della sovranità pakistana da parte americana a causa dei ripetuti bombardamenti con i droni per colpire presunti terroristi islamici.
Da parte sua, il governo americano ha spesso puntato il dito contro il Pakistan in maniera più o meno esplicita, accusando soprattutto i servizi di intelligence di appoggiare segretamente alcuni gruppi fondamentalisti, così da mantenere una certa influenza sulle vicende del vicino Afghanistan.
Per la stessa agenzia indiana Aninews, poi, anche alcuni funzionari del Dipartimento di Stato sarebbero concordi nel definire “straordinaria” la capacità di Robin Raphel di “avvelenare le acque della diplomazia in relazione alle questioni di India e Pakistan”.
In quest’ottica, la sorte di Robin Raphel potrebbe inserirsi nel riassetto delle priorità strategiche americane in Asia centrale, in concomitanza con il ritiro della gran parte delle truppe da combattimento dall’Afghanistan a fine anno e con l’intensificarsi degli sforzi per rafforzare la partnership strategica con l’India.Alla luce delle inclinazioni decisamente favorevoli al Pakistan attribuitele dai media, sarebbe d’altronde facile far credere a una sua attività spionistica per il governo di questo paese. Se così fosse, poi, le reazioni quasi euforiche registrate nei giorni scorsi sui giornali indiani dopo il suo congedo forzato dal Dipartimento di Stato confermerebbero ampiamente che Nuova Delhi ha recepito il messaggio proveniente da Washington.
Tutt’altro che da escludere è infine la possibilità che l’indagine ai danni della 67enne ex diplomatica possa rappresentare anche un colpo basso per mettere in imbarazzo Hillary Clinton, proprio mentre sta per prendere il via la corsa alla successione di Obama e la ex senatrice di New York appare come la logica favorita per il Partito Democratico.
Come già ricordato, Robin Raphel deve d’altra parte molto alla famiglia Clinton e soprattutto all’ex presidente, con il quale era entrata politicamente in sintonia fin dai tempi del loro primo incontro in Inghilterra sul finire degli anni Sessanta, quando i due erano studenti poco più che ventenni rispettivamente all’università di Cambridge e a quella di Oxford.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Muzzi
LONDRA. Con un consenso sulla leadership al minimo storico e un programma elettorale che fa acqua da tutte le parti, Ed Miliband persiste sulla strada del voler negare ciò che appare evidente. Il recente discorso del leader Labour agli industriali britannici è cominciato con le facili ‘headlines’ da dare in pasto alla stampa presente alla conferenza annuale della CBI (Confederation of the British Industries) ed è terminato con un ‘No’ secco al giornalista di ITV che gli ha chiesto se riconoscesse le contestazioni sulla sua leadership interne al suo partito come una realtà della quale dover prendere atto.
Una dimostrazione di come Miliband manchi completamente di prontezza di riflessi, carisma, dialettica, sense of humour, sarcasmo, complicità, contatto con la base del suo stesso partito, tenacia e di tutte quelle qualità che ci aspetteremmo dal leader di uno dei partiti politici più importanti del mondo democratico, tanto più in una fase di campagna elettorale.
Gli inglesi, e non solo, non vedono in Ed the Red un futuro primo ministro: secondo i dati della Ipsos Mori, solo il 13% dei cittadini britannici (ovvero uno su otto) pensa che ed Miliband sia adatto a diventare Primo Ministro. Per dare un’idea dei dati aggiornati, i Conservatives sono al 32%, il Labour al 29%, I Lib Dem al 9% e i razzisti dell’UKIP al 14%. La tendenza dei Labour in vista delle prossime politiche in Maggio 2015 è in perdita (- 4 punti in percentuale sinora).
