di Michele Paris

Il 114esimo Congresso degli Stati Uniti si è riunito per la prima volta questa settimana con una maggioranza tutta repubblicana pronta a implementare un’agenda marcatamente reazionaria, non senza l’aiuto della minoranza democratica e della Casa Bianca. Il Partito Repubblicano dispone alla Camera dei Rappresentanti di una maggioranza mai così ampia da 87 anni a questa parte, mentre il margine che detiene al Senato è di 8 seggi, insufficienti sia ad approvare autonomamente la legislazione più importante sia a superare eventuali veti del presidente Obama.

Nonostante i numeri a favore, i vertici repubblicani devono continuare a fare i conti anche con una frangia interna libertaria e di estrema destra particolarmente agguerrita che, con ogni probabilità, renderà necessaria una frequente collaborazione tra la maggioranza e i democratici, per lo meno quelli considerati “moderati” o “centristi”.

L’agitazione dell’ala libertaria nel Partito Repubblicano servirà però più che altro a far sfogare al Congresso qualcuno dei malumori che la propria base nutre nei confronti dell’establishment di Washington, anche se concretamente i successi legislativi saranno ben pochi.

Soprattutto, l’irrequietezza dei “congressmen” repubblicani legati ai Tea Party e al movimento libertario - puntualmente amplificata dai media ufficiali di qualsiasi tendenza - continuerà a svolgere quella che appare da tempo la propria funzione principale all’interno del panorama politico USA. Questa frangia, cioè, sarà utilizzata per spostare il dibattito politico ancora più a destra, in linea con l’evoluzione del sistema americano registrata negli ultimi decenni.

Qualche fastidio per la leadership repubblicana è apparso in ogni caso evidente già dal primo giorno di lavoro del nuovo Congresso, quando la rielezione dello “speaker” della Camera, John Boehner, è avvenuta con il voto contrario di un numero insolitamente alto di deputati della maggioranza (25).

La conferma relativamente sofferta di Boehner è stata descritta dalla stampa d’oltreoceano come una possibile avvisaglia dei problemi con cui i repubblicani potrebbero dover fare i conti nei prossimi mesi, finendo per sciupare il vantaggio di una larga maggioranza al Congresso di fronte alle lacerazioni interne al partito.

L’altra questione che ha tenuto banco questa settimana è poi la minaccia di veto, prospettata dalla Casa Bianca poche ore dopo l’insediamento del nuovo Congresso, sulla legislazione legata al via libera alla costruzione dell’oleodotto Keystone XL.

Questo progetto è in sospeso da anni e dovrebbe consentire il trasporto di oltre 800 mila barili al giorno di petrolio estratto dalle cosiddette “tar sands” (sabbie bituminose) estremamente inquinanti del Canada occidentale al Golfo del Messico. Dal momento che il controverso oleodotto attraverserebbe un confine internazionale, è il Dipartimento di Stato ad avere l’ultima parola sulla sua realizzazione, ma il Congresso potrebbe approvare una legge già nei prossimi giorni per privare l’Esecutivo di questa autorità, sbloccando così il progetto.

L’eventuale di veto di Obama renderebbe probabilmente nulla quest’ultima iniziativa, visto che su di essa solo una manciata di senatori democratici sembra appoggiare i repubblicani. Per neutralizzare il veto posto dal presidente degli Stati Uniti è necessario un voto dei due terzi dei membri di entrambi i rami del Congresso, una supermaggioranza cioè di cui i repubblicani non dispongono.

L’intervento della Casa Bianca ha comunque animato il dibattito politico, con i leader di maggioranza che hanno accusato il presidente democratico di volere avvelenare l’atmosfera al Campidoglio col rischio di far naufragare precocemente qualsiasi ipotesi di dialogo tra i due partiti.

I prevedibili scontri verbali tra democratici e repubblicani di questi giorni nascondono in realtà prospettive più che concrete di accordi bipartisan attorno alle questioni fondamentali per il capitalismo americano che detta sostanzialmente l’agenda politica di Washington.

Un esempio di ciò si è avuto dalle dichiarazioni concilianti di vari membri del Congresso di entrambi gli schieramenti, ma soprattutto repubblicani, alla vigilia dell’apertura dei lavori di Camera e Senato.

Uno dei punti d’incontro sarà ad esempio l’autorizzazione all’uso della forza militare contro i militanti dello Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria, dove peraltro la macchina da guerra americana opera già dalla scorsa estate. L’unico disaccordo sembra essere legato al grado di libertà garantita al presidente nella conduzione della nuova guerra in Medio Oriente, con i repubblicani che intendono approvare una risoluzione che consegni alla Casa Bianca poteri più ampi rispetto a quelli previsti dalla bozza di legge allo studio della commissione Esteri del Senato a maggioranza democratica sul finire del 2014.

Sgravati dalla responsabilità di proporre e far approvare iniziative impopolari in quanto partito di maggioranza, i leader democratici consentiranno poi a un numero sufficiente dei loro rappresentanti al Congresso di votare assieme ai repubblicani anche su varie misure di politica interna.

Alleanze trasversali di varia natura potrebbero così formarsi, oltre che attorno all’approvazione dell’oleodotto Keystone XL, sulla ratifica fortemente voluta dalla Casa Bianca del trattato di libero scambio trans-pacifico (TPP), che rappresenta un colossale regalo alle corporations americane, sullo smantellamento delle regolamentazioni dell’industria o sulla “riforma” fiscale.

Sul fronte delle tasse, l’obiettivo repubblicano rimane sempre quello di abbassare il più possibile il carico fiscale per i redditi più elevati, con le conseguenze immaginabili in termini di mancate entrate per le casse federali.

Su altre due questioni ritenute tra le più calde sul fronte dello “scontro” tra democratici e repubblicani, questi ultimi hanno infine lasciato intendere che a prevalere sarà la moderazione e la ricerca di un accordo bipartisan. Innanzitutto, la leadership repubblicana ha escluso la possibilità di privare il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) dei fondi necessari per operare dopo che precisamente ciò era stato minacciato in seguito alla recente decisione di Obama di autorizzare una modesta sanatoria a favore degli immigrati irregolari.

Il DHS è infatti il dipartimento addetto all’applicazione delle norme sull’immigrazione negli Stati Uniti e con l’approvazione del bilancio federale sul finire dello scorso anno gli erano stati garantiti fondi solo fino al 28 febbraio. La decisione dei repubblicani di non forzare la mano e costringere il presidente a ritirare il decreto sull’immigrazione riflette d’altra parte il sostanziale appoggio alla Casa Bianca dell’industria e dell’agribusiness domestico, i quali vedono con favore una qualche regolarizzazione della manodopera straniera a basso costo su cui possono contare.

La fermezza delle élites economico-finanziarie nel non ripetere l’esperienza dello “shutdown” degli uffici federali avvenuto nell’autunno del 2013, e che provocò una certa destabilizzazione dei mercati finanziari, ha spinto poi i repubblicani a chiarire da subito che non ci saranno posizioni troppo rigide da parte del loro partito nemmeno nella discussione sul prossimo bilancio. In questo ambito, peraltro, i democratici sono come sempre diposti a concedere nuovi tagli alla spesa pubblica in cambio di qualche provvedimento vagamente progressista da sventolare di fronte a ciò che resta della propria base elettorale.

L’inaugurazione del 114esimo Congresso americano è apparsa insomma come il primo atto di una nuova stagione politica ancora una volta all’insegna della regressione e del costante spostamento a destra del baricentro politico a Washington.

Un episodio, in particolare, ha illustrato nei giorni scorsi il livello di deterioramento del clima democratico negli Stati Uniti. L’elezione dei leader di maggioranza del Congresso ha visto cioè la riconferma anche del deputato repubblicano della Louisiana, Steve Scalise, nel suo ruolo di “whip”, ovvero la terza carica più importante della Camera dei Rappresentanti.

Scalise era stato solo un paio di settimane fa al centro di una polemica dopo la rivelazione da parte della stampa di un suo intervento nel 2002 di fronte a una conferenza organizzata da un gruppo suprematista bianco neo-nazista legato al Ku Klux Klan.

Non solo il deputato repubblicano aveva incassato il sostegno della leadership del suo partito ma è stato appunto rieletto “whip” senza praticamente alcuna opposizione nemmeno della minoranza democratica, della Casa Bianca o della stampa “mainstream”. Significativamente, l’annuncio in aula della conferma di Scalise alla carica di terzo uomo più potente della Camera è stato accolto da un applauso scrosciante di tutti i suoi nuovi membri.

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