Mentre sul dramma della successione alla poltrona a Downing Street si alza il sipario mediatico, dietro le quinte, come nella migliore tradizione shakesperiana, trionfa il complotto. Secondo l’Independent la lobby ebraica, da sempre sostenitrice dei Labour e vicina ai Miliband, avrebbe ritirato il sostegno al partito dopo il dichiarato e coerente appoggio dei Labour ai Palestinesi per voce di Ed e del ministro degli esteri ombra, Douglas Alexander, cui ha fatto seguito il recente voto in favore del riconoscimento dello Stato Palestinese.
Un voto storico, che anche il conservatore Richard Ottawaya, capo del Foreign Affairs Select Committee, ha riconosciuto come inevitabile dopo gli attacchi israeliani a Gaza che hanno causato tra lo scorso Luglio e Agosto oltre duemila morti tra la popolazione civile.
Nonostante il tabloid inglese parlando di difficoltà persino “nell’organizzare una cena per raccogliere fondi presso la comunità ebraica” abbia citato fonti anonime, la BBC non ha perso l’occasione di rinnovare la sua complicità con il governo Cameron, rilanciando la notizia (senza fonti) e scatenando così la reazione delle associazioni contro l’antisemitismo. Insomma, l’atmosfera è ‘toxic’.
Le dinamiche faziose e corporative non vengono bilanciate da un’alternativa politica forte e credibile, questo è il problema. Nel suo programma Miliband annuncia un elenco di slogan dei quali è arduo immaginare la reale fattibilità. A cominciare dallo “spingerò le compagnie che gestiscono gas ed eletticità a congelare le bollette fino al 2017”, omettendo di dire come pensa di fare in un contesto di libero mercato.
Ugualmente poco praticabile risulta l’idea di "restituire potere ai proprietari che affittano i propri immobili cancellando le tasse sull’affitto e stabilizzando i contratti d’affitto”; improbabile, per non dire impossibile, che questo farà scendere il prezzo degli affitti e favorirà gli inquilini che sono la parte sociale più povera ed indifesa.
Quanto alla finanza c’è poi la promessa di “riformare le nostre banche in modo che supportino le piccole imprese"; ma in realtà il governo britannico non ha nessun potere effettivo sugli istituti bancari.
E, infine, il dramma del lavoro viene affrontato con propaganda allo stato puro, che gli fa dire “impedirò alle agenzie per il lavoro di reclutare solo dall’estero”; ma che le ‘recruitment agencies’ facciano lavorare solo stranieri è una dichiarata menzogna con la quale Miliband tenta di compiacere l’elettorato britannico giovane e disoccupato, gli indecisi, i moderati e anche gli insoddisfatti di destra e conservatori abbindolati dalla issue elettorale anti-immigrati.
Le agenzie in Gran Bretagna non reclutano assolutamente solo stranieri, anzi è esattamente l’opposto e, a conferma di questo, Ed Miliband si è guardato bene nel discorso alla CBI dall’affrontare questo punto perché gli industriali lo avrebbero contestato. Purtroppo tra le qualità di un leader è necessaria la buona fede, che in questo caso purtroppo non c’è. Nemmeno questa.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
In coincidenza con la fine della campagna elettorale per le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti, il presidente Obama avrebbe chiesto al Dipartimento di Stato di avviare un processo di “revisione” della strategia americana nei riguardi della crisi in Siria, viste le difficoltà a ridurre significativamente l’influenza dello Stato Islamico (ISIS) dopo settimane di bombardamenti.
A riportare la notizia è stata giovedì la CNN, la quale ha citato svariati anonimi esponenti dell’amministrazione Obama per confermare che a Washington sarebbe in corso un ripensamento dell’approccio alla questione siriana. La rielaborazioe della strategia USA, in particolare, sarebbe la conseguenza dell’impossibilità di sconfiggere l’ISIS “senza una transizione politica in Siria e la rimozione del presidente Bashar al-Assad”.
Ricorrendo a parole attentamente calibrate, sul proprio sito web la CNN ha sostenuto che la “revisione” in corso sarebbe la conseguenza della “tacita ammissione dell’errore di calcolo” commesso dalla Casa Bianca con la decisione iniziale di assegnare la priorità alla guerra contro l’ISIS in Iraq e di intervenire solo successivamente e in maniera limitata in Siria, oltretutto “senza impegnarsi sulla rimozione di Assad”.
Oltre alla “revisione” da poco disposta, il presidente democratico nelle ultime settimane avrebbe anche presieduto a quattro riunioni con i suoi consiglieri per la sicurezza nazionale, a cui ha assistito, tra gli altri, il segretario di Stato John Kerry. Un probabile testimone degli incontri ha confidato alla CNN che in queste occasioni si è discusso “in gran parte di come integrare la nostra strategia per la Siria con quella relativa all’ISIS”.
Dietro alle parole caute del network statunitense e delle proprie fonti, appare chiaro e tutt’altro che sorprendente il motivo della “revisione” strategica ordinata da Obama. Come previsto da molti fuori dai circuiti dei media “mainstream”, cioè, i tempi sembrano essere quasi maturi per dirottare gli sforzi americani verso il vero obiettivo della nuova avventura bellica in Medio Oriente, vale a dire il cambio di regime a Damasco.
Il cosiddetto “errore di calcolo” di cui parla la CNN, che avrebbe convinto l’amministrazione Obama a prendere in considerazione un intervento più incisivo nelle vicende interne della Siria, è in realtà una strategia programmata fin dall’inizio. Infatti, l’obiettivo finale dell’attacco lanciato all’ISIS prima in Iraq e poi in Siria è sempre stato quello di riuscire a trovare, dopo più di tre anni di guerra in quest’ultimo paese, una giustificazione sufficientemente solida per dare la spallata finale al regime alauita (sciita) di Damasco.
L’accelerazione da dare alla campagna di Siria viene ora dipinta, con l’aiuto della stampa ufficiale, come una necessità dettata dalle circostanze, nel modellare le quali gli Stati Uniti e i loro alleati non avrebbero avuto alcuna responsabilità.
Significativo in questo senso è stato il commento rilasciato nella serata di mercoledì dal portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, Alistair Baskey, secondo il quale “Assad è stato il principale magnete per l’estremismo in Siria”, spingendo da tempo Obama a dichiarare che il presidente siriano “non è più legittimato a governare”.
Una ricostruzione onesta degli eventi, al contrario, mostrerebbe come siano stati precisamente gli Stati Uniti, assieme a paesi come Turchia, Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, ad alimentare l’integralismo sunnita sia per combattere direttamente il regime di Assad, ovvero un rivale strategico in Medio Oriente, sia per seminare il caos in Siria e favorire un intervento militare esterno.Ancora in questi giorni, d’altra parte, continuano ad apparire rivelazioni che descrivono come gli alleati di Washington abbiano finanziato e armato l’ISIS e le altre formazioni jihadiste per i propri scopi in Siria, a cominciare dalla Turchia. Il regime di Erdogan persiste inoltre nel mantenere un atteggiamento a dir poco ambiguo all’interno della “coalizione” anti-ISIS messa assieme da Obama, dal momento che si adopera con maggiore impegno per annientare le organizzazioni curde siriane che i fautori dell’emirato.
In sostanza, gli Stati Uniti vorrebbero far credere che le loro intenzioni erano rivolte unicamente alla stabilizzazione dell’Iraq, mentre l’allargamento delle operazioni belliche alla Siria era diretto solo ed esclusivamente a colpire l’ISIS con l’aiuto dei fantomatici “ribelli moderati” anti-Assad, per il cui addestramento il Congresso americano ha approvato qualche settimana fa uno stanziamento da 500 milioni di dollari.
Ora, invece, la strategia che assegna la priorità alla situazione irachena e che prevede un numero relativamente limitato di incursioni aeree su obiettivi legati all’ISIS non sarebbe più sostenibile, soprattutto perché - come ben sapevano a Washington - la stessa esistenza di formazioni ribelli moderate e filo-occidentali con qualche capacità dal punto di vista militare è sempre stata poco più di una fantasia propagandata dai media ufficiali.
Il riconoscimento da parte dello stesso governo americano della sostanziale impossiblità ad addestrare una forza efficace in grado di combattere sul campo l’ISIS e le forze del regime, nonché di costituire un nucleo di un futuro governo di transizione in Siria, ha dunque delle implicazioni preoccupanti.
Se la CNN ha comunque parlato di un progetto per “accelerare ed espandere il processo di selezione, addestramento e armamento dell’opposizione moderata”, ciò che si profila all’orizzonte non può essere che un intervento diretto in territorio siriano, come conferma la discussione all’interno del governo e degli ambienti militari americani circa la possibilità di stabilire una “no-fly zone” al confine con la Turchia.
Quest’ultima misura ricorda in maniera inquietante il devastante intervento “umanitario” della NATO in Libia nel 2011 dopo la manipolazione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed è da tempo richiesta dalla stessa Turchia come strumento per creare una zona-cuscinetto in Siria, utile per organizzare l’offensiva contro le forze di Damasco.
Oltre alla revisione strategica affidata al Dipartimento di Stato, l’amministrazione Obama ha annunciato poi un nuovo summit tra i vertici del Pentagono e i leader di oltre 30 paesi impegnati nella guerra all’ISIS per “ricalibrare” la campagna bellica.
In un segnale dell’imminente cambiamento degli obiettivi del conflitto, poi, il segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, ha inviato una comunicazione dai toni “franchi” alla consigliera di Obama per la Sicurezza Nazionale, Susan Rice, dove viene espressa “preoccupazione per la strategia complessiva in Siria” e si sostiene la necessità di “avere una visione più precisa su cosa fare del regime di Assad”.Il procedere delle operazioni in Siria sta quindi rapidamente mostrando i veri motivi dell’ennesima guerra lanciata dagli Stati Uniti nel mondo arabo dietro la facciata dell’anti-terrorismo. Una “guerra al terrore”, quella relativa al capitolo siriano, la cui assurdità è resa evidente da svariati fattori.
Per cominciare, nel sostenere di avere come obiettivo primario la battaglia all’ISIS, Obama e la sua “coalizione” non solo escludono qualsiasi tipo di collaborazione con l’unico soggetto che ha finora combatturo seriamente i jihadisti - il regime di Assad - ma si adoperano per rovesciarlo, attraverso, tra l’altro, l’appoggio più o meno diretto allo stesso Stato Islamico.
In secondo luogo, come già ricodato, la credibilità della “coalizione” anti-ISIS è pari a zero, poiché di essa fanno parte regimi come quello turco o saudita che sono i principali sponsor del fondamentalismo sunnita in Siria e che su di esso hanno investito in maniera tale, per cercare di rimuovere Assad, da rendere illusoria l’assenza di un secondo fine nell’unirsi alla campagna americana. Questi paesi hanno cioè accettato di partecipare alle operazioni ufficialmente condotte contro l’ISIS in Iraq e in Siria solo per ottenere dagli Stati Uniti un impegno a rivolgere le armi contro Damasco.
Il ruolo del governo americano di difensore dei valori democratici e del secolarismo contro la minaccia dell’integralismo religioso, infine, risulta tale solo sulle cronache e gli editoriali dei giornali “allineati”, mentre non ha alcun fondamento nella realtà dei fatti.
Dall’Afghanistan sotto occupazione sovietica alla Cecenia, dalla “rivoluzione” anti-Gheddafi in Libia alla guerra in corso in Siria, Washington ha infatti utilizzato il jihadismo sunnita come comodo strumento sia per combattere regimi nemici sia per giustificare il proprio intervento e la propria presenza in aree strategicamente importanti del pianeta.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Secondo quanto riportato dalla stampa giapponese, il primo ministro nipponico Shinzo Abe sarebbe intenzionato a sciogliere anticipatamente la camera bassa del Parlamento di Tokyo (Dieta), così da ottenere un nuovo mandato elettorale prima dell’ulteriore discesa dei livelli di popolarità del suo governo prevista nei prossimi mesi. Ufficialmente, la decisione sarebbe legata allo stato dell’economia e all’aumento della tassa sui consumi dall’8% al 10% che dovrebbe entrare in vigore nell’ottobre del prossimo anno.
Abe, cioè, intende valutare i nuovi dati sull’andamento del PIL giapponese che usciranno nella giornata di lunedì per riservarsi l’opzione, nel caso la crescita risultasse debole, di rinviare l’aumento dell’imposta all’aprile 2017. In tal caso, il premier ultra-conservatore potrebbe anche indire nuove elezioni che, con ogni probabilità, il suo Partito Liberal-Democratico (LDP) finirebbe per vincere senza particolari affanni.
Il governo giapponese aveva già introdotto un aumento dell’IVA dal 5% all’8% nell’aprile scorso, come previsto da un provvedimento preso dal precedente governo di centro-sinistra guidato dal Partito Democratico (DPJ), provocando un crollo dei consumi e una contrazione dell’economia pari al 7,1% nel secondo trimestre dell’anno.
Questa misura, assieme ad altre iniziative di stampo nazionalista e militarista nell’ambito della sicurezza nazionale e alla sostanziale incapacità di incidere sulle condizioni economiche della maggioranza della popolazione, ha provocato la rapida discesa degli indici di gradimento di un esecutivo che era stato propagandato come uno dei più popolari in assoluto nella storia recente del Giappone grazie ad aggressive politiche di stimolo alla crescita.
Vista l’esperienza dei mesi scorsi, Abe starebbe perciò pensando di posporre l’aumento della tassa sui consumi e di consolidare la propria maggioranza parlamentare mentre i numeri continuano a indicare un comodo margine di vantaggio per l’LDP sui partiti dell’opposizione praticamente allo sbando.
Il primo ministro si assicurerebbe così un nuovo mandato fino alla fine del 2018, in modo da poter adottare nei prossimi due anni una serie di misure estremamente impopolari senza doversi preoccupare a breve delle loro conseguenze sull’appuntamento con le urne.
Le decisioni principali che il governo nipponico intende prendere, oltre all’aumento dell’IVA, riguardano la riattivazione delle centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima, l’aumento dell’impegno delle forze armate giapponesi all’estero, la riscrittura della Costituzione in senso militarista, l’approvazione di un controverso trattato di libero scambio “trans-pacifico” voluto dagli Stati Uniti (TPP) e, soprattutto, la “riforma” del mercato del lavoro e dei programmi di assistenza sociale.Il fatto che Abe stia per mettere in atto una manovra profondamente anti-democratica, così da assicurarsi il prolungamento del suo mandato alla guida del paese senza fare i conti con gli elettori una volta adottate misure impopolari, testimonia della crisi politica in cui è precipitato il governo Liberal-Democratico che solo due anni fa aveva stravinto le elezioni.
Inoltre, la mossa del premier - che non risponde a nessuna necessità numerica in Parlamento né a pressioni o a eventi particolari che abbiano apparentemente messo in difficoltà il governo - rivela ancora una volta la natura di classe delle cosiddette “Abenomics”, cioè l’insieme delle politiche di libero mercato messe in atto o semplicemente annunciate dal gabinetto conservatore, risoltesi come altrove in benefici che hanno favorito quasi soltanto grandi aziende e speculatori di borsa, mentre risultano fortemente avversate dalla gran parte dei giapponesi.
Abe, in ogni caso, si incontrerà lunedì con il leader dell’alleato di governo, Natsuo Yamaguchi del partito buddista Komeito, per discutere i tempi dell’eventuale scioglimento della Camera dei Rappresentanti giapponese. Le date più probabili per il voto anticipato sembrano essere il 14 o il 21 dicembre.
L’LDP al governo viene accreditato dai sondaggi di una quota di voti vicina al 37%, al di sotto del 43% ottenuto nelle elezioni del dicembre 2012 ma ampiamente sufficiente per sconfiggere l’opposizione del Partito Democratico. Quest’ultimo avrebbe infatti un gradimento inferiore addirittura all’8%, almeno secondo un recente sondaggio diffuso dalla televisione pubblica NHK.
Ancora per qualche giorno, Abe sarà impegnato lontano dal Giappone e martedì a Pechino, durante il vertice dell’APEC, ha affermato di non avere preso alcuna decisione sul voto aniticipato. Le indicazioni in questo senso, tuttavia, sembrano piuttosto chiare.
Il quotidiano conservatore Yomiuri Shimbun ha ad esempio rivelato che il già ricordato numero uno del partito Komeito avrebbe dato ordine ai propri luogotenenti di accelerare i preparativi per le elezioni. Uno dei massimi dirigenti dei Liberal-Democratici, inoltre, in una conferenza stampa tenuta sempre martedì ha affermato che nel partito, “senza dubbio, prevarrà la volontà di sciogliere [anticipatamente] la camera bassa” del Parlamento. Per giovedì, infine, è in programma una riunione per pianificare la strategia elettorale del partito, a cui parteciperanno 120 parlamentari dell’LDP eletti per la prima volta nel 2012.
La strategia di Shinzo Abe ha comunque sorpreso molti all’interno della classe dirigente giapponese e tra la comunità internazionale degli affari. In linea generale, il governo di Tokyo è esposto a forti pressioni sia per mettere in atto le “riforme” per la liberalizzazione della propria economia sia per tenere sotto controllo un debito pubblico che, a oltre il 220% del PIL, è il più elevato di tutti i paesi industrializzati.Precisamente per contenere l’esplosione del debito nipponico, il precedente governo del DPJ aveva deciso l’impopolare raddoppio dell’IVA in due fasi per portarla al 10% entro il 2015. Soprattutto dalla Banca Centrale del Giappone, protagonista di un programma di “stimolo” all’economia sul modello del “quantitative easing” della Fed americana, si stanno intensificando perciò gli appelli al governo per implementare l’aumento della tassa nei tempi previsti.
Anche nell’Esecutivo non mancano poi le voci che criticano il rinvio, a cominciare dal ministro delle Finanze, Taro Aso, il quale ha avvertito mercoledì in Parlamento che i fondi per il welfare giapponese saranno a rischio se l’IVA non salirà al 10% nel 2015.
I membri del governo più vicini al premier continuano al contrario a manifestare preoccupazione per le ripercussioni sull’andamento dell’economia. Secondo quanto riportato da Bloomberg News, il consigliere di Abe, Etsuro Honda, avrebbe ad esempio escluso l’aumento dell’imposta se l’economia giapponese dovesse far segnare una crescita inferiore al 3.8% nel terzo trimestre.
Le previsioni degli economisti indicano una crescita per il periodo luglio-settembre attorno al 2,8%. Su base annua, invece, la crescita ammonterebbe a un anemico 1%, contro l’1,5% registrato nel 2013.
Abe, in definitiva, si ritrova a fare i conti con una situazione economica ben più complessa del previsto e poco o per nulla migliorata - per non dire aggravata - dalle politiche adottate dal suo governo. Un labirinto, quello in cui si trova il Primo Ministro, da cui sembra ora voler uscire cercando di portare a termine l’adozione delle misure anti-sociali promesse al business indigeno e richieste dagli ambienti finanziari internazionali senza passare attraverso il giudizio degli elettori giapponesi.